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Autore: lillabulleryu    06/05/2018    2 recensioni
Lance McKlain ha un sogno: diventare un famoso attore di teatro! Una possibilità interessante sembra presentarglisi, ma dovrà collaborare con Keith Kogane, pianista hipster patito di jazz e caffè...
(Come molti potranno perspicacemente notare, la fanfic è ispiramente liberata al quasi omonimo film La La Land. Quello che si sono sbagliati a darci l’Oscar come miglior film, per intenderci. Che ne ha comunque vinti un casino, era candidato per almeno quattordici.
Non contiene: tip tap, citazioni di musical d’epoca, Frédéric Chopin, attrici che diventano famose e parlano francese per fare più le fighe, glutine
Contiene: snobismo, parolacce, frutta a guscio, jazz, tai chi, cose inventate, cose non inventate, glutine
Potrebbe contenere tracce di Franz Liszt e nicotina.)
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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È vero, sì, è successo,  
non vorrei, però persisto 
Ma finché io fiato avrò

Il mio cuore salperà!
Quanto mondo ancor non visto
Sparso in tutto il vasto Oceano!
Si fa polvere il ricordo
della Terra mia petrosa
Se mi vengono a cercare,
In gabbiano vo’ mutare!

 
- No, non di nuovo!!!
Lance strillò d’orrore.
Agognava la strofa successiva con tutte le sue forze, ma gli accordi ricominciarono, implacabili.
Da capo.
Per la settima volta.
- Mi esce da ogni orifizio! Basta!
Le mani di Keith piombarono sulla tastiera. Il rimbombo tanto cacofonico quanto esasperato annunciava l’imminente esaurimento della sua pazienza.
- Credi che io mi diverta?! – i suoi occhi si strinsero in due velenose fessure, - Sbagli sempre le stesse note, comincio a chiedermi che tu non sia sordo!
- Se vuoi andare a casa, vai! – Lance non si fece intimorire né dal veleno, né dalla provocazione. Era pronto a ricambiare tutto con altrettanto livore. - Tanto meglio! Chi ti ha chiesto di rimanere?!
- Shiro mi ha chiesto di rimanere perché il tuo primo pezzo musicale è una pena. E io non intendo deluderlo.Keith calcò ferocemente sulle parole un’asciutta enfasi. – Se non sei all’altezza dell’impegno che ti sei preso, dovevi pensarci prima!
Lance rovesciò lo sguardo al soffitto, sbuffando come un mantice.
- Solo perché non riesco a memorizzare il motivetto che tu hai scritto, non significa che la colpa sia mia! Questa roba è una porcheria!
- Shiro lo ha approvato. Vedi di fartene una ragione!
- ... Shiro ha dei gusti che non capisco.
- Se avessi letto i libri, forse, ci riusciresti...
Un sorriso scintillò sinistro sul viso di Keith mentre rigirava malignamente il coltello nella piaga; Lance digrignò i denti.
- Li sto leggendo!
Come un boccone di tabacco cattivo, sputò un insulto in spagnolo; la musica lo coprì, ricominciando con ostentata allegria. 
L’attore strinse i pugni ed espirò, nel tentativo di liberarsi dall’orticaria dell’odio.
Il quadrante dell’orologio a muro segnava le dieci e venti: un’ora e un quarto di prove musicali e fetore umano di Keith in endovena. Nessuno del gruppo che fosse rimasto a incoraggiarlo o a smorzare l’insopportabile vicinanza dell’arci-nemico.
Sembravano passati lustri. Nemmeno gli ebrei in Egitto se la passavano così male.
Improvvisando malamente sulla metrica, riprese a cantare in un eccesso di vigore: - È vero, sì è successo, Provo con un tipo abbietto/ Notte tarda, sì lo so, / Ma di scelte non ne ho / Shiro Shiro, blablabla/ Keith ancora romperà/ se l'ha detto lui va bene / ripetiamo tutto insieme! 
Keith interruppe l'esecuzione pestando di nuovo un chiasso di note.
- La pianti di fare il cretino?!
- O mi dai una pausa o te la canto tutta così!
- E fatti la tua pausa!
