Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato
Segui la storia  |       
Autore: crazy lion    27/06/2018    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Violenza non è solo uccidere un altro. È violenza anche quando usiamo parole mordaci, quando facciamo un gesto per scostare una persona, quando obbediamo per paura. […] La violenza è molto più sottile, molto più profonda.
(Jiddu Krishnamurti)
 
 
 
Si prova una vergogna tremenda ad essere vittima di bullismo, perché ad un certo punto cominci a pensare che ci sia un motivo per cui sei stato preso di mira.
(Matt Reves)
 
 
 
In tanti chiedono come stai.
A pochi interessa avere la riposta.
(Anonimo)
 
 
 
Quando ti chiedo come stai, non rispondermi “bene”. Dimmi perché salti quella pagina ogni volta che sfogli il libro, parlami di quella stanza nel tuo cuore dove non entri più da anni, raccontami di che colore è oggi la tua anima.
(Fabrizio Caramagna)
 
 
 
 
 
 
99. COME STAI?
 
Quella mattina Dianna si svegliò sentendosi strana.
“Sto male” disse al marito mentre facevano colazione e Dallas e Madison la guardarono preoccupate, mentre Eddie mormorò:
“Mi dispiace. Cosa ti senti?”
“Non lo so. È una sensazione, come se oggi dovesse accadere qualcosa di brutto, ma non ho idea di quando o a chi. State… state attenti. Tutti quanti.”
La donna tremava come una foglia e il suo colorito roseo lasciò presto il posto ad un intenso pallore.
“Tesoro, è meglio se vai un po’ a riposare d’accordo?”
Eddie lavorava ancora, era il manager di un cantante, George Navarro, mentre Dianna ormai da tanti anni faceva solo la mamma. Era lei che aveva sempre accompagnato le figlie a scuola, ma anche sul set quando dovevano recitare, o alle varie audizioni di canto. Aveva cantato anche lei quando era più giovane, ma alla fine aveva deciso di rinunciare al suo sogno per permettere a Demi, Dallas e Madison di inseguire i propri, aiutandole in questo al meglio delle sue possibilità. Non le aveva mai forzate a cantare o a recitare, però, aveva sempre lasciato che fossero loro a decidere.
“Potete smettere in ogni momento, se sentite che non ce la fate più” aveva detto loro spesso.
Quando Madison aveva voluto fare il provino per “Desperate Housewives” nel quale aveva recitato la parte di Juanita Solis, una ragazzina sovrappeso, Dianna ne aveva parlato con lei facendole capire che avrebbe dovuto non curarsi dei commenti che gli altri personaggi della serie avrebbero fatto riguardo a lei. Una volta arrivata davanti alla porta dello studio nel quale avrebbe dovuto recitare la bambina, che fino a poco prima era stata eccitata, era scoppiata a piangere dicendo che pensava di non farcela. Dianna l’aveva spronata e alla fine Madison era stata scelta.
La donna non aveva mai permesso alle sue figlie di tirarsi indietro senza almeno aver provato una volta, e le aveva spinte a recitare e a cantare anche nei giorni in cui non stavano bene, non perché volesse essere autoritaria, ma perché era convinta che avrebbero potuto farcela. Ma con le sue manie di perfezione, con quella smania ditenere sempre tutto sotto controllo, alla fine si era resa conto di aver fatto più male che bene alle sue ragazze; e ancora prima, quando Patrick se n0era andato non avevano mai parlato di come si sentivano a riguardo, o di quel che avevano provato le volte in cui tornava a casa ubriaco e si comportava in modo violento. Dianna era nata in una famiglia e in una generazione in cui parlare di certe cose era taboo, e solo quando era entrata in clinica, la stessa in cui Demi era stata ricoverata, aveva capito che era importante parlare dei propri problemi.
Perché penso a tutto questo?
Tornò al presente e si sentì improvvisamente priva di ogni energia.
“Avete ragione, vado” mormorò con un filo di voce.
Odiava le poche volte nelle quali usava quel tono, perché sembrava che sarebbe morta da un momento all’altro.
Andò in camera, chiuse balconi efinestre e il solo fatto di essere al buio le diede sollievo. Si distese e trasse un lunghissimo respiro, poi prese in mano il cellulare e decise di scrivere un mesaggio a Demi.
Oggi ho una strana sensazione. Forse semplicemente non sto bene, o magari accadrà qualcosa di brutto, non lo so. Ma quando io e te proviamo queste cose, accadono sempre fatti spiacevoli. Dio non voglia, ma comunque per sicurezza stai attenta. Fatelo tutti.
Detto questo cercò di dormire ma non ci riuscì e continuò a rigirarsi nel letto senza trovare un solo attimo di pace.
 
 
 
Quando Demi lesse il messaggio della madre era in macchina e stava andando allo studio di registrazione dopo aver lasciato Hope all’asilo.
Okay ma tranquilla, non succederà niente rispose, sicura.
Non voleva allarmarsi per nulla, anche se ricordava benissimo di essersi preoccupata molto per Andrew e di averlo poi trovato in grave pericolo di vita. Come avrebbe potuto dimenticarlo? Una lacrima le rigò il volto. Non voleva pensarci, non quel giorno in cui si sentiva positiva. Mackenzie e Hope erano felici, Andrew era rimasto a dormire da lei e preferiva non pensare ai problemi almeno per un po’.
Una chiamata sul cellulare la obbligò ad accostare. Prima, quando aveva risposto alla mamma, era ferma ad un semaforo.
“Pronto?” chiese.
“Sono felice di sentirti così pimpante, ma sei in ritardo. E non dirmi che sei quasi arrivata, perché non ti credo” la sgridò Phil.
“Buongiorno anche a te, comunque sto arrivando. C’è traffico.”
“Abbiamo una collaborazione, oggi. Non possiamo fare brutta figura.”
“Lo so, non è colpa mia se ci sono un sacco di macchine bloccate.”
C’era una colonna lunghissima e alcuni vigili cercavano di deviare il traffico.
“Hai ragione, scusa. È che… avrei voluto parlartene dopo in studio, però stavo pensando una cosa.”
“Dimmi.”
“So che hai l’album da registrare, da pubblicizzare e poi da far uscire, però che ne diresti di un documentario nel  quale parlare di come si è svolta la tua vita fino ad ora, come hai fatto anni fa con “Stay strong”? Richiederà un lavoro enorme e uno sforzo non indifferente dal punto di vista emotivo, però i fan ne sarebbero felici e forse anche tu. Ti piace l’idea?”
La ragazza ci pensò su per un po’. Avrebbe dovuto lavorare ancora più duramente, però il pensiero di fare un altro documentario la allettava e non poco. Avrebbe potuto parlare della sua vita, delle difficoltà che aveva incontrato, dei propri problemi ma anche di come li aveva superati, e poi di Andrew, dell’adozione e delle sue meravigliose bambine.
“Ci sto!” esclamò entusiasta.
“Fantastico, allora nei prossimi giorni discuteremo i dettagli.”
“Okay.”
Perché non aveva pensato lei a quella cosa? Beh, era stata molto occupata ultimamente. Ringraziò di cuore il suo manager che aveva sempre idee stupende.
Grazie al cielo il traffico aveva ripreso a scorrere, quindi Demi fu al lavoro in poco tempo.
 
 
 
Dianna si era finalmente addormentata ed ora stava sognando.
Demi era tornata a casa dalla clinica da poco tempo ed era ancora molto instabile, certi giorni stava bene e altri malissimo, ma diceva che presto sarebbe tornata a cantare. La musica era la sua salvezza.
Quella mattina di inizio marzo Dianna andò a svegliarla. Le era sempre piaciuto farlo, anche se spesso da quando Demi era entrata nell’adolescenza si era svegliata di malumore e l’aveva mandata via in modo brusco. Sperò che non accadesse, ma visto come stava non si poteva mai sapere. Trasse un lungo, profondo respiro e abbassò piano la maniglia. La sua piccola - l’avrebbe sempre chiamata così, come faceva con Dallas e Madison - dormiva come un angelo, tanto che la donna pensò di lasciarla in pace. Ma desiderava che uscisse con lei a fare una passeggiata, stava chiusa in casa da troppo tempo. Fu allora che vide qualcosa spuntare dalle coperte: era un semplice fazzoletto che non l’avrebbe allarmata se fosse stato bianco, ma era sporco di sangue.
“Demetria, ehi! Tesoro svegliati. Oh mio Dio… apri gli occhi, cazzo!”
Temeva fosse morta. Fu come se qualcuno le avesse dato un pugno allo stomaco e poi le avesse spaccato il cuore in mille pezzi.
Dianna si inginocchiò accanto al letto e liberò Demi dalle coperte, poi le tirò su le maniche e le guardò le braccia, mentre la ragazza si muoveva.
“Mamma, che…”
“Dio, ti ringrazio! Sei viva! Hai avuto una ricaduta, vero?”
I segni rossi, cicatrizzati da poco, si vedevano benissimo. Contrastavano con le cicatrici più vecchie e bianche.
“Io non… non so perché… devo, non dovrei, non lo farò più te lo posso giurare!” disse in fretta.
“Perché?” le chiese la donna iniziando a piangere.
“Lo sai” rispose Demi e quelle due semplici parole erano così piene di dolore che Dianna non le domandò altro.
La voce della ragazza si era spezzata. Sua madre non vedeva una diciottenne in quel momento, ma una creatura piccola e indifesa da aiutare.
“Ti prego, se succederà di nuovo, se sentirai l’impulso di farti male vieni da me, okay? So che è difficile, ma dobbiamo parlarne. L’ho capito da poco ma dobbiamo, Demetria.”
“Ci proverò.”
Dianna la abbracciò di slancio e lei la tenne stretta a sua volta, piangendo per quello che aveva fatto, per essere stata ancora una volta debole.
 
