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Autore: crazy lion    22/05/2018    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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97. NUOVA E VECCHIA AMICIZIA
 
Elizabeth era rimasta molto scossa quando Mackenzie le aveva raccontato quello che era accaduto a Hope e alla sua mamma.
“Oh mio Dio!” esclamò la piccola dopo che l’amica ebbe terminato il racconto. “È tremendo. Ma tu stai bene?”
Le appoggiò una mano su un ginocchio per darle conforto e Mackenzie gliela strinse, poi scrisse:
Sì, sto bene. Non mi è successo niente.
“Grazie al cielo. Sarei stata malissimo se ti fosse accdatou qualcosa.”
Sai Lizzie, per un momento avrei voluto buttarmi anch’io dentro l’acqua fredda.
“Che cosa?” La bambina quasi urlò, tanto erano in cortile a ricreazione e lì potevano gridare tutti. “Mac ma sei impazzita? Avresti potuto morire!”
Non seppe come ci riuscì, ma la piccola non pianse. Doveva sentire le ragioni dell’amica, prima, ma perché mai aveva desiderato fare una cosa del genere? Tutto ciò la sconvolgeva. Il suo piccolo cuore non aveva mai battuto così forte come in quel momento.
Beh, se tu avessi una sorella o un fratello e lei o lui rischiasse di morire, non ti verrebbe istintivo fare lo stesso?
“Penso… penso di sì” rispose. “Lo farei anche se si trattasse dei miei, ma in quel caso non potrei fare molto per salvarli.”
Lizzie si fermò un momento a riflettere. Da tempo ea ronscapevole che Mac era una bambina molto matura e che ne aveva passate tante; e anche se sapere quel che le era successo e che le capitava ancora la spaventava, d’altro canto le insegnava molto. Nessuno avrebbe dovuto soffrire come era successo a Mac e pensare che i suoi genitori erano stati uccisi davanti a lei e alla sorellina e le conseguenze che ciò aveva avuto, faceva credere ad Elizabeth che al posto di Mackenzie lei sarebbe impazzita. Inoltre, sentiva che la bambina le teneva ancora nascosto qualcosa riguardante Andrew, l’uomo che lei considerava suo padre. Non le aveva mai detto perché stesse così male da tempo, solo che non si sentiva bene. Lizzie aveva provato ad insistere, a fare domande, ma quando l’altra scrollava le spalle facendole capire che non era pronta a parlarne lei si zittiva dicendosi che non voleva di certo farla star peggio. All’inizio, dopo aver saputo la storia di Mac, la bimba aveva sentito nel cuore un grandissimo peso unito ad un’ansia non facile da nascondere né all’amica, né alla sua famiglia. Non smetteva mai di pensare a quanto era accaduto alla sua compagna e la notte piangeva; poi si era resa conto che, se voleva vivere bene, avrebbe dovuto solo provare ad accettare che Mackenzie avesse quel passato tragico ed essere fiera di lei perché, nonostante tutto, lottava ancora e voleva ricordare. Non era stato semplice per lei, ma alla fine la bambina pensava di essere riuscita piuttosto bene nel suo intento.
Lizzie, tutto okay?
“Sì, tutto bene.”
Le sorrise.
Suonò la campanella e dovettero rientrare. Mentre saliva le scale tenendole la mano, la bambina pensò che doveva molto a Mac, perché incontrarla l’aveva fatta crescere e maturare aiutandola a diventare, forse, una persona migliore e più attenta ai bisogni degli altri anche se ad una così giovane età.
“Mamma, mi stai ascoltando?”
La scuola era finita e Lizzie era in macchina con sua madre.
“Eh? Sì, sì… hai detto che Demi e Hope hanno avuto un incidente. Mi dispiace.”
“Anche a me. Stanno bene per fortuna.”
“Ne sono felice” sussurrò la donna.
Guardava fisso davanti a sé ed era persa nei propri pensieri. Ogni volta che vedeva Demi venire a scuola a prendere la figlia le sarebbe venuto spontaneo salutarla, ma poi si tratteneva sempre. Probabilmente quella ragazza la odiava e ne aveva tutte le ragioni del mondo. O magari lei le voleva ancora bene e Mary si stava facendo mille paranoie come al solito… No, era impossibile.
“Quindi, Mac mi ha chiesto se voglio andare a casa sua oggi pomeriggio perché per sua mamma va bene e mi domandavo se potessi portarmi da loro quando avrò finito i compiti.”
“Tesoro, se Demetria ha ancora i punti sentirà dolore, non so se sia il caso di disturbarla.”
“Ti prego, mamma!” la supplicò “Posso stare lì anche solo un’ora se vuoi, ma per favore lasciami andare. Ti prometto che farò la brava e non le darò fastidio.”
Come poteva dirle di no se la guardava con quegli occhioni dolci?
“E va bene.”
“Sììììì!” urlò la bambina, battendo le mani e agitandosi sul sedile. “Mac mi ha dato il numero di sua mamma, così puoi scriverle un messaggio per confermare.”
“Vi siete organizzate per bene voi due, eh?”
“Già.”
 
 
 
Lizzie le porse un biglietto e Mary si salvò il numero di Demi sul cellulare. Ora avrebbe solo dovuto scriverle. Solo. Era una parola grossa. Cos’avrebbe pensato Demi se le avesse detto chi era? Entrambe avevano cambiato numero, quindi Demi non avrebbe potuto sapere di chi era il messaggio. Era un modo per ritardare l'inevitabile. Avrebbe potuto semplicemente scriverle:
Ciao, porto Elizabeth tra un'ora.
Eppure, la ragazza sentiva che comportarsi così sarebbe stato ingiusto. Un messaggio del genere avrebbe potuto far pensare a Demi che lei non era felice che le due bambine si incontrassero. O magari l'avrebbe giudicata maleducata o sbrigativa, o Dio solo sapeva cos'altro. Sospirò, stanca di tutti quei complessi mentali, e si decise. Si fermò perché c’era un semaforo.
Ciao Demi, sono Mary la mamma di Elizabeth. La porterei alle 17:00, se per te va bene.
Sì, così le pareva ben scritto. Inviò sentendo il suo cuore in tumulto. Come avrebbe reagito Demetria leggendo quell'SMS? Avrebbe avuto dubbi oppure no? Ma più di tutto Mary temeva il momento nel quale si sarebbero incontrate. Da una parte pensare di rivedere la ragazza la riempiva di una gioia quasi incontenibile, dall'altra la terrorizzava perché sospettava che avrebbero litigato.
 
 
 
