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Autore: crazy lion    05/05/2018    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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95. FINALMENTE RIUNITI!
 
Per tutta la durata dell’orario lavorativo Bill non si era affatto concentrato. Aveva fatto ciò che aveva dovuto, certo, ma con la testa da un’altra parte. Pensava a sua madre e al loro incontro. Sarebbe andato tutto bene? O avrebbero litigato come al solito anche se lei gli aveva promesso che non si sarebbe scaldata? A pranzo non aveva quasi toccato cibo, tanto che Andrew si era preoccupato.
“Non ce la faccio” aveva risposto guardando fuori dalla finestra e perso in mille pensieri ai quali non riusciva a dare un senso. “È sempre così complicato fra me e lei.”
“Non temere, tutto si sistemerà.”
Quelle cinque parole l’avevano un po’ rassicurato, infondendogli il coraggio che tanto gli serviva.
Ora l’uomo era fuori dallo studio legale e non riusciva a muoversi. Cercò di prendere dei respiri profondi per tranquillizzarsi. Non voleva farsi vedere da sua madre mentre aveva un attacco d’ansia.
“Dentro e fuori, dentro e fuori…” si ripeteva in continuazione.
Salì in macchina e guidò velocemente, alzando al massimo il volume della radio per non pensare. Una volta aveva fatto un incidente perché si era distratto a causa del suono assordante di quell’apparecchio, ma ora era convinto che ciò non sarebbe accaduto. Fisso sul proprio obiettivo, continuava a guardare la strada.
Sto tornando a casa pensava.
“Casa”. Era così strano definirla in tal modo. Da quando era stato cacciato, non l’aveva più considerata tale. Come avrebbe  potuto? Ora, però, una piccola speranza si stava facendo strada in lui e Bill la sentiva crescere man mano che si avvicinava al quartiere dove aveva abitato per i primi ventun’anni della sua vita. Fu proprio allora che udì alla radio una canzone. Sulle prime non fece nemmeno caso al nome del cantante, Danny Gookey. Non lo conosceva. Il titolo era “Hope In Front Of Me”.
I've been running through rain
That I thought would never end
Trying to make it on faith
In a struggle against the wind
I've seen the dark and the broken places
But I know in my soul
No matter how bad it gets
I'll be alright
 
There's hope in front of me
There's a light, I still see it
There's a hand still holding me
Even when I don't believe it
I might be down but I'm not dead
There's better days still up ahead
Even after all I've seen
There's hope in front of me
 
There's a place at the end of the storm
You finally find
Where the hurt and the tears and the pain
All fall behind
You open up your eyes and up ahead
There's a big sun shining
Right then and there you realize
You'll be alright
[…]
Quella canzone parlava di lui, o meglio di una piccola parte della sua anima, di quella speranza che lo aiutava ad andare avanti nonostante tutto.
Il quartiere era molto diverso da come lo ricordava. Si trovava in periferia, ma tutto il verde su cui un tempo giocava era stato quasi completamente sostituito da case o altri edifici. Quella constatazione gli fece provare un profondo senso di tristezza e sentì un peso gravargli all’altezza del cuore. Arrivato davanti alla casa della madre scese dall’auto e aspettò qualche secondo con il dito sul campanello. Sentì le gambe cedere e il cuore battere troppo forte. La sua mano tremò e premette quel tasto.
No cazzo, non sono pronto!
Ma ormai era fatta. Non c’era più tempo per prepararsi. La porta e il cancello si aprirono. Melanie era lì, a poca distanza da lui, e lo guardava con gli occhi sbarrati e una mano sulla fronte. Indossava una lunga gonna a fiori ed era ingrassata rispetto a quando si erano visti tanti anni prima, ma era sempre molto bella.
“Bill” mormorò. “Sei arrivato! Temevo… temevo che non saresti venuto.”
“Sono qui, mamma.”
Sentirsi chiamare così e soprattutto con tutta quella dolcezza commosse Melanie fino alle lacrime. Non lo meritava. Gli aveva fatto passare le pene dell’inferno per anni e anni.
“Posso?” chiese timidamente.
“Sì.”
Era deciso a darle una seconda possibilità e sperava che la madre non l’avrebbe sprecata, quindi si lasciò abbracciare. La donna lo strinse forte al petto, dondolandosi a destra e a sinistra come per cullarlo. Bill inspirò a fondo il suo profumo: lavanda, lo stesso che ricordava; e in quel momento non gli importò che la donna fosse invecchiata, che fossero passati tutti quegli anni, che non avessero fatto altro che litigare. Era lì con lei, con la sua mamma e stavano vivendo un attimo di tranquillità. Solo questo contava.
“Mi sei mancato. Nonostante tutto quello che è accaduto, ho sentito la tua mancanza ogni giorno” gli confessò la donna.
“Per me vale la stessa cosa; ma ti ho anche odiata, mamma. Ti ho amata e odiata allo stesso tempo.”
Stavolta fu più duro e sciolse l’abbraccio con una tale rapidità che Melanie rimase per un momento senza fiato.
“Lo so” sussurrò. “È normale. Vent’anni di litigi non si possono cancellare in un giorno, o ancora peggio in un istante.”
“Infatti, ci vorrà tempo. Forse non ti perdonerò mai del tutto e non torneremo più come prima.”
Si aspettava che la donna sarebbe scoppiata in lacrime, che avrebbe sofferto a causa sua. Un’espressione di dolore si dipinse sul suo viso, ma poi disse qualcosa che lo sorprese:
“Non importa. Quel che conta è che vogliamo provarci entrambi.”
Lo capiva. Santo cielo, era incredibile! Era come se sua madre stesse già cominciando a cambiare; o più probabilmente l’aveva fatto pian piano, dopo aver iniziato a frequentare quell’associazione.
“Allora sai come la penso a riguardo. Mi comprendi” disse lui per averne conferma.
“Sì, certo. Sotto questo punto di vista la pensiamo allo stesso modo; ma entra, siediti tesoro.”
La casa era proprio come ricordava. Nulla era cambiato. Il tavolo al centro del grande salotto, il divano e la poltrona in pelle con la televisione di fronte erano ancora lì. C’erano anche delle foto con loro tre insieme appese qua e là.
“E quelle?” domandò sedendosi su una sedia.
Prima che Bill se ne andasse suo padre aveva tolto qualunque foto che raffigurasse il figlio, da solo o con loro, perfino le più belle di quando era bambino e questo l’aveva fatto sentire quasi un estraneo in casa sua. Non solo i suoi genitori, ma perfino le pareti spoglie gli avevano fatto capire chiaramente che non era più voluto. Gli venne in mente un episodio avvenuto poco prima che lui sparisse dalle loro vite.
 
 
Era il compleanno di suo padre. Faceva freddo nonostante fosse primavera e grosse gocce di pioggia battevano contro i vetri. Bill era in camera sua e si era appena svegliato. Sospirò. Pochi giorni prima c’era stato il suo, di compleanno, e i genitori non l’avevano degnato di uno sguardo né di un saluto quand’era sceso in cucina, tanto che aveva gettato via la colazione ed era uscito di casa, troppo incazzato e triste per rimanerci anche solo un minuto di più. Nonostante questo, aveva preso al padre un pullover blu. Tempo prima l’uomo aveva detto che gli sarebbe tanto piaciuto averlo, ma era di marca e costava tantissimo, per cui non l’aveva comprato. Usando un po’ dei soldi che aveva in banca Bill gliel’aveva preso, sperando di renderlo felice. Si vestì e scese con il pacchetto sotto il braccio.
“Tanti auguri papà!” esclamò quando entrò in cucina, mentre il buon odore di uova strapazzate e bacon gli entrava nelle narici.
“Serviti da solo se vuoi stare con noi” gli disse la madre, che gli rivolse per un secondo uno sguardo truce.
“Sì mamma; ma prima, papà, ti ho  preso questo.”
Gli mise il regalo davanti sperando che gli sarebbe piaciuto, ma soprattutto pregando per una sua qualsiasi reazione positiva. Gli sarebbe bastato anche solo un piccolo sorriso, non gli sembrava di chiedere troppo.
L’uomo sbuffò mettendo da parte il giornale che stava leggendo e lo aprì.
“I soldi di certo non ci mancano, ma io e tua madre ti abbiamo sempre insegnato a risparmiare se è possibile, ricordi?” urlò, tanto forte che Bill e Melanie saltarono per lo spavento.
“Sì, ma pensavo solo che…”
“No!” gridò ancora, battendo un pugno sul tavolo. “Tu non pensi affatto! E sai perché? Semplice: perché sei una checca. Quelli come voi hanno il cervello difettoso.”
“Non avresti dovuto, Bill” lo rimproverò la madre. “Pensavi che un regalo avrebbe potuto sciogliere la tensione che si è creata tra di noi e far dimenticare tutto a tuo padre?”
“No, volevo solo vederlo felice.”
Lei sbuffò.
“Stasera ci sarà una festa. Tu rimani in camera tua.”
“No no, stai fuori casa. Non voglio un frocio qui, stasera; e Bill, alla fine della settimana tu te ne vai di casa, è deciso. Fai una valigia, sparisci e non tornare più, sono stato chiaro? Sei maggiorenne, in qualche modo te la caverai.”
“Davvero mi mandi via con tutta questa facilità, come se non ti importasse più niente di…”
Non proseguì perché il padre lo colpì con un sonoro manrovescio che lo fece barcollare.
Il ragazzo guardò sua madre. Lei non poteva essere d’accordo.
“Vattene” fu la risposta che ricevette, più dolorosa dello schiaffo ricevuto, più affilata di una lama piantata nel petto.
Bill uscì di casa e cadde sul marciapiede, privo di qualsiasi forza. Non seppe per quanto rimase lì, ma ricordava che, oltre allo scrosciare della pioggia, sentiva un altro rumore: quello del suo cuore in tempesta.
 
 
“Le ho rimesse dopo la morte di tuo padre” gli rispose la mamma, riscuotendolo.
“Perché non l’hai fatto prima?”
