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Autore: Luana89    16/06/2018    1 recensioni
Nessuno può dire cosa succede in quel sottile processo di cambiamento tra la persona che eri e la persona che diventi. Nessuno, oltre te, può tracciare la linea immaginaria dell'inferno. Nessuna mappa. Nessuna via indicativa. Sei semplicemente uscito dall'altra parte, e non ti resta che camminare e sperare. In molti provano a scombinarmi i pensieri, a capire cosa ci sia dentro quel lerciume coperto da strati di capelli e ossa. Fottuti idioti. Nessuno entrerà mai nel mio castello. Nessuno ne varcherà mai nemmeno i cancelli. O forse si, forse tu?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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IV




Un rumore improvviso, un sordo bussare quasi violento, mi strappò dal sonno in cui ero caduto dopo una notte di bagordi con James e Peter. Sollevai appena il viso cercando di capire se l’avessi sognato o meno, ma l’ennesimo forte rumore bastò a togliere ogni dubbio, fissai la sveglia segnava le 4:00. Mi alzai a fatica andando a tentoni lungo il corridoio.
«JAYDEN COX, POLIZIA DI NEW YORK». A quelle parole mi bloccai, avevo con me una pistola e sapevo bene che trovarla lì equivaleva a finire dritto davanti al giudice. Imprecai a bassa voce velocizzando il passo, aprendo la porta poco prima che la buttassero giù. Ci fissammo per un tempo che mi parve infinito, non avevo fatto un cazzo ne ero sicuro. O meglio, nulla che loro potessero sapere. La Range Rover era parcheggiata a qualche isolato da casa mia, ricollegarmi a lei era impossibile.
«Salve agente, un ottimo orario per venire a farmi visita». Sorrisi sterile fissando i due uomini che sembravano adesso meno sicuri di se.
«Signor Cox deve venire con noi». Aggrottai la fronte aprendo del tutto la porta, incrociando le braccia al petto.
«Non ho fatto nulla, avete un mandato?». Mi fissarono ancora più a disagio.
«Non è per lei. Ma per sua madre». Smisi di respirare, il semplice atto di inalare l’aria sembrò troppo complicato.
«E’ nei guai? Datemi un minuto». Feci loro cenno di aspettare ma non ne ebbi il tempo.
«Signor Cox—» il secondo poliziotto si interruppe lasciando la parola al primo.
«Deve seguirci all’obitorio, sua madre è morta
 
La mia vita si arrestò a quella frase, ogni cosa che seguì dopo sembrava proiettata come un film in bianco e nero senza suono, ero seduto su sedie rosse sporche e vecchie a fissare il monitor incepparsi. I miei passi lungo il corridoio mentre indossavo una felpa logora sopra i pantaloni del pigiama. Il mio dimenticare le scarpe, e la sensazione dell’asfalto gelido sui piedi mentre salivo sulla loro volante per la prima volta da innocente. L’odore asettico di quel posto, i muri intonacati di un verde raccapricciante e la porta in metallo che si aprì al mio passaggio.
Un medico dal cipiglio arcigno mi accolse e senza preamboli scoprì il lenzuolo. Non avevano trovato alcun documento in casa, era come un’estranea lì dentro, qualcuno senza identità. Una vicina aveva fatto il mio nome, aveva detto ‘’quella donna ha un figlio, ma non viene ormai più’’. Mi venne da ridere, l’avrei uccisa quella puttana.
«Ragazzo». Il medico mi ammonì, non mi ero reso conto di aver allungato il braccio per sfiorarla, sfiorare il livido sotto il collo. Aveva fatto male? Quando l’aria ha abbandonato totalmente il tuo corpo, hai sofferto? Nessuno avrebbe risposto a quelle domande, tantomeno lei.
«E’ la signora Lauren Cox?». Strinsi i denti annuendo, non riuscivo a proferire parola.
«Posso restare solo con lei?». Lo fissai e i suoi occhi improvvisamente sembrarono divenire lucidi, lo vidi in difficoltà quasi come gli pesasse condividere ossigeno con me in quel momento. Non so che espressione vide su di me, ma tanto bastò per farlo sparire oltre quella porta. Eravamo finalmente soli, quanto tempo era passato dall’ultima volta? Avevamo sempre avuto il nostro microcosmo perfetto, un luogo dove bastarci a vicenda, quand’è che tutto era cambiato? Come avevo potuto far si che questo succedesse? Ero stato così cieco ancora una volta. Le sfiorai il viso, era freddo e rigido, non era più mia madre. Quel corpo vuoto non conteneva la minima traccia di lei, chi mi avrebbe chiamato adesso con quella voce stanca e fine ‘’amore mio’’? Chi avrebbe accarezzato i miei capelli lasciandomi dormire sulle sue gambe? La mia vita piombò nell’ennesimo buco nero e non riuscii a vederne la luce.
 