"Su, buona. Non succederà niente e starò sempre vicino a te, promesso."
Hope non la finiva più di piangere. Lei e la mamma erano in bagno e Demi le aveva preparato la vaschetta per lavarla, ma dopo l'incidente di due giorni prima la bambina aveva paura. Era normale, solo che la donna si trovava in difficoltà. Da cinque minuti continuava a tranquillizzarla e a cercare di farla entrare, ma lei non ne voleva proprio sapere. Demi aveva già cambiato l'acqua una volta perché si era raffreddata.
"Mamma, l'acqua no" si lamentava Hope.
"So che hai paura, ma non posso non farti il bagno." Aveva aspettato un paio di giorni e avrebbe potuto lavarla a pezzi, usando l'acqua del lavandino, ma sapeva che alla piccola non piaceva. "Ti diverti tanto quando ti faccio il bagno, ricordi? Proviamo a mettere dentro i piedini, forza. Solo quelli per ora. Andiamo piano, okay?"
Titubante, la bambina si limitò ad annuire e lasciò che la mamma la facesse entrare. In piedi nell'acqua, con Demi che la sosteneva, Hope non si sentiva ancora tranquilla.
"Paura" mormorò e la ragazza si sentì stringere il cuore in una morsa.
"Non devi. C'è la mamma qui con te." Iniziò a cantarle la sua ninnananna preferita, "Twinkle, Twinkle, Little Star" e fortunatamente questo aiutò Hope a rilassarsi, tanto che lasciò che la mamma la facesse sedere nella vasca e cominciasse a lavarla. "Va tutto bene, vedi?"
Demi le parlava con dolcezza. Sapeva che la piccola era ancora traumatizzata dopo quanto accaduto e anche lei lo era. Ci pensava spesso e la sera continuava a rivedersi in quel lago, mentre non riusciva a prendere la sua bambina che rischiava di annegare. Tuttavia cercava di pensarci il meno possibile distraendosi in tutti i modi: lavorava e quando tornava a casa faceva le pulizie, poi aiutava Mackenzie a fare i compiti e giocava con lei e la sorellina. Si teneva sempre occupata in modo da concentrare la sua attenzione su altro. Il giorno prima era andata a prendere la sua macchina e aveva constatato che Brian stava meglio. Era meno agitato di quando l'aveva visto l'ultima volta.
Hope non giocò con l’acqua come faceva di solito, ma almeno riuscì a sentirsi di nuovo a suo agio dentro di essa. Demetria stava pensando di iscrivere le figlie a dei corsi di nuoto, magari con il nuovo anno. Conosceva una bella piscina coperta dov’era andata anche lei da piccola e ricordava che c’erano istruttori molto bravi che sapevano lavorare benissimo con i bambini. Auspicava che allo stato attuale le cose in quel centro fossero anche migliorate. Dopo aver asciugato e rivestito la bambina le pettinò i capelli ricci. Era sempre un problema perché erano ribelli e non facevano che impigliarsi nel pettine, ma Hope era buonissima e non si lamentava mai. Demi accese il phon e le asciugò i capelli, poi entrambe tornarono in salotto. Il cellulare che la ragazza aveva appoggiato sul tavolo aveva lo schermo illuminato. Non conosceva il numero di chi le aveva scritto, ma dato che aspettava una conferma dalla mamma di Elizabeth si disse che era lei. Generalmente non rispondeva mai se un numero che non aveva salvato in rubrica la chiamava o le scriveva - per fortuna succedeva molto raraente -, ma in quel caso fece un’eccezione e lesse il messaggio. Rimase stupita quando vide il nome del mittente e iniziò a pensarci mentre digitava la risposta.
“Mary?” chiese ad alta voce. “Non ci posso credere!”
Il suo cuore perse un battito. Che si trattasse di quella Mary? Rivederla dopo quasi dieci anni sarebbe stato… oh beh, era difficile dirlo con una parola. Le aveva sempre voluto bene nonostante le loro strade si fossero divise chissà per quale motivo, ma non sapeva cosa le avrebbe detto sempre che fosse lei.
Magari mi sto immaginando tutto. In fondo è un nome così comune!
Forse si stava facendo condizionare troppo collegando quel nome al suo passato.
“Mmm, mamma!”
Fu solo allora che si rese conto che Hope le stava tirando la manica della maglia e che probabilmente continuava da un po’.
“Scusa piccola, vieni.” La prese in braccio e la bimba le sorrise. “Perdonami, la mamma è un po’ distratta oggi. Vuoi fare un po’ di nanna, eh?”
La bimba sbadigliò in risposta.
In effetti non aveva dormito quel pomeriggio, preferendo giocare e Demi l’aveva lasciata fare, ma ora sembrava aver perso ogni energia e forse il bagno aveva contribuito a farle venire sonno. Beh, dormire un’oretta non le avrebbe fatto male.
Hope iniziò a chiudere gli occhi senza che la mamma le cantasse nulla, e fu una fortuna perché in quel momento alla ragazza non veniva in mente nessuna ninnananna.
“Mamma?” le chiese a un tratto, aprendo un occhio e guardandola.
“Dimmi.”
Alzò una manina e le toccò la fasciatura, passandoci sopra prima un dito e poi tutta la mano.
“Hai ancoa bua?”
Intenerita da quella domanda e dal piccolo errore della bambina, Demi le diede un bacio.
“Sì, ma tra un po’ guarirà. Resterà solo una cicatrice.”
“Una cosa?”
“Una cicatrice, amore, un segno che fa capire che ho avuto la bua.”
Sperava di essersi spiegata bene. Era difficile parlare di quelle cose ad una bambina che non aveva ancora due anni.
“Come quetto?”
Si toccò una delle cicatrici che aveva sul viso. Era la prima volta che ne parlava.
“Sì.”
“Ma chi… chi?”
Oh, santo cielo! Voleva sapere chi gliel’aveva fatto. Demi sentì il battito del suo cuore accelerare all’improvviso.
“Ehm… un uomo cattivo” rispose e poi dovette sedersi sul divano per cercare di calmarsi.
“Anche Mac Mac ha la bua” osservò la bambina.
La guardava con serietà, adesso. Demetria le aveva visto pochissime volte quell’espressione.
“Sì, anche a lei l’uomo cattivo ha fatto male.”
Ti prego, non chiedermi perché. Non saprei cosa risponderti. Sei ancora troppo piccola per capire.
“E se tonna? Io non voio!”
Hope la guardava con occhi pieni di terrore, lo stesso che la mamma aveva visto sul suo volto pochi giorni prima, nel lago.
Demi ebbe un singulto.
Dio non voglia!
“Non tornerà, cucciola. Ma se dovesse farlo io vi proteggerò e lo farà anche papà, te lo prometto.”
“Okay.”
“Ora prova a dormire un po’.”
Hope sospirò e, rassicurata dalla stretta della mamma e cullata dai suoi movimenti dolci e dal suo lento passeggiare per la stanza, riuscì finalmente a cadere preda del sonno. Pian piano Demi andò in camera e la mise nel lettino, poi le stampò un bacio in fronte e uscì dalla stanza.
 
 
 