“Nemmeno io riuscivo ad accettarti, Bill, lo sai; e per un lungo periodo non l’ho fatto nemmeno dopo. Mi mancava vedere quelle foto, lo ammetto, ma anche se non ero stata d’accordo quando tuo padre le ha tolte, non sono mai riuscita a dirglielo, ad impormi con lui sotto quel punto di vista. O meglio, ci ho provato…”
“Cazzate!” sbottò l’uomo. “Secondo me mi stai raccontando solo un mare di balle. Non ci hai nemmeno provato, mamma. Se l’avessi fatto, gli avresti impedito di mandarmi via. E invece no, tu hai detto:
“Vattene”
al figlio che hai messo al mondo, al sangue del tuo sangue. Non dimenticherò mai quella parola. Capisco che non accettassi il mio orientamento sessuale, o meglio, posso provare ad immaginare quel che sentivi, ma fino a questo punto mamma? Mi odiavate così tanto? Tu, tu mi odiavi così tanto?”
Aveva calcato apposta su quelle ultime parole, che aveva anche ripetuto più volte per dar loro più vigore.
“Io non ti ho mai odiato, figlio mio. Non ti ho accettato, e questo è stato il più grande errore che abbia commesso - me ne rendo conto -, ma non significa…”
La donna parlava con la voce arrochita e gli occhi rossi, cercando di trattenere il pianto. Era suo figlio che aveva il diritto di piangere, non lei che l’aveva fatto soffrire. Per tutto quel tempo era rimasta in piedi, con le braccia penzoloni e tremando, ma decise di sederglisi di fronte.
“Allora come chiami quello che provavi per me? Cosa sentivi quando mi telefonavi e parlavi di me con tutto quel disprezzo nella voce?”
“Disprezzo, come dici tu. È diverso dall’odio.”
“Ma a me faceva comunque malissimo, mamma.”
“Lo… lo posso immaginare.”
“No. Tu non puoi” sibilò. “Io avevo bisogno di te e tu non c’eri. Me ne sono andato, ho continuato la mia vita come potevo, sentendomi un orfano anche se non lo ero. Avevo due genitori che mi avevano cacciato di casa, per loro era come se fossi morto. E mi sentivo così solo e smarrito. La sera guardavo dalla finestra dell’hotel in cui ho soggiornato per mesi, e poi da  quella del mio appartamento e speravo che tu arrivassi visto che avevi il mio numero e  l’indirizzo, perché non volevo credere che anche tu mi avessi abbandonato, che non saresti più tornata da tuo figlio. Quando andavo a letto piangevo come un bambino che si è perso per strada e vuole la sua mamma e il suo papà, perché io non chiedevo altro che questo: il vostro affetto e, se possibile, un po’ di comprensione. Ogni volta che il mio cellulare vibrava, il mio cuore batteva all’impazzata mentre un filo di speranza mi faceva credere che fossi tu, che mi avessi scritto anche per chiedermi soltanto come stavo, o se avevo bisogno di qualcosa, o che mi chiamassi al mio compleanno, o a Pasqua, o a Natale per farmi gli auguri. Se ci fosse qui papà gli direi le stesse cose, ma non c’è quindi mi rivolgo solo a te. Mi dispiace, mamma, ma questa è la verità. Quando ti ho detto di Oscar non mi hai nemmeno degnato di un commento riguardo la nostra relazione, hai solo sospirato come a dire che sarei sempre stato uno sbaglio; e quando…” Non ce la faceva più. Ormai era un fiume in piena, stava sussurrando e il suo tono era grave e monotono, ma doveva terminare quel discorso, probabilmente il più doloroso della sua intera vita. Respirò a fondo e ricominciò. “E quando ti ho detto che era morto per AIDS e che io gli ero stato accanto per anni, tu mi hai risposto con un semplice:
“Mi dispiace”,
senza sentimento, senza nessuna emozione, come se non te ne importasse e sono sicuro che anche per papà era così. Non avete mai nemmeno voluto conoscerlo, né dare una possibilità a lui di farvi vedere che persona meravigliosa era, e a noi tre di riappacificarci. Sono vostro figlio, mamma, e lo sarò sempre; ma voi mi avete abbandonato.”
Melanie sentì il proprio cuore andare in mille pezzi. Aveva pensato tante volte di essersi comportata in modo ignobile e che anche suo marito aveva fatto lo stesso, ma sentirlo dire da Bill era molto peggio.
“Hai ragione” mormorò. “Abbiamo fatto una cosa orribile, io e tuo padre. Ogni volta che provavo a parlare di te lui cambiava argomento, oppure mi diceva di chiudere la bocca.”
“Parlavi di me con lui? Credevo che non faceste mai il mio nome.”
Era sorpreso.
“Ogni tanto sì. Mi domandavo se ci stavamo comportando nel modo giusto e ponevo anche a lui quegli interrogativi per cercare di fugare i miei dubbi, e più Colin mi diceva di tacere più questi aumentavano; ma non ti ho mai detto nulla al telefono perché non sapevo cosa pensare. Disprezzavo ciò che sei e al contempo ti amavo, perché eri, sei e sarai sempre mio figlio. Papà invece pareva averti proprio escluso dalla sua vita. Ai nostri amici di famiglia ha detto che te n’eri andato di tua spontanea volontà perché avevamo litigato furiosamente e mi ha fatto giurare di non raccontare a nessuno che eri gay. Una volta, poco dopo la tua partenza, gli ho detto che aveva fatto la più grande stronzata della sua vita a cacciarti e che io ero stata una stupida a dargli retta. Ho aggiunto che sarei venuta a cercarti se non l’avesse fatto lui. E sai come ha reagito?”
“C-come?”
Bill si scoprì timoroso di sentire la risposta.
“Mi ha riso in faccia, come se considerasse pazza anche me. Non ho avuto la forza di venire a cercarti, son ostata una debole. Sta a te credermi o no, ma da allora ho cominciato ad amarlo sempre meno. La tua assenza ha rotto qualcosa in questa casa, anche se siamo stati noi a provocarla. Ha spezzato questo qualcosa che non si è mai più riparato. Avrebbe potuto se noi ti avessimo trovato e detto:
“Torna a casa e dalla tua famiglia”,
ma siamo stati stronzi e non l’abbiamo fatto. So che probabilmente non vuoi più sentirti dire che mi dispiace per tutto quel che è accaduto, ma te lo ripeto comunque.”
“Quando mi hai chiesto se immaginavo come aveva reagito, credevo ti avesse fatto del male. Se fosse stato così, non so come mi sarei comportato.”
C’era una rabbia controllata nella sua voce. Non voleva scoppiare, ma gli sarebbe tanto piaciuto prendere a pugni qualcosa.
“No!” Melanie si alzò, fece il giro del tavolo e prese le grandi mani del figlio nelle sue, più esili e piccole. Gliele strinse più che poté e constatò che anche lui le aveva fredde. “Tesoro, tuo padre è stato un coglione, ma non ha mai alzato le mani su di me e quando l’ha fatto con te quella volta, io dopo mi sono arrabbiata da morire. Se mi avesse toccata, penso che l’avrei denunciato… o forse avrei avuto troppa paura, non lo so. Comunque ti posso giurare che non è mai accaduto.”
Bill sospirò di sollievo. Per un momento aveva  temuto il peggio.
“So che ti dispiace, mamma” disse soltanto, aspettando di vedere se lei aveva qualcos’altro da aggiungere.
“Bill, tu mi vuoi ancora bene?” gli domandò con una nota di speranza.
“Nel profondo sì. Sotto l’odio - perché il mio non è disprezzo -, c’è l’amore.”
“Se dunque provi ancora affetto nei miei confronti, io ti chiedo di darmi solo una possibilità. Starà a me non sprecarla, non mandare tutto in fumo e ti assicuro che farò del mio meglio perché non accada. Lascia che io sia la mamma che avresti voluto accanto tanti anni fa quando guardavi dalla finestra, quella da cui ti aspettavi anche solo un messaggio, che speravi ti venisse a cercare, che riempisse il vuoto che c’era in te. Ti prego lascia che ti dimostri che ti amo, che io ricominci a proteggere quel bambino perso per strada. Non potremo mai recuperare il tempo perduto, ma possiamo cercare di vivere al meglio, insieme, quello che ancora ci resta. Non so cosa vorrebbe tuo padre se fosse qui adesso, ma ti posso dire ciò che desidero io: recuperare il rapporto con te, dimostrarti che ti voglio bene, che ti amo più della mia vita e che l’ho sempre fatto, piccino della mamma.”
Entrambi stavano per scoppiare. Erano stati sinceri l’uno con l’altra. Bill era stato anche molto duro, ma Melanie credeva che quel che le aveva detto le fosse servito per darsi l’ultima scossa che le avrebbe permesso di riavvicinarsi a lui… sempre che il figlio l’avesse voluto. Non ne era ancora sicura.
Bill la guardava negli occhi, quegli occhi così simili ai suoi, e vi lesse amore e sincerità. Non voleva perdere sua madre, non di nuovo. Si meritava una chance.
“Sì” sussurrò e poi lo ripeté con più convinzione. “Sì!”
Si corsero incontro e si abbracciarono per la seconda volta da quando Bill era arrivato, piangendo di felicità.
“Ti voglio bene anch’io, mamma” le disse parlandole mentre affondava il viso nei suoi capelli.
Si erano finalmente riuniti. Non sarebbe stato facile per lui fidarsi di nuovo di Melanie, né per entrambi riavvicinarsi, ma ci avrebbero provato mettendoci tutti loro stessi.
In quell’istante Bill si sentì diverso: il vuoto che per tanti anni aveva fatto parte di lui si stava lentamente riempiendo. Forse, col tempo, sarebbe sparito facendolo sentire di nuovo completo… beh, quasi, perché suo padre non c’era più. Ma aver ritrovato sua madre era meraviglioso e lo riempiva di una gioia immensa.
 
 
 
Demi se ne stava sul divano con un libro in mano. Batman dormiva accanto ai suoi piedi e Danny sulla pancia della ragazza. Quando leggeva adorava farlo in silenzio per potersi concentrare. I libri la aiutavano ad evadere dalla realtà per rifugiarsi in un mondo sì difficile, ma comunque più bello e con l’immancabile happy ending, che invece nella vita troppo spesso non c’è. Era arrivata quasi alla fine di quel libro meraviglioso e aveva a volte amato, altre odiato la protagonista a causa delle sue scelte.
“L’ultima pagina. Sto per leggere l’ultima pagina” si disse e la cosa, come ogni volta, la riempiva di aspettativa e malinconia.