Al culmine dell’esasperazione, Keith sbottò. Si spinse indietro sulla sedia con uno scatto nervoso. Fissò i tasti per meno di un minuto, prima di tornare a toccarli. Ne fece uscire qualche accordo distratto, finché non ritrovò quelli di una vecchia canzone. Iniziò a ripeterla, la rallentò; la variazione gli scorse tra le dita prima ancora di averla pensata e ci si abbandonò. Le sue spalle subito si rilassarono e la sua postura più morbida.  
- E questo che sarebbe?
- John Coltrane.
Lance storse naso e bocca, ma rimase in ascolto.
- È per lo spettacolo?
- È per i miei nervi e le mie orecchie, dopo tanto strazio.
- A me quello che suoni pare uno strazio.
Keith ridacchiò. La linea delle sue labbra si arricciò in una smorfia acida, come se si stesse sforzando di reprimere il disgusto di un morso al limone. L’incedere sui tasti si fece più lento e ampio, distendendosi in accordi languidi.
- Beh, sarei rimasto sorpreso del contrario. – il suo sorriso si accentuò, senza guardarlo. – Figuriamoci se potevi apprezzare il jazz.
- Ah, oh, capisco… è jaaassssssssssss. – la voce di Lance si sforzò in uno strascico lunghissimo di sibilanti sonore, come se imitasse il ronzio di una mosca. Si spense solo quando ebbe finito il fiato; Keith riuscì a ignorarlo a fatica. Attaccò subito con la domanda che sorse più immediata: - Sul serio a Shiro piace questa litania?!
- Shiro di musica ne capisce. – fu la laconica risposta del pianista; glissò sulla tastiera e si prese una pausa di due battiti, prima di attaccare il ritornello della canzone.
Per almeno un minuto, fu unico e indisturbato sovrano sonoro della stanza. Lo rimase finché Lance non si decise a riscuotersi dall’ascolto passivo.
-  … vi conoscete da tanto?
Keith non rispose immediatamente; quando le dita tornarono in una posizione più confortevole, sembrò realizzare il senso della domanda che gli era stata posta.
- Abbastanza.
- Da prima che tornasse in Svezia e si ritirasse dalla scena?
- Che te ne frega? Non ti farebbe nessuna differenza saperlo.
- Sto cercando di fare conversazione!
- No, stai cercando di impicciarti. – gli lanciò di sottecchi un’occhiata giudicante, ma divertita. - Che figura di merda, l’altra sera.
Il volto di Lance divenne rosso cremisi; strabuzzò gli occhi e l’indignazione gli fece gonfiare il petto. Sollevò un indice e lo rivolse minaccioso a un soffio dal naso dell’altro.
- Se–senti, Keith-Vaffanculo-Kogane, mi sono già scusato! Smettila di fare il saputello perché credi di essere Louis Armstrong!
Keith si interruppe bruscamente, inorridito e sdegnato.
- Armstrong era un trombettista, stupido ignorante!
- Lo so benissimo chi era!
- Non parlare di cose che non conosci!
- Io parlo di quel cacchio che mi pare! Non sei nessuno per vietarmi di avere un’opinione su musica noiosa, con tutto quel casino inascoltabile di diesis, bemolli e beduri!
Keith spinse indietro la sedia facendo più rumore possibile. Scattò in piedi e spense la tastiera, scuro in volto.
- Ne ho abbastanza delle tue cazzate. – dichiarò.
Raccolse appunti e borsa; non perse tempo nemmeno per riporli e si avviò verso la porta. Ignorò i commenti di Lance e, deliberatamente, vi parlò sopra:
- Per oggi la finiamo qua. Ripeti quello che abbiamo fatto e vedi di fare meno schifo la prossima volta.
Solo un istante prima di uscire si fermò e si volse indietro.
- E, per la cronaca, - aggiunse, - Sidney Bechet ha sparato a uno che gli aveva detto di avere sbagliato una nota. Non la definirei “musica noiosa”.
E se ne andò, sbattendo la porta.

Un fisarmonicista suonava Libertango all’angolo della strada.
Il lampione illuminava il profilo appuntito, chino sullo strumento, i radi capelli castani, la sagoma grigio-blu di un grosso murales informe che troneggiava alle sue spalle.
Bastavano le sue mani a interpretare il ruolo dell’orchestra: sospinte dal vortice seducente del ritmo, plasmavano la musica come una compagna di ballo.
