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Autore: crazy lion    01/05/2018    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Ciao a tutte, eccomi di nuovo qui dopo quasi tre settimane.
Avrei voluto aggiornare ieri, il mio compleanno. La sera, quando stavo per farlo, mia mamma mi ha detto che dovevamo uscire e quando sono tornata a casa ero troppo stanca.
Comunque, il capitolo stava diventando enorme quindi ho dovuto dividerlo in due. Sedici pagine del prossimo sono già state scritte.
Dedico questo ad Emmastory che mi ha dato un consiglio molto importante riguardo un personaggio secondario al quale, qui e nel successivo, ho dato ancor più rilevanza (per questo le pagine sono aumentate) perché mi sembrava corretto, non volevo che avesse rimpianti… ma non dico altro. Vorrei farvi capire che non è mia intenzione scrivere tanto per allungare il brodo, anzi. Vorrei solo tappare dei buchi. Molti dei capitoli che ho postato e posterò li avevo già scritti tempo fa, ma in fretta e mi sono resa conto che facevano un po’ acqua da tutte le parti, quindi li sto sistemando. Una dedica speciale anche a cussolettapink.
Detto questo, spero che il capitolo vi piacerà, ci ho lavorato davvero tanto e con il cuore, come sempre.
A presto!
 
 
 
 
 
 
94. MOMENTI COMPLICATI
 
E fu così che terminò ottobre e novembre iniziò senza che accadesse nulla di brutto. Quella settimana trascorse veloce. Eppure, se Demi si sentiva tranquilla pensando che forse sarebbe andato tutto bene da allora in avanti, non tutti erano del suo stesso avviso.
La sera Andrew veniva a trovare la sua ragazza e le bambine e insieme guardavano film, ma soprattutto giocavano e si divertivano.
"Torre!" esclamava spesso Hope, che adorava costruirla con i Lego e poi diceva alla sorella, con parole sconnesse e a volte incomprensibili, che avrebbe dovuto farne una anche lei.
Mac la accontentava sempre, anche se a volte si anoiava giocando sempre a quello. Cercava quindi di far divertire la sorella con gli animali di plastica o con alcune macchinine giocattolo che a Hope piacevano molto. Gareggiavano muovendole sul tappeto o sul pavimento e i geintori erano i giudici che dovevano decretare la vincitrice. Per Demi ed Andrew era stupendo vedere le figlie giocare, soprattutto la più grande che sembrava finalmente stare meglio. Eppure, Andrew e Mackenzie avevano la sensazione che quella calma non sarebbe durata a lungo, che si trattasse solo di un momento di pausa prima di un qualcosa di brutto che non avrebbero saputo definire. In quei momenti nei quali ricominciamo a respirare nel bel mezzo di un brutto periodo ci semra così strano stare bene che non riusciamo nemmeno a goderci a pieno questa sensazione, che ci pare quasi un sogno, non la realtà. Tuttavia non ne parlavano con Demi perché non volevano rattristarla e a volte credevano di star sbagliando.
Quel martedì mattina Andrew tornò a casa per controllare come stessero Jack e Chloe. Non li vedeva dalla sera precedente perché aveva dormito da Demetria e gli mancavano moltissimo. Il pomeriggio, invece, era stato dallo psichiatra e gli aveva spiegato che si sentiva meglio, che aveva più voglia di parlare e di stare in compagnia e che anche le persone che gli volevano bene se n'erano accorte e gli aveva anche spiegato che temeva che sarebbe accaduto qualcosa e che comunque il suo umore non era stabile: poteva stare bene cinque minuti e poi rattristarsi di colpo, e ogni tanto la sera piangeva. Lui l'aveva ascoltato con attenzione ed era stato molto contento che ci fosse qualche risultato e perché Andrew ce la stava mettendo davvero tutta. Gli aveva raddoppiato il dosaggio del Litio dicendo che anche con una dose non altissima secondo lui l'umore di Andrew si sarebbe stabilizzato.
"Per quanto tempo dovrò prenderlo?" gli aveva chiesto l'uomo. "Non ho fretta di smettere, è solo per sapere."
"Almeno un anno, forse anche di più. Per queste cure ci vuole tempo e, comunque, se in futuro dovrà fare una terapia di mantenimento per stare bene non sarà una cosa sbagliata."
"Io prima o poi vorrei smettere, però."
"Sì, lo immagino. Vedremo come andrà nei prossimi mesi e valuteremo, d'accordo?"
"Va bene."
Si era aspettato quella risposta ma non ci era rimasto male. Una decina di giorni dopo avrebbe dovuto rifare lgi esami del sangue e rivedere lo psichiatra il mese seguente e la cosa sarebbe continuata a quel modo finché la situazione non fosse stata stabile, così come il dosaggio del farmaco nel sangue.
L'uomo trovò i gatti sdraiati uno sulla poltrona e l’altra sul divano. Dormivano profondamente. Perché quando riposavano i mici dovevano essere sempre tanto adorabili? Sarebbe rimasto a guardarli per ore se solo avesse potuto. Per un momento pensò di scattare una foto e mandarla alla sua ragazza, ma poi si disse che non era una grande idea. Jack e Chloe si sarebbero svegliati e non voleva disturbare il loro sonno.
“È come se qualcuno venisse da me mentre dormo e mi rompesse le scatole. Mi darebbe al quanto fastidio” osservò.
Riempì la ciotola dei croccantini stando attento a fare il meno rumore possibile e diede loro dell’acqua. Andò in cucina, prese un pacco di biscotti dalla credenza e ne mangiò qualcuno perché, nonostante avesse fatto colazione da Demi, aveva ancora fame. Si sentiva così pieno di energia che decise di andare al lavoro in bicicletta. Sceso in garage controllò che freni e ruote fossero a posto, mise ai primi un po’ di olio e gonfiò le seconde e poi portò su la bici e si mise in strada. Era così bello pedalare sentendo il sole sul viso e il vento che lo accarezzava. Sarebbe stato ancora più fantastico in primavera, si disse, ma a novembre non era poi così male. Da quanto tempo non andava in bici? Tanto, troppo, eppure gli era sempre piaciuto. Quando Demi era piccola aveva cercato di insegnarle ad andare con quella senza rotelle, ma la bambina aveva sempre avuto troppa paura e nemmeno Dianna e Eddie erano riusciti nell’impresa. Inoltre alla piccina non era mai interessato poi tanto muoversi in bici. Aveva sempre preferito camminare.
Forse il periodo più brutto è passato. Magari ho fatto bene a… sì sì, è stata una buona idea pensò.
E sperò che non si sarebbe pentito della scelta che aveva preso il giorno precedente. Per il momento non voleva pensarci. Si godette il viaggio fino al lavoro e, mentre continuava ad andare, si guardava intorno. C’erano nonni che accompagnavano i bambini a scuola, o genitori che andavano in macchina e anche piuttosto di fretta per poi correre al lavoro; e poi vi erano anche quei vecchietti simpatici che tenevano i bimbi più piccoli e li portavano probabilmente al parco giochi.
“Fanno bene” si disse l’uomo. “È una giornata così bella che sarebbe un peccato sprecarla stando chiusi in casa.”
Da tanto tempo non la pensava a quel modo. Solo qualche giorno prima il pensiero di uscire per andare al lavoro gli era insopportabile, ora invece era semplicemente… normale.
Sorrise appena, entrò nello studio legale e salutò tutti i colleghi e il suo capo. Janet avrebbe voluto chiedergli come si sentisse, visto che notava un cambiamento in lui, ma non ne ebbe il tempo perché Andrew volò nel suo ufficio pronto a lavorare a più non posso. Era carico al duecento per cento e non voleva sprecare un solo minuto.
"Sembri diverso oggi, amico" gli disse Bill.
Stavano lavorando da circa un’ora, ma il più anziano si era permesso di distrarre il collega per fare quel commento. Lo vedeva più concentrato e, anche se non felice, almeno un po' sereno.
"Sì, sto meglio. Tuttavia non voglio sprizzare gioia da tutti i pori. Voglio dire, mi godo questa sensazione di tranquillità finché ce l'ho."
Sperava che tutto ciò sarebbe durato, ma non voleva illudersi. Era un atteggiamento stupido? Forse sì, in un certo senso; ma Andrew aveva sofferto tantissimo e stava ancora male e a volte, chi sta così tende a "misurare" i suoi sentimenti, soprattutto quelli positivi, prova una felicità molto controllata ed è sempre allerta. Lo spiegò all'amico.
"Capisco come ti senti. È così anche per me, ma ricorda che questo non ci deve impedire di provare felicità. Insomma, se siamo contenti dobbiamo dimostrarlo!"
"Hai perfettamente ragione" rispose e sorrise.
Fu un sorriso luminoso, uno di quelli che Bill non gli vedeva fare da tanto tempo.
"Stai pensando alla tua bella, eh?"
Gli strizzò l'occhio.
"Sì, e alle mie figlie."
“È incredibile quanto ami quelle bambine. Cioè, penso lo farei anch'io nella tua situazione e con "incredibile" intendevo dire che è una cosa molto bella."
"Avevo capito, tranquillo. Comunque sì, amo Demi, Hope e Mackenzie con tutto me stesso e ieri sera gliel'ho detto, sai?"
"Hai fatto bene. Ogni tanto tutti hanno bisogno di sentirsi dire queste cose."
"Già. Oggi pomeriggio le rivedrò."
"Wow, che farete di bello?"
"Demi ha un'idea e mi auguro che passeremo un po’ di tempo all’aria aperta. Farebbe bene a tutti.”
“Di sicuro.”
“Stamattina ho guardato le persone che mi circondavano mentre venivo qui. Ero più presente a me stesso. Non lo facevo da più di un mese, sai?”
“Beh, è una buona cosa.”
“Sì. Ma tu stai bene? Continuiamo a parlare di me!"
Non voleva che l'amico si sentisse messo da parte.
 