Trasse un respiro profondo e riprese la lettura.
Hazel strizzò gli occhi alla luce del sole. Salì con lo sguardo verso la torre e io la salutai con la mano dalla finestra del secondo piano. Lei sorrise e allungò le braccia come se volesse venire da me.
Elizabeth la vide e si chinò a prenderla. Tenendola su un fianco con un braccio solo, con l'altro sfilò qualcosa dal cestello portaoggetti del passeggino e lo alzò per mostrarmelo.
Era uno zainetto a forma di coccinella. Dentro c'erano il pigiama, i pannolini e un cambio per Hazel, lo sapevo. L'espressione di Elizabeth era felice e coraggiosamente determinata, come la mia. Guardare mia figlia mi riempiva di una gioia che un tempo avevo pensato di non essere capace di provare e mi ricordai cosa aveva detto Grant il pomeriggio in cui ero ricomparsa nel suo roseto. Se era vero che i muschi non hanno radici e l'amore materno può nascere spontaneo, apparentemente dal nulla, allora forse avevo sbagliato a ritenermi incapace di crescere mia figlia. Forse anche chi aveva vissuto isolato e senza affetti poteva imparare ad amare profondamente al pari di chiunque altro.
Quella sera Hazel avrebbe dormito per la prima volta con me. Le avrei letto una storia e l'avrei cullata sulla sedia a dondolo. Poi avremmo cercato di addormentarci. Forse mia figlia si sarebbe sentita intimorita e io inadeguata, ma ci avremmo riprovato, una settimana dopo l'altra. Con il tempo avremmo imparato a conoscerci e io avrei saputo darle - come ogni madre alla figlia - un amore imperfetto e senza
radici.
Si schiarì la voce, commossa, alla fine di tutte quelle pagine che l’avevano tenuta incollata al volume per giorni.
Il suono del campanello la fece sussultare.
“Ma che…”
Guardò l’ora sul cellulare che aveva appoggiato lì vicino. Erano già le 16:00? Le pareva di aver preso sonno soltanto pochi minuti prima, ma si sentiva comunque riposata. Mise il gatto sulla coperta, facendo piano in modo che non si svegliasse. Danny mosse la coda e le zampe e si stiracchiò, ma non si alzò e anzi, tornò a dormire. Demi si avvicinò alla porta, guardò dallo spioncino e poi aprì.
“Ciao, amore” la salutò il suo ragazzo, ma non le rivolse il sorriso che lei si aspettava.
“Ciao.” Lo fece entrare e poi lo abbracciò e lo baciò con passione. Lui ricambiò, ma non con la stessa anergia che Demi aveva riservato a lui pochi istanti prima. “Che succede?”
Anche lei non sorrideva più, adesso, e lo guardava preoccupata.
“Che stavi leggendo?”
Perfetto, cercava di evitare il discorso. Forse aveva solo bisogno di prendere tempo, si disse lei.
“Si intitola “Il linguaggio segreto dei fiori”. Te lo presto, se vuoi.”
“Hai gli occhi lucidi.”
“Sì, il finale è stato… intenso. La protagonista è passata di famiglia affidataria in famiglia affidataria tutta la vita e a diciotto anni è diventata una fioraia… e insomma dopo alterne vicende ha avuto una bambina e, siccome pensava di non poterla crescere dato che non era mai stata amata, l’ha lasciata al padre, ma poi si sono ritrovate. Mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile la vita di una persona che sta in affidamento così tanti anni e poi impara ad amare anche se nessuno le ha mai voluto veramente bene. Io non abbandonerei mai le mie figlie, e non ho sopportato la protagonista nel momento in cui ha lasciato la piccola in casa del padre quando lui ancora non era tornato, ma alla fine è riuscita a cambiare e ad avere la forza e il desiderio di voler essere madre a tutti gli effetti.” Era così emozionata che non la smetteva più di parlare. Tremava e sudava, ma che ci poteva fare se era un’inguaribile romantica e se amava il lieto fine e se ogni libro che leggeva la faceva piangere? “Oh, Dio!”
Si portò le mani al viso, conscia di aver praticamente svelato tutta la trama.
“Tranquilla, lo leggerò lo stesso; e poi mi fa piacere che ti abbia commossa tanto.”
“L’ho adorato. Ci sono pochissimi dialoghi, troppo pochi per i miei gusti, ma per il resto è un libro fantastico. Dovrebbero farci un film.”
“Speriamo succederà, allora. Comunque, devo parlarti.”
“Oh oh, non suona bene come inizio.”
“No, infatti.”
“Mi devo preoccupare più di quanto sono già?”
“No, non commetterò più lo stesso errore; e prima che tu me lo chieda no, non mi sono fatto del male. Ho sentito le voci, prima, ma ho resistito.”
Demi tirò un sospiro di sollievo.
“Pensavo che fossero sparite in questi giorni.”
“Lo credevo anch’io, ma si sono ripresentate.”
Il fatto che ora nemmeno la guardasse le fece capire che c’era qualcos’altro che ancora non le aveva detto, forse per vergogna o per paura, tuttavia non insistette. Non voleva forzarlo a parlare e decise di lasciargli il suo tempo.
Andrew si schiarì la voce e cercò di non andare nel panico. Doveva essere forte e ammetterlo.
“Ho fatto uno sbaglio, Demi. Un errore che non avrei dovuto commettere e del quale mi pento moltissimo” proseguì. Stava per lanciare la bomba e voleva girarci intorno un po’. “Io… non ho… non ho preso i farmaci, ieri e oggi. Non me ne sono dimenticato. Non volevo farlo. Ho pensato che, siccome domenica sera mi ero sentito bene, sarei riuscito a farne per sempre a meno.”
“N-non penso di aver capito bene quello che hai detto” mormorò lei.
Non poteva credere a quanto aveva appena sentito.
“Hai compreso benissimo, invece.”
Andrew sapeva che l’avrebbe rimproverato, era pronto a qualsiasi sua reazione.
Cosa? Non puoi dirmi che hai fatto una stronzata del genere!” sbottò. “Ti rendi conto di che grande rischio hai corso sospendendo i farmaci in questo modo, senza un controllo medico o almeno un consulto da parte della tua dottoressa o dello psichiatra? Non ho mai preso quei farmaci, ma sono abbastanza intelligente da capire che non si può smettere di assumerli così, dall’oggi al domani. Bisogna farlo seguiti da un medico e soprattutto con giudizio e responsabilità, non alla cazzo!” Diede un calcio ad una sedia, la prima cosa che le capitò a tiro. “Non mi sembrava che quelle pastiglie ti dessero effetti collaterali, giusto? Ma anche se così fosse stato, avresti dovuto parlarne con il tuo dottore o con lo psichiatra, o sentire cosa ne pensava la psicologa e poi farti dare da lei dei consigli sul modo in cui comportarti. Andrew, porca puttana!” Batté forte le mani e poi se le portò al viso, frustrata. Lui era sempre stato molto maturo e, certo, tutti possono commettere degli errori, ma lei non avrebbe mai detto che sarebbe arrivato a fare uno sbaglio come quello. Si domandò se non avesse esagerato, usato parole troppo forti nell’esprimere la sua opinione a riguardo, ma si disse di no. Era solo preoccupata per lui e a volte, quando si è in ansia per qualcuno, si reagisce in modo brusco anche se non si vorrebbe affatto. Tuttavia non era da lei comportarsi così e si sentì malissimo. “Scusa, non volevo gridare” disse infine, con più dolcezza.
“No, mi serviva una scrollata come questa. Non posso negare che mi ferisca, ma nemmeno che tu abbia ragione.” Andrew si schiarì la voce per non piangere. Ad un occhio esterno potrebbe sembrare una reazione esagerata, ma lui era molto sensibile e in quel momento, forse, ancor più del solito. Si sentiva trattato come un bambino che aveva combinato un totale disastro, ma alla fine era questo che aveva fatto. Se lo meritava. “Fino a stamattina non mi ero pentito di nulla, stavo bene” continuò. “Come sai il mese scorso non è stato facile. Avevo avuto degli effetti collaterali per esempio stanchezza, tanta sete e sonnolenza il tutto in maniera piuttosto pesante, ma dopo qualche settimana sono diminuiti e poi scomparsi. La settimana scorsa è andata molto meglio. Ieri pomeriggio e la sera non mi ero sentito un granché, ma niente in confronto a quanto è successo oggi.”
“Raccontami” lo incitò Demi, prendendolo per mano e facendolo accomodare su una poltrona.
Lei si sedette sul bracciolo e continuò a stringerlo, per dargli più forza tramite quel contatto.
Andrew le parlò di tutto ciò che aveva provato quel pomeriggio e di quanto successo al bar.
“Sono convinto di essermi sentito così a causa dell’astinenza dai farmaci. Forse non succede quando li sospendi andando pian piano. Insomma, quando ho cambiato il Daparox con il Litio e ho fatto come mi diceva il medico, non ho provato nulla durante la transizione. Dopo sono stato male, sì, ma non in quel preciso momento. Non vorrei prendere quella roba, ma per ora mi serve, mi aiuta. La cura sono io.”
“Hai appena detto una cosa molto importante” gli disse sorridendo.
Era fiera di lui e del fatto che avesse pronunciato quell’ultima frase.
“Lo so. Dicevo, sono io il primo che deve aiutarsi ma i farmaci mi danno una mano. Da domani ricomincerò a prenderli e lo farò fino a quando servirà.”
Promettimi che parlerai con il tuo medico di questa cosa e di ciò che ha comportato.”
“Lo prometto.”
“Bene.”
La rabbia che Demi aveva provato era scemata non appena Andrew aveva ripreso a parlare. Lo strinse di nuovo a sé e lui stavolta la avvolse con più forza e avvicinò le labbra alle sue per baciarla. Quello fu un bacio più intenso, dato con il cuore e l’anima di due innamorati che, dopo un piccolissimo momento di crisi, si erano riappacificati.
“Allora, oggi che facciamo?” le chiese continuando a baciarla.
“Tra due ore andremo in un posto.”
“Posso sapere dove?”
“No.”
“Dai.”
“No.”
“Daaaai!”
“Ho detto di no” canticchiò la ragazza.