 
La donna si svegliò di soprassalto. A volte non riusciamo a capire perché facciamo certi sogni, o il motivo per il quale sogniamo quelle cose proprio in un determinato momento, fatto sta che questo contribuì ad aumentare le sue ansie. Si mise a sedere e aprì il primo cassetto del comodino tirando fuori un barattolo pieno di pastiglie di Xanax. Le erano state prescritte molti anni prima dal suo dottore e per un periodo le aveva prese regolarmente per calmare la sua ansia e diminuire i suoi stati depressivi, poi in clinica, dopo aver scoperto che oltre ad anoressia e bulimia era anche affetta da PTSD, dipendenza da Xanax e depressione, si era curata anche se era stato difficilissimo, e non prendeva più quel farmaco da moltissimo tempo. Quel giorno sentiva di averne bisogno, aprì il barattolo e rimase lì, ferma, con le pastiglie in mano per lunghi minuti che le parvero ore, mentre le mani le sudavano e il cuore le batteva all’impazzata. Forse non sarebbe successo nulla a Demi, ma se fosse accaduto qualcosa a Dallas, o a Madison, o alle sue nipoti? No, le cose non sarebbero andate bene, e lei temeva che le settimane seguenti sarebbero state davvero complicate. Quelle terribili sensazioni e tali pensieri erano così intensi che le toglievano il respiro.
“No, ho chiuso con queste pillole. Non voglio diventarne dipendente di nuovo, e non ho bisogno di prenderle” si disse e, con un grande sforzo mentale, le rimise al proprio posto.
Si alzò dal letto sbuffando, si lavò e si vestì. Fece colazione, poi uscì a camminare, andò a fare la spesa e cercò di tenersi occupata, ma era sempre in attesa di quella brutta notizia che, lo sapeva, prima o poi sarebbe arrivata.
 
 
 
