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Autore: _Lightning_    21/06/2018    7 recensioni
La Mark 46 pendeva dai suoi sostegni come la pelle di un animale ucciso, disarticolata, inerte e con l'elmo sfigurato ciondoloni sul petto in una tacita ammissione di sconfitta. Al centro della placca frontale, attraverso il reattore, spiccava la netta e slabbrata frattura orizzontale che non riusciva a fissare per più di qualche secondo senza che il dolore allo sterno si acuisse improvvisamente. Si portò davanti all'armatura, con lo sguardo proprio a livello del reattore in frantumi, costringendosi a fissare quella ferita sul suo secondo corpo di ferro.
Prese atto ancora una volta con un senso di smarrimento di quanto fosse profonda.

[post-Civil War // Introspettivo // Angst // PoV Tony // Missing Moments]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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This is me pretending
This is all I need
And I just wish that I didn't feel
Like there was something I missed


[My December – Linkin Park]


Una settimana dopo, Upstate New York, Avengers Compound

Voleva tornare a Malibu.

Villa Stark era vuota quanto lo era stato l'attico della Tower, ma meno silenziosa. Il mormorio incessante della risacca era più sonoro delle vibrazioni impercettibili del traffico sulla Park Avenue e lo aveva sempre aiutato a non rimanere solo coi suoi pensieri. Eppure anche alla Tower era riuscito a strappare qualche ora all'insonnia, lasciandosi cullare dalla skyline luccicante e dalle scie di auto che percorrevano le strade di New York, mentre se ne stava accovacciato a terra dinanzi alla vetrata in attesa che le sue palpebre crollassero. Lì nella sua stanza al Complesso il silenzio era un compagno invadente e sgradito, che lo lasciava a rivoltarsi senza pace tra le lenzuola nel suo letto a due piazze inutilmente vuoto.

Sarebbe davvero voluto tornare a Malibu, ma sapeva che non c'era nessuno ad aspettarlo. Allora sì che si sarebbe trovato a vagare da solo in una villa come aveva temuto Rogers. Quell'ipocrita.

Scalciò via di scatto le lenzuola e si alzò, rinunciando a dormire anche per quella notte. Magari un po' d'aria gli avrebbe schiarito le idee, concluse. Afferrò la vestaglia e uscì ciondolando in corridoio, avviandosi con un fruscio di seta e piedi scalzi verso la sala comune. La trovò prevedibilmente deserta. Sul tavolinetto era abbandonata la scacchiera di Visione, coi pezzi ancora schierati in una delle sue partite solitarie. Il libro di fisioterapia di Rhodey giaceva a faccia in giù sul divano. Qualcuno aveva lasciato la TV accesa in muto e sullo schermo scorreva l'ennesimo servizio sull'evasione alla RAFT; provò un lieve moto di beffarda soddisfazione quando la faccia paonazza di un furibondo Segreterio Ross apparve sullo schermo. La parte cinica di sé gli augurò che quell'infarto mancato anni prima si ripresentasse per terminare il proprio compito.

Spense con un gesto stanco la televisione prima che cominciassero a trasmettere le immagini dei
ricercati. Non gli avrebbero certo conciliato il sonno. Uscì dalla porta-finestra sul balcone e uno spiacevole brivido lo scosse al brusco impatto con l'aria fresca della notte, bloccandolo sulla soglia. Si strinse nella vestaglia damascata, costringendosi a non rientrare.

Era solo un po' di freddo, si rammentò con irritazione, mentre il petto prendeva a dolergli. Solo un po' di freddo, si ripeté ancora, ma si trovò a strizzare gli occhi appannati e a serrare tra le dita la seta di quella maledetta vestaglia, chiedendosi perché fosse stato così debole da indossarla. Rimase lì a intirizzirsi a capo chino.

Quando il tenue grigiore dell'alba colorò il cielo, era già in volo verso New York.


 
§


Gli piaceva crogiolarsi nell'illusione di non essere un tipo nostalgico, ma dovette arrendersi alla sua stessa ipocrisia quando si ritrovò appollaiato sulla cima della Tower ad ammirare l'alba sulla Grande Mela, la città che l'aveva visto crescere.

Puntò lo sguardo sull'Hudson, seguendone i flutti pacifici illuminati dal sole nascente e cercando in essi una calma che non riusciva a trovare, per poi spostarlo nuovamente sull'orizzonte frastagliato dai grattacieli avvolti dalla tenue nebbia mattutina. Forse più tardi si sarebbe fatto un altro voletto a velocità supersonica. Aveva proprio bisogno di una scarica di adrenalina per dissipare quella cappa di pensieri gelidi e opprimenti che continuavano a pungolarlo non appena abbassava la guardia. Ormai si sentiva intrappolato in un limbo tra passato e presente il cui confine aveva iniziato a sfaldarsi. Non era abbastanza forte da resistere a quei richiami, anche con l'armatura addosso.