“Va bene, mi arrendo” sbuffò Andrew. “Le piccole quando tornano?”
“Tra un po’. Mamma le avrà portate a fare merenda da qualche parte, conoscendola. Insomma, i nonni viziano sempre i nipoti.”
“Già, è questo il bello di averli.”
Scoppiarono a ridere entrambi.
Lo stomaco di Demi brontolò e lei si affrettò a coprirlo con le mani, arrossendo.
“Hai fame?”
“N-no.”
“Amore, puoi dirmelo okay? Ce l’ho anch’io. Non ti vergognare per quel rumore.”
Lei si passò le mani davanti al viso prima di rispondere.
“D’accordo, ne ho abbastanza.”
“Aspettami qui.”
“Posso far…” iniziò a protestare, ma Andrew era già corso in cucina. “Hai lavorato tutto il giorno, non voglio che ti stanchi ancora” finì lei raggiungendolo.
Lui stava già tirando fuori una padella e aprendo il frigorifero.
“Non è un problema, davvero. Se fossi andato a casa mi sarei fatto qualcosa, quindi non mi costa nulla prepararlo per più persone.”
“Posso sapere cosa cucinerai?”
“No! Anzi, fuori di qui” disse scacciandola con la mano.
“Okay okay, vado e lascio lavorare lo chef.”
Demi si risedette sul divano dopo aver chiuso la porta della cucina e in quel momento il suo telefono e quello di Andrew, che era rimasto sulla poltrona, vibrarono. Portò il cellulare al fidanzato e gli raccontò l’accaduto sforzandosi di non guardare cosa stava facendo.
“Che coincidenza che ci sia arrivato un messaggio nello stesso istante!” esclamò lui.
“Infatti. Io la trovo una cosa dolce.”
“Sì, anch’io.”
Demi vide che il suo messaggio era della madre.
Porto a casa le bambine tra un po’. Stiamo passeggiando.
Ad Andrew, invece, aveva scritto Bill.
Sto parlando con mia madre. Tutto bene.
Sorrise. Era felice che i due stessero iniziando a gettare le basi per ritrovare un nuovo equilibrio.
Batman si era svegliato e guardava verso la cucina annusando l’aria. C’era profumo di pancetta e di qualcos’altro che Demi non riusciva ad identificare. Danny invece riposava tranquillo, non si era nemmeno spaventato quando la ragazza aveva urlato e fatto cadere la sedia.
“È pronto!” chiamò Andrew dalla cucina una decina di minuti dopo.
Demi lo raggiunse, affamata e curiosa di vedere cosa le aveva preparato. Appena si sedette l’uomo posò davanti a lei un piatto con delle uova strapazzate circondate da strisce di pancetta croccante e dorata e le versò un bicchiere di succo d’arancia.
“Wow!”
“Ti piace come si presenta?”
“Sì, è molto invitante.”
“Beh, allora assaggialo.”
“E tu?”
“Adesso mi prendo la mia parte.”
Lo aspettò e solo quando anche lui si fu servito iniziò a ,
mamgiare. Prese un po’ di uovo e una fetta di pancetta e li mise in bocca entrambi.
“È tutto buonissimo!” esclamò, poi assaggiò il succo e sorrise. “Questa è spremuta d’arancia. L’hai fatta tu, immagino.”
Fino a poco prima aveva pensato che fosse succo e di averlo preso al supermercato.
“Certo, ho fatto tutto io.”
“Complimenti.”
Lo baciò per mostrargli ancora di più il suo apprezzamento sia per il gesto, - che trovava molto romantico -, di cucinare qualcosa per lei nonostante la stanchezza sia per il cibo in sé.
“Se mi bacerai così anche in futuro, dovrò cucinare per te più spesso e lo farò con immenso piacere.”
La fece ridere.
Mangiarono in silenzio, scambiandosi sorrisi e sguardi pieni d’amore, poi Demi lavò tutto e aprì le finestre per far cambiare l’aria.
In quel momento suonò il campanello e la ragazza corse ad aprire.
“Le mie piccole!” esclamò appena le vide e andò loro incontro.
Hope e Mackenzie le si gettarono fra le braccia ridendo felici.
Mi sei mancata scrisse Mackenzie.
“Bene, mamma” disse Hope, che avrebbe voluto pronunciare qualche parola in più ma al momento non le trovava.
“Anche voi mi siete mancate, cucciole; e voglio bene ad entrambe.”
Quella scena era così tenera che Andrew avrebbe scattato loro una foto, ma decise di lasciare alle tre un po’ di tranquillità.
“Un abbraccio alla tua mamma non lo dai?”
Dianna si fece avanti sorridendo.
“Sì, scusa.”
“Come stai, tesoro?”
“Meglio grazie, è tutto passato. Venire a casa prima dal lavoro e riposare non è stato poi così male. Grazie per averle tenute per un po’.”
“Figurati, le ho portate in pasticceria.”
“Immaginavo. Quanto ti devo?”
“Eh? No no non voglio proprio niente.”
La ragazza provò ad insistere ma sua madre fu irremovibile.
Dopo aver abbracciato e salutato Andrew la donna se ne andò, felice nel vedere che sua figlia, il fidanzato e le nipoti erano tutti sereni.
Andrew aveva tenuto aperta la porta e preso subito in braccio Danny quando questi aveva cercato di scappare.
Mamma, vado in camera a fare i compiti.
“D’accordo piccola, ti serve una mano?”
Sì, in matematica.
Per la mezzora successiva le due lavorarono senza sosta. Mackenzie stava migliorando molto nei calcoli e, anche se non le piaceva fare le addizioni e sapeva già di non amare la matematica in generale, avrebbe dovuto farci l’abitudine.
Mamma, disse dopo aver preparato la cartella per il giorno successivo, stavo pensando… non sarebbe ora di cominciare a portare fuori Danny? È passato più di un mese da quando l’abbiamo preso, si è abituato alla casa e penso che abbia voglia di stare un po’ all’aperto.
Demi dovette ammettere che la figlia aveva ragione. Ogni tanto il micio guardava fuori dalla finestra e piangeva o grattava. Non appena qualcuno lo faceva distrarre con qualche gioco si tranquillizzava, ma a volte era come se chiedesse di uscire, come aveva fatto quella mattina. La ragazza aveva sperato che ciò non sarebbe accaduto. Stava vicino ad una strada e sapeva bene che questa poteva rappresentare un pericolo per il piccolo. Le sarebbe piaciuto che Danny fosse stato uno di quei gatti ai quali piace rimanere in casa e basta, ma evidentemente non era così. Bisognava fare il suo bene, pensare a ciò che desiderava e accontentarlo.
“Sì Mac, ci stavo pensando anch’io. Manca ancora un’ora all’appuntamento che abbiamo, quindi possiamo provare.”
Quale appuntamento?
“Sorpresa!”
Uffa, mamma!
“No no, non dirò nulla a nessuno. Lo scoprirai presto, non ti preoccupare.”
La piccola sbuffò e si arrese e, assieme alla madre, tornò di sotto dove Andrew e Hope stavano giocando con le costruzioni.
“Abbiamo pensato di portare fuori Danny” disse Demi per attirare l’attenzione.
“Davvero? Fantastico!”
Andrew era entusiasta. Il gatto, intanto, stava girando attorno a Hope che lo accarezzava.
“Già, devo solo prendere il guinzaglio che abbiamo comprato.”
Demi tornò subito e, dopo aver preso il gatto, cercò di infilarglielo. Era un guinzaglio che non andava legato attorno al collo ma al petto, tramite una specie di imbracatura; in questo modo il micio non correva alcun pericolo. A dispetto di quanto si sarebbe aspettata Danny non oppose resistenza ma, anziché iniziare a camminare mentre lei lo portava al guinzaglio, si sdraiò per terra facendo scoppiare a ridere tutti.
“Poveri noi!” esclamò Andrew, che rimise in piedi il gatto visto che lui non si muoveva.
Con un po’ di fatica riuscirono a fargli capire che avrebbe dovuto camminare e non lasciarsi tirare e arrivarono in giardino. Con loro uscì anche Batman che si mise subito a correre nell’erba. Il gattino avrebbe voluto seguirlo, lo guardava e correva, ma arrivato ad un certo punto si rendeva conto che non poteva più andare avanti.
“Tra un po’ ti lascerò libero, piccolino, ma non prima di qualche settimana” lo tranquillizzò la ragazza.
Tutti lo guardavano mentre era intento ad annusare il terreno, a osservare tutto ciò che lo circondava e ad alzare le orecchie e la testa non appena sentiva un rumore. Dapprima udì un altro cane in lontananza, poi le foglie mosse dal vento, poi qualcosa che gli umani non sentirono ma che avrebbe potuto essere una lucertola o un uccellino in mezzo alla siepe, visto che tentò di correre verso di essa. Non riuscì ad arrivarci e miagolò per protestare.
“Questo gatto sarà un cacciatore” disse Andrew ridendo.
Papà, ma quando Danny catturerà degli animali noi li salveremo, vero?
“Ci proveremo Mackenzie, ma purtroppo non ci riusciremo sempre.”
La bambina sapeva che i gatti sono dei cacciatori e che ragionano per istinto e amava Danny con tutto il cuore, ma era sicura che, quando lui avrebbe catturato un animaletto, ci sarebbe rimasta male.
Sorrise vedendo che giocava con una foglia secca, la muoveva e poi la schiacciava sotto una zampa. Hope, stancatasi di rimanere nello stesso posto, cominciò a correre per il giardino seguita dalla sorella più grande. Cercavano di prendersi e quando una ci riusciva toccava all’altra inseguirla. A volte si buttavano per terra ma Demi non diceva loro niente, tanto comunque si sarebbero sporcate nel posto dove stavano per andare e avrebbe dovuto far loro la doccia. Danny alzò la testa e cominciò a miagolare e a saltare.
Poco dopo la mamma richiamò le bambine:
“Dobbiamo andare a cambiarci per uscire.”
“Ehm, Demi?” domandò Andrew.
“Sì?”
“Io come devo vestirmi? Sono ancora in jeans, camicia e cravatta.”
“Non ti preoccupare, ho alcuni vestiti che fanno al caso tuo.”
Non voleva che andasse a casa a cambiarsi e fargli rifare tutta la strada e quella mattina aveva trovato in un cassetto una tuta da ginnastica di Andrew che aveva lasciato non ricordava quando.