 
 
Bill non si sentiva un granché, ma non aveva molta voglia di parlarne.
"Sì sto abbastanza bene, grazie! E sì, dico davvero" lo precedette, sapendo che gliel'avrebbe chiesto e disse una mezza verità.
"Esci anche tu alle 16:00 oggi?"
"Sì, grazie al cielo!"
"E che hai intenzione di fare?"
"Non ne ho la più pallida idea!"
Quel giorno Bill era strano. Di solito cercava di dimostrarsi allegro, anche se ovviamente - come tutti - aveva i suoi momenti no. Sembrava triste.
“Stai ancora pensando a quello che è successo tempo fa quando quei bastardi ti hanno offeso?”
“No… no, non è questo. Sto pensando ai miei genitori e a come mi hanno cacciato di casa quando avevo ventuno anni e al fatto che ciò è accaduto perché tre anni prima avevo fatto coming out raccontando loro che ero omosessuale. Mi hanno detto di fare la valigia e di sparire e poi mia madre, sempre e solo lei, mi chiamava per litigare. Non ho più parlato con mio padre, Andrew. L’ho visto quando stava male e non poteva dirmi niente perché in coma.”
Ecco, alla fine aveva buttato fuori tutto. Era stato difficilissimo, ma ci era riuscito. Il segreto era parlare senza mai fermarsi. In questo modo le parole uscivano l’una dopo l’altra come un fiume in piena.
L’altro si alzò, si avvicinò all’amico e gli prese le mani.
“Cacciato? Non me l’avevi mai detto, mi sembra. Io pensavo che te ne fossi andato tu, di tua spontanea volontà, che vi foste allontanati come mi avevi detto.”
Bill rise, ma gli uscì qualcosa tra un singulto e una risata amara.
“Forse sarebbe stato meglio, mi sarei risparmiato anni di litigate. I miei genitori non hanno mai accettato la mia omosessualità, non solo mia madre ma anche mio padre.” Raccontò meglio ad Andrew la situazione che aveva vissuto in casa per quella che gli era sembrata un’orribile eternità, aggiungendo anche qualche episodio in particolare per fargli capire meglio e poi continuò: “Un giorno mi hanno detto di andarmene e l’ho fatto. All’inizio sono stato in un albergo, poi mi sono comunque pagato gli studi visto che avevo dei soldi in banca e i miei, grazie a Dio, non hanno bloccato i miei conti - cosa che temevo -. Nel frattempo mi sono trovato un lavoro part-time come babysitter e ho continuato a frequentare gli studi. Stavo in un appartamento vicino all’università e, finita giurisprudenza, mi sono trovato una casa e un lavoro qui.”
Non sapeva dove avesse trovato la forza di continuare a vivere nonostante tuttoquello che gli era accaduto a quel tempo.
“Dev’essere stato bruttissimo non avere il sostegno dei tuoi, soprattutto nei momenti più importanti della tua vita” commentò l’altro.
Andrew non sapeva come avrebbe fatto se i suoi genitori non fossero stati presenti quando aveva terminato il liceo o si era laureato. Certo, avrebbe avuto il sostegno di Carlie e di Demi e la sua famiglia, ma non sarebbe stata la stessa cosa.
“Sì, parecchio. Non ci si abitua mai ad un dolore del genere” disse, con voce rotta.
Bill sospirò e si piegò in avanti, così tanto che il suo collega temette che si sarebbe spezzato da un momento all’altro.
“Mi dispiace che tu stia così. Cosa provi oltre alla tristezza?”
“Un miscuglio di emozioni che non saprei descrivere” rispose, pensieroso. “Adesso vorrei che provassimo a lavorare. Non riesco molto a parlare.”
“Come vuoi.”
Andrew non riusciva a capacitarsi di quanto aveva appena sentito. Come potevano i genitori, che dovrebbero amare il loro figlio più della propria vita, cacciarlo di casa? Se fosse accaduto a lui, non sapeva se sarebbe sopravvissuto ad una cosa del genere. Probabilmente sarebbe morto di dolore, oppure andato a casa di Demi. Dianna l’avrebbe ospitato di certo; ma Bill? Lui si era ritrovato da solo, perché Andrew sapeva, grazie a conversazioni passate con lui, che oltre ai suoi aveva dei parenti che però non telefonavano, e quando lui li chiamava per sentire come stavano o per fare loro gli auguri di Pasqua o Natale, loro dicevano:
“Ma non mi chiami mai!”
per scaricare la colpa sul ragazzo e liberarsi la coscienza.
“In pratica è come non averli” gli aveva detto l’uomo.
Non aveva nemmeno veri amici… a parte Andrew. Peccato che allora non si conoscessero ancora, altrimenti questi non avrebbe esitato un attimo a dargli una mano. Glielo disse e Bill lo ringraziò e gli rivolse anche un piccolo sorriso.
 
 
 
Demi era al lavoro. Il fatto che la serata si fosse conclusa nel migliore dei modi l’aveva caricata tantissimo ed ora si sentiva pronta a cantare dando il meglio di sé. Cercava di essere sempre al cento per cento mentre lavorava, ma quel giorno era sicura che sarebbe stata ancora più brava. Forse il brutto periodo che avevano passato nei mesi precedenti, intervallato per fortuna da momenti sereni, stava per avere fine e ne sarebbe iniziato uno felice. Lo sperava con tutto il cuore e, mentre si trovava sul palco di fronte al microfono, pensò che non vedeva l’ora di stare di nuovo con le sue piccole e il fidanzato. Li aveva visti nemmeno un’ora prima e le mancavano già tantissimo.
“È perché li ami” disse una voce dentro di lei.
La ragazza non poté far altro che sorridere.
“Ci sei?” le chiese il suo manager dandole una piccola pacca sulla spalla.
“Sì, scusami. Mi hai detto qualcosa?”
“Che ora canterai “Smoke And Mirrors”, se ti va di iniziare con questa canzone.”
“Sì, certo.”
Era triste, ma le piaceva moltissimo.
I ballerini e l’orchestra erano già lì, pronti. La musica cominciò, soave e poi Demetria iniziò a cantare.
Standing on the front lines
Staring at the sun rise over the hills
Waiting for the kill
Sweet anticipation, never conversation
Tears in our eyes from holding too tight
Waiting till the demons come
Wait for us to see them run in our direction
Now they're staring at us through the trees
Got us falling to our knees to teach us a lesson
 
So tell me
Did you ever really love me?
Did you ever really want me?
Now that I see you clearer
I wonder was I ever really happy
Didn't get the chance to ask me
Now that I see you clearer
Was it just smoke and mirrors?
Was it just smoke and mirrors?
 
