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Autore: Diana LaFenice    25/06/2018    1 recensioni
«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche con il telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui, davanti a me, le sento sulla punta delle dita».
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Annidato nelle Ombre



Milo
Quando tornasti sull’uscio, trovasti, insieme a una scossa e spaventata Shunrei, in ginocchio. Paradox accanto a lei, le teneva le mani sulle spalle a mo’ di conforto nonostante il palese disagio dipinto sulla sua faccia. In piedi poco più indietro c’era Astrid con le mani giunte al petto che ti fissava con occhi timorosi, come se stesse cercando di chiederti se fosse tutto finito ma non ci riuscisse. Occhiata che tu ricambiasti con una diffidente prima di cambiare atteggiamento e rivolgerti alla consorte del tuo compagno d’arme. «Shunrei», la chiamasti gentilmente e la donna alzò gli occhi su di te, mostrandoti il volto inondato di lacrime. «Che è successo? Ce l’avete fatta?» Ti domandò spaventata e tremante.
«Sì, ce l’abbiamo fatta, adesso potete rientrare». Ciò detto le porgesti la mano per aiutarla a rialzarsi, ma la donna si alzò da sola e corse dentro la Casa con una velocità e una prontezza incredibili. Restasti un attimo imbambolato poi rientrasti a tua volta e le due ragazze ti seguirono. Se all’interno del Santuario c’era una persona di cui ti fidavi ancor meno di Astrid, questa era proprio Paradox. L’ex Cavaliere di Gemini di Mars, che aveva saggiamente evitato lo scontro con l’Armatura d’Oro del proprio amato maestro. Tutti voi eravate a conoscenza dell’ossessione che la Sacerdotessa-Guerriero nutriva per Shiryu, tranne Shiryu, che era già tanto se aveva messo su famiglia. Anche se aveva perso la vista la sua cecità a quanto pareva, aveva radici ben più profonde che collimavano con la sua stupidità. Possibile che il vecchio Roshi non gli avesse insegnato nient’altro oltre che a combattere? Santa Atena, persino tu, durante il tuo addestramento, eri riuscito a costruirti una vita sociale attiva.
«Shiryu! Ryuho!» Esclamò spaventata Shunrei vedendo il marito con addosso l’Armatura, sostenuto dal malconcio figlio infilato anch’esso nella cloth rovinata del Dragone. Si staccò da te e corse loro incontro per stringerli entrambi in un abbraccio spaccaossa. «Shunrei». Rispose Shiryu e Ryuho protestò debolmente: «Mamma».
La donna iniziò a riempirli di premure e, i due uomini, soprattutto Ryuho (che era diventato rosso come un peperone) cercarono di calmarla senza successo. Lei non volle sentire ragioni e li guidò in cucina, li fece sedere su due sedie e prese la cassetta del pronto soccorso e li medicò entrambi come meglio poté. «Dammi una mano, Paradox». Disse alla giovane dai capelli azzurri e lisci che si mosse in automatico come una sorta di robot.
Tu ti guardasti intorno per individuare Hyoga, ma doveva essersene già tornato alla propria Casa perché non lo vedesti da nessuna parte. Poi, ti tornò in mente lo scontro e un campanello d’allarme scattò nella tua testa. E, se le Creature l’avessero percepito? No, se l’avessero percepito si sarebbero precipitate. Ti eri accorto che loro orbitavano attorno a luoghi dove una battaglia infuriava già da ore, non prima. Forse la loro ricezione del Cosmo aveva un limite: dovevano raggiungere una certa intensità prima che la percepissero e volassero a distruggerlo. Eppure, per quanto quest’intuizione fosse giusta non bastò a tranquillizzarti.
Infatti, continuasti a tenere le spalle rigide tutto il tempo. Però sentivi che non dovevi restare lì, dovevi andare a controllare. Tornasti a guardare la scenetta di fronte a te e vedesti Shunrei che, borbottando sottovoce in cinese gli stava bendando i tagli sulle braccia. Il marito cercava di rassicurarla dicendo cose come: «Amore, sta tranquilla, stiamo bene, abbiamo vissuto di peggio». Ottenendo soltanto di farla scattare: «No che non sto calma!» Ribatté infatti, lei. «Hai idea dello spavento che mi sono presa?»
Appena udisti quelle parole scambiasti un’occhiata con Astrid e capisti che pensavate la stessa cosa: cioè che cominciavate a credere di essere di troppo. Anche se c’era da dire che con tutta l’ansia e l’attesa snervante che la povera donna aveva dovuto sopportare nella sua vita, era una santa. Oppure era più forte di molte altre donne che conoscevi. Quasi nessuna di loro, infatti, avrebbe retto così tanto alle continue assenze e missioni suicide da parte del proprio amato. Figuriamoci poi anche del figlio quando era arrivato il suo turno.
Ed era quasi ovvio che a quel punto la piccola e dolce Shunrei che ricordavi avesse sviluppato un carattere forte per sostenere questo peso tutte le volte.
«Mamma, sul serio, noi ci siamo abituati. Diglielo anche tu, Paradox.» Ma la sorella gemella di Integra (che finalmente aveva potuto prendere il flaconcino di alcol e cominciare a occuparsi del Saint del Dragone) non rispose e si limitò a imbevere di alcol disinfettante un batuffolo di ovatta che poi passò sulla ferita al collo di Ryuho, in quale sussultò e poi sibilò di dolore. «Fai piano». «Non lamentarti troppo e togliti il cloth, devo vedere se ci sono altre ferite». Ribatté lei e tu, cercasti di ignorare il doppio senso a quest’affermazione. Avevi sentito dire che, durante la battaglia dei “Nuovi Bronze”, Paradox si era dichiarata a Ryuho facendo sfoggio di tutta la sua volubilità. Così almeno il ragazzo ti aveva raccontato il giorno che si era allenato con te, lontano da Paradox. Intanto la moglie del custode della Settima gli ingiunse di continuare a premere il fazzoletto che gli aveva dato sulla ferita e gli volse le spalle e cominciò a rovistare rapidamente nei cassetti della cucina per cercare una pentola (che, una volta trovata riempì d’acqua calda e mise a scaldare sul fuoco del caminetto acceso) e, poi, ago e filo.
«Aspetta, faccio io». Le dicesti e ti avvicinasti al tuo compagno. Poi, premesti il punto di pressione di Shiryu, arrestando immediatamente il flusso sanguigno. Infine procedesti a premere anche le altre sue seimei ten. A ogni Cavaliere venivano impartite queste lezioni di primo soccorso, oltre a quelle canoniche, per questo le conoscevi.
«Ecco», dicesti, «così potrai medicarlo senza problemi». Lei ti ringraziò e prese l’ago e il filo (conoscendo i pericoli dei due si era premunita portando con sé dalla loro casa ai Cinque Picchi anche questo).
«Piuttosto, occupati prima di questa ragazza che mi sembra sul punto di svenire». Disse volgendo gli occhi verdi su di lei. Doveva averla incontrata qualche volta per indovinare il suo nome al primo colpo.
La moglie dell’ex Dragone strinse l’ultima fasciatura (era diventata veramente rapida nelle medicazioni più lievi, mentre il marito si tamponava il sangue grondante da una serie di tagli più profondi sul costato che sembravano fatti dal tridente di Libra) si volse verso la ragazza e la guardò. Poi trattenne il fiato rumorosamente, come si fosse accorta che aveva ragione. Allora disse: «Oddio, è vero. Vieni qui, cara, siediti che ti prendo qualcosa da bere». Ryuho fece da traduttore alla povera bionda che vi guardava smarrita perché non capiva un accidente di quello che si stavano dicendo tra tutti. Tu prendesti tutto ciò come un punto a tuo favore. Almeno non avrebbe capito quello che vi sareste detti se aveste deciso di parlare in cinese. Che, per voi non era un problema giacché lo conoscevate. Inoltre, a forza di chiacchierare con la famiglia di Shiryu, in questi anni avevi perfezionato il tuo cinese e ora lo parlavi correntemente quanto il dialetto cicladico. Non era raro che foste poliglotti, al Santuario era normale imparare molte lingue per meglio svolgere le missioni in giro per il pianeta.
Astrid mosse qualche passo incerto (per via delle gambe rigide e un po’per la diffidenza) verso la signora coi capelli legati in una treccia. La quale, tendendo un braccio verso di lei, le faceva ripetutamente segno di avvicinarsi. Quando fu sufficientemente vicina le posò la mano sulla spalla e la guidò verso la sedia vicina a quella del marito, ove la fece accomodare. Subito si precipitò a recuperare un succo di frutta e un bicchiere. Aprì la bottiglietta e lo versò nel calice che porse alla ragazza, la quale ringraziò un po’incerta con un cenno del capo.
Allora tu dicesti a Shunrei che in realtà non stava per svenire, ma aveva bisogno di una piccola medicazione ai gomiti, alle ginocchia e una pomata per la scottatura sulla mano. Appena menzionasti quest’ultima la ragazza trasalì e si affrettò a nasconderla sotto al tavolo. “Che ho detto di male?” Domandasti neanche se quella mano fosse stata qualcosa di molto più osceno.
D’accordo che non ti stava simpatica ma sinceramente non ti aspettavi che avresti finito per investire quella poveretta e traumatizzarla. Perché era per questo che si comportava così, giusto? «Milo» intervenne Astrid con occhi bassi, le guance rosee per la vergogna, mentre cingeva il bicchiere con la mano, «potresti dirle per favore che posso pensarci da me e che non occorre che mi medichi? Mi basta solo che mi metta a disposizione qualche cerotto e un po’di disinfettante, le mie ferite non sono gravi».
«Come vuoi». E, traducesti a Shunrei.
«Grazie, Milo». Disse Astrid, riconoscente, accompagnando le parole a un garbato cenno del capo.
Tu annuisti e poi, dicesti a Shiryu: «Credo che sia il caso di parlare con gli altri».
«Un Chrysos Synaigen, dici?» Di solito era il Gran Sacerdote a indirli, ma dopo quello che eri successo non saresti stato affatto sorpreso se vi avesse convocato seduta stante o quasi.
«Sì, a giudicare dalle parole di Hyoga e dal turbamento nei Cosmi di tutti noi Gold, non sei stato l’unico a subire questo attacco».
«Bene, allora aspettiamo la convocazione ufficiale e ci vediamo alla Meridiana dello Zodiaco il prima possibile».
«D’accordo». Salutasti la famigliola e te ne andasti.
Passando sull’uscio della cucina, notasti Paradox che, mentre medicava il figlio di Shiryu, fissava interessata l’ancella. La quale non si era nemmeno accorta di lei mentre metteva da parte il bicchiere, e cominciava a rovistare nella cassetta del pronto soccorso alla ricerca dei cerotti.

Lancelot
«Tipino interessante questa Astrid, non trovate?» Dicesti ai Gold che, si erano riuniti al Tredicesimo Tempio per conferire con il loro Gran Sacerdote. Era stato indetto un Chrysos Synaigen in via del tutto straordinaria.
Non era la prima volta che partecipavi a un’Assemblea Dorata. Almeno in questa dimensione.
Sembrava, infatti, che il Gran Sacerdote avesse richiesto anche la vostra presenza per “avere pareri diversi su una stessa opinione”. O, almeno, era quello che avevi capito dalle parole di Mur, ma non ne eri sicuro al cento per cento perché di politichese non eri interessato, tanto meno edotto.
Il succo, però, sembrava essere questo.
Ancora una volta, ti ritrovasti a comparare le differenze e le uguaglianze tra le dimensioni con vago interesse. Pensavi che i Cavalieri di questa dimensione si riunissero comunque e sempre alla Tredicesima. Ma forse questo era dovuto all’urgenza che aveva impedito loro di indirne uno un po’più formale.
Ma, a quanto sembrava, non era poi così esclusiva: infatti, prima di entrare, avevi notato anche tu una figura seminascosta dietro una colonna. Sogghignasti, se voleva stare a vedere non c’era problema, non saresti stato certo tu a fare la spia. Non avresti mai immaginato, però, che il Papa del Santuario fosse l’attuale Cavaliere dei Gemelli. Forse non avresti neanche dovuto sorprenderti: solo chi sviluppava una grande potenza o sopravviveva tanto a lungo, poteva aspirare a una tale carica. Di solito non si doveva rinunciare al proprio ruolo di Gold Saint per accedere a tale potere? Mah, alla fine, avevi deciso, che non era neanche poi così importante. A parte i giochetti del tuo coinquilino, questa “vacanza” stava cominciando a prendere una piega veramente interessante. E, tu, che ti eri sentito frustrato perché non stava succedendo niente e ti eri domandato quando avresti potuto scusarti con Shura ed estinguere il ricordo della tua figuraccia tra voi. Non avresti neanche immaginato che questi Gold fossero un gruppo così unito. Non appena proferisti quella frase, ricevesti tutta una serie di occhiatacce che ricambiasti con uno dei tuoi tipici sorrisini beffardi. Possibile che non avessero ancora capito? Da Shura (reincarnazione del tuo amato re o no), non te lo aspettavi. Infatti, eri sicuro che stesse silenziosamente accumulando le informazioni e poi decidendo le strategie. Esattamente come un vero re. Non eri certo sugli altri, ma, almeno su di lui, ci speravi. Non erano come certi altri, che speculavano e s’interrogavano vicendevolmente. Ovviamente, non erano gli unici a porsi due domande. Anche tu te ne porgevi su di lei e, da molto tempo. Da quando avevi visto il suo spirito lasciare l’infermeria, la notte che Capricorn e Death Mask stavano tornando dalla missione.
Quella sera avevi avvertito un tremito nelle goccioline d’umidità che permeavano l’aria. Il tuo Cosmo era legato all’acqua, l’acqua era il ponte di collegamento tra i due mondi. E, sapevi riconoscere alla perfezione la presenza di uno spirito. Perciò avevi lasciato il tepore della Quarta Casa per capire di cosa si trattasse. Eri uscito e avevi rintracciato la presenza grazie al Cosmo.
In quattro balzi ti eri fermato su quel tempio in rovina e lì, sempre grazie al Cosmo, l’avevi vista uscire dal tetto.
Ti era parso che lei si fosse voltata verso di te.
Era stato il tuo primo incontro con Astrid. Sembrava che cercasse un modo per andarsene da lì, finendo però per perdersi.
Tu avevi sorriso e, alzando una mano, le avevi indicato il cielo con un dito.
Lei ti aveva guardato a lungo prima di decidere di seguire la tua indicazione. Poi, si era alzata in volo.
Tramite la telepatia l’avevi seguita e l’avevi vista volare via, verso il campo di battaglia. L’avevi vista compiere quel miracolo e poi, era tornata al Santuario, richiamata dalla sua stessa carne. Solo allora avevi sorriso, mentre i primi raggi del sole ti accarezzavano lateralmente la fronte e le ciocche dei tuoi capelli, ed eri tornato alla Quarta Casa.
C’era voluta un’ora intera prima che riuscissero a dominare le loro Armature. Non era mai successo nella storia del Grande Tempio. Ma neanche in quella del tuo Grande Tempio. Questa vacanza con debito da ripagare stava cominciando a piacerti.
Finora avevi lasciato che parlassero e mettessero in campo la possibilità, non tanto remota, che ci fossero degli infiltrati al Grande Tempio, qualche altro Angelo di Artemide in primis che fosse sfuggito, ma, poi, erano tornati a parlare delle Creature e di Astrid. Non si accorgevano di essere diventati monotematici o lo facevano apposta? Ti venne da sorridere ancora una volta. Soprattutto quando Kiki scattò, in coro con Aphrodite. «Che cosa vorresti insinuare, Lancelot?»
Alzasti le spalle. «Io, niente, solo quello che ho visto». Ribattesti con aria innocente, ma tu innocente non eri proprio.
«E, cosa avresti visto?» Volle sapere il Gran Sacerdote assiso sul suo trono. Tu che eri abituato ad avere a che fare con Aiolos ti faceva strano non poterlo guardare dritto negli occhi. Anche perché Aiolos usava soltanto una specie di retina dorata sulla parte superiore del viso, al posto della maschera. A volte ti dispiaceva non aver potuto conoscere quello di questa dimensione, chissà se era come il tuo.
Mettesti da parte questi pensieri per spiegarti meglio: «Solo che sono parecchie notti che ho visto il suo spirito volare via». Se le tue parole e il tuo atteggiamento erano paragonabili alla scintilla che accende la miccia, le reazioni che ottenesti furono paragonabili all’esplosione di una bomba; Cosmi compresi.
Shura sgranò gli occhi, lasciando trasparire il suo sgomento.
«Cosa?» Domandò Shiryu alzando le sopracciglia.
«Non può essere morta!» Scattò Kiki con apprensione e terrore nella voce.
«Che stai dicendo? Lei è viva e vegeta! Se fosse morta me ne sarei accorto!» esclamò Death Mask.
Leggesti lo smarrimento negli occhi di Shun. Aphrodite invece, si portò le mani alla bocca.
Aldebaran ti guardò stupefatto «Non può fare una cosa simile!» aveva obiettato.
«Te lo sei inventato!» Ti accusò invece Milo.
«Parla, bastardo, vuota il sacco!» Il più sboccato di tutti, ovviamente era Seiya.
Intanto che gli altri presero ad arrampicarsi sugli specchi su una possessione per opera di qualche nemico e, sul rapimento dell’anima di Astrid.
Death Mask parve prendere molto sul serio questa cosa, anche se continuò la solita scenata del burbero strafottente. Quello che ti sorprese di più fu Milo, che, pur non potendo soffrire Astrid per chissà quale motivo, adesso stavano elaborando un piano di salvezza che prevedeva l’invasione del Regno dei Morti; una buona scusa per restituire pan per focaccia ai tre Giudici Infernali.
Shun cercò di placare gli animi e Mur si lasciò cadere seduto fissando il pavimento con i suoi occhi color malachite.
Il loro Papa però si dovette stufare di tutta quella confusione, perché alzò la voce e li rimise tutti in riga.
Il piccolo Cocteau appollaiato sullo schienale del trono lo guardò.
Alzasti le mani in segno di resa: «Calmi, calmi. Non ho mai detto che è morta. Solo che non pensavo che fosse capace di utilizzare quella tecnica».
«Tecnica?» Ripeté Shiryu stringendo le mani sul manico del bastone. «Di che tecnica parli?» E, con quelle parole, ti ricordasti che il massimo che potevano concepire loro, era la Misophetamenos della loro amata Dea.
Incrociasti le caviglie appoggiando la schiena alla colonna. «Della separazione dell’anima dal corpo, un po’come gli Strati di Spirito che condividiamo io e il mio collega della Quarta. La differenza è che lei la può usare solo su se stessa e che, quando la usa, resta viva». Spiegasti.
Te ne aveva parlato la tua maestra e madre, la Dama del Lago ai tempi del tuo addestramento. Non avesti bisogno di essere spronato a continuare che li accontentasti: «E’una tecnica che viene tramandata dalle Sacerdotesse e dai Druidi di Avalon. Tutti coloro che sono in possesso di un Cosmo la possono usare, ma la maggior parte di costoro, se non adeguatamente addestrata, la scambia per un sogno molto realistico. I comuni mortali lo chiamano Viaggio Astrale». Girava voce che anche Lady Igraine l’avesse usata per mettersi in contatto con il suo amato Uther Pendragon, per metterlo in guardia da un’imboscata di Gorlois. Anche tua cugina Morgana la usò per salvare la tua amata Ginevra da un rapimento a causa del fratellastro. Ah, a cosa serve avere dei parenti che conoscevano la magia? Non l’avresti mai detto che alla fine ti sarebbero tornate utili anche queste nozioni. «Quindi era veramente lei quella notte?» Domandò il Cavaliere di Capricorn, diffidente.
«Sì, certo che era lei.» E, quest’affermazione rassicurò l’assemblea dorata, anche se solo per un istante, perché subito ripartirono le domande. «Perché Cocteau non l’ha vista e invece voi sì?» Domandò il Gran Sacerdote volgendo il viso verso il gufetto, che, non seppe che rispondere. Sapevi che prima di ogni altro, era proprio quel gufetto, la spia più silenziosa che potevano permettersi.
«Forse perché vedere gli spiriti, non è nella sua prerogativa, non essendo veramente un animale». Rispondesti. Sempre secondo le credenze della Tavola Rotonda, gli animali erano capaci di vedere gli spiriti. «Tuttavia è nelle piene facoltà di un Cavaliere che viaggia tra i due mondi, non è vero, Death Mask e Shun?» L’altro non ti rispose, ma si limitò a fissarti con il suo sguardo truce. Shun invece annuì.
«Un momento, se quel che dici è vero, com’è stato possibile che anch’io e Aiolia e Shura l’abbiamo vista, quando ci ha restituito il pezzo mancante dello scettro?» Obiettò lo svedese.
«Shura di Capricorn» Facesti una gran fatica nel pronunciare quelle parole al posto dei nomi e titoli con i quali chiamavi il tuo amato re «si trova in bilico tra questo e l’altro mondo, me l’ha dimostrato più volte durante i nostri duelli, per questo ci è riuscito. Death Mask non credo ci sia bisogno che vi ripeta che li vede in ogni caso, ops, l’ho detto». Ridacchiasti e tornasti vagamente serio. Vagamente perché un mezzo sorriso continuò ad albergare sul tuo volto.
Intanto che i Cavalieri vicini a Shura avevano cominciato a tempestarlo di domande sulla sua salute. «Per quanto riguarda voialtri bè, o, avete sviluppato capacità simili o affini, oppure, semplicemente, è stata lei a scegliere di farsi vedere anche da voi». Personalmente sceglievi la prima possibilità, dopotutto ti avevano raccontato di essere stati resuscitati più volte, era ovvio che qualcosa gli fosse rimasto. Guardaste tutti l’altro esperto in materia che, ci rifletté su prima di confermare con un cenno del capo: «Sì, lo possono fare, se lo desiderano».
«E, dove vanno questi viaggiatori?» Domandò Kiki un po’frastornato ma, ancora guardingo. Seiya bisbigliò a Ikki che non ci aveva capito un tubo e, il fratellastro, gli sussurrò di rimando che gliel’avrebbe rispiegato dopo.
«Dove vogliono.» rispondesti semplicemente. «Alcuni restano sul posto, vicino al proprio corpo, altri vanno dalle persone che amano, diversi ancora in capo al mondo e, certuni si perdono. Nessuno di essi, però, è così pazzo da cercare l’Altro Mondo, non sia mai che possano restarci incastrati». Li guardasti dall’alto delle tue conoscenze e superiorità e sogghignasti divertito. Che sciocchi, se non fosse stato per te, avrebbero continuato a brancolare nel buio ancora a lungo.
«Tu non hai mai provato?» Ti chiese Death Mask, e, il tono con cui lo pronunciò parve un invito.
«Fossi matto». E, ricevesti occhiate scettiche che tu non interpretasti. Non era che ti importasse così tanto della loro opinione. A parte una. L’unica persona che, speravi che avesse capito. Ci avresti messo la mano sul fuoco che era stato proprio così.
Per quanto riguardava la ragazza, bè, l’avresti tenuta d’occhio e studiata ancora anche a costo di farti legare un’altra volta alla colonna. Chissà quali altre sorprese aveva in serbo per voi.