Keith restò a guardarlo. Un uomo senza nome gli narrava una storia appassionata, un parossismo di desideri cocenti e inespressi; i palpiti di una terra arida, assolata, irraggiungibile.
In lui riconobbe un fratello.
Tutto quello che aveva in tasca era una moneta da cinquanta centesimi e gliela lasciò.
La musica è l’unica cosa vera che riempie il mondo.
La musica trascende barriere, lingua, logica.
Il jazz ne ha fatto dialogo puro.
Cristo è nato in una mangiatoia di Betlemme e il canto più sublime dell’uomo moderno è nato in una stamberga di New Orleans, trionfando sul caos di Babele.
Thace era un uomo devoto: la musica era un tutt’uno con la sua fede. Per lui era usuale paragonarla alla Bibbia. Era il suo modo di pregare.
Dopo avere suonato per ore, spesso si riposava rimanendo seduto al piano, le mani sulle ginocchia, perdendosi nella contemplazione delle righe dello spartito.
Nella memoria di Keith, quell’immagine del suo maestro era satura di colori e dell’odore della stanza.
Per ironia, ricordava meglio il silenzio, riverberante di tutte le note svanite. La polvere che volteggiava lenta alla luce del sole, salutando la finestra socchiusa.
Da quando era morto, il mondo sembrava essersi svuotato di senso e bellezza.
Era sempre più faticoso ritrovarli: rare gocce di bellezza casuale, troppo pure per mischiarsi al fango, ma troppo esigue per dare pace.
Per le strade affollate della città, nei grandi magazzini, alle fermate del tram, tra i locali notturni, sgomitava tra la sterilità del materialismo e dei luoghi comuni.
L’uomo che passa ha risate che sono ragli, sbadigli da bue. Gli starnazzi del suo piacere sono banalità. Si ciba della spazzatura delle ovvietà. Domina il pieno ripieno di niente. L’abbondanza sintetica del superfluo. La musica onnipresente ricopre le pareti del mondo come carta da parati.
Svuotateci qualunque cosa di animo, perché sennò non si capisce che cosa sia.
Keith non avrebbe ceduto a quel ricatto. Non pretendeva di cambiare le regole, ma non intendeva rispettarle: non si sarebbe piegato a un’era desolante o al chiasso del vuoto.
Keith resisteva per il Jazz, per l’anima dell’Arte.  
Keith odiava il mondo e si compiaceva all’idea di essere ricambiato.


Lo strato di polvere sulla vetrina dello Yazoo era tale da far sembrare l’interno avvolto in una nebbia giallastra. Qualcuno dovrebbe pulirla, pensò Keith distrattamente. Mille altre volte aveva ripetuto queste parole, e forse altre mille le aveva sentite dire da altri.
Let’s jazz we’re open, diceva il cartello sbiadito e arricciato, appeso all’ingresso. Abbassò in automatico la maniglia scrostata; la porta cigolò e si richiuse alle sue spalle.
Lo accolse un familiare odore di vecchio cedro, di tabacco e caffè. Accarezzò con lo sguardo la carta da parati ingiallita, indugiò sulla sensazione del pavimento di cotto sotto le suole.
Non c’era musica, ma i ragazzi erano ancora lì, sparsi nella sala deserta tra il palco e i tavoli: alcuni di loro tenevano gli strumenti in mano, come animali da compagnia.
- Ok, ragazzi, forse è arrivato il momento di giocare l’ultima carta: - stava dicendo Blaytz, dondolandosi pigramente sulla sedia con le mani intrecciate sulla nuca, - facciamo a Kolivan i frisé e lanciamo qualche cover di Kenny G.
 Le idee di Blaytz si distinguevano per eccentricità e ottimismo. Amava scherzare, ma non lo faceva mai fino in fondo quando proponeva qualcosa, per assurdo che potesse suonare: la sua fantasia era vivace quanto la sua parlantina e nella musica era eclettico e imprevedibile.
I suoi grandi occhi dalle lunghe ciglia scure mostravano un’espressività limpida ed entusiasta. Ben poco di infantile c’era nella sua fisionomia: anni di nuoto professionale e di esperienza come bagnino avevano reso le sue spalle larghe e la sua muscolatura possente. Profilo greco, fronte alta, mento marcato, incorniciato da un curatissimo pizzetto e da folte basette ben pettinate. Si vestiva di colori sgargianti e non faceva mai abbastanza freddo per fargli sentire il bisogno di coprirsi con abiti più pesanti di una giacca.
