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Autore: honeysuckle    09/07/2018    0 recensioni
«Allora, te lo spiego in breve. La Cava è come un'arena da combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero tante persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere, ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi qualche copia gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli altri scrittori [...] Nella Cava non ci sono regole. Non è una libreria abusiva né un teatro. La Cava è un trampolino di lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto piacevole che molto spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi mettere tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio questa: coloro che sono più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione copie dei loro lavori sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati che non sono capaci di scrivere due parole di fila non durano niente qui [...]»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ore 23.59

 

 

 

L’aria era irrespirabile.

Sentiva la gola bruciare. Un fuoco mostruoso, secco e devastante gli stava mangiando la carne dall’interno, raschiandola con le sue unghie laceranti e incorporee. Deglutì un paio di volte, cercando di scacciare la dolorosa sensazione di ruvidità, ma non aveva più saliva. Sentì un disperato bisogno di tossire crescere dentro la sua gabbia toracica ma non poteva, oh no, non poteva assolutamente. Non lì. In qualsiasi altro posto si, ma lì no.

 Nemmeno morto.

Faceva una fatica tremenda a respirare.

Non aveva più alcuna difesa. Sentiva le vie respiratorie asciutte quanto la gola. Si sforzò di inspirare ed espirare rapidamente, cercando, con la disperazione che gli stringeva il petto, di impedire al fumo di penetrare all’interno dei polmoni e soffocarlo.

Gli girava la testa.

L’ambiente era insopportabilmente buio, gli occhi gli prudevano con una ferocia tremenda. Tutto quel fumo secco, denso e appiccicoso gli dava la nausea. Era tutto troppo stretto, troppo chiuso, orribilmente opprimente.

Sentì la paura di svenire farsi strada nella sua mente.

Mio dio no, non adesso.

Non riusciva a vedere la schiena di Jay. Da quella nebbia spettrale sbucava solamente la sua mano, i cui contorni risaltavano incredibilmente nitidi contro il bianco nauseante che li circondava, che stringeva debolmente l’indice e il medio della sua mano sinistra. Stava cercando di concentrare tutta la sua attenzione su quel lieve contatto, tenendo lo sguardo fisso sulle sue dita, cercando con tutta la buona volontà rimastagli di non farle scivolare via.

Non era nemmeno sicuro di dove stessero andando, né tantomeno gli importava. Voleva uscire da lì più di ogni altra cosa al mondo. Si faceva trascinare passivamente, la testa annebbiata dalla mancanza di ossigeno. Stava trattenendo il respiro, non se n’era nemmeno accorto. Interruppe bruscamente l’apnea e prese una lunga boccata d’aria. Il fumo arido e disgustoso si espanse dolorosamente all’interno dei suoi polmoni. Sentì gli occhi inumidirsi nello sforzo di trattenere la tosse. Si passò una mano fra i capelli, tirandoli lievemente, cercando di mantenere la calma.

Vedeva le sagome nebulose delle altre persone, nere contro il candore dell’aria, che gli passavano accanto rapidamente. Procedevano molto più veloci di lui. E sentiva le loro voci, che parlavano e ridevano tutte insieme, rimbombare pesantemente nelle sue orecchie. Percepì un dolore acuto bucargli le tempie come uno spillo e diramarsi in tutto il cranio come una scossa.

Una ragazza sbatté inavvertitamente contro la sua spalla, costringendolo a fermarsi per un secondo. Il suo cuore accelerò improvvisamente la sua corsa nel momento in cui si rese conto di aver perso la mano di Jay. Le sue dita scivolose, rese ancora più deboli dalla confusione crescente e inesorabile, avevano lasciato la presa senza il suo consenso.

Il panico lo assalì rapidamente, morboso e schiacciante, diffondendosi nel suo petto come una nube tossica e mozzandogli il respiro. Lo stomaco si contrasse violentemente, provocandogli una nausea terribile. Incrociò le braccia sopra la pancia, cercando di schermirsi il più possibile dalle figure intorno a sé, e provò a fare un passo in avanti. Fu rispedito indietro da una spallata. Qualcuno gli pestò un piede. Voltò la testa a destra e a sinistra, senza pensarci, cercando qualcosa – qualcuno di familiare, mentre la sensazione di terrore serpeggiava, sottile e paralizzante, intorno al suo cuore impazzito.

Dio santo calmati non è successo niente non è niente smettila ce la puoi fare.

Sentiva i corpi delle altre persone orrendamente vicini. Sentiva il calore sporco e fastidioso che emanavano, sentiva braccia e fianchi e pance strofinarsi contro di lui e, Gesù santissimo, stava per morire soffocato, lo sapeva, ne era sicuro, l’apnea era l’unica cosa a cui si stava aggrappando, a cui poteva ancora aggrapparsi.

Non poteva respirare, non ci riusciva. L’odore della massa brulicante si mischiava a quello stagnante e pungente delle sigarette e dei bong. Decine di bocche stavano sputando nell’aria fiotti di fumo ripugnante e impalpabile, che arrivava al soffitto e tornava indietro, come una bestia confusa, espandendosi nei gazebo senza alcuna possibilità di fuga.