«Jay?». Stavo accucciato al muro del corridoio, mi ero accasciato così lentamente da non rendermene conto. Non risposi a quella voce, non volevo sentirla.
«Jay ti prego, dobbiamo andare». Mi scrollai da quella presa fissando Alice con occhi infuocati.
«Lasciami stare». Vidi le lacrime nei suoi occhi, volevo urlarle contro che non aveva il diritto. Non era lei quella a dover piangere, ma io.
«Jay so cosa—» non la feci continuare, mi alzai inferocito allontanandomi.
«CHE CAZZO NE SAI TU? COSA. COS’E’ CHE SAI?». Mi pentii subito di quelle parole, non avevo neppure assistito al funerale di sua madre, non ero stato lì mentre lei adesso era qui per me. Ci fissammo intensamente e io crollai. Mi schiantai su quel suolo, tra le sue braccia. Il mio pianto usciva a singhiozzi, quasi grottesco, simile alla voce di un bambino cresciuto troppo in fretta. Stringevo la stoffa della sua maglia, la mia faccia sepolta contro le sue cosce mentre i suoi jeans assorbivano le mie lacrime.
 
 
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
 
Ero riuscito a farle avere un funerale privato, fissavo il prete e poi la bara a minuti alterni, continuavo ancora a non sentirmi padrone del mio corpo e della mia vita in quel momento. Continuavo ancora a sedere su quelle sedie impolverate guardando quel film, vedendo me come protagonista, ma restandone ai margini. Di fianco a me Alice mi teneva la mano, alla mia sinistra Peter e James dai visi pallidi e sconvolti. Tutti sapevano, tutti mormoravano sulla donna che aveva assassinato il compagno e poi si era tolta la vita, li sentivo erano come un brusio dentro le mie orecchie, come uno sciame d’api infernale che pungeva e pungeva e pungeva. Alice gemette sottovoce, mi resi conto in quel momento di averle stretto la mano con così tanta forza da staccargliela quasi. Non mi scusai, come non mi ero scusato per tante cose in quei giorni, non mi ero scusato per la mia apatia, il mio non mangiare, il mio continuare a inveire contro tutti. La mia rabbia non poteva essere colmata, mia madre aveva pensato a tutto non mi aveva lasciato neppure il piacere della vendetta per consolarmi. Luke non c’era più. Morto a marcire coi vermi, lo aveva portato con se pensando di liberarmi anche di quel fardello. Cosa mi restava adesso? Mi sollevai, tutte le teste si girarono, le ignorai uscendo da quella chiesa che puzzava di incenso e fiori, puzzava di morte, ammorbava l’aria impedendomi di respirare.
L’accendino scattò due volte, qualcuno mi avvicinò la fiamma del suo, sollevai gli occhi e Stuart mi sorrise.
«Non ho voglia dei tuoi sermoni». La mia brutalità lo divertì probabilmente, annuì silenziosamente lasciandomi fumare in silenzio. Non dormivo decentemente da giorni, non ci riuscivo. Ogni volta che chiudevo gli occhi la vedevo penzolare in una pozza di sangue.
«Quando Anna mi ha lasciato ho pensato il mio mondo avesse perso colore». Inspirai il fumo senza dire nulla. «Niente più profondità negli oggetti, niente più suoni. Avevo solo Alice come suo pallido riflesso». Sorrisi spento.
«Quindi? Mi stai dicendo che dopo un po’ passa?». Mi fissò inarcando un sopracciglio.
«Non passa mai. Le cicatrici del cuore permangono una vita intera, sta a noi decidere però se curarle o lasciarle aperte a infettarsi». Non riuscii a ribattere, lui meglio di me forse sapeva che mi sarei lasciato andare ancora una volta. Lui meglio di me sapeva quanto i miei occhi neri fossero il preludio della catastrofe.
«Ha pianto molto al funerale? Dico, Alice, ha pianto molto?». Ci guardammo qualche secondo, lo vidi respirare profondamente, sapevo quanto dolore gli costasse ricordare.
«Ha pianto molto, si. Ricordo però di averla persa di vista durante la cena, la trovai nel dondolo sul patio. Sai cosa mi disse?». Feci di no con la testa invogliandolo a continuare. «Mi disse: se ci fosse Jay avrebbe fatto di tutto per farmi ridere, mi avrebbe fatto fare quello stupido gioco dello specchio, mi avrebbe ricordato ogni mia figuraccia. Mi avrebbe fatta ridere». Chiusi gli occhi e le lacrime uscirono nuovamente fuori dai miei occhi, mossi il capo come a invogliarlo a smettere, sentii solo la sua mano calda e pesante sulla spalla. Ma non bastò. Non bastava mai. Niente sembrava poter bastare in quel momento, mi stavo arenando ancora e non c’era nulla che potessi fare per fermare la mia barca alla deriva. Neppure chiedere aiuto sarebbe bastato.
 