Mackenzie si mise a saltare per la camera quando Demi le disse che Elizabeth sarebbe venuta. Già immaginava tutto quello che avrebbero fatto insieme. Le avrebbe mostrato e presentato tutte le sue bambole e i peluche, avrebbero preparato caffè e tè immaginari per le loro mamme, ma soprattutto parlato. Infatti, se c’era una cosa che Mac adorava di Elizabeth era proprio questa: era una bambina matura per l’età che aveva e amava chiacchierare anche di argomenti seri. Cercò di fare i compiti in fretta in modo da poter aiutare la mamma, ma comunque ci mise tutto lo zelo e l’attenzione del solito. Una volta terminati inglese, matematica e storia - Dio, quanto adorava studiare il modo in cui vivevano gli uomini primitivi! -, scese in salotto.
Posso aiutarti?
Demi aveva appena finito di passare l’aspirapolvere ed ora stava spolverando i mobili.
“Grazie cara, ma ho quasi finito. Ho dei pasticcini e ho preparato anche la cioccolata calda. Spero la apprezzeranno.”
Sono sicura di sì.
Mentre la mamma metteva in tavola i piatti, le tazze, i tovaglioli e i cucchiai, Mac la guardava dal divano. Visse male l’attesa. Mancavano pochi minuti all’arrivo di Lizzie, ma il tempo sembrava non passare mai e intanto il suo cuore faceva le capriole. Sorrideva pensando che era la prima volta in assoluto che aveva un’amica e che la invitava a casa sua. Nel quartiere dove aveva abitato con i suoi genitori naturali aveva conosciuto alcuni bimbi, ma non li aveva mai considerati amici. Avevano semplicemente giocato insieme.
Quando suonò il campanello la bambina fece un salto e si precipitò all’ingresso. Guardò dalla finestra e, quando vide l’amichetta, aprì la porta e il cancello.
“Ciaoooo!” esclamò Elizabeth gettandosi tra le braccia di Mackenzie e rischiando di farla cadere.
“Ciao Elizabeth. È bello conoscerti, mia figlia mi ha parlato molto di te” disse Demi che le aveva raggiunte in quel momento.
“Ah, davvero?”
La bambina arrossì leggermente.
“Già, e ha detto solo cose positive.”
“Bene, ne sono felice. Questa è mia mamma” disse la bambina indicando una donna dietro di lei.
Madre e figlia erano l’una la copia dell’altra: capelli biondi e lisci e occhi azzurri e intensi, che quando ti guardavano sembravano leggerti dentro.
“Ciao, Demetria” disse la ragazza sforzandosi di essere il più naturale possibile e di sorridere.
Era molto più alta di Demi, magra e aveva un viso dolcissimo e un’espressione serena. Era una gran bella ragazza, Demetria l’aveva sempre pensato.
Mackenzie vide sua madre impallidire e rimanere a bocca aperta a fissare la mamma dell’amica. Avevano più o meno la stessa età e la donna sembrava gentile. Mac non riusciva a capire cosa c’era che non andava.
Mamma, tutto okay?
Ma Demi non lesse nemmeno quel biglietto. Lo tenne in mano osservandolo senza proferire parola, né mostrare alcuna emozione. Pareva un guscio vuoto. Con gli occhi vacui fissava il soffitto.
“Andate a giocare bambine, è tutto a posto” le rassicurò Mary.
Mackenzie fu titubante all’inizio, ma poi decise di fidarsi.
"Dai Mac, facciamo la gara a chi arriva prima in cima alle scale!"
Cosa? Tu sei pazza!
"Bisogna esserlo, ogni tanto, nella vita. Mia mamma lo dice sempre."
Le due bambine risero e, per la prima volta, Lizzie sentì la risata, allegra e argentina, dell'amica.
"Tu riesci…"
Sì a volte, ma non ancora a parlare; e non so se ce la farò mai ammise la piccola, con un sospiro pieno di tristezza.
Non voleva dare all'amica false speranze e non voleva averne nemmeno lei.
"Prima o poi ce la farai, ne sono sicura; e, se non dovesse essere così, io ti vorrò bene lo stesso."
Le due bambine si abbracciarono e, dimenticandosi della gara, salirono le scale tenendosi per mano.
Quando arrivarono in camera Mackenzie aveva quasi dimenticato lo stato in cui aveva visto la mamma poco prima.
Ti piace la mia camera?
“Sì, è molto grande. La mia è metà della tua.”
Con cosa vuoi giocare?
Elizabeth si guardò intorno a scelse un paio di bambole che Mackenzie aveva appoggiato su una mensola.
“Come si chiamano?”
Quella con i capelli biondi Cecilia e l’altra, vestita da indiana, Rajni.
“Wow, mi piace questo nome. Esiste davvero in India?”
Non ne ho idea! Mi piaceva e gliel’ho dato.
Risero di nuovo.
“Oddio, sei proprio simpatica lo sai?”
Mackenzie aveva una scatola piena di vestitini per le bambole di tantissimi colori e perfetti per ogni occasione. Ce n’erano di semplici, come pantaloni e maglietta, oppure di più eleganti, per esempio abiti da sera.
“Caspita, ne hai un sacco! Ti invidio.”
Me li hanno regalati le mie zie e mia nonna. La mamma ne aveva presi solo alcuni e poi mi aveva comprato questi scrisse e le mostrò un contenitore chiuso con un coperchio dentro il quale c’erano degli elastici per capelli. Lo tengo un po’ in alto in modo che la mia sorellina non lo apra e non ne metta in bocca qualcuno. È pericoloso.
“Dov’è Hope adesso?”
Sta dormendo, ma dopo te la farò conoscere.
Mac scelse un’altra Barbie, quella con cui giocava più spesso, dicendo ce la preferiva.
Cominciarono a giocare cambiando i vestiti alle bambole. Elizabeth mise alla sua un abito da sera e le lasciò i capelli sciolti.  Mackenzie le insegnò a farle la treccia. Lizzie ci mise un po’ per imparare e non era ancora molto brava, ma era felice di saper fare qualcosa di nuovo. Con un paio di scarpe con il tacco, la sua bambola era pronta.
“La tua bambola chi è?”
Carlie.
“Bello! Perché hai scelto di giocare usando lei?”
Mi piace di più e ci gioco più volentieri.
L’altra annuì, ma guardando i profondi occhi dell’amica intuì che doveva esserci un’altra motivazione.
“Come mai questo nome?”
Soprattutto da quando la zia era morta Mackenzie giocava la maggior parte del tempo con quella Barbie. Era un modo per sentire più vicina a sé quella ragazza che non aveva mai conosciuto, ma alla quale comunque voleva bene.
Mia zia si chiamava così.
“Si chiamava? Che le è successo?”
È morta a marzo.
“Oh.” Mac si era rabbuiata e fissava il pavimento ed Elizabeth non sapeva cosa dire. Le prese una mano nelle sue e la bambina non si ritrasse, ma rimase immobile e non ricambiò la stretta. “Mi dispiace. Non me ne avevi mai parlato.”
Non ero pronta. Io non l’ho mai conosciuta e dopo sono successe altre cose brutte.
“Scusami se te l’ho domandato, io non volevo…”
Non importa. Non potevi saperlo.
“Ti va di parlarmi di tutte queste cose?”
Mackenzie annuì.
Ne aveva bisogno. Le raccontò tutto cercando di non turbare Elizabeth che la ascoltò in silenzio, continuando a guardarla e poi a leggere le sue parole. Le dispiaceva vedere l’amichetta così triste e avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarla a sentirsi meglio, ma sapeva che poteva solo starle accanto.
“Allora è per questo che tuo papà sta ancora male” osservò la bambina alla fine.
Ciò che aveva sentito l’aveva scossa, ma si impose di non piangere. Mackenzie aveva bisogno di lei.
Esatto.
“Mi dispiace, io… non sapevo nemmeno cosa significasse “tentare il suicidio” fino a poco fa. Non so cosa dire.”
Forse ho fatto male a raccontartelo.
“No!”
Invece sì. Oggi avremmo dovuto vederci per divertirci, non per fare discorsi cupi.
“Mac, non è un problema davvero.”
Le sorrise e l’altra si rilassò un po’. Si sentiva più leggera, come se si fosse tolta un peso.
Continuiamo a giocare?
“Certo!”
Dopo quei lunghi minuti nei quali avevano parlato di cose serie e fatto le grandi, ora era giusto che tornassero ad essere solo delle bambine che amavano divertirsi. Mackenzie scese in salotto e andò a prendere il servizio di tazzine e piattini e il fornello  di plastica che aveva e con i quali aveva giocato con i genitori qualche giorno prima. Elizabeth fu felicissima di vederlo e disse che ne aveva uno uguale. Fecero finta che Carlie andasse a casa di Cecilia e che le due fossero grandi amiche, un po’ come loro.
“Posso offrirti qualcosa?” chiese Lizzie facendo finta di essere la sua bambola.
Sì grazie, un caffè.
“Ma secondo te perché i nostri genitori non lasciano che lo beviamo?”
Erano uscite per un momento dal gioco, adesso.
Non so Lizzie, i miei dicono che fa male ai bambini.
“Sì, ma perché? Ha un profumo così buono!”
Hai ragione, è fantastico.
“Comunque, tornando al gioco…
“Senti Carlie, stasera io pensavo di andare in discoteca. Vieni con me?””
È per questo che sei già vestita per uscire?
“Sì. Lo so, sono in anticipo e sono strana.”
Puoi dirlo forte.
“Allora, mi accompagni? So che la discoteca non ti piace molto, ma ti prometto che ci divertiremo e verremo a casa presto.”
Non è il mio posto preferito, ma okay.
“Evvai!”
E così le bambine continuarono a divertirsi perdendo la cognizione del tempo.
 
 
 
“Ti prego Demi, guardami. Parlami, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa!”
“Cosa ti aspetti che ti dica?” chiese la ragazza, atona.
Un nodo le serrava la gola.
Continuava a fissare il vuoto e, a differenza di quanto si sarebbe aspettata, non provava nulla. A parte quel blocco alla gola non sentiva niente anche se sapeva che aveva davanti quella che in passato era stata la sua unica amica e che loro due si erano sostenute nei momenti più difficili.
“Perché fai così?”
Mary al contrario di lei piangeva, ma piano, come se avesse avuto paura di farsi udire.
“Non lo so” ammise l’altra. “Mi sento come se non provassi più alcuna emozione da quando sei entrata qui. Mi aspettavo di avere una reazione molto diversa.”
“È colpa mia, vero?”
“Certo che lo è. Di chi vuoi che sia?”
Una coltellata al cuore avrebbe fatto meno male, di questo Mary era sicura.
“Lo so che ti ho ferita, Demetria e mi dispiace! Credimi, mi dispiace!” esclamò portandosi le mani davanti al volto.
In quel momento qualcosa dentro Demetria scattò. Non seppe perché, ma all’improvviso le sue emozioni si fecero di nuovo sentire e capì che si erano solo nascoste, non se n’erano mai andate. Il dolore, la tristezza, la frustrazione, la rabbia e la gioia la travolsero come un fiume in piena, ma furono le prime a predominare.
Ti dispiace? E se oggi non fossi venuta qui me l’avresti mai detto?” soffiò.
“Io non… non lo so.”
“Cazzo, Mary!”
Si batté una mano su una coscia. Una parte di lei avrebbe voluto dirle di andarsene e di venire a prendere Elizabeth più tardi, ma un’altra non sarebbe mai riuscita a cacciarla via così perché nonostante tutto, Demi voleva ancora bene a quella ragazza.
“Perché non dici più nulla, ora? Io mi merito insulti a non finire, mi merito una tempesta di fuoco!”
“Sai che non mi arrabbio facilmente; e adesso non ne ho proprio le forze. Voglio solo sapere una cosa.”
“Tutto quello che vuoi.”
Demi aprì la bocca per parlare ma un pianto la distrasse.
“Scusa un attimo.”
“Vai pure.”
 