Appena l’assemblea fu sciolta salutasti gli altri e andasti alla ricerca di Astrid.
Dovesti lasciare le Dodici Case e passeggiare qui e là per trovarla in una radura che stendeva il bucato. Canticchiava tra sé e sé e sembrava non esserti accorta di te, che ti stavi avvicinando.
Non eri certo un barbaro, e sapevi benissimo che non si sarebbe fidata se gli fossi comparso alle spalle. Perciò la salutasti da lì. Lei sussultò e si girò verso di te, si tranquillizzò immediatamente, notando la tua mano alzata in cenno di saluto e il tuo sorriso. Ricambiò e ti seguì con gli occhi mentre ti colmavi le distanze e le porgesti la mano: «Ciao. Non credo che ci abbiano presentati, io sono Lancelot». Per fortuna che ti eri presentato senza la tua Armatura, altrimenti dubitavi che ti avrebbe guardato in quel modo così aperto e incuriosito. Ti saresti quasi aspettato che distogliesse gli occhi e cercasse di evitarti, invece fece un passo avanti e ti strinse la mano. «Astrid». Aveva un bel timbro vocale.
«E’un bel nome». Sorridesti mentre lei cercava di ricordarsi dove vi eravate incontrati. Dalla tua avevi la fortuna che non ti conosceva. Non figuravi nei ricordi di Death Mask, era impossibile che potesse nutrire qualche sospetto su di te.
Ti osservò a lungo prima di capire dove vi eravate già visti, lo capisti perché i suoi occhi s’illuminarono. «Tu non sei quello che ha impedito alla psicopatica con la maschera di prendermi a schiaffi sulle scale?» Ti chiese accigliandosi.
«Sì, sono proprio io. Lo sai che mi hai molto colpito? Non mi sarei mai aspettato che qualcuno cercasse di tenere testa a Neera». «Immagino».
«Dovresti fare attenzione a chi pesti i piedi, sai? Non tutte le persone potrebbero prenderla bene». Le consigliasti, rammentandoti la rabbia e l’odio della Saint.
«Per me può odiarmi quanto le pare, vivo lo stesso». Rispose stendendo un altro panno, senza guardarti. Poi lo fermò con delle mollette. Notasti le croste fresche sui suoi gomiti e qualche livido sulla pelle candida e ti domandasti come se le fosse procurati. Poi rammentasti di aver sentito l’eco di un urlo di terrore poche ore prima, portato dal vento. E, capisti, che doveva essere successo qualcosa mentre gli altri lottavano contro le loro stesse corazze.
Ti mettesti a sedere sotto le fronde dell’olivo vicino. «Sei un tipo tosto, vero?»
La bionda si irrigidì per un attimo. Poi si rilassò e ti lanciò un sorriso mesto che lasciò intendere molte più parole di quante la sua bocca avrebbe potuto dirne.

Passasti tutto il tempo a chiacchierare con lei. Parlaste del più e del meno e di qualche cavolata e, piano piano, la bionda si sciolse un po’ nei tuoi confronti.
Poi, quando i panni finirono, restasti molto sorpreso nel vederla impugnare un bastone e, mettendosi il cesto vuoto sul fianco, risalire.
La seguisti. Ormai avevi capito che la tua presenza non le dava fastidio, anzi, sembrava davvero in vena di parlare con qualcuno. Un altro punto a tuo favore. Se poi Neera avesse davvero deciso di attuare un piano di vendetta molto più articolato di quello che ti era parso d’intuire, allora avresti potuto sfruttare la cosa a tuo vantaggio. Meglio sarebbe stato se ti fossi mosso prima della spia che avevi percepito nella Sala dei Chrysos Synaigen.

Fu per puro caso che scopristi che Seiya e i suoi fratellastri avevano indetto una piccola festicciola alla Nona, tre giorni dopo “La ribellione delle Sacre Vestigia Dorate”. Stavi oltrepassando la Settima Casa perché stavi cercando Neera. L’Aspirante Saint dell’Indus aveva l’abitudine di scomparire abbastanza spesso. Alcuni vociferavano che intrattenesse relazioni con alcuni compagni di Accademia, mentre alti che avesse messo gli occhi addosso al Cavaliere d’Oro dello Scorpione. Ma a questo punto le voci discordavano, dal momento che l’avevano vista spesso in compagnia anche degli altri Cavalieri d’Oro. Per te era solo un’arrivista che stava cercando l’occasione giusta per entrare nelle grazie del Gran Sacerdote. E, qui, te la ridevi perché le sarebbe bastato presentarsi alla Tredicesima, invece di fare tutto quell’inutile rigiro. L’importante era che girasse alla larga dal tuo amato re. Non avresti mai sopportato che un’altra mocciosa s’infilasse tra voi come in passato. Anche se, ammettevi con una nota di nostalgia e tristezza, che Ginevra in fin dei conti l’avevi amata davvero. Altrimenti non avresti mai fatto tutto quel casino per proteggerla.
L’aspirante Sacerdotessa-Guerriero non si trovava lo stesso, però. E, dire, che l’avevano affidata alle tue cure per perfezionare la sua tecnica. Te l’avevano affidata senza troppi complimenti e, tu, ti eri messo d’impegno come quando addestravi i cavalli del tuo amato re. Ma questo non era bastato perché ricevevi abbastanza lamentele da parte degli insegnanti della Palaestra sulla tua inadempienza. Effettivamente il tuo metodo d’insegnamento prevedeva di cacciarla nei guai e di farla danzare sul filo del rasoio, ma così o non sarebbe mai diventata Cavaliere. Di che si lamentavano? Tanto non era raro che alcuni apprendisti ci rimettessero le penne. Quasi tutti i fratelli di Seiya & co, erano, infatti, morti per questo.
Comunque, abitando al Santuario con Death Mask e gli altri, avevi scoperto la tragica storia dei cinque Gold e dei restanti Bronze loro fratellastri. Avevi quasi invidiato il defunto Duca Alman di Thule: cento maschi! Se fosse vissuto ai tempi della Tavola Rotonda avrebbe fatto invida persino al re Ban, tuo padre e gli altri Cristiani presenti a Camelot. Anche se, in realtà non era poi così importante, visto che, per la cultura celtica, erano le ragazze ad essere motivo di vanto e orgoglio, non i ragazzi. Infatti, erano le donne a governare i regni, voi uomini, al limite, potevate essere i loro dux bellorum. Le cose erano cambiate con l’avvento dei Romani prima e poi definitivamente con il Cristianesimo.
«Neera! Dove sei? Avanti, vieni fuori!» Chiamasti per l’ennesima volta poco prima di entrare nella Settima. E, la ragazza era diventata furba: prima di scomparire azzerava il suo Cosmo, rendendosi irrintracciabile.
Ti fermasti.
Un sorriso storto affiorò sul tuo viso: «Eh, quella maledetta sta diventando brava». Sogghignasti tra te e te mettendoti le mani sui fianchi. Stavi percorrendone il corridoio di passaggio e non avevi fatto in tempo ad annunciarti che li avevi sentiti delle voci uscire dagli appartamenti privati del Cavaliere di Libra.
Richiudesti la bocca e, avvicinandoti il più silenziosamente possibile, azzerasti il Cosmo per meglio udire quello che si stavano dicendo. «Adesso che la Guerra è vinta non c’è più motivo per noi di restare qui». Disse Hyoga.
«A parte una piccola vacanza». Disse Seiya, mettendo troppa poca convinzione nelle sue parole per essere veramente divertente. Oh, il raccomandato che faceva ironia? Allora la fine del mondo era vicina. Tutti voi eravate a conoscenza del complesso rapporto inespresso che legava il Sagittario a Miss Isabel di Thule. Neanche nella tua dimensione era mai successa una cosa simile. E, questo, era un motivo in più per canzonare quello stupido ronzino. Tra tutte le donne proprio la più inaccessibile. Che fesso!
«La Dea come sta?» Chiese Seiya, preoccupato e Shun gli rispose: «L’ho visitata oggi. A livello fisico si è ripresa completamente è a livello psichico ad essere ancora turbata. Ha insistito per riparare lo scettro con il proprio Cosmo ma l’abbiamo persuasa a non farlo». Già, il Cavaliere di Virgo era un tipo empatico ed emotivo, era ovvio che conoscesse così bene lo stato d’animo della Dea incarnata. «Dovresti ringraziare Koga, se non fosse stato per lui a quest’ora si sarebbe cacciata nei pasticci un’altra volta. Quel ragazzino ha un buon ascendente su di lei». Aggiunse. Il ragazzino stava appresso alla madre adottiva e aveva vegliato su di lei fino a questo momento assieme alle Saintie. «Per forza, quando diventi genitore la tua priorità assoluta sono i tuoi figli e Lady Isabel non fa eccezione». Disse Shiryu con l’aria di saperla lunga. Se tu non avessi saputo che Koga era il figlio adottivo di Lady Isabel, ti saresti messo a ridere.
«Quindi cosa facciamo?» Chiese Seiya dopo un lungo sbuffo.
«Il piano lo conosci».
«Sì, questo lo so che domani partiamo, intendevo, stasera. La festa la facciamo lo stesso?». Festa? Che festa?
«Sì, dai».
«Non mi sento molto in vena di festeggiare…» Aveva detto Shun a quel punto.
«Ma dai, Shun, non fare il guastafeste, non abbiamo neanche festeggiato la vittoria della Guerra Sacra! Ascolta, anch’io non vorrei, ma ne ho parlato con Lady Isabel stamattina. Sai che mi ha detto? Che non ci avrebbe mai impedito di divertirci un po'».
«Approva veramente?» Chiese stupito Shiryu in coro con un diffidente Hyoga.
«Sì. Anzi, ha esteso l’invito anche agli altri Gold per premiarci tutti del lavoro svolto, a patto però che restassimo nei confini del Santuario». Eh, dopo l’ultima volta che aveva concesso una vacanza ai Gold era successo il finimondo, per forza che metteva questa condizione.
Perché non ne avevi saputo niente? Dopotutto eri un Gold Saint anche tu! Anche tu avevi partecipato allo scontro! Sta a vedere che Death Mask aveva volontariamente omesso di dirtelo. Che gran figlio di buona donna. E, tu, che gli avevi anche dato tregua per riprendersi dal rituale di rigenerazione! Tu non avevi partecipato al rito ma, tramite il Cosmo avevi assistito alle loro operazioni. Che illusi. Avevano pensato che la loro forza sarebbe stata sufficiente per compiere quel miracolo. Purtroppo però, soltanto una divinità poteva infierire e influire sulle armi di un’altra divinità. E, questo Viviana te l’aveva insegnato.
Ogni volta che le due metà sembravano sul punto di ricongiungersi, l’energia esplodeva e li sbalzava via, lontano dallo scettro. E, tutte le volte, finivano schiantati contro le pareti dall’onda d’urto.
Gli inservienti ormai si stavano quasi abituando a spazzare via i pezzi di calcinaccio e la polvere che cadeva dal soffitto.
A un certo punto Kanon li aveva fermati: «Non ce la farete mai». Aveva detto, quel giorno che entrò nella stanza dopo l’ennesimo fallimento dei fedelissimi.
«Come fai a dirlo se non ci hai neanche mai provato?» Aveva ribattuto il ronzino dorato. «C’è ancora speranza, perciò non mi arrendo.» Aveva aggiunto con quell’insopportabile determinazione che precedeva una delle sue cazzate.
Ma l’ex Dragone del Mare aveva scosso il capo. La zazzera azzurra in netto contrasto con i paramenti scuri una volta indossati. Si era tolto l’elmo e la maschera sacerdotali per poterli guardare meglio negli occhi.
Alla fine aveva lasciato provare anche loro. I cinque avevano provato di tutto, persino a riflettere la luce del sole sullo scudo di Atena. Peccato che anche quel tentativo andò a vuoto perché da giorni non faceva che piovere. E, il Gran Sacerdote aveva impedito che ripetessero il miracolo del Muro del Lamento. «Non voglio che muoiano di nuovo!» Aveva detto.
Seiya aveva battuto un pugno sul pavimento per la rabbia. «Noi siamo i Saint di Atena, i guerrieri della speranza! Non accetterò mai questa sconfitta. Non dopo tutte le battaglie che abbiamo affrontato e i nemici che abbiamo sconfitto!» Aveva dichiarato alzando il viso per guardare il Gran Sacerdote, mentre gli altri fratelli si rialzavano.
«Seiya ha ragione». Aveva esclamato Shun. E, Shiryu, avanzando a fatica verso il tavolo, aveva fatto eco: «Noi non ci arrendiamo».
Il fratello minore di Saga li aveva guardati con compassione mentre i cinque si riavvicinavano al tavolo di pietra. Poi, aveva detto, in tono mesto: «Credete che non ci avessimo già provato?» E, sempre nello stesso tono, aveva aggiunto, scuotendo il capo: «Per oggi basta così, continuerete un altro giorno».
«Ma…!»
«E’ la volontà di Atena!»
«Mi arrenderò solo se lo dirà Lady Isabel!» Aveva urlato Seiya. T
u avevi schioccato la lingua contro il palato in un verso di disapprovazione. Con quelle ferite e il Cosmo ancora danneggiato? Neanche un miracolo gliel’avrebbe risistemato.
«Bravo, allora va a svegliarla e diglielo!» Urlò a sua volta Kanon. Perché in quel momento la Dea stava riposando nella sua stanza. E, quelle parole avevano tolto al Cavaliere del Sagittario tutta la voglia di imporsi.