Elizabeth e Mackenzie si sedettero ai loro soliti posti, tirarono fuori il quaderno di geografia e cominciarono a ripassare. La maestra avrebbe fatto alla classe alcune domande riguardo la definizione di “clima” e più specificamente su quello della California. Non l’avevano studiato in maniera approfondita, ma iniziavano a sapere qualcosa a riguardo.
“Uffa, perché deve essere così difficile?” si lamentò Lizzie sbuffando.
Hai ragione. Insomma, dovevamo per forza avere quattro fasce climatiche diverse con caratteristiche differenti?
Continuarono a ripassare insieme, un po’ dal libro e un po’ dal quaderno, finché arrivarono gli altri compagni e la maestra.
“Bambine” disse rivolgendosi proprio a loro, “perché siete salite senza aspettarmi? Sapete che dovete farlo.”
La signorina Sunny Harper piaceva molto a tutti. Era sempre sorridente e aveva un nome semplice ma particolare al contempo. Non alzava mai la voce, non l’aveva fatto nemmeno ora.
“Mi dispiace, Sunny” si scusò Elizabeth.
Sì, perdona anche me. Non lo faremo più.
Entrambe le piccole si alzarono in piedi per mostrarle più rispetto e farle capire che erano serie.
“Okay, non c’è bisogno di tanta formalità. Sapete che non mi piace. Sedetevi pure.” Si sciolse la coda di cavallo e una cascata di capelli castani le ricadde sulle spalle. “Oggi farò qualche domanda a un paio di persone.”
Nella classe c’era stato un brusio di fondo sin da quando i bimbi erano entrati, ma nell’udire quelle parole tutti ammutolirono.
“Per caso qualcuno si offre volontario? Vi assicuro che ne accetto più che volentieri.”
Non volò una mosca e nessuno si mosse, anzi. Mac notò che alcuni compagni abbassarono lo sguardo. Il suo cuore iniziò a battere più veloce e lei a tremare. Era sempre così quando sapeva che c’era un compito o un’interrogazione.
“Proprio nessuno nessuno?”
“La temo un po’ quando fa così” mormorò Elizabeth all’orecchio dell’amica.”
Lei annuì ritrovandosi d’accordo.
Beh, prima o poi sarebbe stata comunque interrogata, giusto? Quindi, anche se non l’aveva mai fatto prima, tanto valeva buttarsi e provare. In fondo aveva studiato parecchio, preso appunti in classe e si era fatta un riassunto dell’argomento a casa scrivendolo sul quaderno.
Io.
Essendo vicinissima alla cattedra allungò un braccio per passare il foglio alla  maestra.
“D’accordo Mackenzie, vieni” disse la ragazza ridandole il pezzo di carta.
Devo alzarmi?
Era una domanda stupida si rese conto, ma non aveva potuto fare a meno di porla. Di solito quando qualche maestra le chiedeva qualcosa la faceva rimanere lì seduta, o al massimo andare alla lavagna per svolgere un esercizio di matematica. Mac si sentiva più sicura quando rimaneva al proprio posto, mentre stare in piedi mentre tutti la fissavano la metteva in soggezione.
“Sì, vieni vicino a me.”
Va bene, inspira. Uno, due, tre, butta fuori l’aria. Di nuovo.
Continuò a ripeterselo mentre tirava indietro la sedia e si sollevava. Sperò che le gambe non le tremassero troppo e che il respiro non fosse irregolare, ma sentiva che qualcosa non andava. Era come se le mancasse l’aria, se le bruciassero i polmoni. Sperava che Elizabeth le avrebbe stretto la mano, o detto:
“Buona fortuna”,
o qualsiasi altra cosa. Ma non accadde. La bambina le sorrise soltanto e poi ricominciò a ripassare. Mac fece il giro della cattedra e si mise di fianco alla maestra che rimase seduta e la guardò. La bambina ricambiò lo sguardo.
“Non osservare me, ma loro” le disse la ragazza e lei lo puntò verso i suoi compagni che, come si aspettava, la stavano fissando. “Sei pronta?”
Fece cenno di sì. Non aveva la forza di fare altro.
“Allora, quanto è grande la California?”
Quattrocentoventitrémilanovecentosettanta chilometri quadrati.
“Bene, e la sua capitale qual è?”
Lo sapeva, avrebbe potuto giurarlo se l’insegnante gliel’avesse chiesto. Eppure, ora non lo ricordava. Si sforzava ma più lo faceva, più confusione aveva in testa.
Los Angeles provò.
Le sembrava corretto.
“No. Riprova.”
San Francisco?
Disse la prima città alla quale pensò, ma stavolta sapeva di aver sbagliato.
“No. Dai, l’abbiamo detto tante volte!” la incoraggiò la maestra. Voleva aiutarla ma non troppo. “Inizia per “S”, comunque.”
Era un piccolissimo indizio, pensò Mac, ma sempre meglio di niente. Il cuore le martellava così forte nel petto che guardò prima la maestra e poi i compagni per sincerarsi che non la osservassero in modo strano, che non sentissero anche loro quel battito tanto accelerato. La testa le girò come una trottola impazzita.
“Mi sto agitando troppo” si disse. “Cavolo, è solo un’interrogazione!” Non le era mai successo di bloccarsi su una domanda e soprattutto su un quesito semplice. “Inizia per “S”. Beh, non ci sono molte città che cominciano con questa lettera. Ma come si chiama, santo cielo?”
Ci pensò qualche altro secondo finché il mal di testa fu troppo forte.
Non lo ricordo, mi dispiace.
“Sacramento. Mackenzie, è Sacramento! Ve l’ho detto un sacco di volte, ve l’ho fatto anche scrivere e segnare in rosso sulla mappa del libro perché non si vedeva bene.”
Ti giuro che lo sapevo, ho studiato un sacco, è che sono molto in ansia. Io… io…
“Ascoltami, tutti sono preoccupati quando vengono interrogati. Ci sono passata anch’io e lo comprendo, ma non posso darti un voto se stai così, lo capisci? Non hai saputo rispondere ad una domanda basilare. Se vuoi posso chiederti altro, perché mi dispiacerebbe non darti un voto o mettertene uno brutto. È sempre triste per me farlo, bambini, lo sapete” continuò rivolgendosi a tutti. “Ma devi essere tu a decidere, Mac.”
Che fare? Tentare e sperare di andare meglio o lasciar perdere? Forse avrebbe potuto provare e al massimo si sarebbe fatta interrogare più avanti. Guardò i suoi compagni. Elizabeth sembrava dispiaciuta per lei, altri erano indifferenti; e poi ce n’erano tre o quattro che stavano ridendo sotto i baffi mentre la indicavano.
Ti stanno prendendo in giro perché ti sei bloccata su delle cavolate.
Bastò quel pensiero a farla desistere.
Non me la sento scrisse soltanto.
“Va bene, allora non ti metto nessun voto e ti interrogherò lunedì sugli argomenti che abbiamo già fatto e su quelli che affronteremo oggi.”
Okay.
“Vai al posto. E Mackenzie, la prossima volta andrai meglio. Ne sono sicura.”
La maestra non perse mai il suo solito sorriso, ma la bambina in quel momento si sentiva troppo male per credere alle parole che aveva appena pronunciato.
Grazie. Posso andare in bagno?
“Già alla prima ora?”
Sì, per favore!
“Va bene.”
Si diresse verso la porta e sentì James, uno dei suoi compagni che l’aveva presa in giro anche in precedenza, sussurrare ad Yvan:
“Allora non è sempre brava come credevamo.”
“No,” disse l’altro, “oggi ha fatto proprio schifo.”
“Già. Come ha fatto a non conoscere quelle risposte? È proprio stupida.”
“Cosa ti aspettavi, che una che non parla fosse intelligente?”
Una volta uscita, Mackenzie corse in bagno e vi si chiuse dentro, poi si accovacciò per terra e infine si sedette. Di solito quello era un posto molto pulito, ma quel giorno il pavimento era sporco e un po’ impolverato. Tuttavia non le importava. Si mise le mani davanti al viso per fermare le poche lacrime che le rigavano le guance. Un nodo le serrava la gola impedendole di sfogarsi con un pianto liberatorio. Le dispiaceva di essere andata così male, aveva fatto una figuraccia davanti all’insegnante e dato l’idea di non essersi impegnata. Da quando Hope e la mamma avevano avuto quell’incidente pochi giorni prima, non era più riuscita a concentrarsi bene sullo studio. Le maestre non sapevano nulla, non aveva voluto dirlo loro per evitare che i compagni pensassero che a causa di quel problema e di tale sorta di blocco psicologico lei volesse dei favoritismi, come per esempio non farsi interrogare. Ora, però, si rendeva conto che forse avrebbe dovuto quantomeno avvertire le insegnanti di quanto che era successo e non uscire volontaria. Si era sentita pronta all’inizio, ma una volta alla cattedra si era persa in un bicchier d’acqua come si suol dire e non riusciva a capirne la ragione. Più di tutto, però, era quello che James ed Yvan avevano detto ad averla ferita nel profondo. Non solo avevano parlato male di lei, ma l’avevano fatto alle sue spalle il che era ancora peggio. Il dolore alla testa aumentava di secondo in secondo e non riusciva a controllare il suo respiro affannoso. Provò ad alzarsi anche se le gambe le tremavano e a bere un sorso d’acqua, ma questo non la aiutò a tranquillizzarsi.
Non ce la posso fare. Non riuscirò a stare qui a scuola ancora per molto.
Era troppo stanca e debole per reggere tutte le ore che aveva davanti. Voleva andare a casa. Uscì dal bagno e si diresse in infermeria, in fondo al corridoio.
Forse però avrebbe dovuto rientrare. Se non l’avesse fatto, Brianna e i suoi due amici avrebbero potuto pensare, o dire, che era una fifona e che se la prendeva troppo per delle semplici offese. Per lei erano molto pesanti, ovviamente, ma conosceva quei bambini e il loro modo di parlare ormai. Non voleva essere presa ancora in giro, sapeva che non avrebbe retto altri commenti sgradevoli sul suo conto, così prese un bel respiro e si avviò. Mentre camminava sulle gambe malferme, tremando, qualcuno le si parò davanti. Era James.
“Sono venuto a vedere come stavi, muta” le disse, poi sputò per terra.
Mac aveva notato che, prima di parlarle, il bambino si era guardato intorno con circospezione, come per assicurarsi che non ci fosse nessuno ad ascoltarlo o a vederlo.
Visto quello che mi hai detto non credo ti interessi sapere come sto. Come ti sentiresti al mio posto?
“Visto quello che mi hai detto non credo ti interessi sapere come sto” ripeté lui facendole il verso. “Guai a te se ti rivolgi di nuovo a me in questo modo, chiaro?”
La prese per un braccio e glielo strinse forte, con entrambe le mani. James era più grande perché era stato bocciato a causa del suo bassissimo rendimento scolastico. Aveva sette anni e il solo fatto di averne più di lei gli dava, secondo lui, il diritto di trattarla male, anche perché Mackenzie aveva un problema e quindi lui credeva che fosse inferiore e diversa. Mac lo fulminò con lo sguardo ma lui non si lasciò intimidire. I due si guardarono negli occhi, nero nel nero, ma alla bambina quelli di James facevano paura. Aveva uno sguardo così cupo e minaccioso in quel momento!
“Porca miseria, mi vuoi rispondere?” le chiese alzando un po’ la voce. Avrebbe voluto urlare, ma non voleva farsi sentire. “Ti ho fatto una domanda, muta.”
Muta. Per lui non aveva nemmeno un nome, non ne era degna.
S-sì, chiaro. Ora lasciami per favore. Mi stai facendo male.
“Altrimenti?”
La stretta aumentò. Il polso le bruciava e le doleva parecchio. James era molto più alto di lei e anche più grosso e forte. In spessore, il suo braccio era il doppio di quello di Mac.
Raccogliendo tutto il suo coraggio, Mackenzie trasse un profondo respiro e disse:
Lo dico alla maestra. O ai miei genitori. Anzi no, a tutti e tre.
“Uuuuh, che paura! Non ti azzardare” sibilò e poi la spinse via. Si girò e stava per tornare in classe, ma si fermò. “Ah, muta, ti sei lavata le mani dopo essere stata al cesso? Perché sai, puzzi. Che schifo!”
Detto questo se ne andò.
La bambina rimase immobile, in mezzo al corridoio, con gli occhi sbarrati. Non voleva tornare in classe, era terrorizzata. Doveva andare a casa, non sarebbe mai riuscita a guardare James in faccia per vederlo sorridere come se non fosse accaduto nulla. Certo, il fatto che le avesse stretto il braccio l’aveva spaventata a morte, ma per il resto il bambino aveva ragione. Nonostante tutti vedessero in lei tantissime qualità positive, Mac si sentiva diversa perché beh, lo era, e anche se credeva di aver ormai accettato da tempo la sua condizione, non poter parlare la faceva stare male. Inoltre non si riteneva nemmeno tanto brava e intelligente, non aveva nessuna qualità che gli altri bambini non possedessero, né riteneva di avere qualche talento particolare. Era una persona ordinaria e questo le andava bene anche se la sua autostima era molto bassa e non aveva trovato nemmeno una cosa in cui fosse brava. Nella sua classe c’era chi, al di fuori del contesto scolastico, faceva sport, chi suonava uno strumento, mentre lei non aveva ancora provato nulla perché anche quando aveva pensato di fare qualcosa poi si era sempre detta:
“Mah, probabilmente farò schifo, quindi tanto vale.”
E così non ne aveva mai parlato con la mamma né con nessun altro e poi, comunque, non c’era nulla che la interessasse sul serio.
Arrivata davanti all’infermeria, bussò e le aprì una signora piuttosto anziana, una delle bidelle della scuola.
“Ciao, cara” la salutò regalandole un luminoso sorriso.
Ciao rispose, dato che tutti i bidelli si facevano dare del tu.
“Ti senti poco bene?”
Sì, mi fa malissimo lo stomaco.
Era una mezza verità, in quanto lo stress che aveva appena provato gliel’aveva in effetti fatto venire, anche se non era così intenso.
“D’accordo, entra e sdraiati.”
Grazie.
La signora la fece distendere su un piccolo lettino e azionò una manovella per abbassare il poggiatesta in modo che stesse più comoda. La bambina sospirò. Si sentiva improvvisamente esausta, come se fosse stata molto più vecchia. Era una sensazione strana e brutta. Doveva cercare di non pensarci. Fosse stato facile!
“Sono solo scossa, ora passa” disse fra sé e sperò che la sua mente se ne convincesse.
“Vuoi che ti porti qualcosa? Magari un tè?”
Lo berrei volentieri. Ho dei soldi nel mio zaino.
“Mackenzie, te lo offro io” le disse sorridendole, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
No, lo voglio pagare io. Lei non deve…
“Dammi del tu, tesoro. Mi chiamo Grace.”
Grace, veramente, non c’è bisogno che tu me lo offra.
Non voleva approfittare della sua gentilezza e poi la mamma le aveva dato i soldi. Lei non li usava mai e proprio quella volta in cui le servivano qualcun altro voleva prenderle il tè.
“Lo faccio volentieri.”
D’accordo si arrese.
“Bene, torno subito.”
Prima che uscisse Mackenzie la guardò meglio. Nonostante fosse sulla sessantina, era ancora molto bella. Era piuttosto bassa, aveva gli occhi neri e i capelli grigi che le ricadevano, un po’ disordinati, sulle spalle. L’espressione del suo viso era dolce e lo era sempre stata fin da quando Mackenzie l’aveva incontrata nei corridoi uno dei primi giorni di scuola e aveva un sorriso che scaldava il cuore. Mac ritornò subito seria pensando a quello che era successo poco prima e alcune lacrime le rigarono le guance. Si affrettò ad asciugarle con la manica della maglia.
La mano pensò. Perché non gli ho morso la mano mentre mi stringeva?
L’avrebbe lasciata subito se ci avesse messo tutta la sua forza; ma poi sarebbe andato dalla Direttrice a raccontare ogni cosa e lei avrebbe dovuto spiegare che l’aveva trattata male e fare anche i nomi degli altri ragazzi e sarebbe successo il finimondo. Era stato meglio così: non voleva sollevare polveroni per delle semplici offese e una stretta al braccio che, per quanto dolorosa e spaventosa, sperava non avrebbe sentito mai più… O forse sarebbe stata presa in giro ancora. Ad ogni modo, aveva troppa paura di raccontare ogni cosa. La Direttrice avrebbe potuto non crederle; e non voleva nemmeno immaginare cosa James le avrebbe fatto se avesse parlato.
“Ho paura” si disse. “Posso cercare di negarlo, di dire che non è stato nulla di grave, ma quando penso a lui sono terrorizzata. Non racconterò niente a nessuno, forse nemmeno a Lizzie. Non posso.”
Mac non conosceva ancora la parola “bullismo” e non capiva che i bulli vogliono proprio questo: spaventare a morte le vittime, farle sentire piccole e inutili, diverse, così tanto che loro si vergognano e sono troppo terrorizzate per parlare.
Se questa situazione durerà a lungo, andrò fuori di testa. Mi domando come ho fatto a non impazzire prima, visto tutto quello che ho passato.
 