I suoi occhi pizzicavano, tentando inutilmente di salvare i suoi condotti lacrimali dalla disidratazione totale. La sua gola era così stretta che non riusciva più a deglutire, e la teneva serrata nel tentativo di trattenere la tosse che minacciava di uscire da un momento all’altro.

All’improvviso, in maniera talmente inaspettata che a malapena riuscì a realizzarlo, la faccia di Jay bucò la superficie di quella nauseante foschia , bianca come il gesso, decisamente infastidita. I suoi capelli rossi vi spiccavano in modo quasi violento. Per un unico, crudele momento credette di esserselo immaginato. Ma poi la faccia parlò e lui sentì un immediato sollievo diffondersi piacevolmente nel petto, come aria fresca, prendendo il posto del panico.

«Muoviti» disse solamente, a voce più alta del normale, cercando di sovrastare il rumore, prima che Lane potesse aprire bocca. Gli prese la mano con aria impaziente e si voltò, accingendosi a procedere.

Ma gli scivolò via, e ricadde debolmente contro il fianco di Lane, che solo in quel momento si rese conto quanto fossero gelide le sue mani. Chiuse il pugno automaticamente, infastidito.

Jay lo guardò in silenzio per un attimo. Poi gli afferrò più saldamente il braccio, e riprese a trascinarlo dietro di sé come se nulla fosse.

Man mano che procedevano gli occhi di Lane, sempre meno asciutti, riuscivano a distinguere più chiaramente l’ambiente in cui stavano camminando con così tanta fretta.

Non vedeva più quel tappeto di persone così fitto che a malapena si distinguevano l’una dall’altra.

Si rese conto di essere all’interno del corridoio dell’ultimo gazebo nel momento in cui urtò per sbaglio una delle pesanti tende che li separavano l’uno dall’altro. Aveva tenuto per tutto il tempo la testa bassa per evitare di inciampare nelle buche del terreno e di incrociare gli sguardi degli altri.

Si era limitato a provare a non perdere Jay, che a sua volta seguiva Sam, che sgusciava via tra la folla come uno scoiattolo.

Il gazebo erano stati messi l’uno di seguito all’altro per formare una sequenza continua, un’area riservata e discreta. Tuttavia ogni gazebo costituiva una stanza a sé, separato dagli altri da una parete di spesse tende logore. Era la cosa più vicina ad un edificio che ci fosse nella Cava.

Ogni gazebo è assegnato ad uno scrittore diverso.

«Siamo quasi arrivati» sentì dire a Jay, e la presa intorno al suo polso si fece leggermente più stretta.

Inciampò un paio di volte nelle pieghe dei tappeti che ricoprivano alla bell’e meglio quel che c’era da coprire, senza distinzioni tra sassi o fossi, mentre Jay continuava a trascinarlo, imperterrito, come se non si accorgesse di nulla. Aveva ripreso a fare piccoli respiri veloci, ma gli sembrava di inalare cenere ardente.

Improvvisamente si fermarono. Lane vide a malapena una tenda scostarsi bruscamente a un metro da lui. Un rettangolo di piacevole luce dorata si spalancò davanti a loro, e un secondo dopo cominciò a sentirsi decisamente meglio.

Batté le palpebre un paio di volte. Provò un sollievo molto simile alla gratitudine nel sentire che gli occhi si stavano idratando di nuovo: aveva una sincera paura che le lenti gli rimanessero incollate agli iridi. La penombra e tutto quel bianco opprimente avevano alterato le sue percezioni, e la luce improvvisa, così calda e gialla, gli aveva procurato una fitta acuta alla testa.

Inspirò a fondo, sinceramente contento di avere tutta quella benedetta aria pulita intorno a sé. Lo stimolo incontrollabile di tossire era scomparso, così come la costante e paralizzante sensazione di oppressione.

Jay lo aveva lasciato. Si stava accendendo una sigaretta. Istintivamente si allontanò di un passo da lui.

Credeva che la schiera dei gazebo fosse finita, e invece no. Ad un paio di metri da quel corridoio infernale, illuminata da una quantità notevole di lanterne e tremolanti candele di cera bianca, si ergeva una struttura di ferro di modeste dimensioni, ricoperta – letteralmente ricoperta, pensò Lane – da un considerevole numero di tendaggi color melanzana. Tuttavia l’intero insieme era assolutamente differente da ciò che si erano lasciati alle spalle solo qualche secondo prima. La prima cosa che saltava agli occhi, infatti, era la totale scissione che esisteva tra quel gazebo e gli altri gazebo: erano come due mondi separati, completamente dissociati l’uno dall’altro.

Lane si concesse qualche altro secondo per osservarlo.

Le tende e i drappi erano sottili, leggeri e svolazzanti, sistemati intorno ai senza un ordine o uno scopo preciso al di fuori di quello decorativo.  