In questi giorni avevi avuto modo di incontrare anche gli altri Saint. Aiolia sembrava quello che, più di tutti, aveva bisogno di svagarsi. A parer tuo ti sembrava troppo stressato. Aveva seriamente bisogno di sfogarsi un po’. Un giretto ad Atene non gli avrebbe fatto mica male. Anzi, magari si sarebbe svegliato in un letto diverso.
Poi li avevi sentiti alzarsi e ti allontanasti rapidamente.
Guadagnasti la soglia e, lì, appoggiandoti alla terza colonna a destra dell’ingresso, aspettassi che uscissero.
I primi a uscire furono proprio Shiryu e, dopo qualche secondo Hyoga. Nessuno dei due si accorse di te. Anche perché ti eri messo proprio dalla parte in cui (soprattutto Hyoga, non avrebbe potuto scorgerti. Shiryu non valeva nemmeno la pena di nascondersi).
Poi, quando i due erano scomparsi alla vista erano comparsi gli altri due. Il Cavaliere di Virgo proprio non lo capivi, dovevi essere onesto. Aveva smosso mari e monti per non far scendere il fratello in campo e, poi, si era ritrovato a doverlo rimproverare. E, quel ronzino dorato doveva averne subiti molti di rimproveri nella sua vita per guardarlo con quel cipiglio arrabbiato dannatamente infantile. Ti mordesti la lingua per non ridere.
Invece Shun non demorse, anche se per poco non scoppiò a piangere: «Perché sei andato in battaglia? Ti avevo vietato di non farlo! Le tue condizioni fisiche non sono ancora stabili!»
«Ma se dal colpo della resurrezione di Shiryu sono passati due anni!» Protestò l’altro esasperato.
«Non è mai abbastanza, e poi non prendi le medicine che ti prescrive il dottore!»
«Scusa ma non sei un dottore anche tu? E, poi, guarda che uso il Cosmo per mantenermi in piedi! Ma figuratevi se vi lascio da soli voi e Lady Isabel!»
Il medico alzò gli occhi al cielo prima di rispondere: «Sono un chirurgo e questo non c’entra niente! Potevi morire!» Esclamò con un tono a metà strada tra l’irato e il lamentoso.
«Non è successo, sono ancora qui, Shun!»
«Oh, Seiya…», aveva sospirato rassegnato il fratello di Ikki di Phoenix chiudendo gli occhi e pizzicandosi la radice del naso, scuotendo la testa, «sei veramente testardo».
«Vabbè, insomma, stasera vieni alla festa, sì o no?»
«Ma sì, tanto Shura ha detto che vuole vederci tutti». Ah, allora non era partita da Lady Isabel, l’idea. «E, tu lo sai che quando dice così significa che dobbiamo procurarci tutto il necessario».
«Questa è bella, sul serio?» Disse stupito il Cavaliere più vicino alla Dea di chiunque altro. Era raro che lo schivo custode della Decima si scomodasse per parlare con i compagni ma se lo faceva, voleva dire che era grave. «Sul serio, non sai quante volte due anni fa io, Hyoga e Shiryu abbiamo ricevuto un suo messaggio che ci diceva che voleva incontrarci da soli e, spesso, eravamo finiti per essere trascinati in posti che non ci saremmo mai aspettati da lui. Hyoga in una gelateria e Shiryu in un bagno pubblico. Io ho mangiato assieme a lui i ramen. Shura ha veramente uno strano modo di coinvolgerci». Però, se li chiamava tutti assieme, allora, la situazione era veramente grave. Shun aveva sospirato e aveva detto: «Per quello che mi riguarda basta che ci sia da bere perché ho bisogno di qualcosa di forte».
«D’accordo, dimmi cosa vuoi, che scendo in paese a fare la spesa».
L’altro gli lanciò un’occhiata di vago rimprovero e si mise le mani in tasca. Da dove eri lo vedesti benissimo.
Seiya sembrava stupito, come se non avesse mai visto il fratellastro così autorevole. Tra tutti sembrava effettivamente colui che poteva fare qualcosa di veramente concreto per la Dea e, questa doveva far alterare per l’impotenza il Saint tre gradini più in basso. Forse persino Koga era più utile di lui, anche se tutto quello che aveva potuto fare era portare dei fiori alla madre. Lo sapevi perché glielo avevi chiesto quando l’avevi visto oltrepassare la Quarta con quel mazzolino fresco di negozio di fioraio.
Il ronzino dorato si lanciò nella descrizione di quello che avrebbe potuto comprare.
«Vendono la birra a Rodorio?» Aveva chiesto Shun sorpreso, raddrizzando la testa.
«Adesso sì, durante il mio apprendistato no». Rispose Seiya.
«Sono cambiate molte cose da allora». Rifletté l’altro.
«Sì, ma a me non sembra sia cambiato poi tanto».
«La vivi con spensieratezza, eh?»
Il Saint di Sagitter alzò le spalle: «E’ l’unico modo in cui mi sento di vivere, poi lo sai che sono un tipo simpatico per natura». Sorrise. «D’accordo, fa scorta anche di quelle. Ci vediamo stasera». Decise alla fine Shun.
«Sta bene. A stasera». Poi si era girato e se ne era andato.
Solo quando il fratello scomparve, Shun, con un sospiro si schiodò da quel gradino e scese a sua volta. Proprio allora dicesti: «Un uccellino mi ha detto che stasera si festeggia qualcosa, dico bene?»
Il Gold Saint di Virgo trasalì e si volse verso di te, sgranando i grandi occhi azzurri.
Sorridesti affabile.
«Sì». Confermò l’altro, ancora a occhi sgranati.
Ti venne quasi voglia di sfotterlo. «Posso venire anch’io?» Chiedesti invece, senza troppi giri di parole.
«Va bene, non vedo perché no».
«Allora a che ora si comincia?»
«Verso le nove».
«Ci sarò. A stasera». Sorridesti, ti staccasti dalla colonna e scendesti le scale, mentre il poveraccio si riprendeva dallo spavento che gli avevi fatto prendere.

Quella sera arrivasti con Death Mask al seguito. Salutasti tutti i presenti, soprattutto Shura. Saluto che fu ricambiato con un’occhiata ombrosa e tagliente da parte di quest’ultimo.
«Perché è venuto anche lui?» Chiese Seiya sottovoce al Custode della Quarta. Il siciliano replicò, dopo essersi acceso una sigaretta. «Non è voluto restarsene a Casa. E, che volete farci, io non posso mica obbligarlo a rinchiudercisi; anche se non mi dispiacerebbe».
«Ehi, ti ho sentito!» Esclamasti fingendoti irato.
Death Mask rispose retorico: «Sai quanto me ne frega?» Poi fece altri tiri dalla sigaretta. In quel momento comparve Hyoga dalla cucina con altre birre fredde e tu ne acchiappasti una. Poi notasti le sue occhiaie e gli dicesti: «Che faccia! Che ti è successo?»
«Non ho ancora recuperato completamente le forze, secondo Shun abbiamo preteso troppo dai nostri Cosmi. Cercare di riparare un oggetto divino e al tempo stesso di guarire noi stessi è effettivamente troppo, poi Natasha non voleva saperne di andare a letto».
«Uh, bella rogna. L’importante è che tu riesca a raffreddare le birre, mi raccomando». Dicesti appioppandogli una pacca sulla spalla ed eri tornato a infastidire Death Mask. Mentre Hyoga giocava, la squillante voce di Aphrodite annunciò il suo ingresso alla Nona. Seiya lo andasti ad accogliere e quando fecero il loro ingresso in salotto lo vedeste in compagnia del Cavaliere dei Pesci, di Kanon e di Cocteau stesso, che andò ad appollaiarsi sulla spalla di Capricorn. I tre si guardavano intorno e il Cavaliere della Dodicesima costatò, neanche troppo a mezza voce, che Lythos e gli altri avevano fatto un buon lavoro, mancava solo Jabu che si improvvisava maggiordomo ed eravate a posto.
I nuovi arrivati si erano serviti e si erano appropriati rispettivamente di una poltrona, una sedia e il divano. Seiya si scusò con l’oracolo di Atena dicendo: «A te non so che dare, onestamente non so neanche se gli animali come te bevano». Mentre Shura, stava già bevendo un sorso dalla sua birra. Solo tu ti accorgesti dello sforzo che fece per non ridere quando la civetta replicò in tono adirato: «Non sono un animale!» E, i tre topolini sulla sua testa avevano fatto eco all’ultima parola, spezzettandola come un vero eco.
«Lascia perdere, Seiya». Aveva detto Shura dopo aver inghiottito. L’altro fece spallucce. Secondo te non aveva ancora compreso che cosa fosse quell’oracolo di Atena.
«Buonasera a tutti». Aveva salutato Shun in compagnia di Shiryu il quale, dopo avervi salutato a sua volta e sorriso, si sedette sul divano accanto al tuo re.
«Ti togli, grandissimo scassa palle a oltranza?»
«Ehi, qualcuno metta un po’di musica!» Si lamentò Milo quando fece il suo ingresso con Ikki, Kiki, Mur (neanche troppo convinto della scelta fatta) e Aldebaran. Poi tracannò la sua bottiglia.
«No, mi piace troppo infastidirti».
«Shun, dammi le tue catene!» Ma tu ti eri già dileguato.

Astrid
L’avvenimento che poi venne ribattezzato “La ribellione delle Sacre Vestigia Dorate” non passò inosservato. Tutti coloro che a Rodorio potevano percepire il Cosmo o che si trovavano nelle Tredici Case avevano sentito ciò che era accaduto e ne parlavano. C'era chi vociferava addirittura di un Chrysos Synaigen segreto, ma questo era difficile stabilire se fosse vero o meno.
Sognai di osservare il cielo stellato con il telescopio assieme a mio padre. Lui mi aveva appena indicato la costellazione dello Scorpione e poi, mi aveva lasciato guardare nel telescopio.
«E’bellissima!» Avevo pigolato. Ma quando avevo staccato l’occhio dalla lente avevo visto le stelle spegnersi una a una. «Che cosa sta succedendo, papà?» Avevo chiesto a mio padre spaventata e, mi ero resa conto di essere da sola e di nuovo adulta. Mi ritrovai a correre per un bosco in cui avevo giocato spesso nella mia infanzia e a chiamare qualcuno a gran voce che camminava quaranta metri più distante da me. Ma quest’ultimo non si voltò e continuò la sua avanzata. Lo chiamai e cercai di accelerare, però le mie gambe cominciarono a pesare sempre di più finché non riuscii più a muoverle. Cercai di liberarmele aiutandomi con le mani ma non ne vollero sapere.
Improvvisamente cominciò a spirare un vento gelido e, alzando gli occhi, vidi le creature avventarsi addosso a me. Fui svegliata dalla mano di Castalia, che mi scrollò. «Stai bene?»
Ero madida di sudore e dovevo essere spaventata. Il mio cuore pareva un uccellino incastrato nella gabbia toracica che batteva disperatamente le ali per liberarsi. «Sì, sì, era solo un incubo».
«Hai urlato, sei sicura di stare bene?»
«Sì, certo, scusami per averti fatta preoccupare». Dissi mettendomi seduta e posandomi una mano sulla fronte. Con l’altra mi tenevo la coperta al petto e mi coprivo le ginocchia. «Sei sicura di stare bene? Se vuoi dico a Galan che devi riposare».
«No, non ti preoccupare, va tutto bene. Dimmi cosa c’è da fare, così mi faccio una rapida doccia e vado.» Lei mi spiegò che i Gold avevano fatto baldoria la sera prima su alla Nona e che c’era da pulire. «Mh, mi sa che dovrò farmela dopo la doccia. D’accordo, allora mangio qualcosa e vado al lavoro».
Appena misi piede in cucina provai a cercare di ricordare l’uomo che compariva nel mio sogno. Sentivo di conoscerlo, ero stata felice di rivederlo, anche se di lui vedevo solo la sagoma dai lunghi capelli e le spalle. Ma, mentre mi preparavo la colazione, mi accorsi di non riuscire a ricordarmi neanche il modo in cui lo avevo chiamato. Chissà chi era.
Dopo colazione lavai la ciotola e la rimisi al suo posto. Poi andai in bagno, mi lavai, mi vestii, raccolsi le mie cose e mi recai al lavoro.
Per quel giorno avrei soltanto dovuto ripulire la Nona Casa e poi il resto della giornata l’avrei passato come meglio credevo, salvo eventuali incombenze.
«Ehi, Astrid», mi salutò Makarios, uno dei miei colleghi. Era biondo rossiccio con i capelli ricci e gli occhi azzurri. Anche se dimostrava diciotto anni aveva un anno meno di me. Lui e i suoi amici, Papios e Kyprianos, (due ragazzini, il primo con gli occhi azzurri e i capelli rossi e l’altro moro con la pelle scura (come ebbi modo di scoprire in seguito, sua madre veniva dal Senegal)) avevano cominciato a prendermi in giro per via del p.d.m. di Milo.
Avevo commesso l’errore di parlare con Zoi, un’altra collega, che si era accorta della mia mano fasciata. Nel giro di un’ora tutto il Santuario era venuto a conoscenza della mia sfiga. Ma che ne sapevo io che quella lì era la domestica più pettegola di tutta Rodorio? Ovviamente la notizia aveva raggiunto anche Galan. Il quale mi convocò prontamente nel suo ufficio per parlarne. Così dovetti spiegargli che era stato un incidente, che non sapevo usare quel tipo di ferro da stiro e che nessuno mi aveva avvisato, né istruito su come fare. L’avevo poi supplicato di non mandarmi subito via aggiungendo anche che, a causa della scottatura il ferro mi era scivolato sulla tavola e avevo rovinato un angolino della maglietta. Però neanche si notava.
L’uomo mi aveva tenuto sulle spine per un po’ e poi aveva deciso di darmi un’altra chance, avvisandomi che se il Cavaliere se ne fosse accorto lo avrei dovuto risarcire. Sia del ferro da stiro, sia della maglietta.
«Se hai bisogno di aiuto chiedi ai tuoi colleghi». Mi aveva detto prima di congedarmi.
«Come va con Milo? Non ti ha ancora scoperto?» Fece Makarios mentre i suoi amici alle sue spalle ridevano neanche troppo sottovoce e senza preoccuparsi che li vedessi. «Per fortuna no». Poi li salutai, mi armai di pazienza e salii le scale. Stavo cominciando a migliorare, adesso, almeno, ci mettevo due ore e mezzo per arrivare fino alla Nona, ma ero ancora ben lungi dal non avere più il fiatone.
Di Gold non ne trovai neanche l’ombra, ma di caos ne trovai tanto. Sembrava fosse passato un tornado.
Il manico del mocio mi cadde di mano per lo stupore e l’orrore: mi potevano avvisare che era così incasinata!
Borbottando imprecazioni che tirarono giù qualche parlamentare italiano, mi rimboccai le maniche e mi misi all’opera.
Arrivata a metà, mi presi un bicchier d’acqua e, rendendomi conto della vaga eco in questo luogo, cominciai a cantare. Non so come feci, ma la voce mi uscì limpida come non mi ero mai aspettata. A volte avevo cantato sul lavoro e, i miei colleghi mi avevano fatto la registrazione a tradimento per farmi sentire quanto facessi schifo. L’unica canzone che finora era stata alla mia portata era Boadicea, no? Per questo, quando le mie labbra si aprirono da sole e cominciai a cantare molto meglio di quando avevo diciassette anni, mi resi conto dell’enorme cambiamento che avevo subito. Se non ricordo male, ciò era dovuto al fatto che, una volta superata una certa fascia d’età, si acquisiva un controllo vocale molto più valido di quello precedente. Almeno questo, per chi aveva qualche nozione canora. Ce ne parlò un docente all’università per spiegarci il movimento delle onde sonore nello spazio e la “musica delle sfere”.
Mi fermai, stupita: allora non avevo perso tutte le nozioni che avevo assimilato. Questa scoperta mi commosse fino alle lacrime, avevo temuto che l’immobilità intellettuale in cui mi ero incastrata avesse cominciato a intaccare le mie conoscenze. Mi era sempre piaciuto cantare e lavorare (oddio, adesso che l’ho detto, mi sento Biancaneve, la differenza era che farlo mi rilassava). Peccato che non avessi con me un mp3, me la sarei volentieri scaricata la discografia di musica celtica. Ovviamente avrei evitato di farla sentire a Lancelot. Non mi piaceva granché quel Cavaliere, sarà stato per il nostro primo incontro? Per il sorriso beffardo o gli inquietanti occhi rossi o lo scherzo che mi aveva fatto? O tutte queste cose insieme? Fatto sta che avevo deciso di mostrarmi cordiale per non avere rogne. Se quelle fossero sopraggiunte allora sarei stata pronta a scappare. Ma, tanto non sarebbe mai salito, oggi, mentre passavo dalla Quarta non l’avevo incontrato, cissà dov'era finito?
Di solito non cantavo quasi mai quando c’era lui o qualcun altro, mi vergognavo moltissimo.
Ero arrivata a metà canzone quando una voce maschile m’interruppe: «La pianti di cantare? Ho mal di testa».
Lanciai uno strillo, mi girai con due occhi grandi così e trovai Milo, in borghese, sulla porta del bagno, che si massaggiava le tempie come se fossero l’epicentro del suo malessere. «Scusami, pensavo di essere sola».
«Bè, non lo sei, fattene una ragione». Poi si diresse in cucina senza tanti complimenti e si servì una sommaria colazione dopo aver frugato in dispensa.
Ricominciai a spazzare cercando di mordermi la lingua. Che avevo fatto a quello là per essere apostrofata in questo modo?
Il resto della mattinata passò tranquillo e lo Scorpione se ne tornò a casa propria verso mezzogiorno, quando avevo quasi finito.
Nei giorni seguenti, se mi rivolse la parola, furono per la maggior parte commenti ironici e volutamente provocatori. La settimana più lunga della mia vita, che andò peggiorando quando la Dea e i suoi fedelissimi se ne tornarono a Nuova Luxor. Stando alla versione ufficiale la Dea si era destata ed era tornata a Nuova Luxor per seguire gli affari urgenti di suo nonno, il defunto duca Alman di Thule. Stando ai pettegolezzi dei mei colleghi, sembra che fosse un piano d’emergenza in vista di una nuova invasione e che i Cavalieri avessero ritenuto più opportuno spostarla invece che farle correre questo rischio. Sempre stando a questa versione, la Dea aveva versato lacrime amare nel piegarsi al volere del Gran Sacerdote e dei suoi Sacri Guerrieri.
«Un’altra Guerra Sacra?» Domandai a Kelani, l’anziana signora che stava facendo la spesa con me, quel giorno.
«Secondo Annika, una delle domestiche del Cavaliere dei Pesci, sì. Sembra che sia stato rubato un prezioso libro di magia custodito al Monastero dei Cinque Picchi».
«Ma le indagini non erano state affidate a Kiki dell’Ariete?» Domandai mentre ci dirigevamo verso il bancone del pesce.
«Sì, però ha dovuto abbandonare l’incarico per affari più urgenti». “Tipo riparare lo scettro della Dea”. Pensai rifacendomi a quello sprazzo di sogno risalente al ritorno dei Cavalieri della Guerra Sacra che stavo sforzandomi di ricostruire. Ci avevo messo un po’ per capire come mai quasi tutti i Cavalieri d’Oro recassero una fasciatura al polso, finché Elio, uno dei domestici di Kiki, non mi aveva spiegato il segreto della riparazione dei cloth e, di conseguenza, anche il perché dell’odore che permeava la Prima Casa. Quando lo disse restai inorridita. A quanto sembrava, inoltre, avevano provato a usare lo stesso metodo per cercare di riparare lo scettro divino. E, io, avevo storto da subito il labbro. Se c’era una cosa che avevo notato oltre la fasciatura era il pallore di Death e degli altri, oltre che quest'odore.
Con un nodo alla gola sperai veramente che non fosse odore di sangue.