Holding onto tables, pulling out the staples
Keeping you close, now we're not afloat
Point me in the right direction, answer me one question
'Cause I could've sworn that I wasn't wrong
[…]"
Quando la ragazza terminò la sua performance vi fu un attimo di silenzio, poi le persone presenti nella sala - circa una trentina - scoppiarono in un forte applauso.
“Bravissima!” esclamò qualcuno.
Altri invece non dicevano niente, ma avevano le lacrime agli occhi e questo fece emozionare Demi. Forse, dato che in quel momento era contenta, aveva cantato in modo diverso.
"Okay, ora faremo "Daddy Issues", d'accordo?" domandò Phil e un improvviso silenzio calò nello studio di registrazione mentre tutti si concentravano di nuovo sui propri compiti.
Gesù, no!
Fu questo l’unico pensiero della cantante. Non aveva mai provato quella canzone fino ad allora. Si era limitata a scrivere il testo e la base ed era stato abbastanza difficile dato che parlava del suo rapporto con il padre biologico, ma cantarla sarebbe stata durissima, lo sapeva. Eppure l'aveva scritta, aveva voluto farlo e quindi prima o poi sarebbe arrivato il momento di provare.
"Se ti dicessi che non sono pronta cambierebbe qualcosa?" chiese al suo manager, parlando al microfono.
"Ehm, direi di no" rispose ridendo.
Capiva perché Demi faceva così, ma desiderava anche incoraggiarla.
"Appunto." Era seria. Non riusciva a sorridere in quel momento. Prese un profondo respiro e disse: "Sono pronta."
Dopo qualche secondo partì la musica e poi lei iniziò.
"I call you too much
You never pick up
'Cept when you wanna fuck
And I can't get enough
You're the man of my dreams
'Cause you know how to leave
But I really believe that you'd change it for me
 