 
 
Mary fece qualche passo verso il divano ma non si sedette. Si appoggiò soltanto, sentendo di avere bisogno di sostenersi a qualcosa. Un gatto le girava attorno alle gambe e un cane la annusava, ma anche se amava con tutta se stessa gli animali in quel momento non ci faceva caso. Voleva solo spiegare alla sua amica - poteva ancora definirla tale? - perché si era allontanata e fare pace, se possibile. Sospirò e strinse le mani a pugno.
“Devo essere forte” si disse.
In quel momento Demi tornò. Stringeva fra le braccia una bambina che piangeva.
“Non so che cos’ha ma non ha mai smesso da quando si è svegliata. Non ha febbre e l’ho cambiata. Me la terresti un po’?”
“Sì.”
“Grazie.”
Quando Mary la prese in braccio Hope smise di piangere.
“Wow!” esclamò Demi che non se l’aspettava. “Che fai, magie?”
“Non direi” rispose l’altra ridendo. “Sono una mamma anche io e qualcosa l’ho imparato.”
“Hai ragione, ma con i bambini bisogna saperci fare.”
“Sono d’accordo.”
“Oddio avevo…”
Demetria corse in cucina e Mary sentì che accendeva il fornello.
“Che fai?”
“Avevo preparato la cioccolata calda ma me ne sono dimenticata. La sto riscaldando un po’.”
“Non era necessario, ma sei stata molto gentile. Ti ringrazio.”
“Pensavo che alle bambine piacesse.£
“Non solo a loro.” Si rivolse alla bambina e le chiese: “Come ti chiami, tesoro?”
“Hope” rispose e Mary fu colpita dalla dolcezza della sua voce. “Vuoi vedele i miei amici?”
“Oh sì, mi piacerebbe.”
Poco dopo la ragazza scoprì che quelli che la bambina definiva “amici” erano i suoi peluche. Glieli presentò tutti dicendo i loro nomi e Mary li salutava ed esclamava che erano bellissimi.
“Grazie” rispondeva ogni volta la piccola.
“Vedo che hai anche degli animali veri. Posso accarezzarli?” Poi notò che il cane e il gatto ora riposavano tranquilli e aggiunse: “Magari più tardi. Ora è meglio lasciarli dormire. Comunque, come si chiamano?”
“Cane Batman e gatto Danny.”
“Che bei nomi!”
Prese di nuovo la bimba in braccio e lei ne fu molto felice. Camminò fino in cucina e raggiunse Demi. Rimase in piedi, accanto al tavolo.
“Siediti.” Entrambe caddero in un pesante silenzio e più i secondi passavano, più a Demi sorgeva spontanea una domanda che però le risultava difficile porre. “Voglio solo sapere una cosa” disse infine, con gli occhi velati di lacrime.
“Ripeto, tutto quello che vuoi.”
“Perché?” La sua voce si spezzò. “Perché l’hai fatto?”
“È difficile per me dirlo, Demi.”
“Ah e pensi che per me sia stato semplice scoprire che, da quando siamo uscite da quella clinica, il tuo numero di cellulare non era attivo? Non sapevo più come cercarti, come contattarti e nemmeno dove abitassi per venirti a trovare e chiederti una fottuta spiegazione. Hai idea di quanto ho sofferto?” sbottò adirata, alzando la voce di parecchie ottave.
“Ascolta, so come ti senti” sussurrò Mary.
“Davvero? Io non credo proprio!”
“Ha fatto male anche a me non cercarti più, Demi; ma era necessario. L’ho fatto per proteggerti.”
Mary scoppiò di nuovo a piangere e stavolta non si preoccupò di nascondere le lacrime. Si sentiva terribilmente male per come si era comportata e si portava nel cuore quel peso insostenibile da tanti di quegli anni!
“Rispondi alla mia domanda, ti prego!” esclamò l’altra raddolcendosi appena. “Mi dispiace che ti faccia male, ma io devo sapere. Ne ho il diritto.”
Avrebbe voluto abbracciare Mary e tranquillizzarla perché le faceva male vederla in quello stato, ma una parte di lei non riusciva ancora a perdonarla.
Erano state in clinica insieme e, anche se all’inizio si era dimostrata riservata, dopo un po’ Mary aveva cominciato a parlarle e ad aprirsi con lei, aiutando così la stessa Demetria a superare la sua iniziale chiusura.
Non lo sapevano, ma in quel momento entrambe le ragazze ebbero un flashback e ricordarono le stesse cose.
 