Domenica mi ritrovai a spolverare l’Undicesima di nuovo deserta. Anche lì avevo provato ad approfittarne per cantare.
Mentre pulivo, avevo scoperto la biblioteca. E, impressionata, avevo deciso di dare una scorsa ai libri. C’era di tutto, letteratura, filosofia, matematica, persino libri di fisica e astrofisica. Non erano molto aggiornati, anzi, sembravano risalire a tre decadi fa, però i titoli erano interessanti. Provai ad aprirne uno e restai a sfogliare per un po’. Era scritto in greco, ma le formule le sapevo leggere lo stesso perché la matematica è un linguaggio universale. Cambia il nome e la lingua con cui si parla ma uno è sempre uno e una formula di meccanica celeste è sempre una formula di meccanica celeste.
In breve, capii che quello che stavo leggendo era un libro di astrofisica avanzata. Provai a eseguire quei calcoli e scoprii di essere arrugginita, ma anche interessata e ancora brava. Grazie al Cielo l’area del mio cervello adibita ai calcoli non era stata compromessa. Se mi fossi data da fare, sarei tornata a eseguire calcoli con la stessa velocità e precisione di una calcolatrice. Lo so, sono un caso disperato, ma che ci posso fare se io e le discipline scientifiche andiamo a braccetto?
«Forte!» Sorrisi mentre giravo pagina e continuavo la mia lettura.
«Cosa ci hai tu qui?» Trasalii e richiusi di scatto il libro. Milo era comparso da dietro uno scaffale e, dopo aver contratto il volto in una smorfia di rabbia, mi aveva cacciata via in malo modo. «Chi ti ha detto di venire qui? Tu questa libreria non la tocchi, hai capito? Adesso vattene, ci penso io a questa Casa».
Di solito non me ne era mai fregato di persone come lui, perché non valeva la pena. Ma adesso esagerava. Cioè, ero sicura di non avergli mai fatto niente e mi faceva perdere le staffe e una giornata di paga? “Non esiste!” Pensai irata. Mi voltai dopo quindici gradini stringendo i pugni e sbraitai «Ma che problemi hai? Che cosa ti ho fatto?» Lui non mi rispose, si limitò a fissarmi a occhi sgranati come se si fosse appena reso conto di aver fatto qualcosa di sbagliato. Sulla sua faccia potevo leggere le parole: “Mia Dea che cosa ho fatto”, a caratteri cubitali. Avrei voluto saperlo anch’io che diavolo gli fosse passato per la testa. Invece, si ricompose, mi fulminò con lo sguardo e mi dette le spalle scomparendo dentro il Tempio. Sibilai un «Idiota» e me ne andai anch’io.
Come avrei voluto zittirlo, oh se lo avrei voluto, però non potevo: “Ricordati che è anche lui che ti paga, ricordati che è anche lui che ti paga”, cercai di usare questa frase come mantra, salvo poi scoppiare in un «Sarà anche uno dei miei datori di lavoro ma come si permette?» Pestai i piedi masticando imprecazioni che avrebbero stupito persino Death Mask.
Forse avrei dovuto cominciare a sbollire la rabbia nei confronti dell’arrogante Scorpione, che da quel momento ribattezzai Piattola (tanto i metodi di uccisione delle suddette bestie non variavano) o avrei finito per attuare le mie fantasie minatorie su di lui. Ovvio che mi rendevo conto che così mi sarei abbassata al suo livello e che avrei fatto ridere i polli, ma così non si andava avanti! Verso la fine della rampa sentii la risata di Lancelot. Mi volsi nella direzione da cui proveniva la risata e lo trovai accomodato su una roccia, che rideva divertito.
«Non ti ci mettere anche tu!» Sbottai furiosa.
Lui si tenne la pancia e si deterse una lacrima con un dito: «Scusa, non era mia intenzione» disse. Certo, peccato che scoppiò a ridere di nuovo.
Roteai gli occhi e bofonchiai che non avevo voglia di giocare, lo salutai e me ne andai. Lui mi urlò di aspettarlo ma non lo ascoltai. Mi raggiunse e cercò di mettere una pezza al suo comportamento: «Ok, non c’era molto da ridere, ma non stavo ridendo di te». “Se, ed io sono nata ieri”. Pensai.
Lui continuò: «Non te la prendere, quello è fatto male». Non era che era fatto male, era che me lo ricordavo comportarsi diversamente con le persone. Me lo ricordavo più generoso e tranquillo. Non era affare mio, ma rischiava di diventarlo, se avesse continuato a prendermi di petto. E, io nei problemi altrui non ci volevo mettere il naso. Avevo già abbastanza problemi di mio, non potevo sobbarcarmi anche quelli di altre persone! «Sai che facciamo? Ti do io i soldi che avresti dovuto guadagnare, d’accordo?» S’offrì Lancelot. Gli lanciai uno sguardo dubbioso mentre scendevamo verso la Decima.
Appena varcata la soglia della Casa vuota (il suo proprietario era sceso in arena ad allenarsi) lui domandò: «Allora è qui che è cominciato tutto?» Trasalii e mi volsi a guardarlo, il cuore che batteva più velocemente mentre la mia espressione rivelava il mio pensiero. Si era fermato qualche metro più indietro e mi scrutava come un predatore osserva la sua preda. Un brivido freddo mi risalì la schiena e domandai, con voce improvvisamente flebile e guardinga: «Tutto?»
«La questione delle Armature». Specificò, infilando le mani nella tasca della giacca verde salvia polverosa che indossava. Poi mi sorrise: «A me puoi dirlo, non lo dirò a nessuno». Mi sentii raggelare il sangue nelle vene. «Non so di cosa parli». Tentai di svicolarmi dal pasticcio. Lo sapevo che questo qua aveva doppi fini e, adesso ero in trappola.
«Vuoi che ti rinfreschi la memoria?» Propose, senza mutare espressione e tono di voce. Chi glielo aveva detto? Come lo sapeva? Eppure non avevo detto niente. Cominciai a indietreggiare, mentre lui mi ordinò suadente: «Avanti, fammi vedere come hai animato le Armature». E, quel tono mi spaventò più di ogni altra cosa. Deglutii cercando di togliermelo di dosso. «Vuoi che ti dia una mano più fisica? D’accordo!» Ciò detto alzò una mano per colpirmi e io, chiusi immediatamente gli occhi e lanciai un ululato agghiacciante e tagliente che rimbombò nella Decima Casa e rimbalzò fuori di essa per via dell’acustica. Lo stesso che lanciai la prima volta che vidi le Creature. Un urlo che mi lasciò la gola dolorante e raschiata, ero caduta a terra, ma ero ancora viva.
Guardai il Cavaliere dai capelli azzurri che era rimasto immobile. Le mani in tasca e la testa inclinata di lato, che mi guardava divertito, mordendosi l’interno della bocca, poi, incapace di trattenersi oltre, scoppiò a sghignazzare.
Mi accorsi di non provare dolore. Com’era possibile?
Mi accigliai mentre mi rialzavo in piedi e mi spolveravo la gonna. Che cosa era successo? Trasalii arrivandoci e lo trapassai con lo sguardo. «Stavo scherzando!» Mi rivelò, infatti, piegandosi in due, e tenendosi la pancia mentre si sganasciava. «Oddio, ci sei cascata con tutte le scarpe, quanto sei divertente, davvero divertente, erano anni che non mi divertivo così. Mi dai più soddisfazione te che Death Mask!» Cominciavo a capire perché Death Mask lo legasse alla colonna.
Nonostante il bruciore alla gola cominciai a tirar giù tutto il Parlamento Italiano e a mandare accidenti al collega di Death Mask. Il quale cercò di rimediare dicendomi che l’aveva fatto per farmi ridere, che gli sembravo troppo tesa. Peccato che non ci fosse niente di divertente. Emisi un ringhio e mi diressi in cucina per riempirmi un bicchier d’acqua.
L’altro mi seguì e si fermò sulla porta: «Avanti, stavo solo scherzando, sei sempre così seria?»
«Non farmi replicare, potresti restarci male». Borbottai mentre mi portavo il bicchiere alla bocca e bevevo, ottenendo soltanto un altro scoppio di risa di risposta. E, mi era andata bene che non mi fosse venuta alcuna crisi, quello sì che sarebbe stato peggio.

Non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata a bramare di lavorare, pur di fuggire all’ansia divorante dentro di me. Ma di libri non era che ce ne fossero molti, né alla libreria di Rodorio, né a casa di Castalia. Mi sarebbe piaciuto sfogliare quelli dell’Undicesima, ma il Cavaliere della Piattola me l’aveva impedito.
Mi sarebbe anche andato bene leggere qualcosa, qualunque cosa, anche l’orario del treno. Peccato che da quelle parti non passassero treni e che non avessi comunque soldi per pagarmi il viaggio. La paga che avevo percepito nella mia prima settimana di lavoro era buona ma a parer mio non era sufficiente per i miei scopi. Dopotutto dovevo tornare a casa mia, no?
In realtà sarei potuta scendere a Rodorio e usare un telefono, il problema era che io e il greco eravamo ancora due cose a parte, il mio inglese faceva acqua da tutte le parti. Se capivo un po’ i Cavalieri, era solo perché riuscivo a intuire i loro discorsi. Anche se Juan di Scutum e Georg di Northern Crux erano un buon allenamento. Era comunque strano, era come se il mio cervello avesse inserito il traduttore automatico, sebbene io il greco non lo avessi mai studiato. Aggiungiamoci non mi potevo certo ripresentare a casa vestita così e senza uno straccio di documento. Anche se grazie all’Unione Europea, adesso per circolare tra gli Stati bastava una carta d’identità, la mia era rimasta da qualche parte in Italia lo stesso. Forse l’unica soluzione... mi guardai le mani. Già, ma ci sarei ancora riuscita? Che ne sapevo che dal giorno dell’aggressione (mi morsi il labbro e mi sforzai di non pensarci per non cadere vittima di un’altra crisi) non avevo perso la mia capacità? Inoltre, non sapevo se sarei stata pronta a voler leggere la mano di un manipolo di soldati. Lì per lì avevo considerato solo quella fetta di popolazione, non ai civili che abitavano questo posto. Questo dettaglio me lo sarei ricordato in seguito.
Non pensavo più da qualche tempo, ormai, che mi avessero rapito, anche se i miei sentimenti in merito non erano ancora cambiati. Forse era anche questo a trattenermi qui. Se mi avessero rapita davvero forse avrebbero chiesto un riscatto alla mia famiglia, oppure sarei stata seviziata o sarei morta per mano loro. O, mi avrebbero venduto a dei trafficanti d’organi o chissà cos’altro. Invece, qui, si erano prodigati per curarmi e tenermi al sicuro e mi lasciavano molta libertà, tantissimi mi avevano spronato ad andarmene, dal momento che la guerra era finita. Ma a parte il denaro che stavo cominciando a guadagnare, cosa mi tratteneva?
Dulcis in fundo i rapitori di solito non si affezionano alle loro vittime. Lo so perché al liceo lessi un giallo che era basato su una storia vera, riguardante la Sindrome di Stoccolma e, intimorita e incuriosita sull’argomento, feci delle ricerche. In più, avevo potuto costatare grazie alla lettura di Death la verità, la loro lealtà alla giustizia e, che un vero rapitore non avrebbe mai reagito come Kiki quando lo smascherai. Perciò, avevo tutte le prove che mi servivano per capire che ero al sicuro. Inoltre, non mi era mai successo niente di male, a parte la sera della mia esplorazione.
Lythos mi aveva detto che il Santuario era protetto da una barriera eretta dalla Dea in persona ed io, quella sera, non solo perché non riuscivo a dormire, ero uscita per tracciare una mappa mentale dei confini e delle porte. Finendo invece per perdermi. Ancora ringrazio il Cielo che Shura si trovasse lì nei paraggi, altrimenti sì che sarei finita male. Quei quattro non appartenevano alla categoria degli ubriaconi innocui, ma a quella degli ubriaconi pericolosi. A causa del mio vecchio lavoro al Kazablanc avevo imparato a riconoscerli. Ci fu un periodo, infatti, in cui una delle nostre ex bariste fu molestata più volte da un habitué. All’ennesimo rifiuto in cinque minuti per l’ennesima volta, l’uomo aveva perso la pazienza e l’aveva aggredita. Se non fosse stato per il buttafuori prima e i carabinieri dopo, quello sarebbe ancora in circolazione. Ovviamente della nostra collega non si seppe più niente. Lei si licenziò, cambiò città e numero di telefono. Anche quella sera con quei quattro mi era accaduta la stessa cosa e, avevo riconosciuto i segnali.
Alzai gli occhi per incontrare il cielo azzurro sopra la mia testa. Uno dei pochi in questa stagione.
Mi strinsi nella giacca grigia che Castalia mi aveva prestato. Se non altro mi dava un po’di colore, anche se un po’smorto.
Ormai mi stavo abituando a portare le gonne e i vestiti, anzi, mi stavano pure piacendo. Non avrei mai pensato che avrebbero finito per piacermi questi abiti di foggia iliadica (perché, davvero, mi sembrava di essere finita nell’Iliade quando scendevo in paese per fare la spesa. Ormai ci potevo scendere da sola, avevo imparato a conoscere le vie. Per quanto riguardava il linguaggio, mi facevo intendere a gesti).
Mi passai il bastone nell’altra mano. Non ne avevo più bisogno, però me lo portavo dietro perché ormai mi ero abituata al punto che mi sentivo nuda senza e, poi, qui non ci faceva caso nessuno.
Da un pezzo a questa parte stava succedendomi qualcosa di strano. A volte mi venivano in mente dei ricordi della mia infanzia. Ricordi che avevano a che fare con la persona che avevo visto in quel sogno e che continuavo a rifare. Di quella persona però ricordavo solo la sagoma sfocata. Era un uomo, di questo ero sicura, che aveva un brutto problema con il parrucchiere a giudicare dalla chioma lunga, scompigliata e indomabile. Ogni volta che cercavo di capirne qualcosa di più, qualcosa che mi distraeva e tornavo al punto di partenza. Era come se avessi qualcosa sulla punta della lingua, solo che non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Ah, se solo avessi avuto le mie carte con me, forse sarei riuscita a svelare quest’arcano. Aiolia non era ancora tornato dalla missione e Lythos non ci aveva dato notizie. Anche se cercava di nasconderlo lo vedevo che era preoccupata. Però non glielo dissi mai per tatto.
Di solito non avevamo tanto lavoro da sbrigare, giacché in teoria noi collaboratori domestici eravamo chiamati solo nei fine settimana per (salvo rare eccezioni come guerre, assalti o qualcosa di più tranquillo come un festino) per rassettare e pulire. Per questo, per ammazzare il tempo, oltre che dare una mano a Castalia, avevo cominciato a uscire e gironzolare per il Santuario.
Martedì pomeriggio dopo pranzo, dal momento che era una bella giornata e che non volevo restarmene chiusa in casa a fare la muffa, uscii come al solito. Mi recai sulla collinetta degli ulivi. Uno dei pochi spiazzi erbosi che si poteva sperare di trovare in questo posto. L’erba qui cresceva a chiazze come se stesse evidenziando il passaggio di una fata dispettosa.
Oltre agli ulivi c’era un altro motivo per cui stavo lì, la vista sulle montagne. Anche se a pochi passi da noi c’era Atene, stare al Santuario era come trovarsi in due mondi sovrapposti e al contempo complementari. Una specie di Terra di Mezzo.
Stavo osservando le rovine del Santuario quando mi sentii tirare la manica della giacca. Abbassai lo sguardo e vidi una bambina di otto anni che sembrava una bambola con lunghi codini argentei che mi guardava. Aggrottai la fronte domandandomi da dove fosse sbucata.
Lei, per niente toccata dalla mia reazione mi domandò qualcosa in giapponese e, io non ci capii una mazza. Il mio traduttore automatico mentale evidentemente non contemplava le lingue orientali e, in quel momento, non mi riusciva attivarlo, anche se, la sua richiesta era evidente. Voleva giocare con me, perché mi lanciò la palla che teneva sottobraccio. La afferrai con una mano e gliela rilanciai. Non avevo ancora fatto in tempo a rispondere che era sopraggiunta una ragazza di diciassette anni dai capelli lisci castani e gli occhi purpurei.
«Ciao». Salutai. Lì per lì l'avevo scambiata per un'altra collega.
La ragazza mi guardò e si scusò per il comportamento della bambina tutta imbarazzata. O almeno credo che fossero scuse vista l’espressione a disagio sulla sua faccia. Io le sorrisi e le dissi che non importava. Lei restò molto sorpresa nel sentirmi parlare più in italiano che in greco. Tutto si sarebbe aspettata fuorché questo. Poi sgranò gli occhi e disse, nella mia stessa lingua: «Ma tu non sei la ragazza di cui parlano tutti alle Dodici Case? Astrid av Stjernene?»
Confermai, sorpresa e felice di aver trovato qualcun altro con cui esprimermi nella mia lingua natia. Poi Pensavo di essere passata di moda con l’ultima Guerra Sacra. Si vede che la faccenda delle Armature avevano ristabilito la mia popolarità. Strano, eppure mi pareva che il Gran Sacerdote fosse riuscito ad arginare le voci prima che causassero un disastro.
La bambina le domandò qualcosa in giapponese e lei rispose prima di farmi la traduzione. Anche la piccola aveva sentito parlare di me da suo padre e lei aveva appena confermato. Yoshino si rivelò fin da subito una ragazza molto simpatica, anche se ebbi come l’impressione che si fosse come sentita inferiore, rispetto a me. Me ne accorsi perché, mentre giocavo con Natasha, si era come rabbuiata, persa in chissà quali pensieri. A giudicare dalle occhiate che mi lanciava. Come se mi stesse esaminando. Ok che mi avevano paragonato spesso e volentieri a un’elfa e, alcuni soldati semplici, alla versione femminile e bionda di Camus, però ora si esagerava. Non ero neanche così formosa! Per quanto mi trovassi bella io stessa e sapevo di esserlo, non mi sentivo vanitosa a livelli patologici, nel giusto.
Le domandai se stesse bene e lei disse di sì, ma era ovvio che fosse una bugia. Perciò, d’accordo con Natasha, la coinvolgemmo nel nostro gioco. Natasha le spiegò le regole e lei annuì un po’perplessa prima di ripetermele nella mia lingua per vedere se erano giuste. Purtroppo, a causa delle mie gambe non potemmo correre più di tanto e, così, ci dovemmo limitare a qualche gioco. A un certo punto passarono di fianco alla radura Lancelot, che, vedendoci così, sorrise e passò oltre, e la madre di Yoshino. Ebbi così modo di conoscere Shaina dell’Ophiuco. Anche se mi ci volle un po’per riconoscerla. Ovviamente mi morsi la lingua per evitare di scoprirmi troppo (per via della lettura di Death). Ed ebbi il piacere di scoprire che era italiana anche lei. Per questo la figlia conosceva la nostra lingua. Scambiai con lei qualche convenevole prima che ci lasciasse giocare da sole.
Passammo la giornata a ridere a crepapelle e giocare con la bambina. Alla fine, eravamo madide di sudore ed io e Yoshino stanche morte ma eravamo felici. Non la smettevamo più di ridere ubriache di sole e di vita come non eravamo mai state. Natasha quasi non voleva lasciarmi andare e Yoshino, sebbene fosse dispiaciuta anche lei di lasciarmi, mi propose di rifarlo ed io accettai con molto piacere. Sapevo che quelle due avevano a che fare con i Cavalieri d’Oro, però nella giornata che passammo, ci lessi la sincerità. E, anche da questo, restai molto colpita. Era da molto tempo che non stringevo amicizia con qualcuno. «Oh, sta tramontando il sole». Commentai a un tratto, detergendomi la fronte con il dorso della mano.
«Tramonto? Oh, no, mi sono dimenticata che oggi cucino io. Accidenti, devo andare». Ribatté la ragazza e scattò immediatamente seduta. Richiamò la figlia di Hyoga e, salutandomi, se ne tornarono alle rispettive Case mano nella mano. Ricambiai. Io invece, restai seduta in quel posto un altro po’, a guardare il tramonto. Era da un pezzo che non mi concedevo di vedere un simile spettacolo. E, mentre osservavo quelle bellissime sfumature iridescenti e infuocate dell’astro che calava, mi presi tutto il tempo del mondo. In fondo, non era necessario che tornassi immediatamente a casa. Non mi ero mai sentita così in pace e in sintonia con il creato come in quel momento. Nei quattro giorni seguenti incontrai altre volte Yoshino e Natasha anche se non potei che trattenermi solo cinque minuti per via del lavoro.