 
(          ALICE      )
 
 
«Sono preoccupata per lui, non risponde alle mie chiamate da giorni». Giocherellai con la bottiglia di fronte a me, James si mosse e la sedia accanto alla nostra scricchiolò annunciando l’arrivo di Peter a quella sorta di riunione notturna.
«Ha perso la madre, suppongo sia comprensibile». Vidi James fissarlo e passarsi una mano sul viso, aveva le unghie perennemente annerite a causa del suo lavoro.
«Ho solo paura che commetta qualche sciocchezza..» la mia voce insicura sembrò dare voce ai pensieri di tutti in quel momento.
«Ha saltato anche la corsa». James si attaccò alla propria birra come un assetato nel deserto. Non vedevo Jay da giorni, deviava persino le mie chiamate e non rispondeva al sordo bussare delle mie nocche contro la sua porta. Mi ero persino appostata ore sotto casa sperando di vederlo uscire ma niente, iniziavo a provare difficoltà persino a seguire le lezioni e il mio tirocinio in ospedale era ormai alle porte. Non avevo più scritto alcuna lettera per lui, le mie parole adesso sembravano incastrate nella gola quasi morissero dal desiderio di essere urlate.
«Ho un appuntamento, devo andare». Fissai l’orologio ricordandomi solo in quel momento di Matt, un mio collega universitario a cui avevo dato buca una decina di volte. James mi fissò in maniera strana.
«Esci con un ragazzo?» Peter diede un calcio alla sua sedia in segno d’ammonimento.
«Si, perché? Non posso?». Risi in maniera insicura.
«No no figuriamoci, è un bene tu ti trovi un bravo ragazzo. Insomma Jay—» un’altra pedata alla sua sedia seguì un’imprecazione di James.
«HAI ROTTO IL CAZZO PETER.»
«Parla chiaro». La mia voce divenne tagliente.
«Che dovrei dirti?»
«Jay cosa?» Peter sbuffò bevendo in silenzio.
«Jay nulla, appunto». I nostri sguardi si sostennero, fui la prima a sviare e mi sentii come se avessi appena perso uno scontro. Perché poi? Che colpa avevo? A parte l’essere una codarda che non riusciva a esprimere i propri sentimenti verso l’uomo che amava, ripiegando quindi su altri? Già, che colpa avevo?
 

 
 
(          JAY      )
 

Lo chiamavano tutti Safari, forse a causa della sua pelle scura o dei dreads ai capelli. Una cicatrice sembrava spezzare a metà il suo occhio sinistro adesso cieco, un velo azzurro a coprire la sua pupilla, quando ti fissava sentivi le urla dei morti.
Lo vidi fermo al solito posto, sollevai il cappuccio della felpa fissando gli altri ragazzi in fila prima di me. La processione dei condannati, mi piaceva chiamarla così. Ognuno di loro aveva una storia da raccontare, ognuno di loro una croce da portare proprio come me. O almeno questa è la scusa di comodo che mi diedi per essere lì in quel momento, sarei potuto andar via adesso e nessuno lo avrebbe mai saputo ma semplicemente non riuscivo a muovermi. Ricordai il mio anno a Chicago, mi sentivo allo stesso identico modo, con l’unica differenza che adesso un posto dove tornare non l’avevo più, non avrei potuto bussare alla sua porta e vederla apparirmi oltre il vetro, fissarmi coi suoi occhi buoni e chiamarmi ‘’amore mio’’.
«Jay? Non ti vedevo da un po’». I suoi denti bianchi brillarono nella penombra, tirai su col naso improvvisamente nervoso.
«Già.. ho avuto da fare». Mi scrutò quasi come se sapesse.
«Che ti serve?». Inarcò un sopracciglio sorridendo, mi era sempre stato sul cazzo il suo modo di sorridere.
«Il solito». Mi grattai la guancia guardandomi intorno. Uno scambio pulito e veloce, lui i soldi io l’eroina. La misi in tasca sentendola pesante per tutto il tragitto, quando arrivai a casa i miei movimenti sembravano automatici. Non mi bucavo ormai da tempo eppure ricordavo tutto alla perfezione, era come se il mio corpo non stesse aspettando altro o forse questo era il pensiero di un poveraccio che vuole sentirsi meno inutile.
Il laccio emostatico strinse la mia pelle, l’ago la bucò e per sessanta secondi io trovai la pace. Non c’era mia madre, non c’era il suo corpo penzolante dal soffitto. Non c’era Luke. Ma c’era Alice, persino in quel momento la consapevolezza di lei non sembrava volermi abbandonare. Quando piombai in una sorta di torpore sentii la sua mano fresca sulla mia fronte, soffiò tra i miei capelli sudati sussurrandomi che andava tutto bene. Capii da quello che non era reale, perché nulla stava andando per il verso giusto, non più.
 
 

 
 
 
  
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