 
“Che abbiamo oggi?” chiese Mary alzando gli occhi dal suo quaderno.
Erano alla Timberline Knolls da un paio di settimane e avevano iniziato ad andare d’accordo. Fino a quel momento avevano parlato del più e del meno e l’unico argomento serio che avevano affrontato era stata la famiglia. Anche i genitori di Mary erano divorziati, ma sua mamma non si era risposata e lei e l’ex marito non si parlavano quasi più.
“Ogni fine settimana vado da mio padre e lo devo sopportare mentre continua a parlare male di mia mamma e quando rientro a casa lei fa lo stesso con lui” le aveva detto. “Non sai che litigate facciamo, io e i miei.”
Demi non aveva ancora capito se era stato il divorzio a far sentire Mary talmente tanto male da diventare bulimica e cadere in uno stato di ansia e di profonda depressione o se c’era qualcos’altro che ancora non le aveva confessato, ma in fondo erano lì da poco tempo e per aprirsi bisogna andare con calma.
“Cosa?”
Demi stava finendo di fare un disegno. Erano a lezione di arte. La giornata era scandita da varie lezioni come arte e musica che aiutavano a stimolare la creatività delle ragazze e a farle sentire utili; o almeno, questo era quanto la Direttrice aveva spiegato a Mary e a Demi. Le due dovevano ammettere di stare meglio quando svolgevano quelle attività. Fare lavori manuali con la creta o anche semplicemente con gli acquarelli, o con i colori a tempera, o con i pennarelli era divertente, le teneva occupate e le aiutava a distrarsi.
“Ti ho chiesto cos’abbiamo oggi pomeriggio. Non me lo ricordo più” riprese Mary.
“Ah. Terapia di esposizione, mi pare.”
“Okay, giusto.”
Si trattava di una terapia di gruppo per persone che soffrivano di disturbi d’ansia. La psicologa che seguiva Demi l’aveva vista sempre molto ansiosa anche se la ragazza diceva di non esserlo - mentiva, ovviamente -, ma aveva ritenuto che non si trattasse di veri e propri attacchi di panico e che sarebbero passati nel giro di breve tempo. La terapia di esposizione le avrebbe dato una mano ed era la prima volta che la ragazza vi prendeva parte.
“Com’è?” domandò e spinse via con riluttanza il suo foglio.
Di solito l’insegnante di arte non dava loro una consegna precisa, ma quel giorno aveva chiesto alle allieve di farsi un ritratto. Non dovevano disegnare loro stesse, ma loro per come si vedevano e aveva aggiunto che avrebbe consegnato quei fogli alle loro rispettive psicologhe.
“Terapia di esposizione, intendi? Beh è… difficile la maggior parte delle volte.”
“Come mai?”
Il cuore della ragazza iniziò a battere all’impazzata. La sua psicologa aveva ragione: si agitava per ogni minima cosa in quel periodo.
“A volte la psicologa ci chiede di parlare di avvenimenti complicati o brutti che ci sono successi. Ogni tanto lo facciamo in gruppo, ma più spesso in coppia.”
“Capisco.”
“E quindi io quando esco sono abbastanza sfinita, tanto che a cena vorrei mangiare molto più di quelle mini porzioni che mi danno. È dura combattere contro la bulimia in quei momenti.”
“Lo comprendo. Anche se in questo periodo l’anoressia ha preso il sopravvento, sono stata bulimica anch’io.”
“Okay ragazze, la lezione è finita. Potete andare. Ricordatevi di lasciare i fogli sul banco e di scriverci il vostro nome” disse la signorina Hopkins.
Mentre lo scriveva Demi guardò quello che aveva disegnato, ovvero una se stessa sempre grassa e con sotto la scritta:
Meglio morire che essere così.
Avevano mezzora di pausa prima di pranzo, quindi entrambe ne approfittarono per fare una passeggiata.
“Vieni, ti porto in un posto” disse Mary prendendola per mano.
Prima di tutto andarono in camera e indossarono un giubbotto pesante, perché era novembre e a Chicago faceva freddo. Una volta fuori attraversarono il giardino e poco dopo si addentrarono in un piccolo boschetto, che faceva sempre parte della proprietà, calpestando foglie e aghi di pino. Entrambe amavano molto camminare insieme perché adoravano la natura.
“Non ero mai entrata qui” disse Demi mentre si inoltravano fra le piante. “È un posto molto bello.”
C’era un silenzio quasi assoluto. Gli unici rumori che si udivano erano il cinguettio di qualche uccellino e lo scricchiolio dei loro passi. Si sedettero su un tronco caduto e rimasero lì per un po’ senza parlare, fissando un punto indefinito del cielo. Il vento scompigliava loro i capelli e un buon odore di resina riempiva le loro narici.
"Hai paura?"
"Eh?"
"Della terapia di esposizione."
"Come hai fatto a capirlo, Mary?"
"Sembri rilassata ma i tuoi lineamenti sono tirati. Sono un'acuta osservatrice."
"Lo vedo; e comunque sì, ne ho molta."
"Perché?"
Mary allungò una mano e gliela strinse. Demi non si ritrasse e anzi, ricambiò la stretta con piacere.
"Non lo so. Forse semplicemente non voglio rivivere il passato, non mi va di raccontare quel che ho vissuto. È già difficile con la psicologa che mi segue. So che devo farlo se desidero superarlo - ed è così, credimi -, ma provo comunque questa sensazione che mi manda in crisi. E se qualcuno mi giudicasse per quel che mi è accaduto? Hai visto come si comporta Jocelyn con me."
Si trattava di una ragazza di diciannove anni che, fin da quando Demi era arrivata, non aveva fatto altro che prenderla in giro asserendo che una che pareva avere una vita perfetta doveva proprio essere messa male per finire in una clinica. Demetria si era sempre difesa e qualche volta anche Mary l'aveva appoggiata. Altre ragazze, invece, si avvicinavano a Demi solo per chiederle un autografo o per domandarle come si sentiva ad essere famosa. Mary era l'unica che non le aveva mai posto quegli interrogativi e Demetria le era grata per questo. Sì, le aveva detto di essere una sua fan e di seguirla da anni, ma per il resto l'aveva sempre trattata come una persona normale.
"Sì, lo so; ma tu sei stata brava e ne hai parlato con la psicologa che ti segue. Vedrai che quella tizia non ti darà più fastidio. Non so perché faccia così, ma si comporta davvero male."
"Già."
E Demi era stanca di subire atti di bullismo, non voleva più che accadesse anche lì, altrimenti il suo recupero sarebbe stato più complicato; e poi comunque aveva già sofferto abbastanza.
"Sai una cosa, Demi?"
"Dimmi."
"Mi piace molto il tuo nome. Mi ricorda il sole e la primavera, non so perché."
La ragazza si schiarì la voce e fissò l'altra come se fosse stata un'aliena.
"Davvero? Cioè, wow! Nessuno mi aveva mai detto una cosa così bella, ti ringrazio."
Era strano sentire che qualcuno a parte la propria famiglia apprezzava il suo nome. Di solito le veniva detto che era particolare, che era bizzarro, non che era bello.
"Sono seria; e lo adoro anche perché è un nome non comune. Insomma, quante persone si chiameranno Mary in tutta l'America? Tantissime" sbuffò. "Vorrei avere un nome raro anch'io."
"Io lo amo. Mi ricorda l'estate."
"Ti ringrazio. Oggi siamo tutte e due in vena di complimenti, vedo."
"Almeno ci alziamo l'autostima a vicenda."
Risero e poi si abbracciarono di slancio. Era la prima volta che lo facevano, che si lasciavano andare ad un contatto tanto ravvicinato e questo le rese felici. Significava che si stavano affezionando tanto l'una all'altra.
Per Demi mangiare non fu facile, come sempre. Mary era nel tavolo accanto al suo e le due ogni tanto si scambiavano qualche sguardo per incoraggiarsi. Mary, dal canto suo, aveva mangiato tutto ed era stata costretta dalla donna seduta accanto a lei ad andare piano, altrimenti avrebbe divorato ogni cosa che aveva nel piatto.
"Ne voglio ancora" disse.
"Non puoi, tesoro."
"Ma ho fame!"
"No, Mary. Sai cosa succederebbe se te ne dessi."
"Sì, e non lo voglio" sussurrò con la voce che le tremava.
Si sarebbe abbuffata e poi, ossessionata dal fatto che gli altri potessero vedere che era ingrassata e dalla voglia di dimagrire e di nascondere i suoi problemi, sarebbe corsa in bagno a vomitare. L'aveva fatto così tante volte a casa che era diventata un'abitudine, ormai. Quel giorno Mary si sentiva poco sicura. Sapeva che era lì per curarsi ma allo stesso tempo avrebbe voluto mollare tutto e lasciar vincere la malattia e farsi trasportare di nuovo in quel tunnel che, forse, in realtà non aveva un'uscita.
Demi notò il suo disagio e decise di farsi forza per lei. Mangiò un boccone di pasta, e poi un altro e un altro ancora. Erano piccoli, certo, ma non si fermò. Continuò anche se era difficile, nonostante una voce interna le gridasse:
"No, così ingrasserai e diventerai brutta! Tutti parleranno di te e diranno che sei una schifosa cicciona orrenda. È questo che vuoi?"
Ma lei resistette e non la badò, concentrandosi sulle voci degli altri presenti nella sala. Ci mise mezzora a finire un piatto di pasta al ragù. Il giorno prima ci aveva messo un'ora.
"Demetria, ce l'hai fatta cara! Hai dimezzato il tempo, te ne rendi conto? È un grandissimo passo in avanti” si congratulò la donna.
Lei sorrise.
Non era molto fiera di se stessa. Sapeva di aver fatto una bella cosa, ma non era convinta che ci sarebbe riuscita ancora. Tuttavia guardò Mary e mimò con le labbra un:
"Ce la faremo."
Aveva combattuto per lei dimostrandole che sì, migliorare era possibile. La sua nuova amica l'aveva guardata per tutto il tempo. All'inizio aveva avuto fame e le sarebbe tanto piaciuto ingozzarsi di pasta e poi buttare fuori tutto per mangiare di nuovo subito dopo, ma mano a man oche Demi svuotava il piatto si era sentita fiera di lei e adesso la guardava con ammirazione e capiva che l'aveva fatto per aiutarla, per darle più sicurezza e perché comprendesse che nessuna delle due avrebbe vomitato di nascosto quel giorno, perché si sarebbero fatte forza a vicenda. Non sentiva più il bisogno di mangiare. Fu allora che entrambe si alzarono da tavola e che un secondo e più caloroso abbraccio le unì, mentre alcune lacrime rigavano i loro volti. I cuori delle due battevano forti e all'unisono, ma non sapevano che cosa sentivano esattamente. Forse un pizzico di gioia per avercela fatta; e quella era una delle prime emozioni positive che provavano da quando erano entrate in clinica. Non lo videro, ma le due psicologhe si sorrisero. Avevano già capito che Mary e Demi sarebbero diventate molto presto grandissime amiche.
A terapia di esposizione erano in dieci e Demi si ritrovò ad invidiare quelle ragazze che non soffrivano di ansia e non erano costrette a partecipare. Avere Mary accanto, però, la faceva sentire più sicura. Si sedettero tutte in cerchio e Demetria vide che tra loro c’era una ragazzina molto giovane.
“Buongiorno ragazze” disse l’insegnante entrando in quel momento. “Oh, ci sei anche tu Demetria. Io mi chiamo Gabriella Dawson, ma come ho già detto alle altre voglio che mi chiamiate con il mio nome e potete darmi del tu. Sono una psicologa e una psichiatra. Cara, vuoi presentarti e dire qualcosa di te?”
Le sue compagne sapevano già chi era perché facevano altre classi insieme come arte o terapia di gruppo, nella quale parlavano delle loro malattie e poi a volte la psicologa faceva loro scrivere qualche pensiero che veniva appeso al muro dell’aula. Demetria avrebbe volentieri fatto a meno di alzarsi e parlare, ma non conosceva quella ragazzina, doveva essere nuova e sia a lei sia all’insegnante doveva rispetto, per  cui sarebbe stato maleducato rimanere in silenzio.
“Mi chiamo Demetria Devonne, ho diciotto anni e sono qui perché soffro di anoressia, bulimia e sono un’autolesionista. Sono arrivata due settimane fa.”
Bisognava fare così per presentarsi: dire il nome, la malattia e la durata del proprio soggiorno in clinica. Era la prassi.
“Molto bene, abbiamo un’altra ragazza nuova fra noi. Charlotte, tocca a te.”
La più giovane si alzò. Aveva le gambe così magre che Demi pensò non l’avrebbero sostenuta, ma riuscì a restare in piedi anche se si vedeva che faceva fatica.
“M-mi chiamo Charlotte, ma tutti mi chiamano Lottie. Ho dodici anni e sono anoressica.”
Aveva detto dodici anni? Okay, lei aveva più o meno la sua stessa età quando aveva cominciato a stare male, anzi forse era un po’ più piccola, ma non riusciva nemmeno ad immaginare quanto doveva essere dura per quella ragazzina trovarsi in una clinica per curare i suoi disturbi alimentari. Sicuramente era terrorizzata. Se Demi ancora adesso aveva paura, se tutto le sembrava più grande di lei, come doveva stare Charlotte? Avrebbe voluto andarle vicino e abbracciarla, proteggerla, farle sentire che non era sola.
 