Due pomeriggi seguenti la nascita di questa amicizia Aiolia fece ritorno al Santuario. Sembrava un po’malconcio e distrutto. Un velo di barba gli velava il mento e sembrava pensieroso mentre saliva le scale con il Pandora-box che mandava scintillii dorati sotto ai raggi del sole. Appena mi incrociò sulle scale tra la Terza e la Seconda mi fulminò con lo sguardo ma passò oltre, andando a fare rapporto al Patriarca. E, gli avevo solo detto: «Buonasera».
Solo dopo mi venne in mente che poteva essere tornato solo perché la sua Armatura aveva cercato di dare forfait. “Anche a distanza?” Mi domandai, dubbiosa. Forse sì.
Nei giorni seguenti non ci parlammo più e non ci incrociammo nemmeno per sbaglio. Meno male, non avrei sopportato di essere fulminata dal suo sguardo ogni volta. Invece, Milo continuò a tirare la corda, soprattutto quando non gli sbraitavo contro. Dal momento che poi non gli avevo più urlato in faccia si era sentito quasi in dovere di riprendere a stuzzicarmi. Stavo cominciando a perdere la pazienza con lui. Stavo veramente cominciando a spazientirmi...
E, il giorno che persi la pazienza arrivò.
Era vicino il mio compleanno, cioè il trenta novembre e, io decisi di farmi un regalo. La Nobile Piattola aveva ignorato il mio avvertimento a proposito del disordine che lasciava in bagno ogni volta che si faceva la doccia? Bene, la Nobile Piattola avrebbe ricevuto una lezione. Ma quale? Sapevo che mi sarei abbassata a dei giochi infantili ma cosa mi serviva per fargli capire di smetterla e al tempo stesso che non ero una minaccia? Dopotutto ai suoi occhi ero pur sempre una strega, una nemica del Santuario.
Ci pensai un giorno intero quando ebbi l’ispirazione. Avevo ripulito la vasca e i filtri per l’ennesima volta borbottando accidenti alla Camera dei Deputati.
I capelli della Piattola, infatti, andavano a intasare i filtri della vasca da bagno (che era di poco più piccola di quella piscina olimpionica che, sempre per sentito dire, c’era alla Tredicesima). All’inizio lo avevo pregato di fare attenzione, spiegandogli il problema e lui mi aveva promesso che lo avrebbe fatto. Ma poi se ne era dimenticato e io mi ero ritrovata a collezionare sì tanti capelli presi dal filtro e dalle pareti della piscina-vasca da bagno, che avrei potuto creare la copia esatta della sua capigliatura. Ma non ero così pazza e, quindi, mi limitai a chiudere il tutto nei sacchi della spazzatura e portarli al centro di smaltimento.
All’ora di pranzo, quando mi recai alla locanda dove io e alcuni conoscenti pranzavamo insieme, mi mandarono a cercare una nostra collega: Chrysafi. Questa somigliava vagamente a un porcellino d’india, era un po’maniaca ossessiva che nutriva una fissazione per il Cavaliere della Piattola. Come si fa, ditemelo voi (“Fatti curare, Astrid, dammi retta”, mi disse la mia coscienza). E, infatti, mi ero accorta che arrivava persino a frugare nell’immondizia per ritrovare quelle ciocche. Come stava facendo in questo momento. «Che diavolo…»
«Astrid!» Esclamò spaventata riemergendo dal bidone maleodorante. Se fossimo stati in estate avrei visto persino le mosche ronzarle attorno. «Ti prego, non è come sembra io…»
Ebbene, fu proprio pensando a quella maniaca che mi venne l’idea. Andai da lei e le spiegai che mi servivano le ciocche per uno scherzo. «Ma poi me le ridai?» Aveva chiesto, guardinga.
«Certo!» Avevo esclamato convinta. «Anzi, sai che c’è? Te ne procuro di nuove per la tua collezione!» Promisi entusiasta.
«Davvero lo faresti?» Mi chiese speranzosa con gli occhi improvvisamente luccicanti.
«Hai la mia parola». Affermai con sicurezza tendendole la mano.
«Grazie, grazie, grazie!» Mi fece tutta entusiasta scuotendomela tre volte, mentre dentro di me pensai “Che schifo…”
Nottetempo risalii le Dodici Case facendo attenzione a non farmi vedere, mi introdussi nella stanza della Piattola che russava della grossa e, riuscii a vedere i suoi tratti grazie alla luce della Luna che entrava dalla finestra vicina. Facendo attenzione a non fare rumore disposi le ciocche e poi me ne andai.
La mattina dopo, mentre pranzavo vicino al pozzo in compagnia di Makis, il fratello minore di Makarios, che era identico a lui ma dai modi più dolci, Chrysafi, Tabetha, Eugenios (che era sulla cinquantina) e Eusmenios (anche lui che andava per quell’età). Quella mattina la Piattola giunse da noi tutto incazzato brandendo le ciocche fetenti (i capelli che intasano lo scarico non profumavano mica) che gli avevo lasciato, alla stregua di un martoriato mazzo di fiori. «Che cos’ha Scorpio?» Domandò Makis (uno dei pochi giovani) e,Tabetha: «Perché sta venendo qui?»
I due anziani ci consigliarono di non provocarlo, che sembrava alquanto adirato. Lo accompagnai con lo sguardo sforzandomi di restare tranquilla, mentre il cuore mi batteva all’impazzata. Dovevo rispolverare il mio aplomb. Lo stesso che affascinava i miei vecchi clienti. Anche se fu molto difficile di fronte al Cavaliere della Piattola. Giuro che mancava poco che il fumo gli uscisse dalle orecchie neanche fosse una locomotiva. «Eccoti, finalmente, ti ho cercata dappertutto!» Esclamò adirato. Quando si era destato e si era alzato, vedendo le ciocche e sentendo l’odore, si era preso un accidente, forse pensando di esser diventato pelato tutto in un colpo.
Buttò a terra le ciocche.
«Oh, ma che gentile, vi siete degnato di portarmi la spazzatura?» Domandai ironica mentre gli altri servitori arretravano di un passo dalle loro postazioni, spaventati. «Per favore, non scherzare e vieni un attimo con me, dovrei parlarti». Disse, cercando di controllare il tono della voce e ammorbidire un po’il tono. Sapevo che, per legge del Santuario i Saint non potevano alzare le mani sui servitori a meno che costoro non avessero bisogno di un aiuto in arena. E, con aiuto si intendeva un sacco da boxe per l’allenamento. Me lo aveva spiegato il signor Galan il primo giorno. Sperai che la situazione non degenerasse né ora né dopo. Avvolsi di nuovo il panino nella carta stagnola e lo lasciai al mio collega più vicino. Poi seguii il Cavaliere. Appena svoltato l’angolo mi sgridò: «Che diavolo ti ha preso di lasciarmi i capelli sul cuscino? Dovevi buttarli non lasciarmeli!»
«Ma signore, io vedo ancora i vostri capelli sulla testa, sicuro di stare bene?» Chiesi fingendomi stupita.
Nessuno dei miei colleghi rise, anzi, si raggelarono.
La sua faccia cambiò colore in favore di un bel rosso che fece pendant con la sua maglietta: «Non farmi passare per mentecatto e rispondi!»
Alzai le spalle, fingendomi innocente: «Che vi devo dire? Mi sarò confusa…»
«Ah, ti sei confusa? E, io non ti pago per questa settimana». Mi ricattò. Poi, di fronte alla mia espressione di trasalimento si ammorbidì e cambiò idea: «Per questa volta lascio stare ma ti avverto, Astrid, sono serio». Poi, mi guardò con occhi cupi. Gli restituii lo sguardo minaccioso e pensai “Anch’io”. Poi, sai che paura, era l’unico Saint che non scuciva neanche un centesimo per i miei servizi.
Poi se ne andò.
«E, questo è solo l’avvertimento». Sogghignai quando fu fuori portata d’orecchio. Tornai dai miei colleghi e ripresi a mangiare e rispondere alle loro domande mentre la mia collega dava sfoggio della sua mania scagliandosi a raccogliere le ciocche che Milo aveva buttato a terra. Per contro, rese la sua Casa un vero e proprio porcile e richiese esclusivamente il mio servizio per ripulirla da cima a fondo. Ma, di questo non mi lamentai e, sperai che avesse imparato la lezione.