You're unavailable (unavailable)
I'm insatiable
Lucky for you, I got all these daddy issues
What can I do?
I'm going crazy when I'm with you
Forget all the therapy that I've been through
Lucky for you
I got all these daddy issues
(All these daddy issues)
Daddy issues (daddy issues, uh)
[…]"
Non seppe con che forza di volontà riuscì a finire di cantare. Le era tremata la voce per tutto il tempo e si sentiva debole come se avesse appena fatto una lunghissima prova di resistenza senza mai fermarsi.
"Demi, ehi, guardami."
Il suo manager le era già accanto. Le stava sollevando il mento. Lei lo guardò ma sembrava distratta. Phil notò i suoi occhi vacui e capì che in quel momento non era in sé.
"Non so cosa mi succede" riuscì a mormorare lei, che non capiva nemmeno a cosa stava pensando.
"Sei bianca come un lenzuolo. Fatela sdraiare e tenetele le gambe alte" ordinò l'uomo ai musicisti, poi le disse che sarebbe tornato subito.
La ragazza sentì che qualcuno le prendeva la mano e la aiutava a sdraiarsi su un piccolo divano presente in un'altra stanza dello studio, poi le venne messo un grosso cuscino sotto le gambe. Udiva dei passi frettolosi e tante persone intorno a sé, e poi qualcuno che diceva:
"No, allontanatevi. Lasciatela respirare."
Non ci stava capendo più niente. Che cos'aveva? Il suo unico desiderio era quello di correre a casa e mettersi a letto. Era così stanca! Forse tutto lo stress di quel periodo le stava scivolando addosso di nuovo, come la sera in cui aveva avuto l'attacco di panico in ospedale. Sembrava passata un'eternità da quando Mackenzie aveva iniziato la scuola. Erano trascorsi quasi due mesi, ma - almeno a lei - erano sembrati molti di più.
"Demi, cara."
Era Phil.
"Mmm?" riuscì a domandare, mentre riapriva gli occhi.
"Ti ho portato un bicchiere d'acqua e posso misurarti la pressione, se vuoi."
"Fai pure. Da quand'è che siamo così ben forniti, qui?" domandò.
Avrebbe voluto sorridere ma riuscì solo a fare una smorfia.
"Da sempre."
C'era uno scaffale in cui si trovava un po' di tutto: aspirine, altri medicinali, garze, disinfettante e anche lo sfigmanometro. Demi non lo ricordava nemmeno, non avendo mai usufruito di tutto ciò. La pressione era buona.
"Lo sapevo" disse mettendosi a sedere. "Sono solo stanca e stressata. Ora mi riprendo."
"No no, tu adesso finisci di bere e poi mangi qualcosa di zuccherato.”
“Ho lo stomaco chiuso.”
“Demetria, anni fa ti era già successo di svenire qui, ricordi? Avrai avuto diciassette anni. Eri magrissima ed io non mi ero accorto di quanto lo fossi.”
La ragazza percepì dolore e preoccupazione nella voce di quell’uomo che conosceva da tantissimo tempo.
Ricordava bene cos’era successo quel giorno. Era svenuta, ma poi aveva finto di stare bene e si era fatta portare una bevanda energetica prima di ricominciare a cantare; e, quando era uscita a pranzo con i colleghi, finito il proprio pasto era corsa in bagno, si era infilata due dita in gola giù, sempre più giù, fino a provocarsi il vomito. Aveva coperto il rumore azionando il getto d’acqua del rubinetto e poi si era lavata i denti - si portava sempre uno spazzolino e un dentifricio apposta, a quei tempi, in modo che nessuno si accorgesse di niente - e poi era tornata in sala come se nulla fosse stato. Un anno dopo era entrata in clinica.
“Phil, ascolta, so a cosa stai pensando. I tuoi ricordi, in questo momento, sono anche i miei” iniziò Demetria, con voce rotta. “Non dimentico ciò che è successo in passato; ma ti assicuro, te lo giuro sulle mie bambine, che non sono ricaduta in quelle vecchie abitudini. Anche mia mamma ha avuto dei dubbi qualche tempo fa.” Raccontò l’accaduto e poi riprese: “Mi pare ovvio che, visti i miei trascorsi, a volte siate preoccupati per me, ma non ce n’è motivo. Non avrei iniziato l’iter adottivo se non fossi stata sicura di sentirmi bene, non ti sembra?”
Soffriva nel sapere che chi le voleva bene a volte dubitava di lei, ma in parte li capiva.
“Hai ragione. Allora, sei proprio sicura di non volere niente?”
“Magari un biscotto o due” rispose con un sorriso.
“Bene!”
Poco dopo Phil gliene porse alcuni. Ne mangiò tre e poi diede gli altri alle persone che lavoravano con lei.
“Grazie a tutti per la pazienza, ragazzi.”
“Figurati!” fu la risposta generale.
“Adesso fili a casa e a letto" proseguì il manager.
Qualcuno disse che Phil aveva ragione.
"Sono tornata al lavoro da pochissimo, vorrei continuare" protestò la ragazza. "Posso farlo, davvero."
Non sussurrava più. La sua voce era tornata normale e si sentiva un po' meglio. La stanchezza c'era ancora, ma l'acqua l'aveva tranquillizzata e i biscotti le avevano dato forza. Quella specie di mancamento era passato.
"Non voglio che tu svenga sul palco mentre canti, Demetria."
"Senti, sono stressata e mi sono emozionata molto visto quello che dovevo cantare" cercò di convincerlo.
"Okay, ma io non sono tranquillo. Vai a riposare oggi e sono sicuro che quando tornerai domani ti sentirai molto meglio."
"Va bene" si arrese.
Il suo manager avrebbe voluto accompagnarla a casa ma lei rifiutò con gentilezza. Una volta dentro, la ragazza mandò un messaggio alla madre spiegandole la situazione e chiedendole se avrebbe potuto andare lei a prendere Hope e Mackenzie e tenerle per qualche ora. La donna le rispose di sì.
Hai bisogno di qualcosa?
No grazie, ora mi riposo un po'.
Andò in cucina e, sentendosi improvvisamente debole, si preparò un tè con molto zucchero. Si sedette, inzuppò qualche biscotto e bevve. La sensazione della bevanda calda che le scendeva giù per la gola e poi verso lo stomaco la rilassò. Danny e Batman corsero in cucina e cominciarono a guardarla. Il gatto iniziò a grattare la sua sedia.
"Non ti piace il tè, piccolo, ne sono sicura" disse con dolcezza "e i biscotti nemmeno, credo, Proviamo."
Avrebbe potuto dargliene solo un pezzettino. L'importante era non esagerare. Spezzò un biscotto e lo mise per terra e Batman se lo sarebbe mangiato tutto se Demi non gli avesse detto di fermarsi. Il cane fu molto bravo e, udito il comando "Stop", smise di mangiare. Mugolò. Era evidente che avrebbe voluto quel biscotto tutto per sé.
Avrei dovuto metterli in due ciotole diverse.
Danny mordicchiò la sua parte più lentamente di quanto aveva fatto il cane, che invece ci si era avventato come se non mangiasse da settimane.
"Ti piace, vedo" commentò lei divertita.
Il micio miagolò in risposta, facendola sorridere.