“Ecco dov’era finita!” esclamò infatti l’uomo nel momento in cui la vide. “L’avevo cercata per tanto tempo e non la trovavo.”
“E non ti è venuto in mente che avrebbe potuto essere qui?”
“No.”
“Uomini… e ho detto tutto!” esclamò lei ridendo.
“Ehi!”
Il fidanzato le tirò un cuscino in faccia e Demi glielo rilanciò mentre le bambine, sulla soglia della porta, li guardavano e sorridevano.
“Metto loro le scarpe da ginnastica e poi mi vesto.”
“Va bene, mia dolce principessa.”
Demi avvampò. Era bellissimo sentirsi chiamare in quel modo.
Quando tutti furono pronti uscirono e la ragazza si mise al volante. Guidò per tutta la città mentre il suo ragazzo, Mackenzie e Hope guardavano fuori dal finestrino per cercare di indovinare il luogo dove li stava portando, ma non ne avevano idea. A volte Demi percorreva strade che conoscevano, ma poi cambiava direzione e finivano in una che non avevano mai visto. Quando lasciarono anche la periferia della città ed uscirono in aperta campagna Andrew la guardò perplesso.
“Dem, sei sicura che questa sia la strada giusta?”
“Sì, perché?”
“Per chiedere. È più di mezzora che guidi e non siamo ancora arrivati. Mi stavo preoccupando.”
“Tranquillo, so dove sto andando.”
Hope si era addormentata da un pochino, cullata dal dolce e lento avanzare dell’auto, mentre Mackenzie si godeva il paesaggio autunnale che si estendeva tutt’attorno. C’erano campi, in parte coltivati e in parte no. I vigneti ormai non avevano più uva ma erano comunque suggestivi e Mackenzie riuscì a distinguere, nei giardini di alcune case, piante come l’erika e poi i ciclamini e i rododendri. Gli alberi continuavano a perdere foglie che si depositavano a terra formando un tappeto.
Arrivarono davanti ad un grande cancello vicino al quale c’erano un roseto che sopravviveva grazie al clima mediterraneo di quell’autunno e un albero che Mackenzie aveva già visto, ma di cui non ricordava il nome.
“Questo si chiama liquidambar” disse il papà intuendo la domanda della figlia.
“È molto comune in California.”
A Mac piaceva perché aveva bellissime foglie palmate, simili a quelle degli aceri ed era un sempreverde. Nonostante conoscesse già tutte quelle piante e le vedesse nel suo giardino e in quelli circostanti, per la bambina era come se in campagna assumessero una bellezza particolare, più genuina, che in città sembravano non possedere e per questo le pareva di vederle per la prima
volta.
Il nome dell’insegna era quasi cancellato, ma era facile capire di cosa si trattava: un ranch. Da fuori si sentivano i nitriti dei cavalli e il rumore degli zoccoli. Demi spinse il cancello che era socchiuso e poco dopo un uomo anziano venne loro incontro.
“Ciao, Demetria!” esclamò abbracciandola.
“Carissimo!”
Era un uomo alto e grassoccio, sulla sessantina, con i capelli bianchi e spettinati e due intensi ochi neri. Era vestito più o meno come loro.
“Mi fa tanto, tanto piacere rivederti, bambina. Perdonami se ti chiamo così, ma anche se sei una donna per me resterai sempre quella bimba simpatica che voleva a tutti i costi imparare a cavalcare” continuò Brian, circondandole le spalle con fare affettuoso.
“Sì, lo so.”
“Raccontateci come vi siete conosciuti!”
Andrew era curioso.
“Questa furbacchiona non ti ha mai parlato di me, vedo” scherzò Brian.
“No, nemmeno quand’ero piccola; o forse gli ho detto che venivo qui e lui non se lo ricorda, non saprei.”
“Beh, ragaz… come ti chiami, figliolo?”
“Andrew signore, Andrew Marwell” si presentò, allungando una mano perché l’altro gliela stringesse.
“Oh ti prego, Andrew, evitiamo le formalità. Lo dico a tutte le famiglie che vengono qui: non mi piace che mi si dia del lei.”
“D’accordo sign… Brian, come vuoi.”
“Comunque, Demi veniva qui in estate con la sua famiglia nei fine settimana con Dallas e, quando è nata, con Madison. Stavano all’aria aperta, accarezzavano i cavalli, i pony e i cani, passeggiavano come qualsiasi altra famiglia.”
“Le persone vengono tutti i giorni?” si informò Andrew.
“Molte sì, perché ho anche degli istruttori che fanno lezione di equitazione. Anch’io sono un istruttore, o meglio lo ero. Ormai le mie ossa sono stanche, non ho più la forza di un tempo e preferisco gestire i conti del ranch e cavalcare ogni tanto. L’ho aperto quando avevo venticinque anni, sai?”
“Wow, e hai sempre vissuto qui?”
“Sì sì. I cavalli mi sono sempre piaciuti e fin da quando ero bambino sognavo di aprire un ranch. Ho studiato per diventare istruttore di equitazione, e in particolare di dressage e di riabilitazione equestre. Ho anche una laurea in psicologia, che serve quando si lavora con i disabili e con persone con altre problematiche. Anche il mio personale è qualificato per questo ovviamente. Ho attrezzato il centro nel modo giusto e così ho realizzato il mio sogno.”
“Sei un grande!”
Andrew gli batté una pacca sulla spalla.
“Non esagerare. Mi sono semplicemente costruito una vita, come fanno tutti. Comunque non rimanete lì, entrate pure. Per concludere il discorso, Demi veniva qui e quanto avrai avuto circa… otto anni, cara?”
“Credo di sì.”
“Ecco, la sua mente è più giovane della mia e sicuramente ricorda meglio. Ah, la vecchiaia” sbuffò. “Dicevo, a otto anni mi ha detto che le sarebbe piaciuto imparare a cavalcare e così le ho insegnato il dressage e abbiamo fatto anche alcune passeggiate a cavallo qui intorno. L’abbiamo fatto per un paio d’anni, poi purtroppo non è più venuta.”
“Ero troppo presa da tutto quello che dovevo fare: la scuola, cantare, recitare e non sono riuscita a venire più qui.”
“Già, e siccome io non vado mai in città perché la odio con tutto me stesso - troppa confusione -, non l’ho più vista. Quando mi ha scritto che aveva iniziato a cantare, però, ho comprato mano a mano tutti i suoi album e qualche volta l’ho vista in televisione o in radio, anche se non ho mai capito l’utilità del primo di questi due apparecchi. Voglio dire, okay si possono sapere un sacco di cose in tempo reale, ma per quello ci sono anche i giornali, no?”
“Dimentichi i film” suggerì Andrew.
“Bah, servono solo ad intrattenere casalinghe annoiate.” Brian era un uomo all’antica, questo ormai era chiaro a tutti. “Posso offrirvi qualcosa? Magari dei biscotti o un caffè?”
Nessuno aveva voglia di niente, quindi rifiutarono con gentilezza.
Mamma, il tuo ex insegnante ha dato per scontato che noi sappiamo cosa sono la riabilitazione equestre e il dressage. Ce lo spieghi, per favore? chiese Mackenzie.
“Hai ragione. Nella prima disciplina si lavora con le persone disabili, quindi non vedenti, in sedia a rotelle o con problemi psicologici, mentre nella seconda gli allievi, che possono avere una disabilità oppure no, sono in un campo di sabbia e lavorano con il cavallo. Lui cammina e loro lo guidano creando delle figure geometriche.”
Era il modo più semplice per spiegarlo.
Wow, dev’essere bellissimo!
“Sì, lo è.”
La casa di Brian si trovava ad un centinaio di metri dal cancello. La scuderia era a destra, mentre a sinistra si trovava un campo di dressage, uno di erba in cui alcuni cavalli galoppavano liberi e altri prati.
“Quello si chiama Paddock” disse l’uomo indicandolo. “Ci mettiamo i cavalli che sono stati tanto tempo nel loro box e che hanno bisogno di muoversi un po’.”
Il ranch era grande e tranquillo. Mentre li guidava verso la scuderia l’uomo spiegò che le famiglie potevano portare lì i bambini la domenica, per farli salire sui pony o semplicemente perché vedessero i cavalli o accarezzassero i cani mentre, per tutto il resto della settimana, la situazione era più tranquilla. Veniva al ranch chi aveva voglia di cavalcare, più che altro erano persone abitudinarie che vi si recavano quasi tutti i giorni.
“Cane! Caneeee!” esclamò Hope, mentre un cagnolino bianco le veniva incontro.
“Lei si chiama Ruby. Ho tredici cani qui, di varie razze e taglie e sono tutti miei. Le femmine non sono sterilizzate, quindi ogni tanto arrivano dei meravigliosi cuccioli. Riesco a darne via alcuni, ma ne tengo sempre uno o due. È troppo dura farli adottare tutti, mi si spezzerebbe il cuore se lo facessi. Aspetta piccina, ti faccio accarezzare Ruby.” La chiamò fischiando e la cagnolina si lasciò prendere, poi Brian si chinò all’altezza della bambina. “Ecco, toccala pure.”
“Bella!” esclamò Hope mentre le accarezzava la testa e Ruby la guardava incuriosita.
Demi aveva già spiegato a Brian la situazione di Mackenzie perché non era sicura che lui la sapesse o se la ricordasse, quindi quando la piccola si presentò scrivendo lui non disse nulla e rispose dicendo che aveva un nome fantastico e lei gli sorrise di rimando. Aggiunse che anche Hope gli piaceva moltissimo e che si scusava per non aver salutato prima due belle principesse come loro.
La scuderia era larga e molto lunga e ad entrambi i lati di quella sorta di corridoio si trovavano i box dei cavalli. Molti animali erano lì e mangiavano il fieno, altri fuori nei campi di dressage e salto a ostacoli. Il rumore dei denti dei cavalli che masticavano era rilassante e piacque tantissimo a tutti.
"Quanti ne avete?" domandò Demi, che non ricordava che quel posto fosse così grande.
"Un centinaio circa" le rispose Brian.
"Wow!"
"Sì e nessuno usa il frustino con loro, qui, né gli istruttori né gli allievi."
Cos'è il frustino? chiese Mackenzie.