Il mercoledì della seconda settimana di dicembre (e, sì, nonostante l’incidente e lo scherzetto a Milo superai brillantemente la settimana di prova e fui assunta), dopo settimane di amicizia e frequentazione diurne, Yoshino mi invitò per un’uscita notturna a Rodorio. «Davvero? I tuoi te lo lasciano fare?» Domandai, beccandomi un’occhiataccia mentre caricavo la lavatrice della tintoria. La mia conoscente era venuta a dirmelo proprio in quel momento. Mi morsi la lingua, mi ero scordata che in Giappone tendono a responsabilizzare i figli già dalla più tenera età. Ma la figlia dei due Saint sorvolò: «Allora, vieni?»
Ero un po’diffidente all’idea ma se Yoshino mi garantiva che i suoi si fidavano, allora andava bene.
«D’accordo». Decretai e lei prese a saltellare e mi gettò le braccia al collo tutta contenta. Saltellai sulle punte un po’stupefatta da questa reazione. Quando si staccò da me mi domandò: «Che c’è? Ho fatto qualcosa di male?»
«No, niente, mi hai solo... colta di sorpresa». Lei dovette interpretare il mio discorso nel modo sbagliato perché disse: «Oh, mi dispiace, scusami, se ti da fastidio...»
«No, no, colta di sorpresa in senso positivo». Sorrisi commossa. Solo quando se ne andò ammisi a me stessa che era la prima volta dopo tanto tempo che qualcuno mi abbracciava e non per consolarmi. Avevo quasi dimenticato che cosa si provasse.
Quella stessa sera, dopo cena, mi vestii con un chitone lungo fino alle ginocchia, con le maniche lunghe che si allacciavano sulle spalle e sulle braccia con delle fibbie tonde. Ormai le ferite della caduta mi erano guarite e potei avviarmi senza problemi ai piedi della scalinata delle Tredici Case, che ci eravamo date appuntamento lì.
Lei invece preferì un abito corto fino al femore che le lasciava scoperte le spalle e una collana e stivaletti. Eravamo intonate e ridemmo di questa cosa. Per sicurezza mi portai dietro il mio bastone. Credo che lei sapesse quello che mi era successo, ma non mi chiese mai niente e, io gliene fui grata. Non mi sentivo ancora pronta per parlarne con qualcuno.
Rodorio di notte era molto bella. Non ci avevo più fatto caso, anche perché non ero più uscita dopo la molestia dei quattro. Cosa che avevo dimenticato dopo tre settimane.
Sia Yoshino sia io ci sorprendemmo di vedere la popolazione giovanile ed entrambe attirammo parecchi sguardi e molti ci domandarono se fossimo sole. Per quella sera li mandammo tutti in bianco, per niente interessate alle loro profferte. La figlia di Aldebaran sembrava più interessata a scattare foto e fare autoscatti assieme alla sottoscritta piuttosto che prestare attenzione ai ragazzi. Poi, approdammo in un’osteria e ci fermammo a bere qualcosa approfittando del fatto che ero maggiorenne. Io mi presi un barracuda e lei una capiroska alla fragola. Strano a dirsi perché visto il posto non l’avrei mai detto, eppure era come stare in un bar qualsiasi di qualsiasi altra città. La mia nuova conoscente accomodata di fronte a me disse: «Uh, è forte! Lo sai, è la prima volta che bevo un cocktail. Pensa che in Giappone, finché non si raggiunge la maggiore età ci è praticamente impossibile toccare qualsiasi alcolico».
«Davvero? Stai attenta allora, potresti non reggere». L’avvisai mezzo scherzando, non volevo che esagerasse, altrimenti i suoi parenti se la sarebbero presa con me. Lei rise tutta allegra e bevve un altro sorso dalla cannuccia. Poi mi domandò: «Tu bevi?»
«Qualche volta».
«Che cosa?» Mi domandò. Feci mente locale e mescolai il mio barracuda con la cannuccia: «Mah, di solito la vodka alla pesca o alla fragola, poi dipende da quello che capita, ma non sono mai arrivata ad ubriacarmi come una spugna». Inoltre, quello era il mio primo cocktail dopo mesi. Avevo cominciato a bere a sedici anni, per ingannare il tempo durante le serate o le giornate di magra passate a girarsi i pollici al tavolo del bar. Ad ora avevo bevuto quasi tutti i cocktail possibili e immaginabili ma il mio preferito era il barracuda; una miscela di quattro virgola cinque centilitri di Rum Oro, uno virgola cinque centilitri di Galliano, sei di succo d’Ananas, un cucchiaino di succo di lime fresco e prosecco decorato con una fetta di limone e ciliegina. Bevvi un sorso dal bicchiere e quasi mugolai di piacere: Dio, avevo quasi dimenticato il suo sapore.
«Hai mai provato il saké? E, lo ouzo?» Mi domandò Yoshino, incuriosita e un filino su di giri.
«Una volta al wok sushi della mia città. Lo ouzo non ancora».
«Hai mai fatto un’apericena?» Le domandai.
«No, che cos’è?»
«Sul serio non lo sai?» Le dissi stupita. Alla sua età ne avrò fatte almeno sette o otto. Poi glielo spiegai e quando finii lei disse, con occhi brillanti: «Sembra divertente, allora qualche volta lo facciamo!»
«Quando avrò il permesso di uscire da Rodorio sicuramente!» Le promisi. Volevo farlo ad Atene, non a Rodorio. In tempi abbastanza critici come questi i civili necessitavano di permessi speciali per lasciare il Santuario e il paese. Soltanto i Saint che partivano per delle missioni potevano lasciarlo. E, il Gran Sacerdote, solo pochi giorni prima aveva proclamato lo stato di massima allerta. Io non avevo ancora avuto il piacere di conoscerlo, l’ultima volta che era sceso tra i comuni mortali per la benedizione settimanale io stavo preparando il pranzo a Death Mask, che quel giorno toccava a me cucinare e l’avevo sorpreso con alcune ricette che avevo imparato comprando un mensile di cucina quando stavo ancora in Italia. Fortuna che avevo aumentato le dosi perché altrimenti facevano la dieta.
I due avevano gradito talmente tanto che avevano espressamente richiesto la mia cucina. Lancelot aveva addirittura voluto il bis di tutto.
A parte questo, io e Yoshino passammo tutta la serata a chiacchierare. In breve scoprii che aveva diciassette anni e che era la figlia adottiva di Aldebaran e Shaina, che faceva da baby sitter a Natasha e frequentava la seconda classe di un liceo artistico e che faticava ancora molto per lavorare la ceramica. «Invece Death Mask ci riesce con una facilità impressionante, lo sapevi?»
«Sì, diciamo che ho avuto modo di costatarlo di persona».
Quando ci stancammo di questo posto andammo a pagare al bancone. Mentre aspettavamo il nostro turno fui apostrofata da una voce femminile che conoscevo: «No, non di nuovo!» Mormorai. Poi mi voltai, mentre Yoshino domandava perplessa: «Quella chi è?»
Riconobbi all’istante quella maschera e quei capelli. La mia poco amata conoscente mi apostrofò in tono acido: «Allora sei ancora qui, non ti hanno sbattuto fuori».
«Scusa, Neera, ma non ho voglia di parlare con te». Dichiarai e mi portai di nuovo il bicchiere alle labbra ma quella batté il palmo sul tavolo e ribatté: «Io invece ho una gran voglia di spaccarti la faccia, strega». Lo urlò così forte che tutta l’osteria si fermò a guardarci.
«Ehi, lascia in pace Astrid!» Intervenne Yoshino cercando di difendermi.
«Tu stanne fuori!» Ribatté Neera, per niente impressionata.
Qualcuno si avvicinò a noi. Peccato che fosse un ubriacone, «Suvvia, ragazze, non è il caso di litigare per così poco, c’è birra a sufficienza per tutti» che fece l’errore di cingere le spalle dell’aspirante Sacerdotessa-Guerriero con un braccio e tracannare il boccale. Lei non gradì e lo ribaltò in un secondo. Il tonfo del corpo del soldato rimbombò in tutta la locanda come il colpo di un cannone in una vallata.
L’oste bisbigliò qualcosa a uno dei baristi che annuì e sgattaiolò via. Probabilmente l’aveva mandato a chiamare le guardie.
Cercai di non lasciarmi impressionare, che se con il Cosmo che le stava illuminando i tratti di un vago azzurrino, iniziai seriamente a temere per la mia vita. Come uscirne? Questa era allenata, mi avrebbe fatto fuori in due secondi. Non potevo usare il bastone perché me lo avrebbe dato in testa. Poi, mi tornò in mente Milo che mi apostrofava allo stesso modo e la sua reazione quando gli avevo chiesto se voleva sperimentare i miei poteri sulla sua pelle. Chissà se avrebbero funzionato?
Misi una mano sulla spalla della figlia di Shaina e le dissi: «Ha ragione, Yoshino, stanne fuori». La mia conoscente mi guardò sgranando gli occhi per la preoccupazione e le sorrisi con convinzione: «Non ti preoccupare, me la cavo benissimo da sola».
Intanto che gli avventori si erano già disposti attorno a noi nella speranza che ci azzuffassimo. Scorsi con la coda dell’occhio Death Mask con Aphrodite e Shura sedersi al bancone, pronti a intervenire. Non mi ero subito accorta della loro presenza. Feci l’occhiolino ai tre per dirgli che era tutto ok e ricevetti un’occhiata poco convinta da Death. Però mi lasciò fare. Tornai occuparmi della mia avversaria, la quale restò molto delusa e perplessa, quando mi vide accomodarmi al tavolo.
Gli avventori cominciarono a bisbigliare tra loro, confusi dalla mia mossa. Invece, si zittirono stupiti quando mi videro invitare la mia sfidante ad accomodarsi di fronte a me. Per un momento mi sembrò di essere tornata la vecchia Astrid. «Accomodati». Dissi anche, con lo stesso tono di quando lessi la mano di Death.
«Che cosa vuoi fare, braccio di ferro?» Chiese l’altra, divertita, senza accettare il mio invito.
«E, lasciarmi spezzare il braccio? Certo che no, la sfida che ti propongo è un’altra».
«E, sarebbe?»
«L’opportunità di dimostrare a tutti che sono veramente una strega come dici, voglio leggerti la mano. Se perdo, ti do carta bianca sul massacrarmi liberamente come, quando e quanto ti pare, ma se vinco», “e vincerò”, «tu non solo mi lascerai in pace ma farai le pulizie al Grande Tempio al posto mio per una settimana, ci stai?» Non che non mi andasse di lavorare, era solo che lei mi sembrava il tipo che non si sarebbe mai piegata a un’umiliazione come questa.
«D’accordo, ma se vinco io, ti ucciderò». Ciò detto scostò la sedia e si sedette di fronte a me. Per poi cambiare idea e delegare tutto a una sua amica, una rossa più bassa di me, che accettò incuriosita.
«Ciao, io sono Astrid av Stjernene», mi presentai con un sorriso cordiale, «Tu come ti chiami?»
«Akeleis del Tucano, piacere».
“Aspetta a dirlo”. Ampliai ancor di più il mio sorriso, certa di avere il coltello dalla parte del manico. Una persona o l’altra, a me non cambiava niente. «Va bene, dammi il palmo della mano con cui non scrivi…» la istruii.

Lancelot
I colleghi di questa dimensione avevano fatto il doppio turno, questa settimana. Stando alle ricerche di Aphrodite, c’erano dei teschi e dei corpi seppelliti in alcune aree vicine ad Atene. Ma non oltre. Meno male che Aiolia era tornato da un po’. Ti scocciava ammetterlo ma quell’impulsivo coi paraocchi ti stava simpatico, era così divertente vederlo inalberarsi quasi per un nonnulla. Oppure sapere che conferiva con Sirrah, ogni tanto. E, certo che conoscevi Sirrah, nonostante la sensazione di viscidume e unto (che ti faceva raccogliere sempre una marea di tovagliolini di carta, come se avessi potuto usarli per ripulirti dalla sua presenza) ti stava simpatico. Simpatico, certo, quanto poteva starti simpatica una pezza per i piedi e feccia come lui. Purtroppo l’unica persona a cui avresti mai portato rispetto, sarebbe sempre e solo stata quella che brandiva Excalibur. Neanche quell’aborto di Mordred avevi mai concesso la tua stima. Perché avresti dovuto farlo con Sirrah? Anzi, ogni due per tre, quando lo vedevi, escogitavi piani per toglierlo definitivamente di mezzo. Un po’come con Wadatsumi. Anche quello, povero scemo, desiderava tanto essere un eroe e guarda come era finito, rinchiuso in una palla di neve ed esaminato al microscopio dal Gold Saint di Virgo.
Anche tu, da quando avevi preso servizio presso Miss Tomoe come Cancer, sapevi quanto la ronda potesse essere noiosa, se passata da soli. Come se non fosse bastato, tu e il Cavaliere del Leone avevate dovuto interrogare i Black Saint e non ne avevate cavato un ragno dal buco. In parte perché a te non interessava («Potresti almeno darmi una mano». Aveva detto, esasperato e stanco, girandosi verso di te. Che te ne stavi stravaccato sulla sedia in bilico sulle zampe posteriori, le caviglie incrociate sul tavolo.
«Guarda che io lavoro per Miss Tomoe, non per Miss Isabel». Avevi ribattuto e quello se ne era uscito con un’occhiataccia e se ne era andato, lasciandoti lì a sogghignare). In compenso il capo dei Cavalieri Neri aveva richiesto un colloquio formale con il Gran Sacerdote (in mancanza della presenza fisica della Dea) e l’avevate accontentato. Sicché, adesso si ritrovavano dei malviventi a giro per il Santuario. Come si suol dire in questi casi, cavoli loro. Tu non c’entravi niente, ti eri solo limitato a esporre la richiesta di udienza del capo dei Black Saint. Per ora però stavano mantenendo la loro promessa. Anche se, secondo gli accordi, in caso di guerra, non avrebbero dovuto interferire. Sarebbero invece dovuti andarsene. Aveva passato il resto del giorno del rientro nella sua Casa. “Sempre un gran simpaticone, questo qui, eh?” Avevi pensato inarcando il sopracciglio mentre giocavi a dadi con un sottorango di cui, francamente, non ricordavi neanche il nome. Ne era riemerso solo la mattina dopo, quando era sceso in arena per gli allenamenti quotidiani.
L’idea di coinvolgerlo era stata di Milo dal momento che gli sembrava che Aiolia passasse troppo tempo in casa e stesse facendo la muffa. Ma eri stato tu a riuscire nell’opera di persuasione, con un aiutino in estremis di Lythos. «Va bene, vengo solo perché ho voglia di svagarmi, altrimenti», parole sue, «non mi sarei neanche mosso». Neanche il tuo amato re era mai stato così. Neppure quando era stanco morto e quasi sopraffatto dalle incombenze del regno.
Tornasti a concentrarti sulla sfida che si stava svolgendo di fronte ai vostri occhi. E, cioè, di Astrid che sputtanava allegramente la povera disgraziata che le stava di fronte. Non facevi che ridere come un matto. Oh, Dea, neanche i giullari di corte sapevano fare di meglio. Che spasso!
Anche Death Mask e Aphrodite ridevano come matti, accomodati sugli sgabelli al bancone. Persino il cupo Shura aveva la bocca piegata in un ghigno divertito e, a volte si lasciava sfuggire una risata sommessa, anche se dava le spalle alla scena, si vedeva che era divertito. Eri contento che se la spassasse un po’, non lo avevi mai visto ridere.
Il modo in cui leggeva la poveretta ti ricordò molto quello che era successo recentemente: ovvero, la dichiarazione di guerra avvenuta tra il Cavaliere di Scorpio e la giovane ancella.
Dichiarazione cui era susseguita il famoso episodio del mocio. L’avevi sentito dire per caso mentre girovagavi al mercato una mattina. Sembrava che la giovane ospite del Santuario avesse passato il cencio nel pomeriggio, mentre il Saint stava lavando i piatti (per Milo erano domestici, non schiavi, tu, onestamente, non vedevi la differenza) e, la ragazza aveva urlato spaventata. Scorpio si era allarmato ed era corso a vedere, solo per ritrovarsi con il culo per terra dopo cinque passi fuori della cucina, per essere scivolato sul pavimento bagnato. La (di già) leggenda narra che il rumore del suo fondoschiena sul marmo fosse rimbombato per tutto il corridoio di passaggio. Poi aveva trovato la ragazza che rideva come una matta a pochi metri da lui, per quello scivolone. Stando alle dichiarazioni di entrambi, lei giurava di essersi spaventata per un ragno che le era comparso davanti senza preavviso, lui giurava che lei lo avesse fatto apposta. Forse lei non se ne accorgeva neanche, ma l’altro, a modo suo, la stava stuzzicando a rivelarsi.
«Forse vuole attirarsi una maledizione tra capo e collo». Avevi detto a Sirrah, che, come te, si gustava questi momenti di divertimento all’interno del Santuario.
«Lo può fare?» Aveva domandato il tuo ex collega, ora becchino.
«In teoria sì».
Peccato che, nel suo piano Milo di Scorpio pareva regredito a uno stadio infantile. Oppure era sul piede di guerra. Forse quest’ultimo dal momento che ad Astrid aveva cominciato a ribattere per le rime, facendole lo sgambetto mentre passava dalla sua casa con il cesto dei panni sporchi. Poi, non era più successo niente.
O, forse, Milo si era solo fatto più furbo. Visto che ti aveva confidato (va bene, che avevi sentito tramite i tuoi pettegoli di fiducia), un pomeriggio che Aldebaran l’aveva invitato a bere un caffè a casa tua, che la ragazza aveva intenzione di farlo fuori come se fosse l’artropode che la sua cloth rappresentava. E, quando aveva elencato i metodi, tu e Aldebaran (ovviamente non nello stesso luogo e non nello stesso momento) eravate scoppiati a ridere senza ritegno. Come aveva poi fatto Sirrah con te, quando vi eravate fermati a chiacchierare.
La differenza era che il Saint del Toro si era beccato un’occhiataccia. Poi, avevi sentito dire che il padre di Yoshino aveva cercato di scusarsi ma non ci era riuscito perché la scena era troppo divertente, perciò aveva ripreso a sghignazzare neanche lo spirito di Death Mask si fosse impossessato di lui.
Il Custode dell’Ottava, dal canto suo si limitò a esternare una risata ironica, roteare gli occhi e portarsi la tazza di caffè alle labbra per la serie: “Meglio se bevo se no ribatto”. Era ancora del parere che Astrid dovesse levare le tende. Cosa che aveva cominciato a ripetere con più insistenza di prima. Tornasti al presente. La voce di Astrid, nel narrare tutti gli oscuri segreti della sua avversaria, sembrava quasi una melodia avvolgente e trascinante. In netto contrasto con le parole cariche di ironia che uscivano dalla sua bocca.
Mentre la cara Akeleis si faceva sputtanare e Yoshino si calmava progressivamente Aiolia, Aldebaran e Milo (parli del diavolo e ne spuntano le corna) fecero irruzione, paventando un chissà quale pericolo. Ma quasi nessuno, impegnato com’era a ridere, fece caso a loro, che si ritrovarono ad assistere alla scena più surreale della terra.
Per un momento ti mettesti nei loro panni, posando il bicchiere sul bancone per non farlo cadere. Eri talmente divertito che non sapevi nemmeno se saresti stato in grado di tenere il cocktail! Una folla vociante assiepata attorno a un tavolo faceva da cornice a due persone sedute una dinanzi all’altra. La prima era una giovane sacerdotessa dai lunghi capelli rossi, che sbraitava in preda a una crisi isterica contro Astrid, gonfiando pericolosamente il proprio Cosmo. La bionda, per parte sua, era il ritratto della serenità e continuava a parlare tranquillamente, come se l’altra non fosse neanche esistita. La stava accusando a gran voce di barare, mentre costei le leggeva placidamente la mano rivelando il suo passato, i suoi segreti a tutti i presenti. Quella scena ti lasciò di stucco. Che cosa stava succedendo? E, perché alla Saint mancava poco che le uscisse il fumo dalle orecchie mentre diceva: «Come fai a saperlo? Smettila! Questa è invasione di privacy! No! Non lo dire!»
Aldebaran spostò gli occhi dalla scena e individuò immediatamente Miss Yoshino dinanzi al bancone, dunque a qualche metro alla tua destra, semi nascosta da qualche cliente. L’Atena diciassettenne della tua dimensione osservava rapita le prodezze della sua nuova amica e, alla sua sinistra, Death Mask appoggiato al bancone in compagnia di Aphrodite e Shura, guardava tra il divertito e l’orgoglioso, la sua connazionale che faceva perdere la faccia alla sua sfidante. Shura si volse a osservare la scena con la sua inarrivabile compostezza, la bocca piegata in un sorriso. Aphrodite si tappò la bocca con la mano curata per non scoppiare.
Prima di sganciare l’ennesimo segreto della ragazza, Astrid cinguettò: «Tenetele ferme le braccia, grazie.» con un sorriso soddisfatto senza alzare gli occhi dal palmo tremante dell’altra. Alcuni clienti obbedirono e la bloccarono. Poi sganciò la bomba che fece scoppiare l’ennesima risata collettiva. Le sue amiche di quest’ultima confermarono tutto ciò che la chiromante diceva e altri piazzavano scommesse. Altri Saint e civili si stavano mettendo d’accordo su chi andare per primo quando Astrid avrebbe finito la lettura.
«Ma che…?» Chiese Milo mentre Aldebaran tirava un sospiro di sollievo e, insieme ad Aiolia, entravano, cercando di ignorare le occhiatacce dei vicini per la figuraccia. Miss Yoshino si accorse di loro e sgranò gli occhi mentre suo padre si avvicinava, cercando di non correre: «Papà, che ci fai qui?» Se non la abbracciò, non la riempì di baci (tu solo sapevi quanto fosse felice e sollevato di vederla sana e salva) e non la portò via da lì, fu solo per pura forza di volontà. «Abbiamo sentito l’esplosione di un Cosmo e poi ho sentito il tuo». Spiegò.
«Le latrine del Santuario ti aspettano, Neera». Canticchiò Astrid prima di terminare, richiudere la mano e restituirla alla sua sventurata proprietaria.
Solo allora alzò lo sguardo e intrecciò le mani sotto il mento.
«Brutta bastarda e, tu, brutta scema! Come hai osato farmi perdere così!» Sbottò la Sacerdotessa dai capelli neri, rivolta a quella tremante e sbigottita, seduta di fronte ad Astrid.
Il padre di Yoshino le chiese spiegazioni, che l’accontentò. Intanto che la rossa, invece di scagliarsi addosso a Neera balzò addosso ad Astrid quasi scavalcando il tavolo. L’avrebbe fatta a fette se Death Mask non avesse bloccato tempestivamente l’isterica. La quale prese a dimenarsi: «Lasciami! Lasciami andare! Quella smorfiosa ha barato! Mi hai spiato! Stronza! Come hai osato sputtanarmi così! Non ti perdonerò mai! Mai! Mai! Ti odio! Ti odio, hai capito? Ti odio! Lasciami! La vittoria non è valida!»
«Spiacente di essere latore di brutte notizie ma non ha barato, perciò accetta la sconfitta, abbassa la cresta e levati dai coglioni prima che m’incazzi e ti faccia diventare parte dell’arredamento di Casa mia». Ribatté Cancer con la sua migliore faccia minacciosa, mentre Astrid tirava un sospiro di sollievo e gli lanciava uno sguardo pieno di gratitudine.
Milo strabuzzò gli occhi mentre la rossa ringhiando si liberava dalla sua presa con uno strattone, si toglieva da lì aprendosi un varco nella folla con delle gomitate e, corse via emettendo un gemito di pianto. Invece, Neera urlò qualcosa d’inintelligibile e poi anche lei e il suo gruppo scomparvero nella folla.
Liberasti un’altra risata (e gli altri registrarono così anche la tua presenza) divertita.
Aphrodite era ormai divenuto paonazzo dietro la mano. Era quasi ridicolo mentre lottava per recuperare un po’di contegno.
Astrid fece per posare una mano sul braccio del siciliano ma la ritrasse perché lui disse aspro: «Non ringraziarmi, non l’ho fatto per te, ma per il Santuario; se tu fossi stata attaccata dopo tutti i turni degli inservienti, sarebbero crollati e nessuno mi avrebbe più pulito Casa». La giovane, dopo un attimo di smarrimento, annuì divertita come a dire: “Come no, ci crediamo tutti” e poi gli dette una pacca sulla spalla, prima di alzarsi e dire un «Ti voglio bene anch’io, Death.» che fece ridere a crepapelle tutta la locanda. Death s’irrigidì prima di borbottare qualche insulto e seguirla senza intenzioni malevole, le mani cacciate in tasca. Seguisti la biondina con lo sguardo mentre raggiungeva Yoshino, Aiolia, Milo e Aldebaran. Li salutò con un sorriso e un «Buonasera a tutti» che ricambiarono. «Uao, sei stata grande!» Esclamò Yoshino tutta contenta e ammirata. Gli occhi purpurei lucenti di ammirazione: «Ma come hai fatto?»
«Non è stato così difficile, ho avuto fortuna, in realtà». Si schernì la chiromante dagli occhi gialli. Era la prima volta che i Saint ne vedevano una all’opera, anche se i nuovi arrivati solo verso la fine. Ti avvicinasti alla ventenne e le facesti i tuoi complimenti prima di allontanarsi riprendendo a sghignazzare come un matto. Meno male non avevi bevuto niente, altrimenti avresti avuto un impellente bisogno di andare in bagno.
Se Aldebaran ti fulminò con lo sguardo, Milo sembrò sul punto di lanciarti un Restriction. Neanche quando aveva saputo che Yoshino era una delle due Atena di un altro mondo si era mai sbilanciato tanto. Tornò a guardare l’ospite del Santuario. «Che cosa è successo?» Domandò allora il Cavaliere di Scorpio in coro con Aiolia. Fu Aphrodite a raccontarglielo e tu sbuffasti divertito una risata che somigliò a una pernacchia. «Quando siamo arrivati, abbiamo visto quelle due sedute al tavolo. In un primo momento non abbiamo capito subito cosa stesse accadendo, ma non doveva essere un bello spettacolo. Se non fosse stato per Yoshino, non mi sarei mai azzardato a entrare in un posto così poco consono alla mia grande bellezza. Figuratevi la nostra sorpresa quando abbiamo visto Astrid demolire pezzo per pezzo la sua sfidante spiattellando al vento tutta la sua vita, i suoi segreti e paure più recondite per scommessa. Non ho mai visto tanta perfidia concentrata in una sola persona e una tale lingua tagliente e veloce come la sua. Mi dispiace, Milo, ma quella ti batte. Adesso a Neera toccherà di pulire tutte le latrine del Santuario per una settimana al posto suo. E, meno male, perché in caso contrario, Neera l’avrebbe ammazzata senza pensarci due volte. Ti avevo già vista all’opera in vacanza, ma non pensavo che avrei assistito di nuovo a questo spettacolo».
Il Cavaliere del Toro lanciò un’occhiata a Shura e, tu, seguendo il suo sguardo, lo vedesti tra il colpito e il pensieroso. Mentre tu ridevi a crepapelle.
Peccato che al miglior amico di Camus, di tutto il discorso gli restasse impressa una sola cosa: «Complimenti! E, adesso lei sa altri segreti del Santuario! Ma cosa vi dice il cervello?»
Death Mask e Aphrodite si scambiarono un’occhiata divertita e scoppiarono di nuovo a sghignazzare come iene, unendosi alla tua risata. Ecco, adesso cominciavi ad aver bisogno del bagno.
Aphrodite rideva più che sghignazzare ma non era molto lontano anche da quello. Il custode della Quinta cercò di raddrizzarli ricordando loro che era una cosa seria. «Se per segreti intendi che il vero nome della sua sfidante era Carolina Lunotti e non Akeleis del Tucano, che si tinge i capelli, che soffre di un complesso di inferiorità nei confronti di Neera, che ha i brufoli sul culo, le mutande rosa a cuori grigi e che è ossessionata da Aphrodite solo perché in realtà lei vorrebbe farsi la sua migliore amica che è esteta quanto lui, allora sì, gran bei segreti». Ribatté beffardo Death Mask accomodato vicino ad Astrid prima di bere il suo cocktail. La sua protetta si era fatta offrire un bicchier d’acqua perché aveva la gola secca.
Aldebaran scoppiò a ridere, guadagnandosi le occhiatacce del Leone e dello Scorpione.
«Non importa, non dovreste lasciarglielo fare! Lei è pericolosa e lo sapete». Esclamò Aiolia. «Ha ragione Aiolia, anche se devo convenire con Death, quelli non erano certo segreti di vitale importanza». Convenne a malincuore il cicladico in tono pensieroso.
«Oh, ne ha portati alla luce anche di peggiori». Fece il Custode della Dodicesima prima di scoppiare a ridere sguaiato, per poi ricomporsi subito, adducendo come scusa che una risata così rozza e sguaiata non era bella. Non per uno come lui. Mentre gli altri smisero di considerarlo quasi all’unanimità, tu lo guardasti interessato, cercando di spillargli altro. Ma l’altro fece scena muta.
«Sarà ma continua a non piacermi. Quella ha in mente qualcosa, te lo dico io». Continuò debolmente Milo.
Tu a quel punto non ce la facesti più e corresti al bagno.

