Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    02/06/2018    1 recensioni
La storia tra Anna e Antonio sarà messa a dura prova da scottanti questioni sociali e drammatiche vicende private che si intrecceranno in un inestricabile garbuglio nel quale ritrovare il "filo rosso del destino" non sarà affatto facile.
Per questo sequel è stato necessario forzare un po’ i tempi dell’ambientazione per motivi di ordine storico, viceversa non sarebbe stato possibile far incontrare la Storia con la storia. Lo slittamento temporale consiste in un lasso di una decina d’anni. Mi auguro che chi leggerà mi vorrà perdonare.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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-Che piacere rivedervi, mia cara Anna! Quanto tempo è passato e quante volte ci siamo ripromesse di scrivervi, io e mia sorella Sofia, potete vedere la vita frenetica che conduciamo qui a Parigi. Abbiamo pochissimo tempo, ma non significa che ci siamo dimenticate degli amici di gioventù! – Teresa Farnese, in uno splendido abito in taffetà blu scuro, si faceva incontro ad Anna, appena scesa dalla carrozza nel cortile interno del palazzo. Un palazzo pregevole, nel centro di Parigi, con un ampio giardino interno all’italiana, scaloni di marmo, ampie sale da ricevimento; apparteneva al defunto marito di Sofia, il duca di Martignac, che l’aveva poi lasciato in eredità alla giovane sposa. Le due sorelle trascorrevano lì la maggior parte dell’anno, circondate dai numerosi amici parigini, dai vari amanti e cicisbei dell’alta nobiltà francese. Quasi ogni sera, estate o inverno che fosse, tenevano ricevimenti e balli, a cui prendevano parte oltre ad aristocratici di mezza Europa, ufficiali dell’esercito, arcipreti, ricchi banchieri, magistrati, funzionari del regno e, per aggiungere una nota di cultura, anche intellettuali illuministi, maîtres à penser ansiosi di diffondere le proprie idee tra le madame annoiate e i loro mariti distratti. Si respirava un clima decisamente diverso rispetto a quello del regno di Piemonte, in cui la nobiltà del luogo si mostrava molto chiusa e diffidente rispetto alle nuove filosofie. Nelle ultime settimane, però, le cose erano cambiate. I tumulti che avevano messo a ferro e fuoco la città nel mese di luglio e gli echi delle sommosse che si compivano nelle campagne avevano messo in allarme la nobiltà cittadina. Balli e ricevimenti si tenevano lo stesso, ma erano meno frequenti, meno affollati, meno spensierati: i portoni venivano immediatamente serrati dalla servitù all’ingresso di ogni carrozza, gli invitati non scendevano fin quando non veniva dato loro il benestare di mettere piedi fuori dall’abitacolo, il tragitto per giungere al palazzo dalle loro residenze era ricco di imprevisti e insidie, i discorsi che si tenevano non erano più leggeri e divertenti, ma vi si insinuava la paura che tutto un mondo stesse per crollare sotto i colpi dei forconi e delle spranghe del popolo parigino. In questa temperie, tesa e desolata, Anna fece il suo arrivo a palazzo dei Farnese.
- Mi vogliate perdonare, Teresa, ma non ho avuto una vita tranquilla negli ultimi anni. Ah, se ripenso alle nostre chiacchiere di gioventù! Quanto è stato tutto poi diverso! – si scusò Anna, facendo eco alle parole di scusa della duchessa.
- Abbiamo saputo, cara, di vostro marito, della sua terribile sorte. Quanto ci è dispiaciuto! –
- Non è stato un periodo facile, quello…- si limitò a rispondere, in grande imbarazzo.
- Oh, Anna, come sono contenta che siate qui! – esclamò sopraggiungendo Sofia in quel momento, in un vestito di chiffon bianco di pregevole fattura. Lo sfarzo certamente non mancava loro.