 
 
Per Demi era una mattinata intensa, quella. Aveva incontrato per la prima volta Lil Wayne, un cantante rap con il quale aveva sempre voluto fare una collaborazione. Il suo manager l’aveva contattato spiegandogli il desiderio della ragazza e lui era stato ben felice di accettare. La canzone era stata scritta da Demi e lei aveva proposto a Lil di rivederla e decidere insieme se cambiare qualcosa o meno, ma a lui era piaciuta tantissimo e aveva apprezzato molto anche la melodia. Avevano cantato ognuno la loro parte di “Lonely” anche se dovevano ancora impararla bene a memoria, per cui l’avrebbero provata ancora anche nei giorni a venire.
“Demi?”
Era lui che la chiamava con la sua voce nasale ma dolce, che quando cantava assumeva una sfumatura particolare che la ragazza non avrebbe saputo descrivere.
“Sì?”
“Sono due volte che ti chiedo se vuoi uscire a bere un caffè con me, prima di provare di nuovo.”
“Oh, scusa.” Si dette della cogliona per essersi estraniata dal mondo in quel modo. “Preferirei prenderlo qui, se non ti dispiace.”
Di solito andava al bar senza problemi, anche se lo faceva più tardi, ma quel giorno era diverso.
“Nessun problema!”
“Ti ringrazio.”
Si diressero al piano inferiore, in un piccolo salottino dove si trovava la macchinetta del caffè. Era un ambiente confortevole, con le pareti dipinte di rosa. Forse ad alcuni poteva sembrare un colore troppo infantile, ma a Demi piaceva. Conferiva alla stanza un calore che sapeva un po’ di casa e di famiglia. Quando andava lì pensava sempre alle sue piccole.
“Posso offrirti qualcosa?” le chiese l’uomo.
“Sì, grazie Lil…”
“Michael” la corresse lui.
Le aveva già detto di chiamarsi Dwane Michael Carter Junior, asserendo che Michael, o per gli amici Mike, era il nome che gli piaceva di più.
“Hai ragione, scusa. Comunque sì, un cappuccino decaffeinato grazie.”
“Non bevi il caffè normale?”
“No, tendo ad avere la pressione alta anche se non ho mai preso pastiglie fino ad ora grazie al cielo, quindi tendo ad evitare il caffè a meno che non sia decaffeinato, o la liquirizia, o le cose troppo salate… anche se beh, come si fa a resistere alle patatine fritte?”
“Già.”
Scoppiarono a ridere entrambi.
“Ogni tnato ce le possiamo concedere” continuò l’uomo. “Zucchero normale?”
“Sì.”
Mentre lui prendeva i caffè, Demi si sedette su un divanetto cercando di fare respiri profondi per rilassare collo e schiena. Si massaggiò le tempie e poi passò con delicatezza la mano sopra la ferita di qualche giorno prima. Notò che Michael la guardava preoccupato ma non diceva niente, probabilmente per non fare domande che gli sarebbero sembrate indiscrete.
“Tieni” le disse porgendole il bicchiere.
“Grazie.”
Le si sedette accanto con il suo caffè espresso in mano.
Per qualche minuto rimasero tutti e due in silenzio, soffiando e mescolando lo zucchero che, dannazione, pareva proprio non volersi sciogliere!
“Ci voleva una pausa, eh?” commentò Demi per rompere il ghiaccio.
“Già, anche se forse più a te che a me; io mi sono alzato più tardi stamattina e sono venuto qui, tu invece sei in studio da due ore.”
“Sì, esatto.”
“Scusa se te lo chiedo, ma come stai?  Hai l’aria stanca.”
Quando Lil era entrato in studio Demi era stata felicissima. Certo, sapeva che sarebbe venuto perché era stata proprio lei a chiederglielo. Non lo seguiva molto, il rap non le interessava poi così tanto, ma desiderava cambiare e sperimentare nuovi generi musicali e quindi aveva deciso di fare una collaborazione con lui. Era vero, in “Lonely” l’uomo cantava, ma comunque le sue parole e la voce rendevano tutto ancora più bello. Stava per rispondere come aveva fatto all’inizio, ovvero che si sentiva bene, ma poi decise di dire la verità.
“Non sto benissimo” mormorò e bevve un sorso di cappuccino che le scottò la lingua e il palato, ma almeno le diede un po’ di forza.
“Se vuoi possiamo provare domani.”
“N-no, cioè…” La ragazza cercò di ricomporsi. Perché faticava a parlare? “Il fatto è che ho alcuni pensieri e mi fa male la testa, tra l’altro.”
“Immagino sia a causa dell’incidente. Non dovete aver passato giorni facili, tu e i tuoi” le disse, in tono comprensivo.
Cosa?”
Demetria balzò in piedi per la sorpresa. Come faceva, Michael, a sapere quello che era successo? Solo la sua famiglia e il proprio staff ne erano a conoscenza.
“Scusa, sono stato indelicato.”
“Non ti preoccupare.”
“È che credevo che avessi letto il giornale.”
“No, o almeno non in questi giorni. Ho avuto altre cose a cui pensare.”
“Certo, capisco. Comunque qualcuno ha scoperto la cosa e ha scritto vari articoli.”
“Paparazzi e giornalisti figli di puttana” mormorò lei fra i denti.
Lil cercò di cambiare argomento.
“Io ho quattro figli, Demi, e quando si diventa genitori loro sono più importanti di tutto.”
“Già” concordò. “E poi non guardo sempre il giornale. Non riesco a sopportare tutto quello che scrivono i giornalisti, soprattutto se sono cazzate.”
“Immagino, anche io” rispose l’altro, per nulla infastidito dalla sua schiettezza.
“Cosa c’è scritto?”
“Non imp…”
“Ti prego!”
Ora voleva saperlo, nel caso avesse dovuto ribattere in qualche modo.
“Su “People” e sul “Los Angeles Times” ci sono degli articoli su quello che è successo a te e a Hope, sono in prima pagina. I giornalisti hanno scritto che la piccola ha rischiato di annegare e che tu l’hai salvata anche se ti sei fatta male.”
“Vuoi chiedermi se è vero?”
Pose quella domanda con naturalezza, non in tono accusatorio e lui le sorrise.
“Non ne parliamo se non te la senti. Ti stavo solo illustrando il contenuto degli articoli.”
Lei ricambiò il sorriso e poi rispose:
“Sì, è vero.”
“Hope sta bene?”
Lil pareva sinceramente interessato a saperlo e la ragazza gli fu grata per questo.
“Sì grazie, ogni tanto ne parla ed è ancora spaventata ma farò di tutto perché non abbia più paura. Per quanto riguarda me, ho mal di testa perché la pelle mi tira e ho ancora i punti.”
“Devo avere un antidolorifico nel marsupio. Lo vuoi?”
“Sì, mi aiuterebbe.”
Finì il suo cappuccino e poi si comprò una merendina al cioccolato. Sapeva che gli antidolorifici devono essere presi a stomaco pieno. Una volta finito ringraziò Michael per la sua gentilezza.
“È stato un piacere.”
“No davvero, grazie. Non tutti avrebbero fatto questo per me, soprattutto chi non mi conosce.”
Gli chiese di mostrarle le foto dei suoi figli e lui lo fece più che volentieri. Le teneva nel portafoglio e le disse che le portava sempre con sé così, anche quando era lontano da loro, li aveva sempre vicino non solo nella mente e nel cuore, ma anche grazie a qualcosa di materiale. La figlia più grande aveva ventuno anni mentre degli altri tre, tutti maschi, due ne avevano undici e uno dieci. Nella foto erano stretti attorno al padre e sorridenti.
“Che bei sorrisi!” commentò Demi.
Sembravano così felici.
“È vero.”
Michael li aveva avuti da tre donne diverse.
“Li vedi spesso?”
“Più che posso.”
Quando fu lei a mostrargli le foto delle bambine Lil si emozionò.
“Sono meravigliose, e poi adottandole hai fatto una cosa bellissima.”
Dopo aver parlato per qualche altro minuto del più e del meno decisero di tornare a lavorare. Rientrarono in studio, salirono di nuovo sul palcoe, non appena i musicisti iniziarono a suonare, Demi cantò.
Hm hm hm hm, oh oh oh oh, yeah
 
He felt just like you
His arms, his lips
His promises were just as smooth
His grip, it fit though I'll admit that only you
Could make me feel the way you do
Though you know love is blind
And he just caught my eye
You know me, and honestly I'm better without you
Don't you got me checking on my phone by the hour
Baby, I'm hoping and praying
My knees weak, I'm shaking
'Cause you know that I always needed saving
 
Now I'm fucking lonely, and you didn't want me
Trying to show me that you didn't own me
But all you do is leave me fucking lonely
Knees on the concrete, cut up and bleeding
For no Goddamn reason
But all you do is leave me fucking lonely
Leave me fucking lonely
Leave me fucking lonely
Leave me fucking lonely
 