Una volta rimessa a posto ogni cosa, Demi andò sul divano e si sedette. Non aveva voglia di guardare la televisione. Rimase lì, ferma immobile, godendosi il silenzio della casa. Amava le sue figlie, si rese conto del fatto che aveva proprio bisogno di quelle poche ore di relax sia perché l'avrebbero aiutata a stare meglio, sia perché Mackenzie e Hope si sarebbero sentite più rilassate di conseguenza. In quel momento si ritrovò ad adorare la solitudine. Tante volte in passato l'aveva odiata considerandola una sua acerrima nemica, perché stare sola le feriva l'anima e la faceva diventare triste. Eppure, in quegli anni nei quali era stata autolesionista, aveva spesso pensato di meritarsi tutto quel dolore.
La vita è sofferenza e disperazione aveva scritto una volta nel suo diario.
Ancora adesso quando le capitava qualcosa di brutto credeva che fosse così; ma poi le bastava sentire le risatine di Hope e vedere il sorriso di Mackenzie per capire che sbagliava. Tanti momenti o periodi erano sicuramente orribili, ma ce n'erano anche di bellissimi. La vita valeva la pena di essere vissuta. Pensò ad Andrew e si domandò se lui, ora, fosse della medesima opinione.
"Forse non ancora, visto che è appena stato male" si disse con un sospiro.
Tuttavia stava meglio e questo infondeva a Demi un po' di speranza. Non l'avrebbe mai lasciato solo e sperava, con ciò che avrebbero fatto insieme quel pomeriggio, di rendere tutti più felici, lei compresa.
Si godette il silenzio e la solitudine ancora per un po', finché un dolce miagolio la distrasse.
"Ciao Danny!" Il micio guardava in giro, soprattutto verso le scale. "Mackenzie non c'è, tornerà tra qualche ora. Puoi giocare con me se vuoi."
La ragazza aprì un cassetto di un mobile del salotto e ne tirò fuori un bastoncino con appesi un campanellino e una piuma. Era uno dei giochi che aveva comprato per Danny. Lanciò una pallina a Batman che corse a prenderla e gliela riportò mentre, con l'altra mano, muoveva il bastone e il gatto saltava per cercare di prendere la piuma. Quando ci riusciva, la stringeva tra le zampe e tirava fuori gli artigli, poi cominciava a morderla. Demi allora si abbassava e gliela tirava via e il gioco riprendeva dall'inizio. Dopo un po' mise il giocattolo per terra e, continuando a tenerlo, lo trascinò sul pavimento e poi sulla poltrona e sopra il divano. Danny si lanciò al suo inseguimento, saltando e correndo come un pazzo. A lui si unì anche Batman e i due fecero la lotta contendendosi quella sorta di preda. Demi rise e pensò che in quel momento anche il cane sembrava un micio. Era felice che i due giocassero insieme e senza farsi male, significava che stavano iniziando ad andare d'accordo. Il suo cellulare vibrò più e più volte prima che lei se ne accorgesse. Mise via il giocattolo, mentre Danny miagolava e Batman ringhiava e poi  corse a rispondere.
"Pronto?"
"Ciao amore! Ti sento affannata. Stai ancora male?" le chiese un’inconfondibile voce.
"Chi ti ha detto che non mi sono sentita bene, Andrew?"
"Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda."
"Oh e va bene, stavo giocando con Batman e Danny e ho corso un po'."
"Ah. Beh, hai fatto bene a distrarti. Phil ha chiamato lo studio legale. Gli ho dato io il numero ancora anni fa, così se ti fossi sentita male lui avrebbe potuto avvertirmi."
Demi annuì e sorrise, pur consapevole che il fidanzato non poteva vederla. Era sorpresa.
"Hai fatto questo per me?"
"Certo."
"È una cosa molto dolce."
Stavolta fu lui a sorridere.
"Ti ha proprio emozionata cantare quella canzone, eh?"
"Sì, forse troppo. Insomma, anche ieri sera sono stata male perché il film mi ha ricordato il mio passato e non vorrei sentirmi così davanti alle bambine." Sospirò e si tirò indietro i capelli, sbuffando. "A volte il passato torna a perseguitarmi con un tale impeto che non sono pronta ad affrontarlo con lucidità."
"Immagino che sia frustrante" disse Andrew. Aveva abbassato la voce, come faceva sempre quando si concentrava molto e parlava di qualcosa di serio. "Posso aiutarti in qualche modo?"
"Sei carino, ma è una cosa che devo affrontare da sola. Adesso mi sto rilassando e devo anche chiamare Bri per chiedergli una cosa."
Si riferiva alla sorpresa che aveva promesso alle bambine.
"Bri è il diminutivo di Brian?"
"Esatto."
"E così lo chiami Bri, eh? Mmm, mi sa che sono geloso!" esclamò, fingendo di essere offeso.
"Dai, scemo.” Scoppiò a ridere e poi proseguì: “Non ne hai motivo. È un amico di famiglia. Avrà sessant'anni adesso e non è proprio il mio tipo. È gentile, per carità, ma ha molti anni più di me, non lo vedo da tantissimo e l'ho sempre considerato più una specie di zio che altro. Non ho mai provato nulla per lui se non affetto, ma non quel tipo di affetto."
"Ti credo, ma comunque scherzavo, Demi."
"Lo so, altrimenti non avrei riso. Non cercavo di giustificarmi. È che voglio che le cose siano chiare fra noi. Tu mi hai detto di non provare nulla per Catherine ed io non amo Joe e non sento niente per Brian. Lo chiamo con quel diminutivo solo perché lui mi ha sempre detto che potevo farlo."
"Capisco."
Demi sentì che il fidanzato batteva qualcosa al computer.
"Stai lavorando? Ci vediamo dopo, se vuoi ti lascio andare."
"Scusa, sto preparando dei documenti per una causa molto importante, ma volevo comunque chiamarti per sapere come stavi. Ero preoccupato."
La sua voce si incrinò e la ragazza capì che era stato davvero in pensiero per lei. La cosa la intenerì.
"Tesoro non devi, sto molto meglio ora. Sono seduta sul divano e mi rilasso."
"Promettimi che non tornerai al lavoro prima di domani."
La conosceva abbastanza bene da sapere che, testarda com'era, avrebbe potuto farlo.
"Promesso."
"D'accordo, a dopo. Ti amo."
"Ti amo anch'io."
Quando mise giù, la ragazza compose subito un altro numero e si scoprì emozionata nell’attendere una risposta.
“Pronto?” chiese un uomo anziano.
“Bri, sono Demi.”
“Demi? Demi Lovato? La cantante famosa in tutto il mondo?” domandò incredulo.
“Sì, o se preferisci, la bambina alla quale hai insegnato ad andare a cavallo e che ogni estate veniva a trovarti con i suoi genitori.”
“Direi che è molto meglio questa versione.”
Sorrisero entrambi.
“Come stanno Eddie e Dianna? Non li sento da tantissimi anni.”
A Brian non piaceva usare il telefono, era sempre stato un tipo abituato a vivere in mezzo alla natura e odiava la tecnologia, ma per Demi stava facendo un’eccezione.
“Stanno bene, grazie. A te come vanno le cose?”
“Beh, finché sto in piedi e ragiono va tutto bene. Senti, ma quando mi fai conoscere le tue bambine? Ogni tanto vedo le vostre foto sui giornali e sarei curioso. Avrei dovuto chiamarti prima.”
Ora la sua voce era triste, come se si sentisse in colpa.
“Non preoccuparti Brian, davvero.”
La telefonata continuò e, quando si concluse, Demi aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
 