La conversazione continuò nella sala da tè. Comodamente sedute su un divanetto di raso color senape, in mano tazze di porcellana di pregiata fattura giapponese, le duchesse intrattenevano l’ospite appena arrivata cianciando delle novità della vita parigina. Ci si sarebbe aspettati racconti delle sommosse del mese di luglio, del caos che regnava in tutta la Francia in quelle settimane, del Terzo Stato che voleva usurpare il potere del re, dei popolani che rialzavano la cresta e avanzavano assurde pretese, insomma ci si sarebbe aspettati un quadro più o meno parziale della situazione che vigeva allora in città. In realtà le notizie, di cui Teresa e Sofia si compiacevano, vertevano sulle nuove mode, sulle acconciature più in voga nelle feste da ballo a Versailles, sulle tresche vere o presunte tra nobildonne e ufficiali o tra ambasciatori e mogli di banchieri, sulle vicissitudini della casa reale e su quanto di più banale si potesse immaginare. Anna ascoltava distrattamente questi discorsi, sorseggiando con eleganza il bollente tè nero: non era questo che le interessava, avrebbe voluto saperne di più sulle rivolte in atto, sui deputati del Terzo Stato, sugli avvocati più in mostra nell’agone politico…Per farla breve, avrebbe voluto chiedere loro di Jerome LeBlanc. Sapeva quanto fosse contesa la sua presenza nei salotti parigini: tutti facevano a gara per invitarlo, vista la sua eleganza, la sua disinvoltura, la sua arguzia nell’intavolare una conversazione su qualsiasi tipo di argomento, fossero facezie o scottanti questioni politiche, e non da ultimo, le dame parigine non disdegnavano nemmeno la sua bella presenza. Era perciò convinta che le duchesse Farnese lo conoscessero, anche solo di nome, e potessero darle qualche informazione su di lui, sulla sua residenza, sul suo lavoro in Assemblea. Doveva rintracciarlo a tutti i costi: solo Jerome le avrebbe potuto dire dove si trovasse Antonio. Non era, però, così facile portare il discorso su di lui: le Farnese si sarebbero certamente insospettite, le avrebbero fatto domande su come l’avesse conosciuto, su quali legami intercorressero tra una marchesa del regno di Piemonte e un rampante avvocato della provincia francese. Le eventuali domande sarebbero state difficili da gestire, meglio aspettare che fossero loro ad intavolare il discorso, o meglio ancora cercare di carpire qualche informazione dagli ospiti invitati durante i loro frequenti ricevimenti.
-E come sta vostro fratello Fabrizio? Perché non è venuto con voi? Ci avrebbe fatto così piacere…- domandò con fare civettuolo Sofia, risvegliando Anna dalle sue congetture.
Fabrizio. Il nome di suo fratello le riportò alla mente la loro ultima discussione, prima che lei partisse.  Non era stato per nulla facile convincerlo a lasciarla andare. Da sola. Aveva avanzato diversi pretesti, scuse, suppliche affinché non partisse per Parigi. Diceva che sarebbe stato pericoloso, che sarebbe stato, anzi, inutilmente rischioso perché Antonio sarebbe a breve tornato spontaneamente, che non avrebbe avuto senso rischiare, che avrebbe mandato lui stesso Angelo a prendere Emilia al convento e a portarla in salvo a casa.
-Ho deciso, ormai, Fabrizio. Devo partire. Devo farlo. O vuoi che continui a logorarmi in questo modo qui a Rivombrosa? – ribatté stizzita alle sue rimostranze.
- Non ho detto questo. Non voglio assolutamente vederti nello stato in cui eri nelle ultime settimane. Dico solo che…-
- Che cosa, Fabrizio? Che Antonio tornerà? Abbiamo visto che non è stato così. Devo parlargli, solo parlandogli guardandolo negli occhi, potrà convincersi che il mio pentimento è sincero. Restare qui è solo tempo sprecato. E poi devo riportare a casa Emilia. Non voglio che resti in quell’anarchia un giorno di più. –
-Anna, ragiona! Questa è una follia! Manderò Angelo a prendere Emilia, la riporterà a casa immediatamente. Ma tu non puoi partire per Parigi così, senza sapere nemmeno dove sia Antonio, senza avere alcun appoggio…-
- Ti sbagli: le duchesse Farnese mi ospiteranno con gran piacere, si sono dette anzi onorate del fatto che ci siamo ricordati di loro. Partirò la prossima settimana. –
- Allora verrò con te. Ti accompagno.-
- Fabrizio, questo è fuori discussione. Andrò da sola. Si insospettirebbero ancor di più se andassimo in due. Non dovranno sapere nulla di Antonio, di LeBlanc e di tutta questa storia. Non possiamo rischiare.-
- Io continuo a non seguirti. A che scopo cacciarsi nei guai, in una situazione instabile e pericolosa come quella di Parigi di questi ultimi tempi? È assurdo! –
- Assurdo? Parli proprio tu? Tu che per amore hai sfidato le convenzioni, ti sei messo contro la tua famiglia, me compresa? Tu parli di assurdità? Io amo Antonio. E per lui sono disposta a tutto. Ricordatelo. -
 