The month was June
The smoky sun, our fatal run
It ended too soon
With tears as proof, 'cause all the carpets stained with juice
Blood on my shoes
[…]
Demi mise tutta se stessa in quella canzone, che parlava di una relazione finita male e del fatto che, anche se lei ora si sentiva meglio senza la persona amata, era anche terribilmente sola. Quando pronunciò la parola “lonely” quasi urlò, mentre per il resto la voce le uscì rauca. Lo faceva apposta per dare più pathos alle parole, perché tutti sentissero il dolore che esse trasudavano.
Quando fu il suo turno, Lil Proseguì:
Bitch, can't even say I miss you back over the fucking text
Every time you slept over my pad, you over fucking slept
Toni Braxton told me breathe again, don't hold no fucking breath
Gave your ass directions to my heart, and your ass busted left
Climbing up the money tree, the tree without the lover's nest
'Cause lovebirds are some busy bees
You fuck around, get stung again
And you didn't leave your underwear
'Cause she didn't arrive in no underwear
Look baby, even lovers burn to nothing, that be clear
I can't see the forest from the tree, the water from the sea
And I was starting to believe, but it's a forest full of dreams
I smoke bars full of weed, and call it what I see
And when you leave, I hope you know you bring
This forest to his leaves
I'm fucking lonely
[…]
La sua voce delicata si sparse per tutto lo studio. Pareva una cantilena che incantò tutti.
Ci fu un attimo di silenzio dopo che Demetria terminò di cantare, poi gli applausi e le grida di esultanza scaldarono i loro cuori. I due cantanti si strinsero la mano.
“Complimenti, Demi!” si congratulò Michael. “Hai una voce pazzesca.”
“Anche tu sei stato bravissimo.”
I musicisti, i ballerini e il manager di Demi vennero a congratularsi con lei e Lil per l’ottimo risultato, li abbracciarono e strinsero loro le mani tannnto che, dopo un po’, la ragazza non capì più chi le aveva già fatto i complimenti e chi ancora no.
“Potremo registrarla già domani!” esclamò Phil, entusiasta. “È perfetta e l’avete provata solo due volte, vi rendete conto?”
Demi sorrise, fiera di se stessa e di Michael.
“Domani è sabato” disse poi, dando un buffetto sulla guancia al suo manager.
“Ah, giusto.”
“Appunto, non vorrai farci sgobbare anche di sabato, vero Phil?” domandò Michael ridendo.
Tutti scoppiarono in una fragorosa risata e il manager diventò rosso per l’imbarazzo.
“S-se non è necessario certo che no, scusate.”
“Tranquillo, tutti possono sbagliarsi” lo rassicurò l’altro dandogli una pacca sulla spalla.
Demi aveva lavorato di sabato in passato, se c’erano state molte cose da fare, ma per fortuna non era successo molte volte.
Michael ricevette una telefonata di lavoro.
“Scusate ma il mio manager mi cerca, devo proprio andare” si congedò.
“Tutto okay?”
Sembrava di fretta e Demi si allarmò.
Non lo conosceva, sperava non fosse successo nulla di grave.
“Sì, devo solo lavorare più duramente al mio album. In questi giorni non abbiamo fatto molto.”
“Okay, allora ci vediamo lunedì. A che ora puoi venire?”
“Alle nove?”
Demetria guardò Phil e lui le fece il segno di okay con la mano.
“Perfetto.”
Non appena l’uomo uscì dalla porta, Demi si sedette e fece un’altra, brevissima pausa. Si prese soltanto un minuto per bere un po’ d’acqua e poi annunciò a gran voce:
“Ora canterò una canzone più leggera, ne ho bisogno.”
Non voleva provarne altre di tristi, quel giorno. Aveva bisogno di non pensare alle cose brutte che erano accadute ultimamente e quando cantava qualcosa di triste, anche se non c’entrava con l’incidente suo e di Hope, quelle immagini le passavano in continuazione davanti agli occhi.
Tutti acconsentirono e la ragazza scelse la canzone, poi si mise davanti al microfono e aspettò che i musicisti, che si erano fermati come aveva fatto lei, si rimettessero in posizione. Contò fino a tre, si asciugò il sudore delle mani sui pantaloni e, dopo che la batteria ebbe battuto qualche colpo, cominciò a cantare.
Hittin' me up late always be blowin' up my phone
I'm lying awake wonderin' why I'm still alone
Lord knows I am sinning, please forgive me for my lust
Sending pictures back and forth
Babe, I'm craving your touch
You're my new obsession
Let go of any hesitation
Baby, be my new addiction
Intoxicate me gently with your loving
 
You got me so high
Pull me closer into you and watch our bodies intertwine
I feel so alive
You know what I'm thinking of
Got me dreamin' 'bout that sexy dirty love
Sexy dirty love (dirty love) (sexy, sexy, yeah)
Sexy dirty love (dirty love) (sexy, sexy, yeah)
Sexy dirty love (dirty love) (sexy, sexy, yeah)
 
Now you're teasing me and I can't help but do the same
Whispering through your phone, now you’re driving me insane
It's like you're getting off on messing with my sanity
Hang up, come on over
Let's play out this fantasy
[…]
 
 
 
È successo.
Poco prima l’ansia di Dianna aveva raggiunto il culmine, tanto che aveva creduto che avrebbe avuto un attacco cardiaco. Sapeva che era accaduto qualcosa, ma ancora una volta non riuscire a capire a chi la faceva stare continuamente in allerta. Tornò a casa trafelata dopo l’ennesima passeggiata di quella mattinata così strana.
“Mamma!” la salutò Madison aprendo la porta.
“Ciao, cara.”
“Stai ancora male?”
“Un po’, ma sono uscita e ho passeggiato, quindi ora mi sento meglio.”
“Ne sono felice.”
“Com’è andata sul set?”
“Bene.” La ragazza si era già messa in pigiama, perché per quel giorno aveva finito di lavorare e sarebbe tornata il successivo. “Ho registrato solo un paio di scene, oggi.”
“Come mai?”
“Ero un po’ deconcentrata” ammise.
Dianna non se la sentì di rimproverarla. Doveva averla fatta preoccupare molto a colazione.
“Capisco. Papà è di nuovo uscito?”
“Sì.”
Si sedettero sul divano a bere un tè e Dianna fece di tutto per mascherare la sua agitazione.
“Forse ho una cosa che ti può far stare meglio” disse Madison ad un certo punto, anzandosi e dirigendosi in cucina.
Tornò poco dopo con una busta. Dianna la riconobbe subito. Le arrivava ogni sei mesi da qualche anno. La aprì e sorrise.
“La pagella della bambina a distanza che abbiamo adottato!” esclamò e lesse.
C’erano scritte le varie materie in lingua Masai, quella parlata in Kenya, con accanto la traduzione in inglese e il voto.
“È molto brava” osservò Madison. “È migliorata tantissimo rispetto all’anno precedente.”
“Già, soprattutto in inglese e francese. Bene!”
La famiglia aveva preso la decisione di adottare quella bambina, Hiasiline, dopo che Demi nel 2014 aveva fatto un viaggio in Kenya con la We Organization nella Masai Mara National Reserve. Aveva visto posti bellissimi, ma anche tanta povertà e sofferenza. Aveva aiutato le donne a portare secchi pieni d’acqua dal pozzo alle loro case e imparato a fare le rafiki, delle collane particolari. Ne aveva portate a casa molte e le aveva vendute ai suoi concerti. Tutto il ricavato, poi, era andato al villaggio e alla riserva in cui era stata. L’esperienza l’aveva colpita così profondamente e le aveva fatto apprezzare tanto di più le piccole cose della vita, che lei e i suoi avevano deciso di adottare un bambino a distanza. Avevano quindi contattato un’organizzazione che se ne occupava. I soldi che dovevano dare non andavano direttamente alla famiglia della piccola, ma arrivavano alle persone americane, facenti parte di quell’organizzazione, che lavoravano in Kenya. L’associazione aveva  anche aveva una sede lì a Los Angeles dove si potevano spedire lettere ai bambini. Il denaro serviva per garantire al bambino adottato cibo e istruzione. Quando erastato loro chiesto se avrebbero voluto adottare un maschio o una femmina la scelta era stata ardua. Come si faceva a decidere? All’inizio avevano risposto che il sesso non importava, ma era stato necessario scegliere quindi avevano optato per una femmina. Un mese dopo, a seguito di alcune operazioni burocratiche, erano arrivati a casa di Dianna una foto della bambina e alcune informazioni su di lei, così come sul Kenya, sulla sua cultura e sulla modalità di pagamento. Demi, anche se abitava da sola da un po’, aveva deciso di contribuire perché si sentiva legata a quel Paese e di conseguenza a Hiasiline. Anche se non l’aveva mai incontrata, la vedeva come una sorellina. Ora aveva dodici anni.
“Demi sarà contenta di avere sue notizie!”
Vedere quella bimba così sorridente, vestita di bianco che salutava con la mano ridiede a Dianna un po’ della serenità che credeva di aver perduto e la aiutò a dimenticarsi della propria ansia.
 