- … c’è l’85 per cento di probabilità che in questa realtà la nostra dignità possa subire un danno peggiore dei nostri affari!
Dal fondo della stanza si levò la voce stridula di Slav: la smilza figura sollevò uno sguardo smarrito, solcato da profonde occhiaie, dal contrabbasso che stava accordando. I suoi occhi tondi erano così grandi e così sporgenti che sembravano sul punto di uscirgli dalle orbite. Si percepiva quanto fosse alto anche da seduto, tutto incurvato. Era magro e di un pallore malsano. Dai radi capelli scarmigliati sbucavano grandi orecchie a sventola. Le dita nodose e irrequiete scivolavano tremanti sul collo dello strumento, come a rassicurarsi che fosse ancora lì.
Il suo vicino di posto gli sussurrò qualcosa in tono rassicurante e gli porse una mela sbucciata. Lui la ignorò.
Slav era uno degli emblemi più pittoreschi di “genio e sregolatezza”. Nonostante avesse sei dita in una mano e quattro in un’altra, era un musicista prodigioso dalla memoria fenomenale, ma soffriva di manie di persecuzione e di molte altre nevrosi. Non amava raccontare di sé, ma si diceva che fosse un genio di fisica quantistica caduto in disgrazia per oscure trame complottistiche. Era superstizioso, paranoico e diffidente. Soffriva di tic nervosi, raramente ascoltava, spesso interveniva per parlare di argomenti non comprensibili. Più volte aveva cercato a spiegare i principi della matematica vedica, sostenendo che fosse l'approccio più intuitivo. Non c’era quasi nulla in cui non eccellesse, all’infuori di qualsiasi tipo di interazione sociale.
- Solo quella di Kolivan!
Kolivan assottigliò lo sguardo, ma non ebbe altra reazione.
Era un uomo imponente, da cui era facile sentirsi in soggezione. Sulla pelle olivastra, una grossa macchia triangolare di vitiligine si estendeva tra mento e zigomi; una profonda cicatrice a destra del viso arrivava dalla fronte al labbro superiore. Nessuno sapeva come se la fosse procurata, ma in lui c’era una marzialità che ricordava quella del soldato o del reduce di guerra.
La serietà impassibile del suo volto era accentuata dal naso schiacciato, dalla curva severa delle labbra piene e dall’assenza sopracciglia e dagli occhi penetranti, dal taglio obliquo, che esprimevano una durezza truce. I capelli, candidi come neve, li portava raccolti in una lunga treccia.
Per lo più ascoltava e di rado pronunciava opinioni. L’unica voce delle sue emozioni  proveniva dall’abbraccio del sassofono.
- Oppure iniziamo a stampare sulle bustine di zucchero le mie vignette umoristiche!
- Secondo me, questo è anche peggio. – fu l’asciutta replica di Kolivan.
Sven, il trombettista, era tutto concentrato a sbucciare un’altra mela; quando udì il nuovo piano di Blaytz, scosse la testa con aria grave.
- Non ci possiamo permetterlo.
Non era arrivato dall’Estonia da poco, eppure la sua parlata non migliorava per correttezza grammaticale e per naturalezza sonora. La sua cadenza era un susseguirsi di vocali chiuse e spesso mangiate, consonanti dure, v che sembravano f, r ridicolmente vibranti. Difficile ascoltarlo per la prima volta senza dubitare delle proprie orecchie; il gruppo era talmente affezionato al suo accento che alcune parole avevano iniziate a pronunciarle “alla Sven”.
Era impossibile dargli un’età: se fosse stato un ventenne o un trentenne, si sarebbe dimostrato troppo senile, ma come quarantenne sembrava ancora immaturo.  Aveva occhi e capelli neri, foltissimi come le sopracciglia. Il pallore dei lineamenti sottili e del volto squadrato era accentuato dagli abiti neri che sempre indossava, come se fosse sempre vestito a lutto. Non di rado, anche per questo veniva scambiato per un prete.
- Sven, frequentare Slav ti ha reso così ottimista? – lo interrogò Blaytz, sarcastico.
La risposta non arrivò: il trombettista notò la sagoma di Keith, che ascoltava in disparte, senza che si fosse ancora fatto avanti: - Ehi, Redko! – lo salutò, con un cenno del capo.