Milo
Era giunto Natale. Non ti serviva guardare il calendario per capirlo, diciamo che nel tuo caso certi giorni si riconoscevano a pelle già da svegli.
Appena ti svegliasti ti girasti sul fianco e cercasti di fare del tuo meglio per non scoppiare in lacrime. Ecco perché detestavi questa festa. Era vero che avevi altri amici oltre a Camus, ma senza di lui non era la stessa cosa. Eravate stati talmente legati che eravate alla stregua di fratelli gemelli. Tu conoscevi ogni cosa di lui, ogni suo segreto e lui aveva saputo tutto di te. Natale era il giorno in cui, più di ogni altro, sentivi questa mancanza. Da piccoli tu e lui avreste festeggiato il Natale insieme. Ancora ricordavi e conservavi tutti i regali che vi eravate scambiati nel corso degli anni. Era sempre stato lui il primo a ricevere il tuo regalo. Ma, da anni, da parte sua non ricevevi più nessun regalo e, ti sentivi come se qualcosa si fosse rotto. Sembra infantile attaccarsi così a un regalo, ma tu non eri attaccato a questo quanto al fatto che era la vostra tradizione. E, anche questo era un vuoto. Un vuoto che avevi deciso di colmare accettando finalmente l’invito a pranzo di Aldebaran.
Andasti in cucina e ti facesti colazione. Quel giorno la servitù aveva il giorno libero. Poco male, da quando avevi ritrovato il tuo ferro da stiro di ferro ricoperto da una patina di ruggine, non ti dispiaceva più molto non averli tra i piedi. Era stato un po’ difficile scoprire il colpevole di tale scempio e, tuttora non c’eri riuscito. Quegli infami dei servi avevano fatto fronte comune e concordato tutti nel dire che si era rovinato di suo. Tu non eri un tipo violento, ma sinceramente non li capivi. Li pagavate, li difendevate e quelli non volevano dirti chi era stato. Tu non eri stato, non eri ancora rincoglionito fino a questo punto. Era ovvio che fosse stato uno di loro. Solo che non capivi chi e non volevi accusare Astrid perché se no ti davano un’altra volta del fissato. E, anche di questo, sinceramente ti eri stufato. Inoltre lei non era stata l’unica neo assunta, il giorno della ribellione delle Armature. E, poi, d’accordo che veniva da una realtà completamente differente dalla vostra, ma sicuramente non poteva essere così incapace da non saperlo usare, no? Vabbè, fatto sta che da oltre un mese stavi facendo la fortuna di una tizia che stirava abiti a Rodorio.
Sbuffasti e guardasti la tua sveglia analogica sul comodino segnare le undici.
Avevi poltrito anche troppo, perciò ti alzasti e andasti a prepararti la colazione.
Avevi aperto le imposte e ravvivato il caminetto. Poi avevi preparato il caffè e avevi preso la tazza. Solo allora ti girasti verso il tavolo e sgranasti gli occhi per la sorpresa. Sul tavolo di legno c’era un sacchetto con un biglietto indirizzato a te. Lo leggesti: «Mi dispiace per il p.d.m. e per la t-shirt, spero che questi bastino come risarcimento». Inarcasti un sopracciglio perplesso. Purtroppo non c’era la firma, perciò tu non capisti chi fosse il misterioso donatore. Poi p.d.m.? Che diavolo significava, p.d.m.? Pezzo di? Fino lì ci arrivavi, ma allora la m per cosa stava? Museo?
Apristi il sacchetto ci trovasti dentro una cinquantina di dracme, anche di più di quante servivano per comprare un ferro da stiro e una maglietta nuovi. E, comprendesti che il tuo misterioso donatore era la stessa persona che ti aveva rovinato questi due oggetti. Della maglietta nemmeno ti eri accorto, onestamente.
Ti ritrovasti a pensare di nuovo alla tua infanzia e, in un modo strano, ti parve di sentirti meno vuoto e solo. Era come se un sottile filo fosse andato a cucire questa ferita che ti portavi dentro. Non era ancora abbastanza per riunire i due lembi, ma per creare un ponte tra le due parti sì. Gli occhi ti si riempirono di lacrime. Se questi erano i presupposti, questo Natale si preannunciava decisamente diverso dagli ultimi che avevi passato.
Dopo esserti lavato e vestito prendesti i regali che avevi comprato ai tuoi amici e scendesti.
Alla Seconda le tue narici furono invase dal profumo del pranzo. Ad accoglierti appena facesti il tuo ingresso nella Casa del Toro furono Kiki e Shura. «Ehi! Eccoti! Stavo per salire a chiamarti!» Esclamò l’allievo di Mur con un sorriso.
«Ciao Kiki, eh, che vi devo dire, ieri sera sono andato a letto tardi». Sorridesti. «Tu non dovresti andare dal tuo maestro e Raki a festeggiare?» Domandasti a Kiki.
«Sì, infatti ci vado, volevo solo salutarvi tutti». Ribatté il lemuriano dai capelli rossi.
Poi Yoshino fece il suo ingresso sulla soglia e ti abbracciò augurandoti buon natale. Tu e lei andavate molto d’accordo nonostante sapessi che lei era comunque Atena. Ma era così facile dimenticarsene che non ti sentivi neanche troppo stupido a ricambiare il saluto e l’abbraccio. Poi si staccò da te e tornò dentro ad aiutare la madre e il padre a cucinare. L’accompagnaste con lo sguardo con un sorriso, prima di seguirla dentro. Shura ti fece gli auguri e Kiki ti passò un braccio attorno alle spalle e, dopo averti augurato buon Natale ti passò il suo regalo, cioè un panno nuovo per lucidare il tuo cloth e un intero set per prendersi cura della tua Armatura. E, tu gli passasti il tuo regalo, uno scalpello nuovo che quello vecchio si era rovinato e una bambola di pezza per Raki. Anche se era già grande, sapevi che aveva un debole per le bambole. Il vostro amico ti ringraziò, poi si lanciò in una disquisizione sul suo uso.
Tu e Shura raggiungeste il divano dove Aiolia ti salutò e ti regalò una nuova maglia. Ti accomodasti e lo ringraziasti. Invece lo spagnolo ti regalò quello che aveva l’aria di essere un grosso libro: «Uao, forte!» Avevi esclamato mentre ti giravi il pacchetto tra le mani. «L’amore ai tempi del colera?» Tentasti. L’altro sorrise con aria scaltra e allora tu capisti di aver toppato un’altra volta.
«Dai, aprilo». Ti esortò e tu l’accontentasti. «Il corsaro nero». Rispose mentre osservavi stupito la trilogia completa.
«Accidenti», sorridesti, poi ti mettesti il libro sottobraccio. «Sono l’ultimo?» Domandasti poi mentre Shura si accomodava accanto a te. «No, non preoccuparti, Kanon, Saga e Castalia non sono ancora arrivati». Rispose Aiolia guardandoti incerto con i suoi occhi verdi che, in queste occasioni sembravano ancora più scintillanti.
«Ah, meno male». Ridesti.
Poi prendesti a scherzare con il leoncino e, piano piano riuscisti a togliergli quell’occhiata strana. Era da quando eri entrato che ti guardava a quel modo. O forse era la tua immaginazione.
Ad Aphrodite regalasti una statuina di vetro di murano e a Death Mask un set di pennelli. Invece ad Aiolia un intero mazzo di carte di magic per portare avanti la vostra sfida. Che, finora avevate sempre giocato con le tue.
Dal Tredicesimo Tempio arrivarono Kanon e Saga.
Appena potesti andasti in cucina a fare gli auguri ad Aldebaran e lo vedesti cucinare insieme a Shaina e disquisire al telefono con il Grande Mur (oh, un'altra zona del Grande Tempio dove prendeva il telefono) a proposito di una replica di Cucine da Incubo di Gordon Ramsey. Fu allora che comprendesti cosa significasse quella sigla. Anche se nella puntata era riferito a un computer fossile. E, la “m” non stava per museo. Se non altro avevi un p.d.m. moderno che avresti potuto usare solo in città. Infatti, non avevate prese per la corrente al Grande Tempio.
Salutasti Mur (tanto era in viva voce) e te ne tornasti in salotto al caminetto acceso, dove Aiolia, in piedi, stava bevendo un sorso di coca cola e parlava con Death Mask di film horror.
Poi, comprendesti il perché dell’occhiata strana di Aiolia: cioè quando Astrid fece il suo ingresso seguita da Castalia. La fulminasti istantaneamente con lo sguardo mentre la ragazza salutava Yoshino, che aveva posato un piatto a tavola e si era precipitata a salutarla. Stringesti il braccio di Aiolia e gli domandasti: «E, lei che ci fa qui?»
«L’ha invitata Yoshino».
«Perché non me l’hai detto?»
«Perché sapevo che avresti reagito così!» Ti bisbigliò lui, ammonendoti con lo sguardo.
Death Mask andò a salutare Astrid e le disse: «Giusto te, cercavo!» e poi, se disse altro non lo sentisti per via del fitto chiacchiericcio nel salotto. Fatto sta che riuscisti a vederlo metterle in mano qualcosa, mentre Aphrodite regalò ad Astrid un set di trucchi che, fino a quel momento non avevi ancora visto. La poveretta non seppe cosa dire di fronte a questi regali. Tu, personalmente, non eri neanche stato sfiorato dal pensiero di fargliene uno. E, perché mai avresti dovuto? Non eravate amici, eravate a malapena conoscenti. «Chi te l’ha regalato questo?» Domandò Aphrodite notando il fiore colorato appuntato al lato della sua testa. Sembrava una ninfea dai petali fucsia che sfumavano sul rosa, con tanto di foglie finte verdi che si intonavano alla chioma della ragazza. E, ti venne istintivo avvicinarti perché avevi visto fiori simili soltanto sulle persone possedute da Eris, la Dea della Discordia. Ma ti fermasti dopo quattro passi, il tempo per comprendere che era un semplice fiore di stoffa. Te ne tornasti al caminetto a scaldarti simulando una nonchalance che in effetti non avevi.
Astrid non si era accorta di te anche perché guardava, rossa come un peperone per l’imbarazzo il fioraio del Santuario che cercò di strapparle qualche notizia succulenta: «Uh, allora hai fatto colpo! Dimmi chi è, dimmi chi è!» A te, al contrario venne la nausea al solo pensiero che qualche Saint si fosse invaghito di lei a tal punto da farle un regalo come quello. A proposito di Saint invaghiti… «Astrid!» Esclamò Kiki e si avvicinò a lei. Mancò poco che le facesse le feste come un cagnolino. Ecco spiegato perché non se ne era ancora andato. E, si fermò a chiacchierare con lei, interrompendo un Aphrodite altamente indispettito per questa intromissione.