Da quella notte d’agosto non aveva più voluto saperne di comizi, assemblee e riunioni politiche. E nemmeno del suo amico Jerome. Era disgustato, nauseato, deluso e arrabbiato. Arrabbiato soprattutto con se stesso, per essere stato tanto ingenuo da credere per un momento che si potesse, attraverso la partecipazione alla vita politica, cambiare lo stato di cose, ribaltare l’ordine iniquo che vigeva da secoli, concedere finalmente la dovuta dignità agli sfruttati e agli oppressi. Invece tutto si era rivelato un inganno, teso soltanto a rafforzare il potere dei padroni, che forse non sarebbero più stati aristocratici dal sangue blu, ma ricchi borghesi ugualmente privi di scrupoli e acciecati per di più dallo spirito di rivalsa sociale. A farne le spese sarebbero stati ancora una volta i più deboli, i contadini, i popolani, i derelitti che vivevano al margine della società: per loro il momento del riscatto non sarebbe mai arrivato. Si era quindi defilato, ritirato in disparte nel suo modesto appartamento di rue de Saint Martin, lontano dai richiami di guerra e di rivolta, ma soprattutto lontano dalle vibranti arringhe di Jerome, che ormai lo disgustavano, dopo averne conosciuto l’ipocrisia. Il suo era un alloggio spoglio e disadorno, al primo piano di un palazzo di periferia che dalla facciata si sarebbe detto squallido, ma nella sua abitazione Antonio, che pure non aveva mai indugiato nel lusso e nello sfarzo, non rinunciava all’ordine e alla pulizia a cui era sempre stato avvezzo. Quattro stanze, un mobilio semplice e austero, uno studio doveva teneva gli strumenti del mestiere e dove di quando in quando riceveva i suoi miseri pazienti. Aveva ripreso la sua attività di medico a tempo pieno e ne era felice. Era molto più felice di quando si perdeva dietro alle spregiudicate idee di Jerome, quando doveva carpire il volere del popolo perché fosse trasformato in consenso elettorale, quando doveva convincere, vendere fumo, e, alla luce dei fatti successivi, ingannare. Finalmente, dopo mesi, era di nuovo in pace con se stesso, con la sua coscienza: aveva ripreso a esercitare la professione che tanto amava; si era fatto benvolere dalla gente del quartiere, nonostante l’iniziale diffidenza dovuta soprattutto alle sue origini italiane; viveva dignitosamente, per quanto spesso i suoi pazienti più poveri non fossero in grado di pagarlo e in città fosse più difficile che potessero ricompensarlo con prodotti della terra o animali, come avveniva in campagna. Tuttavia non aveva di che lamentarsi, riusciva a pagarsi vitto e alloggio e a mantenere anche un giovane garzone, che provvedeva alla casa e lo accompagnava di quando in quando nel giro di visite quotidiano.
Dalla metà di settembre, su insistenza del suo garzone, acceso sostenitore delle idee rivoluzionarie e suo grande estimatore, aveva ricominciato a frequentare circoli politici. Ma questa volta era diverso. Era entrato a far parte di uno dei più integralisti dei club che si stavano allora formando, frequentato quasi esclusivamente da sanculotti, popolani, attivisti rivoluzionari dei più estremi: ricchi borghesi annoiati e ipocriti avvocati di grido non erano ammessi. Antonio vi aveva aderito più per solidarietà nei confronti di quelli che erano i suoi pazienti, che per reale convinzione: con la sua breve esperienza politica aveva chiuso e infatti rifiutò deciso quando gli offrirono la possibilità di candidarlo quale loro rappresentante alle future elezioni della Costituente. Lui, italiano, non avrebbe potuto accedervi in ogni caso, ma la proposta lo lusingò alquanto. Era amato e stimato dalla gente del popolo, come lo era sempre stato dai contadini a Rivombrosa. Rivombrosa. Ogni tanto gli ritornava alla mente. Ripensava alla sua gente, a Fabrizio, a Elisa. Ad Anna, no: quella era un pensiero fisso, costante, incrollabile. Un pensiero che a seconda dei momenti si tingeva di delusione, di rabbia, di tenerezza, di apprensione: un inestricabile insieme di sentimenti, difficili da riordinare, ancor più difficili da accettare. Spesso era stato sul punto di mollare tutto e ritornare, soprattutto dopo la delusione inflittagli per la seconda volta all’amico Jerome, ma non ne aveva poi mai avuto il coraggio. Non sapeva che cosa l’avrebbe atteso, al suo ritorno, aveva paura che le cose fossero cambiate durante la sua assenza, aveva paura del confronto con lei, aveva paura di non essere in grado di perdonarla o di non essere perdonato da lei. Perciò puntualmente rimuoveva il problema, la notte, a letto, si limitava a fantasticare su un suo possibile arrivo a Rivombrosa, sulle reazioni degli amici, dei domestici, ma non gli riusciva, o meglio si negava, di immaginare quello che avrebbe detto o fatto Anna. Ancora bruciavano le ultime parole che si erano scambiati, ancora era troppo forte la sofferenza, ma ogni giorno di più aumentava la paura di essersi irrimediabilmente persi.
   
 
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