Tutto il gruppo si volse verso di lui e gli rivolse un coro dissonante di saluti.
- Guarda guarda, ecco il nostro festeggiato assenteista! – esclamò Blaytz, raddrizzando la sedia di colpo, - Dov’eri finito? Per il tuo compleanno Slav ti aveva anche preparato una torta! L’abbiamo dovuta mangiare noi, è stato tremendo.
- C’è un motivo per cui in questa realtà non sono un pasticcere.
- Tu guardi i programmi di cucina e poi dimentichi. Vuoi una bella mela buona? Ho portate per tutti.
- Sven è rimasto molto impressionato dagli effetti leggendari di una mela al giorno.
Perché tutti gli anni la stessa storia? Avrebbe preferito che quel giorno venisse trattato come gli altri, in cui la gente si comportava come al solito nei suoi confronti. Mai una volta che fosse riuscito a scamparla. Persino Shiro si era ricordato.
Fece un gesto sbrigativo per metterli a tacere.
- Non c’era proprio niente da festeggiare. – e si affrettò subito a cambiare argomento: - Come va?
- Uhm, malino. – Non era mai un buon segno quando Blaytz diceva “malino” grattandosi la nuca. – Micia[i] se n’è andata. E ha preso i soldi dalla cassa.
- Non la pagavamo da due mesi.
- Beh, con quella maschera…
- Ma il gatto piaceva a tutti.
- Bestiaccia! – borbottò Sven con un’acredine che doveva aver maturato a lungo, - Lui morto mi voleva.
- Ve lo dico io. In questa realtà, c’è il 97 per cento di probabilità che dovremo chiudere entro la fine dell’anno!
- Non chiuderemo. – ribatté il pianista, interrompendoli, - Ho trovato un lavoro, venerdì vado a suonare al Batìk.
Si levarono esclamazioni di sorpresa e approvazione; Keith sentì su di sé lo sguardo e la severità del silenzio di Kolivan. Lo sostenne con aria di sfida.
Sapeva cosa significasse: Quante altre volte hai detto così? Finirà come sempre. Non resisterai.
Sarebbe stato difficile ribattere, ma era indispensabile non cedere.
- Hai convinto Marmellata a ripigliarti? – chiese Blaytz, incuriosito.
- Con Marmellata ho chiuso. Sostituisco un tastierista per quattro serate, poi vedremo.
- Per mantenere questo posto serve molto di più di quello che riusciamo a risicare noi cinque. – La voce profonda di Kolivan emise una sentenza perentoria. – E adesso siamo anche a corto di personale.
Una morsa elettrica e rabbiosa strinse la bocca dello stomaco di Keith.
L’opinione del gruppo era spaccata su cosa fare: perseguire il sogno e ingegnarsi per mandare avanti la baracca e ricominciare altrove – o, semplicemente, lasciare perdere.
Kolivan era stato il primo a prendere posizione: solo perché lo Yazoo aveva vissuto tempi d’oro, non si poteva continuare a dormire sugli allori degli anni ‘60. Bisognava rassegnarsi al presente e vendere il locale, prima di ritrovarsi coi conti troppo in rosso per poter farci qualcosa.
Keith avrebbe rinunciato più volentieri ai denti o a entrambi i reni che allo Yazoo.
- Thace ha fatto di tutto fino all’ultimo per tenerlo aperto!
- Thace non è arrivato agli anni di crisi peggiori.
- E questo che significa?! – Keith alzò la voce. I suoi pugni erano così stretti da sentire il graffio delle unghie contro la carne. - Non parlare come se per lui fosse sempre stato facile!
- Calma… calma, ragazzi. – li interruppe Blaytz. I suoi modi non avevano perso di gentilezza, ma quella fermezza non ammetteva repliche. – Ognuno di noi ce la sta mettendo tutta per tenere vivo lo Yazoo. A nessuno fa piacere l’idea che debba chiudere… è pur sempre l’eredità di Thace.
- È inutile fare i sentimentali, nessuno di noi è un imprenditore! – tuonò Kolivan, - Alla gente non piace quello che suoniamo, guardatevi attorno! Il jazz che facciamo noi è finito!
Seguì un momento di greve silenzio, in cui ognuno dei presenti si rifugiò nel carapace dei propri rimpianti inespressi.