 
Nessuna delle due riuscì a ricordare ciò che era successo dopo. Faceva troppo male.
“La cioccolata è alla temperatura giusta. Un minuto e possiamo chiamare le bambine. Ti spiace se terminiamo dopo?”
“No.”
Forse una pausa avrebbe fatto bene ad entrambe. Anche Demi si sedette e le due sospirarono. La conversazione che avevano appena avuto non era stata di certo semplice, ma avrebbero dovuto chiarire.
 
 
 
Elizabeth e Mackenzie erano state così concentrate sui loro giochi che non avevano nemmeno sentito le loro madri alzare la voce. Si stavano divertendo molto. Ora le loro bambole indossavano due vestiti da principessa ed erano a un ballo di corte.
“Noi siamo le più belle” disse Lizzie, felice.
Sì e tutti ci guardano aggiunse Mac.
La bambina non aveva la versione maschile delle Barbie per farle danzare insieme a loro, così le piccole immaginarono che ci fossero. Descrissero la sala da ballo come ampia e con tantissime persone, con un tavolo pieno di leccornie e con al centro la pista. L’orchestra era a sinistra di questa e la musica era soave. Cominciarono a far muovere le bambole con grazia e piano per evitare di romperle.
“Sai che ho fatto danza classica l’anno scorso?” se ne uscì Elizabeth.
Wow! E come mai hai smesso?
“Ho capito che non mi piaceva.”
Ora fai qualcos’altro?
“No. Non so cosa mi piacerebbe. Vedremo in futuro. Tu pratichi qualche sport?”
No e nemmeno io so quale sceglierei… forse il nuoto.
“Ah, cambiando argomento, ti ho portato un regalo. Sono andata a prenderlo prima di venire qui.”
Cosa? Non avresti dovuto!
Lizzie era un’amica, non era necessario che le portasse qualcosa.
“Volevo farlo. Aspetta, l’ho lasciato di sotto.”
La bambina uscì dalla stanza lasciando Mackenzie da sola a domandarsi che regalo le poteva aver fatto. Un giocattolo? Un libro?
“Eccomi! Tua mamma ha detto che dobbiamo scendere a bere la cioccolata calda.”
Ora che la porta era aperta si sentiva un ottimo profumo.
Va bene, ma vorrei vedere il regalo prima.
“Impaziente, eh?” rise Elizabeth. “Beh, quando ricevo un dono lo sono anch’io.”
Le passò una borsa di carta e si scusò per non aver avuto tempo di fare un vero e proprio pacco.
Non importa.
Mac la aprì e ne estrasse un piccolo libro con scritto:
DIARIO SEGRETO.
“Spero ti piaccia. Io ne ho preso uno uguale e pensavo fosse una cosa carina avere lo stesso diario. Scrivere potrebbe farti bene e forse anche a me.”
È bellissimo, Lizzie. Grazie di cuore!
Mackenzie non aveva mai pensato di scrivere per sfogarsi. In parte lo faceva con la psicologa e con i suoi, ma non le era mai venuto in mente che avrebbe potuto sfogarsi in un diario tutto suo al quale confessare cose profonde e importanti che faceva fatica ad esternare. La sua amica aveva ragione: scrivere poteva essere un modo per sentire di meno il dolore e tutte le emozioni negative che si portava dentro. Non avrebbe potuto farle un regalo migliore. Le sorrise e la abbracciò, poi mise il diario in un cassetto della cassettiera sotto la scrivania, l’unico che aveva una chiave e la usò per chiuderlo, poi la mise sopra la libreria come faceva sempre in modo che Hope non ci arrivasse.  Avrebbe cominciato a scrivere quello stesso giorno e non vedeva l’ora di
iniziare.
Le due bambine scesero e Hope, stanca di stare in braccio, corse loro incontro.
“Mac Mac!” esclamò appena vide la sorella e lei sorrise.
“Ciao, io sono Lizzie” si presentò l’altra, pensando che dire il suo diminutivo sarebbe stato più facile per la piccola.
“Lizzie” ripeté infatti, senza alcuna difficoltà.
“Esatto, brava.”
La cioccolata era piuttosto densa e Demi si rimproverò di averci messo troppa fecola. Il fatto era che adorava addensare un po’ quella bevanda, ma finiva per esagerare trasformandola in una sorta di budino. Tuttavia nessuno si lamentò, e Hope riuscì a mangiarne da sola una piccola tazza usando il cucchiaino. Mentre mangiavano con calma i biscotti e vedevano le loro figlie divorare la merenda, le due donne si resero conto che quasi sicuramente quella sera nessuna di loro cinque avrebbe cenato. Tutte presero una seconda tazza di cioccolata.
“Posso tenere Hope in braccio?” domandò Elizabeth dopo un po’.
“Sì, aspetta.”
La bambina allontanò dal tavolo la sedia in modo da avere spazio e aprì le braccia aspettando che Demi le posasse Hope fra le braccia. Lizzie aveva tenuto poche volte in braccio un bambino e non ricordava più come ci si sentisse in una situazione come quella. Non appena strinse a sé la sorellina di Mac il suo cuore sembrò esplodere tanto batteva veloce. Sorrise e le accarezzò il visetto paffuto. Hope fece un versetto e poi le strinse un dito con la sua manina.
“Le piaci molto, Elizabeth” osservò Mary.
“Ne sono felice.”
“E anche lei ti adora” aggiunse Demetria.
Poco dopo le tre bambine stavano giocando sul tappeto del salotto. Le donne le guardavano con attenzione, pur restando in cucina. Giocavano tutte e tre con i peluche. Hope aveva un leone bianco, Lizzie una tigre dello stesso colore e Mackenzie un leopardo. Le prime due stavano parlando fingendo che fossero gli animali a farlo e Lizzie si sforzava di capire il linguaggio a volte incomprensibile della piccola Hope, ma non perdeva mai la pazienza. Mac si univa a loro scrivendo e la sua amica leggeva ad alta voce. Ogni tanto ridevano tutte e tre insieme, o anche quando lo faceva solo una le altre la seguivano. Mentre si divertiva, Elizabeth pensò che le sarebbe tanto piaciuto avere un fratellino. I bimbi piccoli le piacevano molto, Hope era un amore e lei era stanca di essere figlia unica.
 