 
 
Mackenzie aveva aspettato in infermeria per un paio d’ore. L’insegnante era venuta a controllare come stesse e le aveva domandato se desiderava andare a casa.
No, voglio aspettare e vedere se mi sento meglio aveva risposto.
“D’accordo, come vuoi.”
La bambina rimase immobile a fissare il soffitto, mentre la testa le girava come una pallina che scendeva sempre di più giù per una discesa.
Se fosse andata a casa - cosa che, a dirla tutta, avrebbe voluto -, era sicura che James e Brianna l’avrebbero presa in giro dicendole che era stata debole, o stupida, o chissà cos’altro, mentre se fosse rimasta nonostante la paura forse l’avrebbero lasciata in pace. Magari sarebbero riusciti a capire che lei era più forte di quanto credevano e che non ci stava ad essere considerata una vittima.
“Se la finissero,” si disse, “stare qui sarebbe molto diverso, più bello.”
Si alzò. Non voleva rimanere ancora lì, aveva già perso troppe lezioni. Sicuramente Elizabeth le avrebbe passato gli appunti, quindi non era un problema. Appena si mise in piedi un dolore lancinante alle tempie, che sembravano schiacciate da qualcosa, e un senso di nausea rischiarono di farla cedere.
“Vuoi tornare, tesoro?” le chiese Grace.
Lei annuì.
“Okay, ma lascia che ti accompagni.”
Grazie, ma non serve.
Le sorrise. Era stata gentile.
“Forse no, ma voglio sentirmi tranquilla ed essere sicura che tu stia davvero bene come dici.”
Nell’udire la parola “davvero” pronunciata con una tale enfasi, Mackenzie andò in panico totale. Il suo respiro accelerò e cominciò a sudare.
Gesù, fa’ che non lo noti.
Che cos’aveva voluto dire quella donna con quella frase? Si riferiva solo al fatto che voleva assicurarsi che lei non si sentisse di nuovo male fisicamente, oppure…
Lo sa? No, come potrebbe?
Non aveva visto né sentito niente, giusto? La bambina avrebbe tanto voluto chiederglielo, ma non poteva. Se l’avesse fatto, avrebbe dovuto raccontare tutto e non voleva e non poteva, come appunto si era appena detta. Rimase in silenzio e si limitò ad annuire, sorridendo di nuovo.
Mentre erano a metà corridoio, però, una fitta alla testa più intensa la costrinse ad appoggiarsi alla parete.
“È meglio che tu vada a casa, cara” le consigliò la donna, appoggiandole una mano sulla spalla.
Il suo tocco era dolce, materno.
Va bene.
Le due entrarono in classe e dissero alla maestra che Mac non ce la faceva a rimanere a scuola.
“Prendi il libretto, scrivo il permesso di uscita e poi lo faccio firmare dalla Direttrice.”
“Posso portarglielo io, se vuole” si offrì Grace.
“La ringrazio, è gentile da parte sua.”
“Si figuri!”
“Mac, chi dei tuoi può venirti a prendere?”
La mamma.
Le dispiaceva disturbarla, ma sapeva che quel giorno suo padre aveva una causa molto importante in tribunale e sicuramente non ce l’avrebbe fatta.
“Perfetto, allora vai con Grace così la chiamate dall’infermeria.”
Mackenzie diede il libretto alla maestra, lei lo aprì, compilò il permesso.
Dopo che Grace ebbe chiamato Demi, lei e Mackenzie si diressero in presidenza. !uando la Direttrice vide la bambina disse:
“Tesoro, mi dispiace molto che tu stia male. In effetti non hai una bella cera. Vai a casa e riposati, okay?”
L’altra le sorrise di rimando.
Dopo aver sbrigato quelle pratiche tornò, sempre accompagnata da Anne, in classe perché doveva preparare la cartella. Prima se n’era dimenticata, troppo impegnata a pensare e a ripetersi sempre le solite cose.
“Vuoi che entri con te?”
No, faccio da sola grazie.
Una volta dentro, Mac andò al proprio posto ed Elizabeth la toccò su una spalla.
“Stai proprio male?”
Abbastanza.
Evitò di raccontarle che si sentiva triste e James l’aveva offesa, visto che era lì a qualche metro da loro. L’avrebbe fatto in un secondo momento, forse.
“Allora domani vengo a trovarti, se ti fa piacere.”
Lizzie era preoccupata. Le prese la mano e gliela strinse, poi cercò di sorridere ma Mac notò che aveva gli occhi pieni di lacrime.
Ehi, non mi sento bene ma non sto per morire! scherzò, sperando di farla sentire meglio.
“Lo so, è che mi preoccupo; è giusto che tu vada a casa se ti senti male, ma sto anche pensando al fatto che dopo, in mensa, sarò sola.”
Aveva sussurrato l’ultima parte di quella frase talmente piano che Mackenzie aveva faticato a sentirla.
Se succederà qualcosa, me lo dirai e ne discuteremo insieme.
“Okay. Comunque mi sento un’egoista ad aver detto questa cosa, non intendevo, mi dispiace. La tua salute è più importante.”
Tranquilla, non me la sono presa. Ho capito. Ti dovrò raccontare un fatto che mi è accaduto prima.
Si era decisa finalmente.
“Oh Dio, cosa?”
Ora Lizzie era allarmata.
Non ora.
Prima di uscire intrecciò le mani per un momento e sentì James chiedere:
“Sta pregando?”
e tutti i compagni, tranne Lizzie, ridere mentre la maestra, che non aveva udito nulla, diceva loro di fare silenzio.
 
 
 
Quando a Demetria squillò il cellulare, spiegò la situazione e disse che doveva andare.
"Tranquilla, vai pure. Tanto, ti avevo detto di stare a casa fino a lunedì prossimo, quindi anche se oggi salti qualche ora di lavoro non è un problema" la rassicurò Phil.
Il giorno prima l'aveva chiamata dicendole di non venire al lavoro, ma lei era stata irremovibile: non stava molto bene, ma non tanto da dover restare a letto.
Mentre saliva in macchina, però, ancora non sapeva che quella mattinata sarebbe stata complicata e che era solo all'inizio.
 
 
 
La maestra Linda stava raccontando una storia e tutti i bambini, Hope compresa, la ascoltavano rapiti seduti in un piccolo cerchio intorno a lei. La donna si stava inventando una favola al momento per intrattenerli. Prima li aveva fatti disegnare e dopo aveva intenzione di dar loro la merenda e poi portarli a giocare all'aperto, come facevano le maestre con le altre classi.
"E così," continuò con un sorriso, "i genitori e i due bambini protagonisti della nostra storia decisero di fare una gita al lago. Ci siete mai stati?"
"Io sì!" rispose Jules, una bambina con i capelli rossi seduta accanto a Hope, che a differenza sua era molto, molto vivace.
"Bene! Qualcun altro?"
Hope non disse una parola riguardo la gita e solo la menzione del lago le aveva fatto sparire il sorriso; ma magari quella storia non sarebbe stata poi così male, forse era meglio che cercasse di godersela. Provò a rilassarsi respirando lentamente.
"D'accordo, allora continuerò il racconto. Dicevo che Kevin, Marla e i loro figli Rachel e Samuel andarono al lago e fecero una passeggiata. Videro molti cigni volare e alcune ochette in acqua e anche degli aironi tanto grandi."
"Cosa sono?" domandò Hope incuriosita.
Non aveva mai sentito quella parola difficile.
"Sono degli uccelli che si trovano nei laghi o a volte nei fiumi."
"Ah."
“E quanto grandi sono?” domandò Brian.
“Così.”
La maestra allargò le braccia più che poté.
“Proprio tanto tanto” continuò il bambino.
"Eh già! Siccome faceva molto caldo, i quattro decisero di entrare nell'acqua dato che si poteva fare il bagno."
A quel punto Hope iniziò ad urlare e impallidì. Si alzò in piedi, non riuscendo più a stare seduta, e sarebbe corsa fuori dall'aula se Linda non l'avesse fermata prendendola per mano. Intanto, i suoi compagni cominciarono ad agitarsi, non capendo però il motivo per cui si comportava in quel modo strano.
"Tesoro ascolta, mi dispiace non volevo!" si scusò la maestra. Sapeva quello che era successo, ma non credeva che il solo fatto di parlare di unafamiglia che entra in un lago potesse spaventarla. Eppure, avrebbe dovuto sapere che i bambini sono facilmente impressionabili quando capita loro qualcosa di brutto. "Perdonami, non lo dirò più. Non succede niente a loro, davvero!"
La prese in braccio camminando avanti e indietro per cercare di calmarla, ma Hope continuava a gridare. Respirava affannosamente e pianse così tanto e talmente forte che il suo visino divenne rosso.
"No, l'acqua no!" diceva in continuazione.
"Racconterò un'altra storia, va bene? Shhh, è tutto okay. Non ti succederà niente piccina, promesso" la rassicurò Linda con dolcezza accarezzandole i capelli e la schiena mentre la sosteneva con l'altra mano.
Intanto giunsero altre maestre per calmare i bambini e distrarli in modo che non si scatenasse un putiferio e che la loro ansia non peggiorasse quella di Hope.
"Portala un po' fuori in giardino" disse Berta, la più anziana delle donne. "Ci pensiamo noi, qui. Li facciamo stare con gli altri bimbi."
"Okay."
Linda, come loro, aveva studiato psicologia, ma era anche la più giovane e ancora un po' inesperta e purtroppo non riusciva a tenere tranquilla la classe in una situazione di emergenza come quella, se emergenza si poteva definire.
Fece come le era stato detto.
"Voio la mamma!" si lamentava Hope, che non aveva ancora smesso di gridare.
"Respira piano, tesoro. Dentro e fuori, dentro e fuori come faccio io. Senti? Qui è tranquillo, il sole è caldo e ci sono tanti uccellini. Fanno i nidi qui sugli alberi in primavera, sai? E allora ne sentiremo ancora di più."
Cercava di distrarla in ogni modo possibile, di aiutarla a non pensare a quell'incidente e a quanto era appena successo, ma la bambina non faceva che scalciare e piangere. Voleva la sua mamma, andare a casa, farsi coccolare e basta. Non riusciva più a stare lì. Aveva paura. Le immagini dell'incidente continuavano a farsi sempre più vivide, quasi fossero stati dei mostri pronti ad artigliarla in ogni momento. Hope si mise una manina sul cuoricino che batteva fortissimo. L'aveva sentito così quando era caduta nel lago.
"L'acqua no! Voio la mamma!"
Vedendo che non riusciva a calmarla, Linda decise che era inutile farla star lì. Le pareva di torturarla e poi come maestra pensava di aver fatto schifo raccontando quella storia. Avrebbe dovuto stare attenta ai bisogni di qualsiasi bambino, a qualunque paura e invece non l'aveva fatto.
"Andiamo a chiamarla, vuoi?"
"Sì, sì, sì" ripeté Hope ansimando.
Non ne poteva davvero più, era stanchissima oltreché spaventata e guardò Linda con gli occhi sbarrati e pieni di terrore.
 