Nessuno sguardo si incrociò.
La dura tristezza che aleggiava nell’aria rendeva la sala vuota ancora più squallida; Keith chiuse gli occhi per non essere costretto a guardarla.
Il mondo si era preso la vita di ciò che amava e ne sfoggiava fieramente l’assenza – Qui non c’è niente, sorrideva, odioso – Thace era morto, il jazz stava morendo, ingoiato da desolanti ibridi. Lo Yazoo lo seguiva.
Blaytz mal sopportava arrendersi allo sconforto: così fu il primo a far rumore, alzandosi in piedi per prendere il suo banjo, che riposava sdraiato sul palco. Cominciò ad accordarlo con dolcezza e a improvvisare qualche arpeggio.
- Qualcosa ci inventeremo. Ne siamo sempre venuti a capo!
Kolivan scosse la testa e sospirò.
- È una brutta vita, per i musicisti.
- Dice Bob Kaufman: Il cuore è tristo musico / che sempre suona il blues!
- Jazz ascolta a tuo rischio e pericolo! – terminarono Slav e Sven in coro.
Il musicista suona via la sua angoscia. Non per risolvere, ma perché gli è spontaneo come respirare. Soffia in un corno, pesta il suo ritmo con mani o piedi: malinconia, gioia, lutto, rabbia, ansia.
Così fecero anche loro: il banjo di Blaytz guidò il sax delicato di Kolivan in una disputa irriverente e, a poco a poco, si lanciarono anche contrabbasso e tromba. Il pianoforte fu l’ultimo ad arrivare e la sua voce restò in disparte, assorta in un eremo lontano.
Keith sentiva un’ira confusa, che non sapeva contro chi sfogare. Nemmeno il pensiero che là fuori qualcuno avesse suonato Libertango così bene da farlo fermare riusciva a donargli conforto.
Ogni nota sui tasti era come una lacrima mai versata, uno stillicidio di ricordi che bruciavano e di speranze ridicole.
 

CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Grazie mille a itsaliss per avere recensito il capitolo 5!
Posso dire con grande onestà che se questo capitolo è online il merito è anche della sua iniziativa di scrivermi! ;P Vedremo come andrà da qui in avanti. 

Nel film La La Land, Kenny G viene menzionato come pietra di paragone di jazz da parte della protagonista dimostrando di capirne veramente poco, in quanto per lei jazz=musica chilling da ascensore.
esempio: https://www.youtube.com/watch?v=447yaU_4DF8
 Mi sembra doveroso mostrarvi una sua foto, affinché chiunque possa sovrapporre a quest’uomo l’immagine di Kolivan coi frisé:
https://www.saxophonebackingtracks.com/wp-content/uploads/2013/07/KENNYGsongPics12B29wLASLH34sM.jpg
… avreste potuto googlarlo, ma era una mia precisa responsabilità fornirvi lo spunto.
(Se lo googlerete, troverete anche il famoso fotomontaggio “Kenny G with no nose”, che costituisce una grande pièce di intrattenimento. Lo consiglio a tutti.)
Tengo a precisare che Kenny G è una persona rispettabilissima, degna di stima artistica.
Dal momento che Sven è stato introdotto come personaggio nella terza serie [UNA DELLE POCHE COSE PER CUI RINGRAZIO SENTITAMENTE GLI AUTORI], ho rinunciato con gioia ai miei propositi di sovrapposizione di Sven e Shiro; gli ho quindi reso un omaggio a parte. (SVEN YOUR POWAA COMES FROM THAT sTATIU OF A LAIAN )
VORREI CHE FOSSE CHIARO CHE IO LO SHIPPO CON SLAV SERIAMENTE, quindi, anche se non sarà oggetto di approfondimento, in questa AU sono graziosamente fidanzati.
Per chiunque fosse interessato, un ricapitolo dei ruoli della jazz band di Keith, i Sing Sin!
sax – Kolivan
batteria, banjo, chitarra, ukulele – Blaytz
contrabbasso – SLAV
tromba – Sven
piano – Keith (Redko)
 
[i] Micia = Narti del Lotor Squad. Sì, quella che non ha gli occhi, con la coda e il micio sulla spalla.
Non potrò mai chiamare quelle fanciulle con il loro nome di appartenenza, perché sono indicibili.
 
   
 
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