 
 
Quando qualche ora prima l’amico gli aveva detto quelle cose, Bill aveva sentito il suo cuore scaldarsi. Andrew era fantastico!
Stava lavorando ad un’arringa e sapeva che avrebbe dovuto scegliere con attenzione le parole da usare, ma non ci riusciva. Continuava a scrivere e cancellare, ritrovandosi con la pagina di Word bianca davanti. Era frustrante. Andrew, al contrario di lui, continuava a digitare senza alcun problema e si era fermato solo per chiamare Demi e sapere come stesse. Bill si mise le mani sulle ginocchia. Erano giorni che non faceva altro che pensare a sua madre, al fatto che gli sarebbe piaciuto rivederla e parlare con lei, perché nonostante tutto quello che aveva fatto, nonostante il modo in cui l'aveva trattato, lui le voleva ancora bene. Avrebbe voluto dirlo anche a suo padre, ma sapeva che questo non era possibile. Colin, così si chiamava, era seppellito nello stesso cimitero in cui si trovava Oscar, ma Bill non aveva mai avuto il coraggio di avvicinarsi alla sua tomba per salutarlo o per dire una preghiera. Sapeva che sua madre andava la mattina presto a portare dei fiori e a pregare, così lui vi si recava nel pomeriggio per non incontrarla. I morti dovevano riposare in pace, gli sarebbe sembrato un atto schifoso litigare davanti a quelle tombe. E se i due si fossero visti, sicuramente avrebbero alzato la voce. Eppure, forse era ora di gridare:
“Basta! Basta con questa guerra!”
Gli sarebbe piaciuto chiudere con quella parte del suo passato per provare a costruire qualcosa di nuovo e di buono con lei. Eppure, ogni volta che prendeva in mano il cellulare e scorreva la rubrica fino ad arrivare al suo numero, alla fine chiudeva tutto. Non aveva il coraggio di chiamarla. Ogni volta che era lei a farlo, continuava a dirgli quanto lui fosse strano. Usava sempre quella dannata parola: "strano". Grazie a Dio non gli diceva che era sbagliato o cose simili, non lo faceva più e comunque, in passato, era stato sempre suo padre a definirlo tale. Se lei l'aveva fatto Bill non lo ricordava, il che significava o che era accaduto pochissime volte, o che non era mai successo.
"Scusa un secondo" disse ad Andrew.
Lo guardò, ma senza vederlo davvero e l'altro, capendo che Bill era immerso nei suoi pensieri, lo lasciò andare sperando che non fosse nulla di grave. Per un momento pensò di seguirlo, poi desistette e si disse che, se entro cinque minuti non fosse tornato, sarebbe andato a cercarlo.
Una volta all'aperto, Bill si rese conto del fatto che non sapeva come comportarsi. Avrebbe dovuto chiamarla? Oppure aspettare una sua telefonata? In quel periodo le chiamate di sua madre si erano fatte più frequenti e, a dire il vero, la donna sembrava anche meno incazzata con lui.
"Tentare non nuoce" si disse fra sé.
Eppure, era già stato male così tante volte a causa sua! Combattuto, cominciò a correre e a fare sempre lo stesso giro, come un animale che si dibatte in gabbia. Quando il telefonino squillò, a Bill quasi mancò il fiato. Guardò lo schermo. C'era scritto:
Mamma.
Lo lasciò suonare per un po', poi rispose.
"Pronto?" chiese in un sussurro.
"Bill, ciao."
La sua voce. La voce di quella donna che l'aveva amato tanto e gli aveva anche fatto del male e la persona per la quale lui provava sia amore sia odio. Gli aveva parlato flebilmente, cosa che non aveva mai fatto in tutti quegli anni.
"Ciao mamma" rispose, non sapendo cosa dire.
E comunque, non era lui a dover iniziare una conversazione.
"Non so perché ti ho chiamato" ammise lei, "ma mi mancava la tua voce e volevo soltanto sentirla. Ti assicuro che non ho intenzione di urlare, non stavolta. Sono stanca di litigare con te."
Sembrava debole, anche fisicamente. Aveva una voce così strana, grave. Non era da lei; e da come parlava sembrava avere più dei suoi sessant'anni.
"Dovrei essere io quello stanco, e infatti lo sono. Litighiamo da tantissimo. Vent'anni! Ti rendi conto di quanto tempo è?" le domandò, aspro.
Era un'eternità. Lui non poteva cancellare tutto il dolore provato per così tanto in un solo istante. Non sarebbe stato umanamente possibile.
"Ascolta…"
"No, ascolta tu. Adesso parlo io, porca puttana! Non ti permetterò di giustificarti dopo le pene dell'inferno che tu e papà mi avete fatto passare; e per cosa, poi? Perché sono omosessuale e quindi malato, diverso e sbagliato, giusto? Era questo che lui diceva e, anche se tu non rispondevi nulla, sono sicuro che lo pensavi. Io avevo bisogno di te quando ho fatto coming out. Hai la minima idea di quanto sia stato difficile dirvi tutto?"
La sua voce era piena di frustrazione e rabbia repressa, due sentimenti che per troppi anni aveva celato e che ora, come un fiume in piena, si stavano riversando.
"No, non lo posso nemmeno immaginare."
"Ecco, appunto" rispose, atono.
"Hai ragione, non sono io quella che deve dire queste cose" sospirò Melanie. "Hai tutto il diritto di avercela con me, figlio mio. Sono anche consapevole che dirti che mi dispiace per tutto quello che io e papà ti abbiamo fatto passare e che se tornassi indietro non rifarei gli stessi errori non servirà, ma è quello che provo, te l'assicuro. Ti ho trattato malissimo senza motivo, ma la verità è che ti voglio bene Bill, ti ho sempre amato!" La sua voce si spezzò. "Avrei voluto dirtelo molto tempo fa, anzi, avrei dovuto. Non l'ho fatto perché da stupida ho voluto sempre avere ragione."
"Come papà e come me, del resto. Siamo tutti testardi" rispose l'uomo, sorridendo amaramente. “Mamma?"
"Sì?"
"Mi ami ancora… davvero?"
"Sì, ti amo Bill. Tu sarai sempre il mio bambino."
Due grosse lacrime rigarono il volto di lui, che tuttavia non lasciò trasparire alcuna emozione nella voce. Si schiarì e riprese:
"Non sai per quanti anni ho sperato di sentirti dire queste parole. Forse molto tempo fa mi avrebbero fatto un effetto diverso, più forte, ma adesso… Nonostante tutto ti voglio credere, non mi lasciano indifferente; ma non mi emozionano nemmeno tanto, capisci? Non posso perdonarti ora. Non ci riesco, mamma."
La rabbia per il momento si era placata, ma non il resto, non il tumulto di emozioni contrastanti che si agitavano nel suo animo sofferente.
Sarebbe tanto piaciuto ad entrambi avere una macchina del tempo, premere un bottone e tornare indietro, cancellare le litigate, le incomprensioni, il dolore e rifare tutto in modo diverso, ma non potevano.
"Ti capisco." Bill avrebbe voluto rispondere che era felice che lei lo comprendesse almeno quella volta, ma la donna disse qualcosa che gli fece cambiare idea. "Tesoro!"
Non ricordava più quanto dolce fosse la sua voce mentre pronunciava quella bellissima parola e qualcosa in lui cominciò a mutare. La corazza che si era costruito per difendersi da lei e dai suoi insulti si scalfì appena. L'uomo, però, non voleva abbassare la guardia, non poteva. Sua madre gliene aveva dette così tante che avrebbe potuto ricominciare in ogni momento. Non si cambia da un giorno all'altro.
"Sono tutte belle parole, ma cosa vuoi mamma?" domandò.
Fu improvvisamente così gelido che quasi non riconobbe la propria voce.
"Vorrei parlarti e che lo facessi anche tu. Desidererei cercare di capirti, di ritrovare con te un dialogo. Ho riflettuto molto prima di fare questo passo, sai? Ho parlato con una psicologa da cui vado da anni. Non facevo altro che raccontarle di te, di tutto quello che era accaduto e di come io mi comportavo con te e del fatto che dopo mi sentivo una merda, anche se in parte credevo di aver ragione. Nel corso del tempo, lavorando con lei, ho capito che io volevo parlarti ancora, cercare di fare pace se possibile, ovviamente pian piano. Lei mi ha consigliato un'associazione che aiuta i genitori di figli omosessuali a entrare nella vostra… mentalità, diciamo, o almeno a provarci. Io ci sono andata, ho conosciuto altri genitori, ho raccontato quello che era successo e loro hanno parlato delle loro storie. Da un paio di mesi abbiamo iniziato questo percorso e tutto ciò mi ha dato la forza di chiamarti, oggi." La donna tirò su col naso. Stava piangendo anche lei. "Avrei dovuto fare tutto questo molti anni fa" concluse, prima di scoppiare in pianto.
Bill era senza parole. Allora sua mamma non si era mai davvero allontanata da lui. O meglio, sì, ma ad un certo punto aveva anche desiderato riavvicinarsi grazie alla psicologa e a quell'associazione. Aveva davvero fatto tutto questo per lui?
"Perché non me l'hai detto prima?" chiese, addolcendosi.
"Fino a qualche settimana fa non sapevo nemmeno io di volerti rivedere, Bill. Forse nel profondo l'ho sempre voluto, ma la mia testa diceva un'altra cosa."
"D'accordo."
Le credeva. Sua madre era sicuramente stata una stronza, ma non gli avrebbe mai mentito su una cosa del genere.
"Stavo pensando che magari potremmo… vederci, parlare un po'" continuò, insicura, come se credesse che Bill avrebbe rifiutato.
Lui, intanto, pensava che se da un lato sarebbe stato più facile dire un secco:
"No!"
e tagliare per sempre i ponti con lei, dall'altro non era davvero quello che voleva. Forse sì, c'era ancora una piccola speranza per loro. Magari, col passare del tempo, avrebbero potuto ricostruire il loro rapporto.
"Se vengo, mi prometti che non litigheremo e avremo una conversazione civile?"
Non aveva intenzione di alzare ancora la voce. Se fosse successo se ne sarebbe andato; e stavolta per sempre.
"Lo prometto."
"Ascolta, voglio che ci veniamo incontro e mi sembra che sia il desiderio di entrambi, quindi okay, verrò e vedremo come andrà."
Si lasciò sfuggire un piccolissimo sorriso e la madre lo notò. Tirò un sospiro di sollievo ed esclamò:
"Tesoro, ti aspetto! Quando vuoi venire?"
Quasi urlò quella domanda, ma cercò di trattenere la propria felicità. In fondo era lei ad averlo ferito e sapeva di dover andare piano.
Bill aveva bisogno di un attimo di tempo per riordinare le idee. Non avrebbe cambiato opinione, solo gli serviva almeno qualche ora per tranquillizzarsi perché al momento non sapeva nemmeno cosa provava: gioia, tristezza, dolore e un vago senso di speranza. Era troppo tutto insieme. Doveva calmarsi prima di andare da sua madre.
"Che ne dici di oggi, nel tardo pomeriggio?" propose.
"Va bene. Ti aspetto."
"Okay, a presto. Ciao."
La salutò così, senza darle il tempo di replicare. Quella telefonata l'aveva talmente scosso che non sarebbe riuscito a fare altro se non chiudere la chiamata. Tutto aveva avuto un corso così inaspettato. Bill prese qualche respiro profondo prima di rientrare in ufficio.
"Tutto okay?" gli chiese Andrew, preoccupato.
"Ti devo parlare."
Gli raccontò ogni cosa e l'altro rimase stupito, ma era anche felice per l'amico. Forse, se avesse ripreso i contatti con sua madre, si sarebbe sentito più in pace con se stesso e con il suo passato.
 