"Una piccola frusta che serve per comandare meglio il cavallo."
E gli fa male?
"No, no tranquilla, non sente niente."
Brian aveva mentito: non voleva impressionare o far star male la bambina.
Ah, bene! Che sollievo. Quindi come mai non lo usate?
"Vedi, i nostri cavalli sono bravissimi, non serve comandarli con quello strumento."
Li fece camminare ancora un po', verso la fine della scuderia, mentre loro si guardavano intorno. C'erano cavalli alti poco più dei due adulti e altri tanto enormi che né Demi né Andrew ci sarebbero mai saliti sopra.
"Chi è che monta quei giganti?"
Era stato lui a parlare ed era stupito. Aveva visto pochi cavalli nella sua vita, vero e gli piacevano tanto perché erano creature meravigliose e dal portamento elegante, ma non credeva che alcuni potessero essere così alti.
"Io!" esclamò una voce dietro di loro.
I quattro si girarono e viddero una ragazzina di circa diciassette anni, vestita per andare a cavallo e con i lunghi capelli corvini raccolti in una coda.
"Ciao, come ti chiami?" le domandò Demi.
"Annabelle" rispose. "Oh mio Dio, ma tu sei…"
"Anna, che ci fai ancora qui? Ti avevo detto di andare a casa, tesoro. A quest'ora il ranch doveva essere vuoto."
"Ecco perché!" squittì lei. "Sono una tua grande fan, sai?"
"Ah sì?"
Demi ne era felice, ma per una volta, per una sola volta avrebbe voluto non incontrare fan mentre si divertiva con la sua famiglia. A quanto pareva Brian aveva fatto di tutto perché ciò non accadesse e lei gli era grata per questo, ma non aveva funzionato. Ad ogni modo sorrise alla ragazza.
"Senti, Annabelle" sussurrò avvicinandosi al suo orecchio.
"Bleah, il mio nome non mi piace. Chiamami Anna, per favore" la supplicò.
"A me piace molto invece, tesoro." Le prese le mani e la guardò intensamente negli occhi. "Ascoltami, se vuoi ti faccio un autografo ma tu devi promettermi una cosa e sono seria, serissima."
Calcò su quell'ultima parola per farle capire che non si trattava di uno scherzo o di una promessa scontata.
Annabelle perse subito il sorriso e i suoi occhi castani si spensero un poco.
"O-okay" balbettò.
"Non voglio spaventarti, cara, e sono felicissima che tu sia una mia fan; ma ti chiedo di promettermi di non dire a nessuno che mi hai vista qui, d'accordo? Per favore! Sono venuta a trascorrere un'ora tranquilla con la mia famiglia e vorrei che i paparazzi non mi assalissero come loro solito. Abbiamo bisogno di un po' di calma, capisci?"
"Sì, comprendo benissimo" rispose. "Te lo prometto, Demetria. Se me lo chiedi con tanta insistenza non lo racconterò a nessuno, te lo posso assicurare."
La cantante decise di crederle e le scrisse un autografo che diceva:
A te che hai uno dei nomi più dolci del mondo. Ti voglio bene, Demi.
Poi si fecero una foto insieme e Mackenzie le si avvicinò.
Posso chiederti una cosa?
"Certo, piccola!"
Come si chiama il tuo cavallo?
"Non è mio ma del ranch. Purtroppo non ho tutti i soldi che servono per comprarlo, anche se lo vorrei tanto. Comunque si chiama Kurk e, anche se è molto grande, non devi averne paura. È buonissimo. Lo vuoi accarezzare?"
Posso?
"Sì. Aspetta un attimo."
Annabelle si allontanò per un momento, così Brian poté parlare.
"Mi spiace, Demi. Oggi le lezioni finivano alle 17:30 proprio perché il ranch fosse vuoto per voi, perché non foste disturbati."
"Non importa."
"Mi ero inventato una scusa stupida, di solito i corsi finiscono alle 20:00. Comunque vi potete fidare di Anna. È una ragazza molto matura. Ha sofferto tanto, sapete."
"Che le è successo?" domandò Andrew abbassando ancora di più la voce e Demi si avvicinò a loro per sentire meglio.
"Tre anni fa stava tornando a casa da scuola e c'è stato un tragico incidente. Lei era in motorino e una macchina le è andata addosso. Vi risparmio tutti i dettagli su avvocati, processo ecc., vi basti sapere che è stata in coma per due settimane e si è rotta un braccio e una gamba, ma più di tutto…" Brian trasse un profondo respiro prima di continuare. "Ecco, quando si è svegliata non sentiva le gambe."
"Non mi starai dicendo che…"
"Purtroppo sì, Demetria, è finita su una sedia a rotelle."
“Santo cielo!”
Deglutì. Lei sarebbe impazzita se non avesse più potuto camminare. Per un momento, tutto ciò che aveva passato le sembrò una cosa tanto insignificante in confronto a quel che Anna doveva aver sopportato che quasi si vergognò di essere stata male, ma poi si ripeté - come faceva sempre -, che era inutile fare confronti.
"Vedo che continui a parlare di me, eh vecchio mio? Devo mancarti proprio tanto, quando non ci sono!"
Annabelle era tornata e il fatto che Brian avesse iniziato a raccontare la sua storia non pareva averla turbata né infastidita. Per quel che Demi ed Andrew avevano capito, sorrideva sempre.
"Eh già, mi manca la tua allegria! Comunque, vuoi finire tu di raccontare la tua storia?"
"Solo se te la senti, cara. Immagino sia molto difficile per te."
La ragazza sospirò e i suoi occhi si velarono di pianto.
"Molto, ma non mi dà fastidio parlarne, né che altri lo facciano. Se parlare di ciò che mi è successo può aiutare qualcuno, ne sono felice. Comunque, essere paralizzata è stato orribile. Era brutto anche solo pensare che per fare una cosa semplicissima come andare al bagno mi serviva aiuto."
"Brian, perché non porti le bambine a vedere i cavalli?" propose Demetria, che vedeva che Mac iniziava a rattristarsi.
Avrei dovuto dirlo prima. A volte mi sento stupida anche se sono una madre. Insomma, ormai dovrei capire certe cose si rimproverò mentalmente.
"Sì, venite tesori."
"Mackenzie" la richiamò Annabelle. "Non ti preoccupare, ora sto bene. Sono in piedi, vedi?"
La piccola le sorrise e poi seguì l'uomo anziano, che aveva già preso Hope in braccio.
"Grazie di averla rassicurata, cara."
"Figurati! Comunque c'era una lesione midollare lombare, così diceva il referto. Sono stata operata, ho fatto riabilitazione e una notte, mentre stavo svolgendo un po' degli esercizi che mi aveva insegnato il fisioterapista perché non riuscivo a dormire, è successo. Mi sono alzata in piedi e ho mosso qualche passo." Sorrise. "Ho usato le stampelle per un bel po' e ho continuato fisioterapia, ma poi non ne ho avuto più bisogno. Ho passato più di un anno di inferno ma ce l'ho fatta."
"Ti ammiro" le disse Andrew.
"Sei molto forte!" esclamò Demi ed entrambi la abbracciarono.
"Vi ringrazio, ma ho fatto solo ciò che dovevo. Ho iniziato equitazione l'anno scorso perché pensavo mi avrebbe fatto bene e infatti è stato così."
Aprì il box e fece uscire Kurk, poi gli attaccò la capezza e la longia e, tenendolo grazie a quest'ultima, richiamò Brian. Mackenzie poté così accarezzare il cavallo. Arrivava a sfiorargli solo la pancia tanto era grande. Ringraziò Annabelle la quale diede al suo Kurk una mela che aveva preso poco prima e lui ne mangiò metà in un solo boccone e l'altra in un secondo.
Sembra che gli piaccia commentò la bambina.
"Eh già. Gliene do sempre una come premio, se fa il bravo. Vero Kurk?"
Il cavallo nitrì forte come se avesse capito. “Ora gliene diamo una insieme, d’accordo tesoro?”
Mac sorrise e la ragazza la sollevò in alto, poi le passò la mela e Kurk la mangiò più che volentieri. La ragazza lo rimise nel suo box dicendogli che sarebbe venuta a trovarlo il giorno dopo e che avrebbero cavalcato insieme, dopodiché salutò Demi. Andrew, Mackenzie e Hope con baci e abbracci, li ringraziò infinite volte, rinnovò la promessa fatta e se ne andò.
Brian li portò in fondo alla scuderia, accanto a due box più piccoli degli altri.
"Cavalli?" chiese Hope.
Non ne vedeva nessuno.
Demi le sorrise. Aveva avuto molti dubbi prima di portarle lì, temendo che soprattutto la sua bimba più piccola si sarebbe spaventata nel vedere animali tanto grandi. A casa guardava "Pippi calze lunghe" e in qualche scena c'erano dei cavalli. Hope li osservava come rapita, ma guardare uno schermo è una cosa e vederli dal vivo un'altra. La bambina non aveva affatto paura di quegli animali così grandi. Anche quando Annabelle aveva tirato fuori Kurk lei si era limitata ad osservarlo e a sorridere e questo aveva stupito non poco entrambi i genitori.
"I cavalli ci sono, piccola, guarda" disse Brian.
Hope si abbassò e vide che ce n'erano due, ma minuscoli rispetto a quelli che aveva visto prima.
"Piccoli!" esclamò.
"Eh sì, hai ragione." Si rivolse a tutti: "Queste due si chiamano Luna e Yumi, sono dei mini pony e servono per le lezioni di equitazione per i bambini di quattro anni, l'età minima in cui si può iniziare a cavalcare in questo ranch."
Luna e Yumi erano una bianca e una nera, arrivavano alla coscia di Demi e non erano più grosse di un cane.
"Sono adulte?" domandò Andrew.
Gli pareva così strano che lo fossero.
"Sì" rispose Brian sorridendo. "Ora ne faccio uscire una così le bambine potranno accarezzarla. Vieni Luna" la chiamò dopo averle aperto.
La cavallina venne fuori tutta contenta, senza farsi tanto pregare. L'uomo le mise la longia per sicurezza.
Le bambine la accarezzarono e poi fu il turno di Andrew e Demi. La cavalla li annusò tutti mentre si guardava con curiosità. Aveva le orecchie abbassate, segno che era tranquilla. Il suo pelo era così soffice.