E in quel momento il richiamo era rappresentato da Long Island, che incombeva alle sue spalle, dirimpetto a Manhattan. Non si voltò, mantenendo invece con ostinazione lo sguardo sul fiume. Puntualmente altre immagini si fecero largo nella sua testa, con tenace insistenza, e non fu in grado di respingerle come aveva fatto strenuamente nei giorni precedenti. Quel confine si stava assottigliando sempre più e non importava quanto cercasse di sorvegliarlo: qualcosa finiva sempre per sfuggire alla sua ronda, trapelando nella realtà.

Si accoccolò con le ginocchia strette al petto con un lieve sibilo di giunture meccaniche, schiudendo infine l'elmo e permettendo all'aria tersa e fresca del mattino appena sbocciato di accarezzargli il volto. Si rivelò spiacevolmente gelida sulla sua pelle, ma resistette all'impulso di rifugiarsi di nuovo dietro la visiera e scelse invece la protezione ingannevole ed effimera dei ricordi.

Aveva passato a New York gran parte della sua infanzia e adolescenza, ma la città racchiudeva ben pochi momenti che valesse la pena rievocare. Quelli erano custoditi per la gran parte a Malibu, nella villa dove aveva trascorso i mesi estivi da quando aveva memoria. Aveva esultato quando i suoi avevano infine deciso di trasferirsi sulla West Coast in pianta stabile, con lui poco più che diciassettenne e fresco di laurea al MIT. La magione a Long Island gli era sempre andata stretta, nonostante fosse situata a un passo da una delle città più dinamiche e vive del mondo.

Il suo sguardo sfrecciò infine verso quel luogo, nel punto in cui approssimativamente si era trovata la loro vecchia residenza. Avrebbe potuto indossare il visore dell'armatura e ingrandire la zona per sincerarsi che esistesse ancora, ma non lo fece, frenato da una mano gelida. Di quel luogo aveva solo ricordi tetri, di corridoi scuri, finestre spalancate su un enorme giardino sempre vuoto e porte serrate che lui non aveva il permesso di aprire.

E il silenzio. Quello non lo poteva soffrire neanche da ragazzo. Era sempre stato segretamente felice quando sua madre decideva di romperlo con il pianoforte. Respirò più a fondo, scacciando le note di una canzone lontana, con gli occhi ora vitrei piantati sul profilo slanciato di Long Island, persi tra i mille giardini lussureggianti e inframmezzati da piscine e villette a schiera perse nella bruma mattutina che si levava dall'oceano.

Aveva passato intere giornate della sua infanzia a ciondolare per quella casa inutilmente immensa, annoiato a morte e con l'unica distrazione delle sue invenzioni o di qualche dispetto ai danni di suo padre, comunque sempre troppo occupato a chiudersi in laboratorio per badare a lui. Troppo occupato a cercare aerei tra i ghiacci, a trattare col Wakanda per ottenere altro vibranio, a discutere con l'SSR o lo SHIELD o chi per loro, a delegare a Stane una fetta sempre più grande dell'azienda, a passare le vacanze di Natale al Pentagono e a scarrozzare partite di siero per supersoldati nel bagagliaio di un'auto...

Contrasse la mascella fino a farsi male, risvegliando la contusione sullo zigomo e il dolore acuto allo sterno, implacabile come lo era stato anni prima con un rozzo magnete che lo trapassava. Si coprì il volto con una mano, fasciata dal guanto metallico gelido sulla sua pelle accaldata.

Non voleva quei ricordi. Ne avrebbe voluti altri, più sereni, che non si interrompessero con una berlina schiantata contro un albero, che non gli suscitassero sempre quel retrogusto amaro in bocca, quel misto di rabbia latente e delusione che gli mordeva il cuore e che ora sapeva di aver indirizzato per anni alle persone sbagliate. Non suo padre, distratto, distante, concentrato sul passato e sul futuro ma sordo al presente; non sua madre, troppo mite per imporsi, troppo arrendevole per poter davvero fare di più di quanto non avesse già fatto – e aveva fatto così tanto, era stato il fiume che lambiva benevolo due terre perennemente ostili tra loro, facendo al contempo da confine e da tramite. Ma anche se nei suoi incubi tornava spesso lo sguardo freddo e alienato del soldato d'inverno, non era lui ad aver dirottato l'affetto dei suoi genitori per vent'anni. Si era limitato a precluderglielo per sempre, ma loro gli erano stati strappati via molto prima di venire uccisi.

Rogers avrebbe almeno potuto completare l'opera e spaccargli la testa con quel maledetto scudo, invece di mirare al suo stupido reattore che ormai non lo teneva neanche più in vita.