 
 
“È bello vederle tutte e tre insieme” disse Mary.
“Sì moltissimo.”
Ora Hope accarezzava il gatto e le altre due il cane che avevano deciso di avvicinarsi alle bambine, curiosi di vedere cosa stavano combinando.
“Quel giorno la psicologa ci ha dato il compito più difficile di tutti” proseguì la prima e poi si rese conto che forse Demi non aveva ricordato proprio nulla, o non le sue stesse cose.
“Già.”
“Aspetta, hai rammentato anche tu quel giorno in cui siamo state nel bosco e ci siamo abbracciate, sia lì che a pranzo?”
“Sì.”
Si guardarono a bocca aperta. Era una coincidenza pazzesca!
“Mary, tua figlia sa che…”
“Gliel’ho spiegato in modo semplice ma sì, conosce i miei problemi passati. La tua?”
“Sì, anche se non l’ha saputo da me e di certo non nel modo in cui avrei voluto” sospirò Demi.
“Ti va di parlarne?”
“Non importa, te lo racconto un’altra volta.” Voleva sapere e non rimandare ancora quella conversazione. “A due a due, raccontatevi l’esperienza più forte che avete vissuto, quella che vi ha feriti maggiormente in ogni senso” recitò. “Ecco qual era la consegna. Me la ricordo ancora, parola per parola.”
“Io no, ma grazie per averlo detto.”
Demi aveva raccontato di quel giorno in cui Denise le aveva suggerito di suicidarsi, mentre Mary era scoppiata a piangere e poi aveva quasi urlato:
“Non so quale sia stata l’esperienza che mi ha sconvolta di più. I miei genitori litigavano prima del divorzio per questioni di soldi, perché mio padre era sempre via, perché mia madre diceva che non era mai con noi e lo accusava di andare a puttane e lui rispondeva che non l’aveva mai tradita. Quando due bulli della mia scuola mi hanno dato calci e schiaffi mentre attraversavo un vicolo nel quale non c’era nessuno e mi hanno lasciata lì, e mi ha trovata un mio compagno di scuola, ferita e sanguinante, ha chiamato l’ambulanza. Forse è s-stata quella l’esperienza p-più forte” aveva balbettato prima di proseguire respirando a fatica, “vedere i miei genitori che mi guardavano con compassione, mamma che piangeva e papà che diceva che era colpa sua se era successo tutto ciò, e pronunciava quelle parole con rabbia e con disperazione, come se non ci credesse ma non sapesse cos’altro dire per dimostrare il suo dolore. La bulimia è iniziata poco dopo, quando i miei si sono separati ed io litigavo sempre con mio padre perché davo ragione a mamma e tutti e due mi dicevano che ero grassa e che dovevo perdere qualche chilo. Andavo da una psicologa perché le botte che avevo preso mi avevano segnata anche psicologicamente e non parlavo quasi più con nessuno, mi chiudevo nel mio dolore e pensavo che me l’ero meritato. In quel periodo sono cominciate anche l’ansia e la depressione, diagnosticate dal mio medico, così ho unito la terapia psicologica a quella farmacologica. Della bulimia non si accorgeva nessuno perché facevo di tutto per nascondere i miei problemi ed ero decisa a continuare su quella strada, che mi faceva bene e male al contempo.”
Aveva detto tutto questo ritrovandosi poi quasi senza fiato.
“E… e poi?” le aveva chiesto Demi con voce appena udibile.
Aveva cambiato scuola e viveva con la mamma, vedeva il papà ma questo non le era bastato, così aveva cominciato a mangiare tanto e a vomitare non solo due o tre volte a settimana, finché era diventata una vera e propria routine. Non faceva colazione - si svegliava quando la mamma era già uscita quindi lei non se ne accorgeva -, beveva un litro d’acqua in pochi minuti, non pranzava e nel pomeriggio mentre sua madre era al lavoro usciva, comprava senza capire nemmeno lei che cosa stava prendendo, tornava a casa, si chiudeva a chiave in bagno e si abbuffava. Finiva pacchetti di patatine e barrette di cioccolata e biscotti in pochissimi minuti, poi usciva e buttava tutto in un bidone poco lontano da casa, dopodiché rientrava e vomitava fino a quando sentiva gli acidi dello stomaco venirle su. A cena mangiava ma solo per non far preoccupare la mamma. Il giorno dopo, una volta sveglia, la prima cosa che faceva era pesarsi e quando vedeva che era ingrassata si diceva:
“Ecco, non avresti dovuto abbuffarti così ieri, ma continui a farlo sempre. Brava, stronza! Sei solo una cogliona! Sei una cicciona del cazzo, una grande e grossa merda. Va’ affanculo.”
E tutto ricominciava daccapo: digiuno, abbuffata, vomito; digiuno, abbuffata, vomito… in un ciclo continuo e che pareva eterno. Dopo un paio d’anni era svenuta a scuola perché non aveva mangiato e una volta in ospedale aveva cercato di dire che si era dimenticata di far colazione e che non aveva avuto voglia di pranzare, ma i medici non le avevano creduto e nemmeno i genitori così lei, emotivamente fragile, era crollata raccontando tutto; e dunque era arrivata lì, in quella clinica.
Mary non sapeva perché alla fine avesse voluto ricordare. Ma sapeva due cose: la prima era che era grata ai genitori perché le erano stati molto vicini da quando lei si era ammalata, nonostante tutte le loro incomprensioni; e l’altra era che Demi era stata per lei una persona davvero importante.
Ritornando con la mente al presente si decise a parlare.
“Se non ti ho più contattata da quando siamo uscite insieme da quella clinica e se ho cambiato numero è stato perché…” Prese un grande respiro e si fece coraggio. Doveva dirlo, ora. “Avrei voluto farlo all’inizio” riprese, con voce ferma. “Eravamo grandi amiche, io e te e mi mancavi tantissimo. Quando sono tornata a casa io ho cercato di ritrovare un po’ di equilibrio, come immagino abbia fatto anche tu.”
“Sì” confermò Demi.
“Volevo stare un po’ meglio prima di chiamarti, riuscire a controllarmi bene per non rientrare mai più in quel maledetto circolo vizioso; ma non ci sono riuscita.”
Abbassò gli occhi, vergognandosi. Si sarebbe nascosta sotto terra se avesse potuto.
“Stai dicendo…”
“Proprio così, Demi. Tu ce l’hai fatta, hai dovuto lottare ancora ma non sei mai veramente ricaduta nei tuoi problemi, giusto?”
“A volte non riuscivo a mangiare o mi abbuffavo e mi sono tagliata, lo ammetto. Le ricadute sono normali, Mary! Riprendersi da queste malattie non è affatto facile, ci vuole tempo e bisogna cadere più volte per riuscire a rialzarsi. Se mi avessi detto che eri crollata io non ti avrei mai presa in giro, mai! Avremmo potuto starci vicino a vicenda, darci una mano come prima!”
Aveva alzato un po’ la voce nel pronunciare quelle frasi a causa della frustrazione che provava. Non poteva credere che si fosse vergognata talmente tanto di se stessa da non contattarla più. Avevano avuto gli stessi problemi, maledizione, e sapere che Mary aveva affrontato tutto ciò da sola a Demetria faceva male. Provava anche rabbia nei suoi confronti, ma più che altro soffriva per lei.
“Volevo proteggerti, non lo capisci?” sbottò. “Volevo evitarti di soffrire con me.”
Demetria si sentì morire dentro udendo quella frase. Le parole pronunciate dalla sua amica racchiudevano un dolore inimmaginabile persino per lei.
“Mary” mormorò, allungando una mano per stringerne una delle sue. Entrambe le avevano fredde.
“E comunque,” riprese la ragazza, “io sono stata più debole di te.”
“Perché dici questo?”
Io non ce l’ho fatta, a differenza tua. Sono tornata di nuovo in clinica per altri tre mesi. Non potevo permettere che tu sapessi tutto, che vivessi di nuovo con me quell’inferno quando - dentro di me lo sapevo - stavi meglio e lottavi con tutte le tue forze!”
Demetria non era preparata a quella rivelazione che per lei fu come una doccia gelata. La sua amica aveva avuto una terribile ricaduta ed era stata ancora male, forse più di lei. Comprendeva ciò che Mary aveva fatto. Aveva voluto evitarle di star male, ma c’era un’altra parte di lei che riteneva quel gesto sbagliato.
“Non so come mi sarei comportata se fossi stata al tuo posto, Mary” le disse, con gli occhi arrossati dal pianto. “Avresti dovuto chiamarmi e lasciar scegliere a me come comportarmi; invece non mi hai dato nessuna possibilità.”
“Lo so. Me ne sono resa conto tempo dopo, quando stavo meglio.” Cercò di tranquillizzarsi parlando più lentamente. “Solo che dopo essere guarita sono rimasta incinta e pensavo che ormai fosse tardi per noi, che non mi avresti voluta più vedere. Ero così confusa in quel periodo!”
“E quando è nata Lizzie? Perché non ti sei fatta viva?”
“Non lo so” ammise. “Avevo paura di quel che sarebbe successo, credo. Ho deciso e pensato tutto io, ho scelto anche per te e questo è stato orribile da parte mia, forse l’errore più grande che io abbia commesso.”
“Non è stato affatto bello, è vero.”
“Ce l’hai con me?”
“No.”
Mary alzò lo sguardo, sorpresa.
“No?”
“Hai capito bene. O meglio, non più.”
Demi parlava in modo calmo.
“Quindi mi perdoni?”
“Certo!”
“Ma perché? Non lo merito.”
“Semplice: perché ti voglio ancora bene e non ti lascerò sparire dalla mia vita un’altra volta.”
L’altra la fissò, seria, non sapendo che dire. Era meglio lasciare che continuasse a parlare.
Era vero, non si erano sentite per anni e Mary si era fatta tutta una serie di complessi pensando di proteggerla, non le aveva dato scelta e si erano incontrate per caso, perché la sua amica era la madre di una compagna di Mackenzie, ma forse non era stata solo una coincidenza. “Magari era destino che ci incontrassimo, era già scritto. Forse doveva andare così” continuò Demetria. “Io ho sofferto ed ora sto male nel sapere che hai dovuto rivivere quello schifo senza di me. Nessuna delle due dimenticherà mai ciò che è successo, Mary. Ma oggi…” Tossì un paio di volte per recuperare la voce e sentì che un intenso calore le invadeva le guance e poi tutto il corpo. “Ma oggi” ricominciò, piangendo, “quando ti ho vista io ho provato, nel profondo, una gioia che non è possibile descrivere. È proprio in nome di questa nostra vecchia amicizia e del fatto che non ho mai smesso di volerti bene nemmeno quando ti sei volatilizzata, che ti chiedo: ti va di ricominciare a stare insieme? Ripartiamo daccapo. Potremmo farlo da sole o anche portando le nostre figlie al parco, o ancora qui a casa mia.”
Era assurdo continuare a discutere, a rivangare il passato e a farsi male. Se Bill era riuscito a far pace con sua madre, tentando di risolvere una situazione molto più drammatica e ostica della loro, perché lei e Mary non potevano farcela se avevano sempre provato affetto l’una per l’altra? Se si fossero mal sopportate a causa degli anni di lontananza, se soprattutto Demi non avesse voluto avere nulla a che fare con lei sarebbe stato diverso, ma grazie al cielo non era così. Ci sono amicizie che non muoiono mai e sentimenti la cui fiamma non si spegne.
“Ne sarei felice, Dem!” esclamò la ragazza.
Non la chiamava così da un sacco di tempo e la cosa la fece sorridere.
“Anch’io!”
Demi fece il giro del tavolo, Mary si alzò e si strinsero forte. Erano passati molti anni e non pretendevano di tornare ad essere subito unite come prima. Ci sarebbe voluto tempo e loro si sarebbero prese tutto quello necessario. Intanto avevano chiarito e si volevano ancora bene: era un ottimo inizio.
Dopo averle lasciate giocare ancora un po’, le due si accorsero che si stava facendo tardi.
“No, mamma! Non voglio andare a casa” si lamentò Lizzie.
“Papà sta per tornare dal lavoro, cara. Devo preparargli la cena.”
“Ma uffa! Cinque minuti?”
“No.”
“Tre?”
“No. Non fare i capricci, su.”
Dai Lizzie, ci vedremo domani a scuola e poi potrai tornare qui quando vorrai la rassicurò Mac.
Le due bambine si abbracciarono. La loro amicizia era ancora agli albori, mentre stando a quel poco che avevano sentito le loro mamme si conoscevano da molto tempo e sembravano volersi tanto bene. La loro era una nuova amicizia, quella di Mary e Demi una di vecchia, ma erano entrambe molto importanti.
Quella sera le due donne si sentirono in pace e felici. Il vuoto lasciato dagli anni di distanza era stato ora colmato. Le bambine erano felici e scrissero entrambe nel loro diario raccontando ognuna la propria bellissima giornata.
 