Sembra una coperta disse Mackenzie. È bellissima.
"Se vuoi puoi salirci, tesoro, ma ti dovrò dare un pony un pochino più grande. Te la senti?"
"E io?" chiese Hope, gelosa.
Perché la sorella poteva e lei no?
"Sei troppo piccola, cara, ma tra un paio d'anni ti farò montare. Te lo prometto."
"Uffa!"
Demetria ringraziò il cielo che Hope non potesse salire. Era troppo piccola e, anche se la cavallina sembrava tranquilla, avrebbe comunque avuto paura nel veder montare sua figlia. Non voleva impedirle di fare un'esperienza, per carità. Se Brian avesse dato l’okay l'avrebbe fatta salire nonostante la sua ansia.
Comunque grazie ma no, non me la sento  rispose Mackenzie. Non ho paura, ma preferisco stare qui ad accarezzarla piuttosto che montare.
I genitori non insistettero.
"D'accordo" rispose Brian. “Ora vi faccio vedere una cosa."
Portò alcune spazzole e disse che una, dalla forma tondeggiante, era per la criniera, mentre un'altra più piatta per il corpo e la coda. Mac non credeva ne esistessero di diversi tipi. Stava imparando un sacco di cose quel pomeriggio.
Come si spazzola un cavallo? domandò.
"Facciamolo con Luna, così potrete riuscirci entrambe. Guardate, pettinate la criniera così, dall'alto verso il basso, mentre il corpo in questo modo, facendo dei piccoli cerchi sul pelo della cavalla in maniera da togliere tutto lo sporco, mentre per la coda vale la stessa cosa che per la criniera."
Mackenzie volle provare e, dopo qualche momento di esitazione, si sentì più sicura e fu molto brava. Anche Hope ci riuscì abbastanza bene. Ovviamente gli adulti erano sempre vicini a loro nel caso fosse accaduto qualcosa, ma Luna era più che tranquilla e anzi, aveva abbassato la testa e socchiuso gli occhi. Si stava quasi addormentando.
"Se volete posso farvi conoscere gli altri cani" propose Brian dopo aver rimesso la cavallina nel box e le bambine ne furono entusiaste.
Demi ed Andrew, però, decisero di rimanere lì.
"Vorrei cavalcare un po'" disse la ragazza a Brian.
"D'accordo, ma stai nel prato okay? Non voglio che tu ti faccia male. Ti farei andare nel campo di dressage ma è occupato, ho visto che ci sono altri ragazzi. Evidentemente il mio avvertimento non è stato compreso appieno" sospirò.
"Va bene, tranquillo."
"Ti ricordi come si fa? Sono passati tanti anni!"
"Sì, i comandi di base me li ricordo benissimo. Che cavallo posso usare?"
"Prendi Tornado, quello all'inizio della scuderia e dai ad Andrew Oliver, quello nel box accanto, se vuole montare anche lui. Io starò qui mentre salirete nel caso aveste bisogno."
"La scala?"
"Ora te la porto."
Tornò subito con una scala a tre pioli e la mise poco distante dai box dei due cavalli, consigliando ai ragazzi di provare a salirci, prima, per vedere se era stabile. I due obbedirono e capirono che non traballava.
Tornado e Oliver erano uno marrone e l’altro nero. Venivano definiti “doppio pony”, cioè pony un po' più alti di quelli che si vedono di solito. Erano più o meno un metro e settanta, un po' più alti di Demi.
"Ciao, Tornado!" esclamò la ragazza.
Questi nitrì forte e poi cominciò a strusciare la sua testa su di lei.
"Sì sì, adesso ti sistemo e poi facciamo una passeggiata, d'accordo?"
Con un po' di difficoltà portò fuori Tornado e, dopo avergli ripulito il corpo, la criniera, la coda e gli zoccoli da sabbia e polvere, aiutò Andrew a fare lo stesso con il proprio.
“Questa cos’è?” chiese l’uomo, indicando una cintura di cuoio con un gancio e un moschettone che la fidanzata gli aveva appena passato, prendendola da un tavolo in cui si trovavano quello e altri oggetti.
“Si chiama capezza, l’ha usata prima Annabelle. Va messa attorno al muso del cavallo. Questa invece” disse dandogli una corda lunga circa due metri “è la longia, o longhina. Bisogna attaccarla al moschettone della capezza e tirare in avanti. In questo modo il collo del cavallo si fletterà in quella direzione e capirà che deve avanzare. Si porta fuori così, come ho fatto io. Coraggio, prova.”
Demi intanto aveva legato il cavallo ad un albero che si trovava vicino alla scuderia in modo che non cominciasse a correre.
Andrew ci mise un po’ per fare tutto. All’inizio non comprese bene, confondendo la capezza con la longia e la sua ragazza dovette rispiegarglielo, ma alla fine tirò la corda e il cavallo si mosse.
“Wow, bravo amico, vai così” lo incitò mentre lo portava fuori.
Quando uscirono dalla scuderia Andrew tenne la longia con una mano e con l’altra iniziò ad accarezzare il muso di Oliver.
Entrambi lasciarono che i cavalli li annusassero e si strusciassero contro di loro, poi la ragazza mise la sella al suo cavallo.
“Potresti sellarlo per me, per favore?” domandò Andrew.
Non era sicuro di riuscire a stringere bene la sella e non voleva cadere.
“Ecco fatto.”
Anche se non faceva equitazione da diciassette anni Demi era svelta e se ne stupì. Evidentemente le era piaciuto così tanto che non aveva dimenticato quasi niente.
“E adesso?”
“Montiamo.”
“Aspetta, sono totalmente ignorante ma… non ci vorrebbero le redini? E lasciamo la longia appesa così?”
“Sali e poi ti spiego.”
“Quindi dobbiamo  farlo usando la scala, giusto?”
“Si potrebbe anche mettere il piede nella staffa e darsi lo slancio, ma io non l’ho mai fatto e infatti non ho nemmeno messo le staffe, come vedi. Saliamo i gradini e teniamoci alla sella del cavallo, poi passiamo la gamba sinistra dall’altra parte e ci issiamo su. Andiamo pure piano, non c’è fretta.”
La ragazza salì agilmente, mentre Andrew rischiò di scivolare un paio di volte e prese un bello spavento quando il cavallo si mosse, ma bastò fargli una carezza sul muso perché si fermasse.
“Bene, e ora?”
“Arrotola la longia nelle tue mani, non tutta ma la maggior parte; poi prova a colpire i fianchi del cavallo usando le gambe e tienile sempre attaccate al suo corpo. Stringile attorno a lui, non gli fai male. Oliver capirà che gli stai chiedendo di avanzare e lo farà.” Glielo mostrò e Andrew la imitò. Entrambi i cavalli si mossero un pochino. “Brian nnon mi ha mai fatto usare le redini quando non sapevo ancora cavalcare bene. Ho utilizzato la longia. Ora che ce l’hai lì in mano, se la muoverai a destra o a sinistra e girerai un po’ il corpo Oliver andrà in quella direzione, mentre per fermarti tira forte la corda verso di te. Tutto chiaro?”
“Più o meno.”
Le informazioni da assorbire erano davvero tantissime, ma Demi era stata brava a spiegargli tutto e Andrew si complimentò con lei mentre Brian le faceva il segno di okay con la mano. Dopodiché i ragazzi colpirono ancora i fianchi degli animali e partirono. Andare a cavallo era meraviglioso. Quando si muoveva sembrava di stare in giostra, un’altalena che ondeggiava piano e in maniera costante. Andrew rese partecipe la sua ragazza dei propri pensieri.
“Bello!” rispose lei. “Per me invece questo movimento somiglia più alle onde del mare che vanno su e giù, avanti e indietro; e poi il rumore degli zoccoli trasmette sicurezza.”
“Hai ragione.”
Stavano attraversando un viale asfaltato che si dirigeva verso i prati, fiancheggiato da alberi, i cui rami frinivano sotto il vento fresco.
“Che pace!” esclamò Andrew.
"Sì, è vero. Ora lo faccio stancare un po’, tu rimani qui.”
“Okay.”
“Voliamo, Tornado, vai!"
Demi lo lanciò al trotto e poi al galoppo. Non aveva paura, anzi, più Tornado andava veloce più lei sorrideva e si sentiva libera e leggera. Le sembrava di volare mentre il vento le colpiva il viso e il cavallo sfrecciava a più non posso. In quel momento provò una sensazione stranissima. Era come ritornare indietro, a centinaia di migliaia di anni prima, quando in America c'erano ancora le tribù indiane che galoppavano in immense praterie. Era una sensazione di libertà incredibile, difficile da capire per chi non la prova, ma meravigliosa, che Demetria non aveva sentito molte volte nella propria vita. Era qualcosa di unico e la rendeva felice. Mano a mano che il cavalo accelerava, lo faceva anche il battito del suo cuore. Stava sorridendo come un’ebete, era cosciente anche di questo.
Andrew la guardava da lontano e sorrideva. La sua ragazza era bravissima. Mentre la osservava, accarezzava il collo e la schiena di Oliver e lo grattava. Questi si rilassava sotto il suo tocco. Demi tornò indietro, si affiancò a lui ed iniziarono a camminare di nuovo, l'uno accanto all'altra, con i cavalli che ogni tanto si guardavano e mandavano leggeri sbuffi, ma sembravano andare d'accordo. Chissà, forse erano amici, pensò la ragazza.
Quel viale alberato sembrava non finire mai, ma alla fine giunsero in un prato.
“Ehilà, ragazzi!”
Era Brian con Mackenzie e Hope. I genitori le salutarono con la mano.
“Che ci fate qui?” domandò Andrew.
“Vi stavamo cercando. Le ho portate un po’ in giro, ma credo che vogliano raccontarvelo loro. Volete scendere? Vi ho portato una scala.”
Rifletterono per un momento. Si trovavano in un prato molto grande, si stava benissimo ed erano stanchi. C’era anche un laghetto lì vicino e alcuni cigni erano in acqua mentre altri stavano volando. Videro anche oche e anatre. Era un posto molto bello e tranquillo.
“Perché no?” Detto questo Demi scese da cavallo e si sgranchì le gambe. "Oh mamma, fa male cavalcare dopo così tanto tempo! Stasera e domani avrò dei dolori tremendi."