 
 
Quando Demi andò a prendere Mackenzie la piccola le saltò in braccio e poi trasse un sospiro di sollievo. Dopo aver messo via il suo libretto e preso lo zaino in spalla, la donna uscì con sua figlia e la fece sedere sul sedile dietro. Mac sapeva allacciarsi la cintura, ma quel giorno fu Demetria a farlo per lei. Non le chiese come stesse perché lo sapeva; e intuiva che il suo non fosse solo malessere fisico. La bambina era troppo tranquilla, non aveva scritto nulla, non l'aveva nemmeno salutata e abbracciandola sembrava avesse voluto cercare protezione. Ma da cosa? O meglio, da chi?
Andarono a prendere Hope quando Linda le chiamò.
"Vuoi venire dentro con me?" chiese Demi a Mac quando arrivarono davanti all'asilo.
Lei fece cenno di no.
La donna uscì e chiuse l'auto a chiave.
La maestra e Hope la aspettavano all'entrata. La donna aveva già preparato lo zainetto della bambina.
"È colpa mia, ho raccontato una storia che parlava di una famiglia che entrava in un lago e lei ha avuto la reazione di cui le parlavo poco fa."
"Non si preoccupi, non sono arrabbiata. Sono sicura che lunedì Hope tornerà e starà meglio."
"Lo spero!"
"Oh, tesoro!"
Demi prese Hope fra le braccia e la riempì di baci e coccole.
La bambina si rilassò subito.
"M-mamma" balbettò, piagnucolando.
"Sono qui, ed ora andiamo a casa. Sai che c'è anche Mackenzie in macchina?"
Quando fu nel suo seggiolino, Hope allungò le mani per toccare la sorella e Demi notò che Mackenzie fece un sorriso tirato, come se si sforzasse di sembrare contenta quando in realtà non lo era affatto.
 
 
 
Una volta a casa, Mackenzie andò subito a letto. Chiuse la porta della camera, le imposte e poi si infilò sotto le coperte. Non aveva sonno, ma nemmeno voglia di stare con la mamma e con Hope. Almeno, però, era a casa e al sicuro, lontana da quei bambini cattivi. Tuttavia, il lunedì successivo avrebbero ricominciato a tormentarla, e Dio solo sapeva per quanto quella storia sarebbe continuata. Al solo pensiero le si riempivano gli occhi di lacrime. La porta si socchiuse, forse a causa di un colpo di vento, e il rumore la fece sobbalzare. Poco dopo sentì un miagolio e qualcosa che saltava sul letto. Danny. Ancora una volta era lì con e per lei. La bambina sorrise e tirò fuori la testa visto che il gatto miagolava in continuazione perché non la vedeva. Gli grattò la testa, le orecchie e il collo e più lo faceva, più le sue fusa di piacere aumentavano. Quella mattina, però, accadde qualcosa di diverso. Il micio non si sdraiò accanto ai suoi piedi, o fra le sue gambe, ma si mise accanto a lei, con la testina sul suo braccio e si allungò più che poté. Quando entrambi stavano per addormentarsi, Danny ebbe quello che sia Mac sia la mamma adoravano definire "schizzo", cioè un momento in cui faceva cose strane o comunque improvvise. Infatti, se un secondo prima sembrava si sarebbe lasciato trasportare nel sonno, il gatto prese la mano di Mackenzie e cominciò a morderla e a giocarci tirando fuori gli artigli. Non avendo imparato molto bene a giocare senza far male, usava tutta la sua forza. Mac ormai aveva imparato a rimanere immobile in quei momenti, così generalmente il gatto la lasciava andare quando si stancava. Infatti allentò la presa, ma apena lei cercò di togliere la mano lui la artigliò e lamorse nuovamente. Nonostante il dolore e i graffi che le stava lasciando, Mackenzie rise di gusto. Le piaceva giocare con lui. Quando la stretta di Danny diminuì, iniziò a muovere le dita per farlo divertire e lui faceva lo stesso con le zampe e gli artigli, seguendo il ritmo dei movimenti della piccola. Fu così che, dopo mezzora buona di coccole e giochi, il gatto si addormentò e il respiro calmo e regolare di Danny aiutò Mackenzie a prendere sonno.
 
 
 
Intanto, di sotto, Demi stava giocando con Hope. Le due erano uscite in giardino e la bambina stava correndo dietro a Batman, che non sapeva dove nascondersi perché lei non lo prendesse. Il brutto momento vissuto prima sembrava stato cancellato dalla sua mente.
"Non andare troppo veloce, cara, o ti farai male."
"Okay."
Puntualmente due secondi dopo la piccola cominciava a correre come una forsennata.
Demi la guardava e sorrideva e nel frattempo decise di chiamare la mamma.
"Pronto?"
"Ciao mamma."
"Oddio Demi, stai bene?"
"Io sì, ma Hope e Mackenzie non molto. Avevi ragione."
"Che è successo?"
Le raccontò di Hope e su Mackenzie spiegò:
"Non posso dirti molto perché ora dorme e non le ho ancora parlato, ma credo sia accaduto qualcosa a scuola, o forse succede da un po', non saprei."
"Pensi sia vittima di bullismo?"
Quella domanda così diretta la colpì. Dianna le leggeva nel pensiero, a volte.
"Lo sospetto, ma non so. Forse sto solo avendo una reazione esagerata, ma son opreoccupata. Le parlerò non appena si sveglierà."
Dall'altra parte ci furono alcuni secondi di silenzio, tanto che Demi controllò due volte che la linea non fosse caduta.
"Sai che probabilmente non vorrà parlare, vero?"
"Sì" sospirò la ragazza. “Ma voglio provare.”
"E in quel caso che farai?"
"Aspetterò qualche giorno e poi andrò a parlare con un insegnante. Forse lui o lei potrà fare più attenzione ai comportamenti della classe e mi avviserà di sicuro se accadrà qualcosa. Dio, mamma, perché anche a lei?” Le si formò un nodo in gola. Si schiarì la voce e poi riprese: “Ho sempre voluto il meglio per le mie bambine, perché Mac deve passare ciò che ho vissuto io?"
Stava per piangere, ma si tratteneva per non far agitare Hope che ora la stava guardando.
"Non è ancora detto, cara, anche se da come ne parli… Senti, cerca di stare tranquilla anche se è difficile, e vedremo ciò che succederà nei prossimi giorni d'accordo?"
"Va bene."
"Comunque sono arrivate la pagella e una foto di Hiasiline."
A quel punto Demi si illuminò.
"Davvero? E ha scritto qualcosa?"
"Sì, ora che guardo bene. C'è un bigliettino che dice:
Jambo jambo."
Entrambe sapevano che in lingua masai quelle parole significavano ciao ciao.
"Oh, che dolce!"
L'associazione aveva fatto loro sapere, anni prima, che se loro avessero mandato una lettera il bambino non avrebbe dato una risposta personale, ma scritto gli auguri di Natale o alcune cose che il maestro o la maestra dettava, che poi sarebbero state tradotte in inglese. Probabilmente, però, quella volta Hiasiline aveva voluto fare un'eccezione.
"È anche migliorata un sacco a scuola!" Le lesse la pagella. "È brava, non credi?"
"Avendo sette fratellini più piccoli e dovendo aiutare i genitori oltre ad andare a scuola, direi proprio di sì. Non vedo l’ora di guardare la foto! Sono molto fiera di lei."
"Anch'io; e poi sapere che la stiamo aiutando è bello. Insomma, so che non è la stessa cosa però… Demi, voi siete grandi, io purtroppo non ho più avuto figli ed ora è troppo tardi, e a volte mi manca essere madre. Ma avere due nipotine fantastiche da poter coccolare e con le quali giocare, e aiutare quella bambina che sento un po' anche mia mi consola, mi rende felice, mi fa sentire utile."
Mentre parlava Dianna sorrideva e nella sua voce c'erano una calma e una serenità che Demi, per un attimo, invidiò.
"Hai detto cose molto belle, mamma. Comunque anche noi abbiamo bisogno di te, anche se meno e in modo diverso."
“Lo so, amore. Stamattina quando ti ho scritto l'angoscia che provavo era così forte che ho quasi pensato di riprendere lo Xanax, ma ho resistito. Comunque è stato orribile."
"Immagino."
E forse non è ancora finita pensò la ragazza.
Poco dopo le due si salutarono con affetto e calore e Demi mise giù.
 