 
NOTE:
1. Ecco la definizione di terapia di esposizione da Wikipedia. Io ne ho sentito parlare anche se non in maniera approfondita, quindi mi sono documentata e ho cercato di spiegare di cosa si trattava al meglio.
 
La desensibilizzazione sistematica (in inglese Systematic desensitization, SD) o terapia ad esposizione graduale è un tipo di terapia comportamentale impiegata in psicologia per superare fobie, ed altri disturbi dell'ansia. Per documentarmi sulla bulimia ho letto molti articoli su internet su siti che mi sembravano affidabili e anche l’esperienza di una ragazza che soffre di questa malattia e purtroppo non ne è ancora uscita.
 
Approfondisco un po’ per far capire meglio, prendendo informazioni sempre da Wikipedia.

Caratteristiche

Il processo di desensibilizzazione sistematica avviene in tre fasi:
Prima fase: viene identificato lo stimolo che provoca ansia, il più dei casi tramite intervista al soggetto. Viene identificata una gerarchia di forme diverse dello stimolo (anxiety hierarchy) ordinate dalla più debole alla più forte, talvolta con l'ausilio di una scala numerica.
Seconda fase: il soggetto apprende meccanismi per affrontare il disturbo, quali le tecniche di rilassamento muscolare. Lungo un percorso di diverse sessioni, viene insegnato come contrarre e rilassare sequenzialmente diversi muscoli del corpo (gambe, braccia, testa, collo, spalle, torace e stomaco) per raggiungere un livello di rilassamento sempre più profondo. Le sessioni vanno avanti fino a che la pratica non viene padroneggiata. A volte, al posto del rilassamento, vengono impiegati esercizi nei quali il soggetto porta alla mente pensieri gradevoli e rilassanti.
Terza fase: il soggetto collega i meccanismi appresi con lo stimolo che provoca ansia o fobia, seguendo la gerarchia identificata nella prima fase. All'inizio l'esposizione allo stimolo può essere solo immaginaria, per giungere poi ad una in vivo ma controllata fino allo stadio finale.
[…]
Una variante di più recente impiego è il flooding, nel quale il soggetto è esposto allo stimolo provocante ansia direttamente nella sua forma maggiormente incutente paura, senza passare per una esposizione graduale.

Come si vede, quindi, questo processo comprende tre fasi. Si parla sempre di “soggetto”, quindi la terapia di esposizione è individuale, ma sono sicura anche che possa essere di gruppo perché ne ho sentito parlare anche dalla mia psicologa. Diciamo che quella che ho cercato di descrivere è stata la terza fase. Le pazienti sapevano già cosa provocava loro ansia, le psicologhe che le seguivano trattavano anche questo disturbo e le aiutavano a rilassarsi grazie a delle tecniche anche se non tutte riuscivano ancora a controllarsi, come Demi per esempio perché era in clinica da poco. La nuova ragazza, Charlotte, era lì solo per provare questo tipo di terapia per vedere com’era. Essendo arrivata da pochissimo ha ancora più strada da fare. Mi sono immaginata che la sua psicologa volesse farla interagire con le altre anche in questo tipo di attività e proseguire comunque la terapia individuale, come del resto facevano le altre ragazze, che erano seguite anche singolarmente). Ribadisco, dunque, che in questo caso si è parlato di un’esperienza forte (lo stimolo) che ha scatenato una reazione nelle allieve (l’ansia e, nel caso di Mary, anche la depressione).
Alla Timberline Knolls si seguono sia sessioni di gruppo che non, nel sito c’è scritto così e ho letto anche alcune testimonianze che ne parlavano. Non so se si usi la terapia di esposizione, ma mi pareva interessante parlarne.
 
 

ANGOLO AUTRICE:
ciao ragazze!
Scusate per le note lunghe, ma era necessario che mi spiegassi.
In questo capitolo vediamo che Mackenzie ed Elizabeth passano dei bei momenti insieme (avrei voluto scrivere un po’ di più ma quelle erano tutte le idee che avevo, e ringrazio Emmastory per il suo prezioso contributo). Per quanto riguarda il diario della bambina, inserirò qualche pezzo dei suoi scritti quindi li leggerete, tranquille.
Mary e Demi invece sono in difficoltà. Vi aspettavate che quella Mary di cui Demetria aveva accennato qualche capitolo fa sarebbe stata un personaggio della storia? E che fosse la mamma di Elizabeth? Che ne pensate del motivo per cui si è allontanata dalla sua amica?
Non preoccupatevi comunque, la vedrete ancora altre volte, già a partire dal prossimo capitolo nel quale tornerà anche Andrew e conoscerete il papà di Elizabeth: Jayden.
Emmastory mi ha detto che Demi (quella vera) si è rotta un piede mentre era in vacanza. Povera! Facciamole gli auguri di una pronta guarigione.
A presto,
crazy lion
   
 
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