"Sì, a chi lo dici!" esclamò il fidanzato, imitandola.
Ognuno dei due legò i cavalli ad un albero e loro cominciarono a nitrire.
Tutti si guardarono intorno. Il tempo era cambiato. Il cielo era grigio e il vento soffiava, violento, facendo piegare i rami più fini degli alberi e cadere molte foglie. Quando passava tra le fronde sembrava ululare come un lupo che, nelle alte montagne, grida nella notte più scura perché ha fame. Pensandoci Demi tremò ed il suo fidanzato, accorgendosene, sussurrò:
"Tu hai freddo."
Era un'affermazione, non una domanda, pronunciata con quella dolcezza che lei tanto amava.
"No, stavo solo pensando ad una cosa."
"Credo sia meglio che tu ti copra un po'. Aspetta."
Si sfilò il cappotto e glielo porse.
"Ma tu così…"
"Non fare storie. Infilatelo e basta, io starò bene."
Lei obbedì. Gli si avvicinò,, lo abbracciò e posò le sue labbra su quelle di lui, dimenticandosi per un momento della presenza delle bambine. Brian le aveva portate verso il laghetto e stava dicendo loro qualcosa a proposito del fatto che avrebbero potuto dar da mangiare alle ochette. I due fidanzati si baciarono prima con dolcezza e subito dopo con maggior ardore finché, come accadeva ogni volta che lo facevano, si sentirono una cosa sola, un corpo solo, un'anima sola.
"Ti amo" gli sussurrò, sorridendo.
"Anch'io ti amo!"
Il freddo che c'era lì fuori contrastava con le loro anime, piene del fuoco, vivo e intenso, del vero amore.
“Mamma, guarda!” gridò Hope interrompendoli.
Si staccarono subito.
“Dimmi.”
“Pane per loro” disse. Brian le aveva dato una pagnotta e lei corse a gettarne le briciole nel lago, mentre alcune oche e un cigno si abbassavano a beccare felici. “Sì!” esclamò la bambina tutta contenta, mentre Mackenzie nutriva gli animali a sua volta.
“State un po’ lontane dall’acqua, almeno cinque passi” le redarguì la mamma. “Così, brave. Attente, okay?”
“Si stanno divertendo moltissimo, oggi. Avete fatto bene a portarle qui” constatò Brian.
Gli adulti si erano avvicinati alle piccole e le tenevano d’occhio.
“Già, è stato un bel pomeriggio” confermò Andrew.
“Purtroppo tra poco dovremo rientrare. Il tempo è brutto, anche se sarà difficile portarle via.” Demi rise. Era felice di vedere le sue piccole così spensierate. “Giuro che torneremo presto. Questo posto è fantastico!”
Abbiamo visto altri cani, sai mamma? Ce n’è una che si chiama Sweetie ed è dolcissima, proprio come il suo nome scrisse Mackenzie.
“Che bella cosa! E poi che avete fatto?”
Siamo andati nella fattoria qui vicino. C’erano due asinelli e delle galline.
“Oh, wow!”
“Si trova al di là di questi prati” disse Brian indicando un punto indefinito.
“Hope, allontanati subito” le ordinò il padre.
Era troppo vicina all’acqua. Rideva mentre lanciava le ultime briciole e sentiva i versi delle oche. Le salutava con la manina. Mentre la guardavano, tutti si sentivano sciogliere il cuore.
“Okay, ma po…”
Nessuno capì cosa accadde in quella frazione di secondo. Fu tutto così veloce! La piccola fece alcuni passi indietro, ma perse l’equilibrio. Demi si avvicinò e allungò le braccia per afferrarla e la sfiorò. La stessa cosa fecero gli altri, ma non furono abbastanza svelti. L’rulo che seguì ruppe il silenzio.
“Mammaaaaaa!”
Poi Hope finì sott’acqua e non capì più niente. Fuori tutti si sentirono, per un istante, impotenti. E non udirono nulla.
 
 
 
credits:
Danny Gookey, Hope In Front Of Me
 
 
passaggio tratto dal libro “Il linguaggio segreto dei fiori” di Vanessa Diffembaugh, scrittrice e madre adottiva
 
 
 
NOTE:
1. tempo fa avevo scritto di aver cambiato farmaco ad Andrew, parlando del Litio e non dello Zoloft. Ho iniziato a prendere il Litio a dicembre del 2019. Ripeto: l'ho fatto perché lo Zoloft provoca mal di testa com'è successo a me, quindi non volevo che l'uomo soffrisse ancora di più.
Nel foglietto illustrativo non ci sono scritti gli effetti da sospensione da Litio. Viene solo detto che non ce ne sono di particolari. Quelli che ho riportato sono stati i miei nel momento in cui, un giorno, mi sono dimenticata di prenderlo. E vale lo stesso per quelli che ha avuto Andrew quando ha iniziato ad assumerlo, anche se ho letto che altre persone si sono sentite così e comunque sono scritti nel foglio illustrativo.
2. Io ho fatto riabilitazione equestre per un anno e mezzo circa e anche un po’ di dressage. So cosa sono, ma per dare delle definizioni più precise ho deciso di affidarmi a Wikipedia. So che per alcuni versi non è una fonte affidabile, ma le definizioni che ho trovato sono corrette, quindi ho scelto di riportarle in modo da far capire meglio.  
La riabilitazione equestre (in inglese Therapeutic Riding, da cui la sigla TR) è un tipo di riabilitazione che utilizza come mezzo terapeutico il cavallo.
Per quanto di recente introduzione rappresenta già un'importante risorsa sul piano riabilitativo, rieducativo e di integrazione sociale per i soggetti con disabilità, anche laddove non sembrano esserci più risorse consentendo talora il riavvio del processo riabilitativo[1][2][3]. Si applica a soggetti con disabilità neuromotoria, psichica, cognitiva; può rappresentare un valido strumento rieducativo anche per soggetti con disagio sociale, tossicodipendenti, ecc. Richiede centri adeguatamente attrezzati, metodologia di applicazione rigorosa e una équipe di professionisti con preparazione specifica, coerente con la qualifica rivestita all'interno dell'équipe.
L'ippoterapia non è sinonimo di riabilitazione equestre ma è una delle discipline che la compongono.
 
Il dressage (dal francese: raddrizzamento/addestramento) è una disciplina equestre che viene anche chiamata gara di addestramento, in quanto cavallo e cavaliere eseguono movimenti prevalentemente geometrici (detti arie) su un campo di forma rettangolare di dimensioni 20x40 metri per le gare di basso livello e 20x60 in quelle di livello medio alto.
  3. I nomi dei cavalli sono veri, c’erano nel mio maneggio. Io ho cavalcato sia Tornado sia Oliver e anche i loro comportamenti sono gli stessi di quelli della storia. Kurk invece è il cavallo di mia cugina e ho conosciuto Luna un pomeriggio. L’ho vista solo una volta e posso assicurare che è stupenda. Non ho mai conosciuto Yumi. Non ricordo però se i colori di questi cavalli sono gli stessi della FanFiction, ma non importa. Anche il termine dell’orario delle lezioni è reale, io però finivo alle 18:00 o alle 19:00.
                              4. Il laghetto non c’era nel maneggio dove andavo, ma fuori Los Angeles ci sono piccoli laghi e boschi. Non sapevo se aggiungere l’ultima scena oppure no e affrontare le sue conseguenze nel prossimo capitolo, ma mentre stavo ancora scrivendo, una notte, ho sognato che accadeva proprio questo e quindi mi sono detta che era un segno e che dovevo assolutamente metterla.
Mi sono informata riguardo la temperatura dei laghi in California a novembre. Si aggira intorno ai sedici o diciassette gradi, mentre quella dell'aria varia dai venti ai venticinque, anche se grazie al vento Santa Ana, secco e caldo, può salire durante il giorno. Quindi Hope è caduta in acque freddine e dato che il suo corpo è piccolo disperde calore molto prima rispetto a quello di un adulto. Ovviamente rischia l'annegamento.  
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ciao ragazze, sono tornata!
Allora, innanzitutto il capitolo è dedicato ad Emmastory che mi ha suggerito il nome Brian e ha detto che l’idea delle bambine inun ranch era bellissima.
Se non ho fatto salire Mackenzie sul pony è perché so che i bimbi della sua età non usano la sella ma una cosa particolare che se non sbaglio si chiama fascione, ma non conoscendolo e non avendo trovato informazioni a riguardo ho preferito non scrivere cavolate.
Come avete potuto vedere ho diviso il capitolo in due parti: una su Bill e una sugli altri e la cosa è assolutamente voluta. Non mi andava di fare come l’altra volta in cui avevo messo un pezzo riguardante Bill, poi un altro con altri personaggi e poi di nuovo con lui. Qui volevo che le varie situazioni si risolvessero o svolgessero con una separazione più netta, non so se mi spiego.
Poi… spero di aver fatto capire che le bambine si sono divertite molto al ranch. È vero che Brian ha parlato moltissimo (come spesso fanno gli anziani) e che la storia di Annabelle è sicuramente drammatica, ma mi auguro che si sia compreso che alle piccole questa gita è piaciuta. Non vorrei aver fatto parlare troppo Brian e aver dato troppo poco spazio alle bambine. Non so, voi che ne dite? Ho questo dubbio e vi prego aiutatemi a capire se devo aggiungere qualcosa perché il non saperlo mi fa star male. *Inserire qui faccina disperata e dubbiosa*
Vi aspettavate che Andrew avesse smesso di prendere i farmaci? E Hope si salverà? E se sì, starà bene o si ammalerà? Voglio dire, ha fatto il vaccino mesi prima ma l’acqua del lago è un po' freddina e comunque, come ho già detto, rischia di annegare…
E niente, fatemi sapere cosa ne pensate e se avete consigli, sarò felice di ascoltarli e anche di seguirli.
A presto.
P.S.: mi scuso per aver riportato il finale del libro, soprattutto con chi magari lo sta leggendo. Forse non è stata una grande idea, ma volevo descrivere le emozioni di Demi in quel momento. Mi spiace davvero, perdonatemi! In ogni caso vi consiglio di leggerlo. L’opinione che ha Demi è la mia e vi assicuro che è un romanzo fantastico.
   
 
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