 
 
 
Ciò che non sapeva era che Mackenzie era scesa perché aveva sete, si era nascosta sotto il tavolo della cucina e aveva sentito le sue parole. Ora sapeva ciò che la preoccupava e sarebbe stata ancora più attenta a nascondere ogni cosa.
Uscì in giardino, tanto non aveva più sonno, e si avvicinò a lei.
"Ti sei svegliata!" esclamò Demi abbracciandola. "Come stai?"
Bene rispose in automatico.
"Andiamo, Mackenzie, so che c'è qualcosa che non va. Ti comporti in modo strano oggi ed è successo anche altre volte. Non dirmi che stai bene se non è così, per favore."
Ma è la verità! obiettò, sorridendo a trentadue denti.
Eppure, dietro quel sorriso Demi vide tanto dolore, una sofferenza così grande che si sentì stringere il cuore in una morsa. Doveva usare le parole con cautela, andare piano. Era una questione molto delicata.
"Mac, tu sei sempre stata sincera con me."
No, in realtà no pensò la piccola, ma non lo disse.
"Vorrei che lo fossi anche ora. Se è successo qualcosa di brutto puoi parlarmene. Puoi dirmi tutto, lo sai, anche la cosa che ti sembra più stupida o piccola!"
Io sto benone! continuò. Davvero, mamma.
La guardò, seria, per dare più enfasi a ciò che aveva appena detto.
"Perché non riesco a crederci?"
Mi spiace tu non abbia fiducia in me riprese la piccola, ferita da quelle parole.
Eppure, sapeva che la mamma aveva ragione. Voleva solo aiutarla, e se Mac da una parte bramava quell'aiuto, dall'altra lo rifiutava perché i bulli le facevano troppa paura. Dio, che confusione!
"Non ho detto questo" si affrettò ad aggiungere la donna. "Vorrei solo…"
Prese in braccio Hope che sorrise ad entrambe.
"Mamma e Mac Mac" disse indicando prima l'una e poi l'altra.
Per fortuna sembrava non accorgersi della tensione che si stava creando.
"Sì, brava." Demi le diede un bacio e poi proseguì: "Vorrei solo sapere come stai e se c'è qualcosa di cui ti piacerebbe parlare."
Desidererei che le persone la smettessero di chiedermi come sto, visto che ad alcuni - come a te, per esempio - interessa, ma per altri io potrei essere
Si interruppe appena in tempo. Stava per dire "morta". Era sicura che James si sarebbe sentito molto meglio se così fosse stato.
"Potresti essere cosa?"
Niente, niente. Fece un gesto con la mano per far capire che aveva appena detto una sciocchezza e poi riprese: Per favore, non domandarmi come mi sento perché te l’ho detto, sto bene, d'accordo?
"Sono tua madre e non ho nemmeno il diritto di domandarti come stai? Che cavolo, Mackenzie!" sbottò alzando molto la voce.
Aveva perso la pazienza, ma solo perché era preoccupata.
Pensala come vuoi, io torno in camera a riposare.
Detto questo Mac si chiuse a riccio e sparì. E Demi rimase lì, immobile, con Hope che rideva e giocava con i suoi capelli. Era più confusa di prima, non sapeva se essere preoccupata o credere a sua figlia. Era triste per come si era comportata e per non essere riuscita a scusarsi, perché avevano litigato, perché Mac non si apriva con lei, ma soprattutto - e questa era la cosa che le faceva più male - aveva tante domande in testa e nessuna risposta certa
 
 
 
credits:
Demi Lovato ft. Lil Wayne, Lonely
 
 
Demi Lovato, Sexy Dirty Love
 
 
 
NOTE:
1. ho letto in cinque giorni (giuro!) il libro di Dianna de La Garza, la mamma di Demi, dal titolo "Falling With Wings: A Mother’s Story”. Lo consiglio vivamente. L’ho scoperto qualche tempo fa e leggendolo ho capito meglio un sacco di cose. Ho quindi scoperto che sì, in effetti lei ha mandato via Patrick quando Demi aveva un anno e mezzo e non quando era più grande come invece io ho scritto in quella famosa scena. Comunque non cambierò quella parte. È vero, ho inventato ma a me piace così. È anche vero che Dianna ha sofferto di PTSD, di depressione e di dipendenza dallo Xanax, come ho scritto in questo capitolo e che è entrata nel 2011 alla Timberline Knolls. In passato, prima di restare incinta di Dallas, aveva anche fatto uso di alcol e di sostanze stupefacenti come Crack ed Eroina, ma di questo non ho voluto parlare perché, come non ho scritto che Demi ha avuto problemi con la Cocaina e, come ho saputo sempre dal libro, anche con l'alcol, ho deciso che per la storia non era importante sapere cosa Dianna aveva fatto. Inoltre sempre da "Falling With Wings: A Mother’s Story" ho saputo che anche Dallas era alcolizzata e si drogava, ma anche di questo non ho fatto menzione sempre per lo stesso motivo. Anche il fatto che Dianna non ha mai permesso alle sue figlie di tirarsi indietro senza provare e che Madison si è messa a piangere prima di quel provino è reale. Ad ogni modo, vorrei aggiungere, più che altro per darvi informazioni, che nel 2014 Demi è andata di nuovo in cura per problemi con l'alcol, nei quali è ricaduta (e anche questo lo so perché ho letto il libro). Secondo sua madre, ciò che le ha fatto capire che era necessario che guarisse è stato il fatto che Dianna le ha dato una sorta di ultimatum, dicendole che o si sarebbe lasciata aiutare, oppure lei sarebbe tornata in Texas con Madison perché non voleva che vedesse tutto questo, e ha ricordato a Demi che aveva una sorellina e doveva essere responsabile. Pare che ciò, e l'affetto che la ragazza prova per Maddie, le abbia dato la forza di reagire.
2. La scena di Dianna che trova Demi con quel fazzoletto è presa dal libro, ma ci tengo a precisare che non ho ricopiato parola per parola, bensì ho raccontato l'accaduto usando le mie parole. Inoltre, Dianna nel suo lungo racconto ha spiegato che lei aveva scoperto da tanto che Demi era autolesionista, e quel giorno in cui l'ha trovata con quel fazzoletto stava per portarla sul set di "Sonny With a Chance", ma dopo una riunione familiare nella quale le aveva detto di smettere e dopo che l'aveva fatta parlare, se non ho capito male, con uno psicologo, lei aveva smesso di tagliarsi per poi riprendere. Io invece, dato che avevo scritto che solo Andrew sapeva, ho inventato e detto che la mamma aveva scoperto Demi in quello stato poco dopo che era uscita dalla clinica.
3. Gli episodi di bullismo di Mackenzie sono accaduti anche a me, con la differenza che il bambino che mi ha tirato i capelli mi ha anche rubato la merenda e un altro giorno, siccome avevo chiamato un mio compagno con il quale mi piaceva stare, mi ha morso un braccio facendomi uscire sangue. Allora ero all'asilo, comunque, ma ero terrorizzata, anche se è stato alle elementari che è iniziato il peggio. La domanda "Sta pregando?" invece è stata fatta da una mia compagna del liceo quando stavo male e avevo intrecciato le dita come Mac. Quando lei nella sua introspezione dice di avere un problema, attenzione: la bambina pensa di averlo perché è muta, ma non si rende conto che in realtà il vero problema è di coloro che la offendono. Lei si sente diversa perché sono gli altri a farla stare così. Parlando sempre di scene di bullismo, ho scelto di cambiare alcune cose. In breve, avevo scritto diversi capitoli che trattavano questo tema e Mac avrebbe parlato di quanto accaduto solo molti mesi dopo, a settembre dell'anno successivo. C'erano scene pesanti, drammatiche, che ho deciso di togliere su consiglio di una mia amica. Non è che fossero troppo spinte o esagerate, solo che allungavano il brodo e basta, e poi una bambina che ha perso igenitori a causa di un pazzo e che soffre già così tanto non avrebbe retto il bullismo per molto tempo. Per cui, ho eliminato una trentina di pagine, un taglio abbastanza grosso quindi, cinque capitoli. Nel prossimo ci saranno ancora atti di bullismo, e anche in seguito, ma la cosa no durerà ancora per molto per fortuna. Ringrazio la mia amica Emma per avermi aiutata e dato dei validi suggerimenti a riguardo e anche per quanto concerne l’adozione a distanza.
4. Demi è davvero stata in Kenya, ma nel 2017 e non nel 2014. Ho visto un video su Youtube e ho deciso di inserire questa cosa. Ciò che ho scrittotramite i ricordi di Dianna su come Demetria si è sentita è vero, l'ha spiegato lei nel video. Anche qui ovviamente ho usato parole mie. La questione dell'adozione a distanza è inventata.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
e dopo venti giorni, eccomi tornata con un nuovo, lungo capitolo. Sinceramente non credevo sarebbe venuto di così tante pagine, ma okay. :)
Comunque, innanzitutto scusatemi per la lunghezza delle note ma dovevo spiegarmi bene, spero non vi abbiano annoiato troppo.
Come faccio sempre nei capitoli particolarmente importanti, ho inserito parecchie citazioni all’inizio, anche se non molto lunghe. Vi sono piaciute?
Poi, il prossimo capitolo concernerà tre settimane di alti e bassi, e in quello successivo ci sarà... ma non ve lo dico XD comunque una cosa bella, tranquille!
Non contando questo, tra circa una decina di capitoli potrò iniziare a fare il conto alla rovescia perché sì, alla fine mancano una ventina di capitoli, ragazze! Alcuni li ho già scritti e devo solo ricontrollarli, altri invece li scriverò.
Vi è piaciuto il fatto che abbia inserito dei POV di Dianna? Volevo darle un po’ più di importanza e di spazio.
E su Mackenzie cosa pensate? E su Hope?
Andrew vi è mancato? Lo vedrete nel prossimo capitolo!
E niente, ho fatto fatica a scriverlo anche perché ho avuto notizie non tanto negative ma nemmeno confortanti, e la cosa mi ha buttata giù tantissimo. Poi con il lavoro, ci metto più tempo perché il pomeriggio sono stanchissima.
 
Stasera vado a Bologna al concerto di Demiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!! Se dopo sarò ancora capace di intendere e di volere continuerò la storia XD. Scherzo, certo che la continuerò!
Grazie come sempre per tutte le recensioni, i consigli, il sostegno che mi date. Siete importantissime, anche voi lettrici silenziose.
Ci vediamo presto, al massimo tra tre settimane spero, lavoro, depressione e casini permettendo.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato / Vai alla pagina dell'autore: crazy lion