 
 
Mackenzie aveva appena finito di raccontare ad Elizabeth quanto si era divertita le sere precedenti.
"Ti meritavi un po' di serenità. Non sembri stare molto bene in questo periodo" le rispose.
È vero, ho momenti sì e momenti no.
Elizabeth era una bambina molto accorta e Mac si ritenne ancora più fortunata ad avere un'amica come lei accanto.
Era ricreazione e le due erano sedute sotto un albero in fondo al giardino per non rimanere in mezzo alla confusione. Guardarono in alto. L'albero era un ciliegio e immaginarono che a primavera, una volta in fiore, sarebbe stato bellissimo.
Potremo mangiare le ciliegie, l'anno prossimo osservò Mac.
Sua mamma le prendeva anche al supermercato, ma raccoglierle dalla pianta doveva essere molto più bello.
"Oh sì! Sarà bellissimo."
Non si rendevano conto che le maestre non avrebbero mai lasciato che i bambini si arrampicassero sugli alberi, ma comunque anche solo pensare al futuro e a quelle cose dava loro allegria e speranza.
Vuoi venire a casa mia un giorno di questi?
Lizzie sorrise.
Non era mai stata a casa di un'amica prima d'allora, nemmeno all'asilo.
"Certo!” rispose entusiasta. “Prima devo chiedere alla mia mamma."
Evvai! Anche io alla mia. Dobbiamo metterci d'accordo per un giorno.
"Grazie dell'invito, intanto."
Figurati. Ci divertiremo tantissimo. Ti farò vedere tutte le mie bambole e giocheremo insieme.
Le piccole cominciarono a saltare e a battere le mani, eccitate. Non vedevano l'ora che arrivasse quel momento. Avevano bisogno di vedersi anche fuori da scuola se volevano rafforzare la loro amicizia.
"Cavolo, mi sono dimenticata di portarmi la merenda oggi. Mia mamma mi dice sempre di metterla la sera prima, ma ieri non l'ho fatto. Cioè, credevo di sì ma prima di scendere mi sono resa conto di non avere nulla" si lamentò l'altra.
Non aveva nemmeno soldi per prendere qualcosa alle macchinette.
Te ne do un pezzo della mia si offrì l'amica.
"No tranquilla, posso fare senza."
Non voleva che Mac mangiasse solo metà della sua brioche per colpa sua. Non l'aveva detto per chiederle qualcosa. Forse aveva sbagliato, era come se avesse voluto farle capire che aveva bisogno di cibo quando in realtà non era così.
Te la do volentieri, non è un problema.
Lei accettò e la ringraziò. Le vere amiche sono così: restano accanto l'una all'altra, si sostengono a vicenda e condividono le piccole cose, sia materiali che non.
Mac parlò a Lizzie del fatto che i suoi volevano fare a lei e a Hope una sorpresa e l’altra si lasciò sfuggire un'esclamazione di gioia.
"Hai idea di cosa potrebbe trattarsi?" le chiese incuriosita.
Non saprei proprio. Ci ho pensato ma non mi viene in mente nulla. Voglio dire, abbiamo tanti giocattoli e non ci manca niente, quindi…
"Forse vogliono portarvi da qualche parte a fare un giro, o una piccola gita."
Su questo non aveva proprio riflettuto. La loro breve vacanza al lago Tahoe era stata meravigliosa e l'idea di trascorrere un pomeriggio in qualche posto la allettava.
Facciamo due passi?
“Va bene.”
Mano nella mano cominciarono a camminare sull’erba, godendosi lo scricchiolio delle foglie secche sotto i loro piedi. La confusione degli altri bimbi non le disturbava poi tanto. In quel momento si sentivano come se ci fossero state solo loro nel giardino, immerse nella quiete più totale. Sì, quella sembrava proprio essere una bella giornata per loro.
Fu proprio così che andò. Nessuno dei compagni le offese o fece commenti sgradevoli, né in classe né a mensa.
L’insegnante di arte diede agli allievi una consegna non molto semplice: disegnare un paesaggio. Non importava che fosse di mare o di montagna, e non dovevano farsi prendere troppo la mano dalla fantasia. L’importante era che fosse bello e il più possibile realistico.
“Magari disegnate qualcosa che avete già visto, un luogo in cui siete stati con i genitori” suggerì.
Tutti si concentrarono e, poco dopo, l’unico rumore che si udiva era quello dei pennarelli sui fogli. Per un po’ Mackenzie ed Elizabeth ascoltarono quel suono perché le rilassava e, quando decisero cosa disegnare, iniziarono il loro lavoro. Elizabeth sorrideva mentre colorava, Mac no. Pensò ai disegni che faceva quando andava dalla psicologa e le venne un groppo in gola. Si potevano disegnare anche cose belle, però, come faceva Hope quando prendeva un foglio e dei colori e raffigurava quegli schizzi infantili della loro famiglia. Avrebbe voluto essere come lei, sentirsi libera da qualsiasi brutto pensiero.
“Posso riuscirci anche io” si disse.
Mezzora dopo ritirò i fogli mentre sulla classe piombava il silenzio più assoluto.
“Siete stati tutti molto bravi” disse la maestra con un sorriso, “ma due persone sono state direi eccezionali. Certo nessun disegno è perfetto, nemmeno i più grandi artisti riescono a raggiungere la perfezione. Come sapete inizieremo ad usare gli acquerelli e i colori a tempera tra un po’, ma anche se oggi avete utilizzato i pennarelli non significa che sia stato più facile. In particolare mi hanno colpita i paesaggi di Mackenzie ed Elizabeth. Fate loro un applauso, forza!”
Mac aveva disegnato il lago Tahoe con il sole che tramontava dietro le montagne, sicuramente il più bel paesaggio che avesse mai visto, mentre Lizzie aveva raffigurato il mare e il cielo con alcuni gabbiani che volavano qua e là. I complimenti della maestra sorpresero molto le due e l’applauso dei compagni le colpì. Poco dopo tutti i bambini appesero il proprio disegno alla parete dell’aula.
“Questa è stata una delle giornate scolastiche più belle fino ad ora, non trovi?” chiese Lizzie all’amica mentre si dirigevano fuori da scuola.
Sì, una delle poche. Abbiamo fatto bene a godercela.
“Già. Mac, sembri pensierosa. Tutto okay?”
No ammise. Non starò bene per molto.
“Perché?”
Entrambe avevano perso il sorriso e si guardavano preoccupate.
Non so… magari mi sbaglio.
Elizabeth lo riteneva poco probabile. L’amica era molto più matura di lei e questo la spingeva a crederle. Forse sarebbe successo davvero qualcosa.
Quando Mackenzie vide che era venuta a prenderla la nonna si preoccupò subito. Non accadeva mai.
"La mamma si è sentita poco bene al lavoro, tesoro, ma non è niente di grave" la rassicurò la donna.
Davvero?
Non voleva che le nascondessero le cose nonostante fosse ancora piccola.
"Te lo assicuro. Mi ha chiesto lei di venirvi a prendere perché aveva bisogno di riposarsi un po'."
Quando possiamo andare a casa?
Mackenzie adorava stare con la nonna, ma voleva sincerarsi che la mamma stesse bene.
"Tra poco. Prima che ne dite di andare a mangiare qualcosa nella pasticceria qui vicino?"
Mac si rilassò un po' e sorrise.
Almeno quella brutta sensazione che aveva non riguardava sua madre. Sperava che nemmeno il papà sarebbe stato male. In silenzio pregò che accadesse a lei qualcosa piuttosto che ai suoi, ma non ne fece parola con Dianna, altrimenti era certa che lei le avrebbe detto che quelli non erano discorsi che una bambina doveva fare.
"Com'è andata a scuola?" le chiese la donna mentre metteva in moto.
Mac, che era seduta davanti, sorrise e le raccontò del disegno di arte.
"Bravissima! Me lo farai vedere?"
Certo! Se verrai a prendermi un’altra volta ti porterò nella mia classe.
"Vedrai come saranno contenti i tuoi genitori quando lo sapranno."
Decisero di sedersi fuori dato che il tempo era bello e ordinarono poco dopo. Mackenzie mangiò con gusto la sua brioche alla crema, anche se fino a poco prima aveva creduto che il suo stomaco fosse chiuso. Mentre Dianna aiutava Hope dividendole una pastina in piccoli pezzi, Mac si lamentava.
Voglio dire, le due ore del pomeriggio di oggi sono state intense. Chi cavolo ha fatto quegli orari? Dev'essere proprio scemo se ha deciso di mettere matematica entrambe le ore. Quella materia non mi piace, è stancante, e poi al pomeriggio…
Dianna scoppiò a ridere.
Che c'è?
"Sei tutta tua madre."
Mi ha adottata puntualizzò, seria.
Si sentiva sua figlia, ma non voleva che le persone dimenticassero che lei e Hope avevano avuto due genitori amorevoli.
"Lo so, cara. Non volevo dire il contrario. Sono sicura che John e Tamara - si chiamano così, vero? - fossero fantastici."
Mackenzie fu molto sorpresa del fatto che la donna si ricordasse i nomi dei suoi e annuì.
Scusa nonna, sono io che me la prendo troppo. Ho avuto una bella giornata, ma ora non so cosa mi succede. Sono felicissima che Demi ci abbia adottate e la considero mia mamma a tutti gli effetti.
"Sarai solo stanca, Mackenzie."
Probabile.
"Stanca" ripeté Hope a bocca piena. "Mac stanca."
"Sì, l'hai detto bene, brava."
Hope migliorava sempre di più, aveva una buonissima proprietà di linguaggio.
Comunque, riprese Mac, in cos'altro somiglio alla mamma?
Ormai lo sapeva, ma voleva sentirlo dalla nonna.
"Anche a lei da piccola piaceva disegnare, ma in realtà preferiva scrivere. Era molto dolce e lo è sempre stata. Amava giocare con le bambole e con i pupazzi e quando è nata Madison era molto protettiva verso di lei. Certo avevate due età diverse, lei ne aveva dieci quando Maddie è venuta al mondo, tu invece eri molto più piccola alla nascita di Hope, ma si vede che le vuoi molto bene e che desideri proteggerla e starle vicino e questo è bellissimo, Mackenzie."
La bambina guardò la nonna negli occhi.
Ora non devo più proteggerla. O meglio sì, ma in modo diverso. So che la mamma e il papà non le faranno mai del male. Non si comporteranno mai come… come quella donna.
Il suo labbro inferiore tremò leggermente ricordando ciò che aveva subito, ma il resto del corpo rimase immobile. Lei era più forte del suo passato, dei propri dolori… forse. O forse no. Non riusciva ancora a capirlo.
Dianna comprese di chi stava parlando e cercò di non far sparire il sorriso dal proprio volto.
"No," disse, "non lo faranno mai."
Sono felice di assomigliare tanto alla mamma, sai? Mi fa piacere. Chissà se scoprirò mai se sarò brava a cantare come lei.
La donna rimase in silenzio. Non sapeva cosa rispondere a quegli interrogativi.
"Voi siete delle bambine speciali," sussurrò invece, "e la mamma vi ama tantissimo. Tutti lo facciamo."
Anche noi, nonna. Uno di questi giorni possiamo venire a giocare con le zie?
"Ma certo! Penso che per la mamma non ci saranno problemi."
Evvai!
Quel sorriso, quel meraviglioso sorriso non spariva quasi mai dal volto della bambina. Era un'altra cosa che la faceva assomigliare a Demi. Anche lei sorrideva molto spesso e, dietro un'apparente serenità, per anni aveva nascosto un dolore enorme. Dianna pregò che Mackenzie sarebbe riuscita a superare il proprio passato senza soffrire troppo.
"Forse sarà impossibile" si disse, "ma io ci spero comunque."
Poco dopo propose di fare una passeggiata e le bambine accettarono, anche Hope che quel giorno era particolarmente piena di energia e si sarebbe messa subito a correre se la nonna non l’avesse fermata.
“Avviso vostra madre che torneremo tra una mezzoretta, voglio tenervi un po’ tutte per me” ridacchiò prima di tirare fuori il cellulare.
 
 
 
Demi era crollata sul divano, dopo pranzo. Danny dormiva sulla sua pancia e Batman accanto ai suoi piedi. Stava dormendo benissimo e non sognava neppure. Non riposava così da molto tempo.
 