Avevate passato tutta la giornata insieme, divertendovi al punto che eri persino riuscito a dimenticarti della presenza di Astrid. Kiki, dopo aver scambiato qualche parola con lei se ne era andato da Shion, Raki e il Grande Mur a festeggiare. Poi, quando la giornata finì ve ne tornaste tutti alle vostre Case. Avevi appena salutato Aldebaran e la sua famiglia quando ti sentisti mettere una mano sulla spalla. Ti girasti e vedesti Astrid. Scostasti la spalla con una mano e lei la ritrasse. Poi le dicesti, in tono un po’più dolce: «Buon Natale».
«Anche a te». Ti rispose, con voce un po’delusa, come se avesse voluto dirti qualcos’altro. Ti girasti e quando la guardasti vedesti la sua delusione e la sua indecisione. Provasti disgusto per te stesso per questi modi bruschi. Dopotutto neanche lei desiderava essere qui. Allora le dicesti, in tono più accomodante: «Vuoi dirmi qualcos’altro?»
«No, solo buonanotte».
«Buonanotte». Dicesti e, ancora una volta provasti quella stessa sensazione che avevi provato appena sveglio. E, non eri ancora così addormentato da dimenticarti questo piccolo particolare. Che ci fosse lei dietro? «Senti, per caso, sei stata tu ad avermi distrutto il ferro da stiro?» Le domandasti.
Lei abbassò lo sguardo, mortificata: «E’ stato un incidente, non era mia intenzione distruggerlo. Spero che quei soldi bastino per ricomprarlo». Restasti stupito dalla sua ammissione. E, quando ti riprendesti un po’dallo stupore dicesti: «Sì, bastano, per quanto riguarda la maglietta, non me ne ero neanche accorto, se il danno non è così grave basterà ricucirla, non temere, ti restituirò tutti soldi che non mi servono». La rassicurasti.
Lei annuì. Poi la salutasti un’ultima volta. Qualcosa, però ti diceva che la vostra neonata guerra personale non fosse ancora finita e che, quella, fosse soltanto una tregua natalizia. Mentre risalivi le scale pensasti: “Aspetterò con gioia la tua prossima mossa, Astrid”.

Cocteau
Era un periodo molto strano, per te. Ogni volta che chiudevi gli occhi per addormentarti, rivedevi gli occhi rossi di Arles e la sua possessione ad opera di Ares nel giardino dell’Eden di Eris. Poi, la stessa Eris si affiancava al fratello e ti sorrideva, carezzandoti il viso con la mano morbida dalle lunghe dita. Le unghie smaltate di nero. «Fratello, presto ci rivedremo». Ti diceva con un dolce sorriso che a te non fece altro che accapponare la pelle e staccarti da quella mano gridando: «No! Stammi lontano!» Poi ti svegliavi di soprassalto.
Era sempre lo stesso sogno, ma ogni notte si aggiungeva un dettaglio in più. Come, per esempio, tuo fratello che cercava di salvarti ma arrivava troppo tardi.
E, poi, il trono di Eris su cui, sedeva, stavolta, Astrid. Nel sogno sembrava quasi addormentata. Indossava un abito color grano maturo che le metteva in risalto il biondo della chioma. Quando ti avvicinavi, però rivelava due occhi da predatore e una mano con artigli dorati e affilati contratti nella posa di quella che immaginavi fosse di una vera strega.
Anche quella mattina ti eri svegliato di soprassalto. Ma, davanti a te, non c’era più Astrid, bensì il volto stanco di tuo fratello. «Non può andare avanti così». Ti aveva detto a mo’ di buongiorno.
Perciò eccovi qui, alla vigilia dell’ultimo dell’anno a risalire lo Star Hill e tu l’avevi accompagnato in volo.
Dallo scontro con Artemide dubitavi fortemente che la Dea della Luna vi avrebbe concesso di nuovo la sua benevolenza con una nuova profezia. Almeno, non Artemide. Fortunatamente, non era l’unica Dea che governava la Luna, esistevano, infatti, anche Selene ed Ecate. E, anche il tuo gemello lo sapeva. Ci aveva pensato tutto il giorno prima di fare qualcosa. «Non ho intenzione di rivolgermi ad Artemide, so benissimo che Ella non ci ascolterà». Aveva detto in tono risoluto durante la scalata.
«Vuoi tentare un’implorazione alla Strega della Luna? La Dea della Magia?»
«Sì».
«E’ una follia e, lo sai».
«Lo so, ma dobbiamo tentare». Non avevi detto altro, sapevi che quando tuo fratello si metteva in testa una cosa andava fino in fondo. Non era servito imprigionarlo a Capo Sounion per farlo desistere e, sicuramente, non si sarebbe fermato neanche adesso. Se non altro, adesso aveva capito qual era il suo posto e non avrebbe mai e poi mai tradito Atena. E, questo, per te, era sufficiente a rincuorarti.
Raggiungeste la cima dello Star Hill e rabbrividiste.
Tuo fratello era avvolto nel mantello pesante e nei paramenti sacerdotali ma tu no. Ti prese e ti infilò sotto ai propri vestiti, di modo che anche tu potessi scaldarti. Meglio, stavi cominciando a sentire la formazione delle stalattiti tra le tue piume.
Poi alzò la faccia al cielo.
La Luna quella sera non era piena e il cielo non era terso. Ma a voi non serviva che lo fosse. Serviva soltanto che la Dea trimorfa vi udisse. Kanon recitò sottovoce una preghiera. A causa del freddo vento che ululava neanche tu riuscisti a capire che cosa stesse dicendo, sapevi solo che non potevate restare al gelo così a lungo.
Sareste dovuti entrare nella chiesetta per ripararvi. Ma tuo fratello era un ostinato e, non si sarebbe schiodato da lì finché non avrebbe ricevuto risposta.
Presto si ritrovò in ginocchio, piegato dal freddo e dal vento che non aveva smesso neanche per un secondo di aggredirvi.
E, non avesti altra scelta che pregare anche tu. Forse, in due vi avrebbe udito più facilmente.
E, la risposta l’aveste. A un tratto una luce si propagò sotto di voi e i sassolini cominciarono a levitare, come se quella luce avesse il potere di sollevarli. Anche le vesti e i capelli di Kanon cominciarono a ondeggiare con quella luce. Ecate aveva raccolto la vostra preghiera e vi stava per ricevere.
Improvvisamente il paesaggio di fronte a voi cambiò e vi ritrovaste in un luogo completamente diverso. Il vento non soffiava più e c’era un bel tepore come se fosse di nuovo tornata la primavera. Questa era la strada che conduceva sul Monte Olimpo. Ne avevi sentito parlare da Shun di Virgo, che ci si recò assieme alla Vostra Dea per salvare la vita a Seiya, dopo i fatti di Hades.
Di fronte a voi si allargava una strada tra le rocce e all’orizzonte svettava una torre sormontata da una mezzaluna. La torre della Strega della Luna.
«Ce l’abbiamo fatta». Disse tuo fratello e tu gli facesti eco.
Come se la vista di questo posto gli avesse restituito la sua forza, Kanon si alzò e s’incamminò verso quella torre. Tu, coperto dai vestiti di tuo fratello, ti guardavi attorno girando la testolina da una parte e dall’altra, unica parte di te che spuntava dal colletto della giubba pesante sotto il mantello.
Neanche da Gran Sacerdote eri mai stato in questo luogo. In questo posto si respirava un’aura di rispetto e mistero. Come se mancasse poco che avreste potuto trovarvi di fronte a delle Divinità in tutta la loro potenza e splendore. Questo, era il loro territorio e, ogni cosa era pregna della loro energia e della loro sacralità. Di tutti loro e, ciò, non ti piaceva affatto.
Sentivi, ora come non mai, tutta la tua fragilità di essere umano. Fragile, debole formica in confronto a giganti che, se l’avessero desiderato, avrebbero potuto schiacciarti con un dito.
Che ingenuo che eri stato, ai tempi della tua supremazia a credere di poter combattere contro di loro e ucciderli tutti per non essere più una pedina nelle loro mani. L’amara verità era che non eravate altro che questo.
Stavi ancora pensando a questo quando tuo fratello si fermò.
Ti guardasti attorno e vedesti che eravate ai piedi della colonna. Ma non c’era nessuno e, di fronte a noi, si apriva un bivio. «E, ora da che parte dobbiamo andare?»
«Da nessuna parte». Rispose Kanon. «Ecate, Strega della Luna! Lo so che siete qui, fatevi vedere! Devo conferire con voi!»
«Non occorre gridare, signore, ci sento benissimo». Rispose una voce alle vostre spalle, facendovi sobbalzare entrambi.
Per poco non graffiasti Kanon.
Tuo fratello si girò e vedeste la donna. Aveva i capelli castani sciolti che le scivolavano lungo la schiena ed era vestita con un lungo manto nero che avvolgeva le sue forme. Nella sua mano destra reggeva un bastone nodoso.
«Voi, signora, siete Ecate?» Chiese il tuo gemello.
«In persona, vi stavo aspettando Gran Sacerdote e Oracolo di Atena». Disse salutandovi con un sorriso.
«E, noi siamo lieti che ci abbiate ricevuto». Rispose tuo fratello in tono formale, inginocchiandosi in segno di rispetto e sottomissione. Tu eri sbalordito, dopo tutti questi anni passati a oltraggiare le Divinità questo voltafaccia sembrava uno scherzo di pessimo gusto. Ma Ecate non ci fece caso. «Ero curiosa di conoscere il nuovo Portavoce di Atena in Terra. Ditemi, a cosa debbo la vostra visita nel territorio divino? E, badate bene che più in là di così non vi sarà concesso di andare». Vi avvisò.
«Non è nostro desiderio oltrepassare la vostra torre e profanare questo sacro luogo, Signora, nostro desiderio è porgervi una richiesta». «Sentiamo».
«Necessitiamo della vostra magia per avere accesso al futuro. Abbiamo modo di credere che la Somma Artemide non vorrà più aiutare i Cavalieri di Atena con le sue profezie, soprattutto dopo l’Ultima Guerra Sacra. E, non possiamo permettere che la Somma Atena resti priva di difese». «Allora ciò che si vocifera in giro sulla rottura dello scettro di Nike corrisponde a verità?» Domandò la Dea, preoccupata. Voi la guardaste e vedeste il suo labbro inferiore tremare. Lui annuì. «Va bene, per ripagare il debito che ho contratto con la vostra Dea molto tempo fa, vi aiuterò». Decretò la Strega della Luna battendo il bastone a terra, una volta. “Debito? Che debito ha con Atena, costei?” Pensasti, ma non glielo chiedesti.
La strega si rivolse a Kanon, dicendo: «Il Gran Sacerdote faccia pure ritorno allo Star Hill per il prossimo plenilunio e avrete quanto richiesto, alla prossima e, che le stelle siano con voi». Poi, batté un’altra volta il bastone a terra e, vi ritrovaste di nuovo nel cerchio di luce attraversato dal vento.
La luce svanì lentamente e i sassi smisero di volteggiare.
Il vento tornò a investirvi con tutta la sua forza, come se avesse voluto riprendere da dove eravate stati interrotti.
«Stai bene, Saga?» Ti domandò tuo fratello chinando il capo per guardarti. La sua premura ti pareva eccessiva. Eri pur sempre un uomo abituato a contare solo su se stesso, nonostante il tuo animo nobile e il tuo buon cuore e, attualmente anche il tuo aspetto.
«Un po’indolenzito ma sto bene. Andiamo o ci beccheremo una polmonite».

A Capodanno ne approfittasti per parlare in disparte con il Cavaliere dei Pesci.
Ti eri appollaiato sulla sua spalla mentre beveva un sorso di vino bianco. Per poco non gli era preso un colpo perché non se lo aspettava. «Cocteau!» Esclamò. «Mi hai fatto prendere un colpo!» Protestasti.
«Non urlare e andiamo fuori, devo parlarti».
«Va bene». Disse in tono incerto e, si alzò e usciste allontanandovi dai festeggiamenti. Quando foste sulla soglia della Seconda Casa si guardò attorno. Dopo essersi accertati di essere soli, volse di poco la bella faccia verso di te e ti domandò: «Allora? Di che volevi parlarmi?» «Delle indagini, come procedono?»
«Sono riuscito a fare dei passi avanti, rispetto a Kiki. Pare che la storia della setta satanica sia solo una copertura. Non si erano mai verificati attacchi di questo genere nella storia del monastero o di quella regione in particolare. Non figura nemmeno tra le mete di pellegrinaggio dei devoti cristiani. In compenso sono venuto a sapere che quel monastero è stato famoso, nel corso dei secoli per la caccia alle streghe e dei loro libri neri. Ma, soltanto nel XVI secolo i monaci, sotto la guida dell’abate Selargius, hanno cominciato a conservarli e ricopiarli, riconoscendo la loro importanza culturale e mistica, molto utile ai potenti del periodo».
«Le case reali d’Europa si affidavano alla magia?» Domandasti incuriosito. Neanche tu conoscevi questo volto dell’Europa Rinascimentale. Aphrodite annuì e si sfregò le mani l’una con l’altra per scaldarle. Anche se gli inverni erano abbastanza miti, da voi, era pur sempre inverno.
«Da che mondo è mondo, l’uomo si è sempre affidato alla magia. Caterina de Medici, per esempio, non era solo un’intellettuale o un’avvelenatrice, era una potente strega nera e spesso si affidava alle predizioni di Nostradamus. E, il nostro monastero è famoso proprio per la sua collezione di libri esoterici e, ho scoperto, che l’omicidio che l’ha scosso e, di conseguenza anche l’incendio che è stato appiccato alla biblioteca, siano soltanto una copertura per il furto di uno di questi manoscritti».
Il tuo cuore perse un battito. «Che libro era, questo?»
«I monaci non me l’hanno voluto rivelare, ma le piante sono state molto più loquaci di loro».
«E, che cosa hanno detto?» Una brezza gelida cominciò a soffiare, smuovendo dolcemente la chioma del Cavaliere della Dodicesima: «Innanzitutto ti devo avvertire che le piante che videro l’arrivo di quel libro al monastero sono morte da un pezzo, però i loro pochi discendenti raccontano che i monaci sotto la guida di Selargius non furono affatto convinti della scelta del loro abate e che operarono su di esso numerosi esorcismi. Forse credendo che avrebbe portato con sé il maleficio del Demonio».
«Ed era possibile?» Dopotutto l’avevate affrontato.
«Chi può dirlo? Molte volte non ha niente a che vedere con questi rituali prettamente umani. E, poi, sai bene quanto me che non è così facile che Lucifero in persona si mostri ai suoi adepti. Comunque è stato difficile da comprendere perché erano molto spaventate. Parlavano di cimiteri, di ossa, di omicidi rituali e del giardino più bello del mondo, che, presto, avrebbe trovato una nuova casa proprio qui, in un centro di potere terrestre». Fece aggrottando le sopracciglia.
«In che senso un centro di potere?»
«Non me l’hanno detto, ma ho pensato che si riferisse a un centro politico. E’ possibile che qualcuno stia cercando di evocare una divinità a noi avversa. Ho quindi motivo di pensare che, come ha già scoperto Kiki, la Guerra Sacra contro Artemide, sia stata soltanto un pretesto per indebolirci e distrarci in vista di un’invasione ben più grave».
«Eris». Mormorasti ricordandoti il viso allegro e sorridente della Dea della Discordia nelle spoglie di Kyoko di Equules comparso nel tuo sogno. E, ti tornarono in mente anche i ricordi della possessione di Arles, anzi no, di Ares, suo fratello gemello, che aveva quasi distrutto il Santuario e la stessa Dea Atena. Al solo pensiero la paura cominciò a serpeggiare dentro di te. Se era come temevi, allora la Dea della Discordia sarebbe tornata a prendere Ares per riportarlo dalla sua parte e riprendere il suo piano da dove le Saintie l’avevano interrotto. E, adesso che lo scettro di Atena era in frantumi e buona parte dei Saint non si era ancora ripresa completamente dalle ferite riportate dagli scontri, mentre altri non avevano ancora conquistato le proprie Armature, eravate nei guai. L’altro ti guardò: «L’ho pensato anch’io. Tu come fai a esserne sicuro? Potrebbe anche trattarsi di chiunque altro, come Dioniso o Demetra, anche loro hanno il controllo delle piante». «Non questo tipo di piante. Pensaci, una divinità che prenderebbe possesso di un centro politico e che ha al suo servizio una schiera di soldati con capacità legate alle piante. Chi altri seminerebbe discordia a questo modo se non Eris?»
«Però se non erro Eris era stata sconfitta trent’anni fa dalle Saintie». Rispose Aphrodite.
«Quella puoi sconfiggerla quanto ti pare ma è come la gramigna, non muore mai per davvero».
«Credi che ci sia un collegamento tra lei e tutto ciò che sta accadendo finora?»
«E’ possibile. Non mi sento di dire lo stesso per le cose che succedono attorno ad Astrid, ma per i teschi e gli scheletri che tu stesso hai trovato non ci sono dubbi. Hai trovato anche dell’erba di San Giovanni e delle lobelie, vero?»
«Sì, i fiori delle figlie di Eris, le loro risate malevole erano rivoltanti».
«E, i ragni? Che mi dici di loro?»
«Quelli erano gli unici ad essere spariti ma sono pronto a scommettere che Phonos dell’Omicidio abbia appiccato il fuoco per nascondere le tracce del loro passaggio».
«Astuti». Commentasti. Era evidente che volessero riprendersi il tuo corpo come ricettacolo per Ares.
«Già, quei bambocci stanno imparando». Commentò Aphrodite. Poi disse: «Darò disposizioni affinché quei tre ci trovino preparati».
«Sì». Poi ti levasti in volo.
«Buon anno nuovo». Ti augurò, anche se tu non gli rispondesti.
   
 
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