Di nuovo, sentì un sapore amaro in bocca, che aveva da tempo imparato a riconoscere come quello dell'impotenza. Perché in fin dei conti Rogers aveva ragione, e lo odiava anche per quello: niente di ciò che avrebbe fatto poteva cambiare qualcosa. Quei ricordi rotti sarebbero rimasti, assieme alla consapevolezza di averli vissuti solo per metà, mentre l'altra gli era stata negata prima ancora di venire al mondo. Deglutì a fondo, ricacciando indietro quelle lacrime inutili e il groppo che gli si era formato in gola, ma incapace di sottrarsi alle immagini che continuavano a riemergere davanti ai suoi occhi.

Per un attimo gli sembrò di rivedere suo padre seduto di spalle al banco di lavoro, chino sui suoi progetti e sordo e cieco al resto del mondo. Si aggrappò a quel lontano frammento di memoria e si fece cautamente strada nel ricordo, eradicando la sagoma sfocata di quello stesso uomo riverso nella polvere di una strada solitaria, inerme ai colpi che si abbattevano su di lui. Si insinuò a forza in quella bolla d'indifferenza dolorosa, ma vivida e incredibilmente dolce rispetto al bianco e nero crudele che cercava di sopraffarla. Varcò la soglia di quel laboratorio come aveva fatto innumerevoli volte in vita sua, con lo stesso misto di timore e aspettativa, ma non fu il se stesso bambino o adolescente a entrare.

Si ritrovò a guardare quella schiena coi suoi occhi adulti e stanchi, nel suo corpo ormai più robusto e alto di quello di suo padre, e fu la sua mano segnata da calli e cicatrici a posarsi sulla spalla dell'uomo. Un gesto che non aveva mai avuto il coraggio né la volontà di fare, ma che adesso agognava e rimpiangeva. L'altro alzò appena lo sguardo, rivolgendogli gli occhi scuri ed espressivi così simili ai suoi, animati dallo stesso acume, e lasciò intuire l'ombra di un raro sorriso sotto ai baffi canuti. Mentre gli stringeva con fare impacciato la spalla, si sentì stringere a sua volta in un abbraccio che lo avvolse come una carezza. Posò la mano libera su quelle di sua madre intrecciate sul suo petto, nel punto in cui un tempo c'era stato il reattore. Accolse il calore rassicurante delle sue braccia e sentì la sua testa poggiarsi nell'incavo della sua spalla, come tante volte da ragazzo. Per un momento si sentì in pace con se stesso, con loro, lontano dal gelo.

Poi riaprì lentamente gli occhi e ripescò a forza la sua coscienza da quel ricordo falso e artificioso. Non rimpiangeva di aver lanciato i suoi 611 milioni di dollari di progresso tecnologico dalla scogliera di Malibu, dallo stesso punto da cui aveva lanciato il suo reattore anni prima. Aveva comunque avuto il tempo e la debolezza di indossare gli occhiali un'ultima volta dopo il suo rientro dalla Siberia. Si era concesso di creare quell'unica immagine fasulla con cui si ostinava a medicare maldestramente le sue ferite, ottenendo solo dei punti di sutura pronti a strapparsi al minimo strattone.

Batté più volte le palpebre, a scacciare i residui di forme e colori ancora impressi sulla sua retina, dissipando con esse il velo sottile che gli aveva annebbiato gli occhi. Guardò di nuovo in direzione di Long Island, ormai illuminata dal sole del primo mattino, e di nuovo si chiese se la vecchia villa fosse ancora in piedi.

Non volle darsi una risposta e quando decollò fece rotta a sud, verso Malibu, a casa.




 

Note Dell'Autrice:

Massalve <3
Rieccomi a tormentare i vostri cuori e quello del povero Tony!
Ammetto che questo capitolo è un azzardo e non mi dilungo troppo, primo perché è un'ora indecente, secondo perché sono molto curiosa di sentire cosa ne pensate di tutto ciò *omino indica in altro* senza interferenze da parte mia.

Solo qualche precisazione: 1) La vestaglia citata all'inizio è quella che Tony indossa in Iron Man 2 e che sembra essere appartenuta ad Howard, come si evince da alcune scene in Agent Carter (qui); 2) Tutte le elucubrazioni sulla residenza della famiglia Stark/traslochi vari sono frutto del mio headcanon, ma Tony nel comic-verse era davvero nato e cresciuto a Long Island (dico era perché poi se ne sono usciti con la storia che è stato adottato, versione che sceglierò candidamente di ignorare <3).

Ringrazio infinitamente shilyss e _Atlas_ (grazie per aver aggiunto la storia tra i preferiti :3) che hanno recensito gli scorsi capitoli riempendomi come sempre di gioia, e anche tutti coloro che seguono in silenzio <3
Buona lettura e alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Questo capitolo ha mandato un po' all'aria il proposito di allungare gradualmente i pezzi perché è venuto un po' troppo corposo, ma l'idea di fondo rimane, considerando che questi capitoli centrali sono tutte one-shot e poi tornerò alle flash e alle drabble, chiudendo il "cerchio".
   
 
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