 
Si trovava in un luogo che non conosceva. Era all’aperto, su un prato la cui erba era a tratti secca, a tratti verde. C’era qualche fiore che però sembrava faticare a crescere. Si sentiva qualche uccello cantare. Il cielo era carico di nubi e si faceva sempre più scuro via via che i secondi passavano. Quell’ambientazione cominciò a metterle ansia. Era sola in una terra che sembrava tanto inospitale? Pareva di sì e la cosa non la aiutava di certo. Doveva trovare un modo per fuggire da lì e tornare a casa propria. Iniziò a camminare e l’erba si faceva sempre più alta mano a mano che avanzava. Ora le arrivava alle ginocchia e Demi temette che vi si potesse nascondere qualche animale, come per esempio una vipera. Da piccola ne aveva vista una nel giardino e suo papà l’aveva uccisa spiegandole che era velenosa e che avrebbe potuto farle del male.
“Demi.”
Era davvero lui? L’aveva appena pensato ed ora era lì? No forse se lo stava solo immaginando.
“Papà?” chiese, insicura.
“Sono io.”
Sì, era Patrick.
“Dove sei? Non ti vedo.”
Le sarebbe piaciuto poterlo guardare negli occhi e abbracciarlo. Lo amava nonostante tutto.
“Sono davanti a te, ma non voglio farmi vedere.”
“Ma perch…”
“Ascolta tesoro, non ho molto tempo.” Parlava in modo concitato, così lei lo lasciò continuare. “Volevo solo darti un consiglio: goditi i momenti felici che ti aspettano, perché non dureranno. Non tanto per te, tu sarai felice, ma qualcun altro no e quando te ne acocrgerai, non lo sarai nemmeno tu.”
“Di chi stai parlando?” chiese, mentre sentiva le sue gote andare in fiamme. Lo immaginava. La cartomante gliel’aveva detto. Ma che cosa doveva succedere a Mackenzie? “Papà rispondimi, ho bisogno di capire. Non puoi lasciarmi così, senza nemmeno un abbraccio e una cazzo di spiegazione!” urlò in preda alla frustrazione. Del resto, però, era quello che Patrick  aveva sempre fatto: andarsene, lasciarla sola nel momento del bisogno. “Sei uno stronzo!” gridò ancora.
 
 
Si svegliò sudata e in lacrime e le sembrava di non riuscire a respirare.
“Andiamo Demi, è stato solo un incubo” disse ad alta voce per cercare di calmarsi.
Eppure era stato tutto così reale! Il luogo, la voce di suo padre, tutto le aveva fatto provare un forte senso di panico che, ancora adesso, la teneva bloccata come in una morsa. Troppi pensieri si affollavano nella sua mente. Si sentiva come quando era più giovane e stava così male che le sembrava di impazzire. Ciò che a quei tempi la aiutava era scrivere canzoni. Lo faceva anche di notte fino a tardi, ma in quel momento non riusciva a pensare a nessun testo. Tuttavia avrebbe potuto… ma certo! Si alzò piano e andò in camera da letto. Aprì un cassetto del comodino e tirò fuori il romanzo che stava leggendo e che la appassionava tanto. L’aveva quasi finito e concentrarsi su quelle ultime pagine l’avrebbe sicuramente aiutata a rilassarsi e a distrarsi.
 
 
 
Andrew aveva deciso di andare a piedi a casa della sua ragazza. L'ultima ora passata in ufficio non era stata delle migliori, anche se aveva cercato di non darlo a vedere e doveva esserci riuscito bene, visto che Bill non si era accorto di nulla. Si sentiva poco bene sia fisicamente che dentro. Era iniziato tutto il giorno precedente e, se stava così, doveva dare la colpa soltanto a se stesso. Sapeva che non avrebbe dovuto fare quella cosa, ma aveva comunque deciso di rischiare e pensato che fosse una buona idea. Per qualche giorno non c'erano stati problemi, poi era iniziato tutto. Adesso si rendeva conto di aver fatto una grandissima cazzata. La nausea stava aumentando. Entrò nel primo bar che trovò e si avvicinò al bancone.
"Signore, si sente bene? Mi sembra pallido" disse una ragazza.
"No, non sto un granché. Potrei avere un bicchiere d'acqua calda con del limone, per favore?"
"Certamente."
"Grazie. Dov'è il bagno?"
"In fondo a sinistra."
Le sorrise e vi si diresse a passo spedito, non facendo nemmeno caso a ciò che lo circondava. Una volta entrato chiuse la porta a chiave, si chinò sul water e sperò che avrebbe vomitato, ma non accadde. Gli girava la testa e dovette aggrapparsi alla tavoletta per non cadere a terra.
"Perché, santo cielo? Stavo bene stamattina." Gli era accaduta la stessa cosa il pomeriggio e la sera precedenti. Forse gli effetti si facevano sentire con più insistenza in quelle ore, per lui. "Giuro che non farò mai più una stronzata simile. Ho già detto che sono stato un coglione? No?" Uscì per un attimo e guardò il suo riflesso nello specchio. “Andrew, sei un fottuto coglione” ripeté, poi rientrò.
Prese un profondo respiro e poi tossì tre volte.
"Fatti del male."
"Cosa?" mormorò, riconoscendo subito quella voce maledetta.
Non la sentiva da qualche tempo. Quando aveva passato quel mese orribile e aveva pensato di farsi male l'aveva udita ogni volta. Il pomeriggio prima però non era tornata, perché ora sì?
"Ho detto, tagliati" ripeté quella.
Gli sembrava di avere un altro se stesso nella sua mente, anche se a volte parevano più voci uguali. Le aveva descritte così alla sua psicologa.
Ho qualcosa che non va nel cervello. Non sono normale pensò.
Lo faceva sempre in quelle situazioni. Era come essere un disco rotto, che funzionava male o andava a rallentatore.
"Vattene via" mormorò, con quel poco raziocinio che gli rimaneva.
Avrebbe voluto essere più convincente.
"Se pensi di avermi fatto paura t sbagli; e mi stai facendo incazzare" riprese la voce, più dura.
"Non mi puoi controllare, non più. Va' via!"
"No."
"Sì."
"No."
Era in lotta con la sua testa, con i propri pensieri contrastanti, ma doveva essere lui a vincere. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, non curandosi del fatto che qualcuno avrebbe potuto sentirlo e spaventarsi. Era come se non ci fosse nessun altro lì, a parte lui e quella voce. Silenzio. C'era silenzio. Non si era ferito e aveva fatto sparire quel demone per Demi, per le piccole, per lui stesso. Sospirò, stanco ma sollevato, ed uscì.
"Va tutto…" disse la ragazza di poco prima.
Quando lui aprì la porta i due quasi si scontrarono.
"Mi scusi" si affrettò a dire Andrew, ma lei non era affatto arrabbiata.
"Stavo per venire a vedere come si sentiva. È lei che ha urlato, vero?"
Pareva preoccupata.
"Sì. Vede, sto attraversando un periodo difficile e in più oggi ho un forte malessere. Per tentare di scacciarlo ho gridato e spero di non aver fatto paura a nessuno. Mi dispiace tantissimo!"
"Non deve scusarsi. Ora come si  sente?"
"Un po' meglio, grazie."
"La sua acqua calda la sta aspettando. Forse la aiuterà. Sicuro di non volere nulla da mangiare?"
"La ringrazio ma no, ho la nausea."
"Capisco."
L'uomo si accomodò ad un tavolo vuoto e la barista gli portò la sua ordinazione. Bevve a piccoli sorsi e poco dopo uscì. Riprese a camminare sentendosi più sicuro: la crisi era passata.
 
 
 
credits:
Demi Lovato, Smoke And Mirrors
 
 
Demi Lovato, Daddy Issues
 
 
 
NOTA:
per chiarire, so che al lavoro non si possono fare telefonate personali ma ho immaginato che Bill sia andato a chiedere a Janet se avrebbe potuto uscire per bere un caffè e che lei gli abbia detto di sì. È una donna molto generosa e ha un bel rapporto con tutti i suoi dipendenti. Una volta fuori, Bill ha ricevuto la telefonata. Per quanto riguarda Andrew è stato Phil a chiamare lo studio, quindi il capo non ha avuto alcun problema a lasciare che telefonasse a Demi.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ancora ciao. :D
Bill andrà davvero a casa di sua madre? Riusciranno a chiarirsi almeno un po’ oppure litigheranno come al solito e non si rivedranno mai più? E Mackenzie come starà? Cos’avrà voluto dire Patrick in quel brutto incubo a Demi? Ed Andrew cos’ha fatto secondo voi?
   
 
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