Non esistevano pareti. Poteva udire distintamente un animato chiacchiericcio provenire dall’interno, tuttavia quasi musicale, attutito e piacevole. Il pavimento era ricoperto da uno spesso tappeto verde, di estensione maggiore rispetto al gazebo, di un colore più scuro rispetto a quello delle fragili piantine che crescevano sul suolo della Cava, e vi si distinguevano chiaramente gli schizzi di cera pallida lasciati dalle candele.

Fece a malapena in tempo a notare i contorni sfumati delle sagome delle persone che si muovevano debolmente dietro il tessuto semitrasparente, quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e stringerla piano.

«Cosa c’è? Non vai? »

Gli arrivò subito alle narici l’odore sgradevole della sigaretta. Il naso gli  bruciò di nuovo. Girò la testa dall’altra parte.

«No» rispose, irritato «aspetto Sam».

Sentì le sue dita, tiepide e lisce, scivolare delicatamente sul mento, costringendolo con una leggera pressione a voltare il viso verso di lui. Non oppose resistenza e chiuse gli occhi, perché non lo toccava mai in quel modo.

La mano di Jay scese lungo il suo collo, sfiorandolo lievemente. L’odore era perfino più forte ora, ma non gli importava. Sapeva che lo stava guardando, le punte delle sue dita continuavano a muoversi lentamente, ritmicamente, su e giù lungo la sua pelle. Sentì la tensione scivolare via piano dal suo corpo.

«Te la sei cavata bene» sussurrò. Era più vicino di quanto non credesse.

Lane sbuffò piano e aprì gli occhi. Guardò per un secondo i suoi iridi castani, scintillanti alla luce delle deboli fiammelle, prima di voltare di nuovo la testa per osservare la bizzarra struttura nella sua interezza.

«Non tanto» sbuffò, chiudendo il pugno. Strinse le dita contro il palmo, per tentare di riscaldare almeno un po’ le mani, ancora umide per l’ansia di poco prima.

«Meglio del solito» ribatté Jay, abbandonando improvvisamente il contatto. Il suo sguardò guizzò su qualcosa alle spalle di Lane.

«Sbrigati»  gli disse semplicemente, prima di iniziare a camminare verso l’entrata, dalla quale Sam li stava vigorosamente invitando a raggiungerla.

 

 

*

 

 

Entrò subito dopo Jay, con lo sguardo fisso per terra. Aveva esaminato con eccessiva e insistente concentrazione il tappeto sin dal primo istante, e aveva continuato a contare le numerose e irregolari macchie scure che si allargavano sul tessuto verde finché non aveva rischiato di andare a sbattere contro la schiena di Jay, che si era fermato improvvisamente al centro del gazebo.

Lanciò una rapida occhiata oltre la sua spalla.

Vide due persone, due ragazze, nella porzione di spazio che l’angolazione nella quale si trovava gli permetteva di vedere. Una stava seduta su una poltrona di vimini marrone, con le gambe raccolte sotto il mento e i piedi poggiati sul cuscino consunto:  in una mano teneva una sigaretta ancora spenta, nell’altra il cellulare, e aveva un’aria così assorta che nemmeno alzò lo sguardo per guardare Sam, che nel frattempo aveva cominciato il giro di saluti. L’altra era seduta in modo scomposto su un divano viola scuro dall’aria lurida e terribilmente vecchia, con le gambe distese davanti a sé e un gran sorriso stampato in faccia. Un secondo dopo Sam comparve da dietro il collo di Jay e si chinò per darle un bacio.

Nessuna delle due era lei.

Le mani, che fino a quel momento gli avevano concesso una confortevole tregua, diventarono improvvisamente fredde. Prese a strofinarle piano fra loro, nel pallido tentativo di riattivare la circolazione, mentre il suo stomaco si ripiegava fastidiosamente su se stesso.

L’imminenza era insopportabile. La tensione era insopportabile.

Ma l’attesa, quella lo stava mangiando vivo.

Si passò una mano fra i capelli, prese un bel respiro e fece un piccolo passo di lato.

Nella porzione di gazebo che gli era rimasta nascosta fino a quel momento Lane vide un’altra poltrona, identica alla prima, sulla quale era seduto un ragazzo, e il lato sinistro del divano, occupato da una ragazza.

E il suo cuore impazzì definitivamente, perché era lei.

A qualche metro da lui, seduta con le gambe distese sui cuscini e la schiena appoggiata al bracciolo, con lo sguardo puntato su Sam, che le stava dicendo qualcosa a cui lui non prestò la minima attenzione, e una sigaretta sospesa a pochi centimetri dalle labbra rosse, sulle quali aleggiava un sorriso appena accennato, c’era lei.

Notò subito che era bassa. Le sue gambe non arrivavano a toccare e cosce dell’altra ragazza e le sue braccia pallide, che sbucavano dalle maniche troppo larghe della maglietta, erano spaventosamente magre.

Percepì un’ondata di doloroso calore avvolgergli la pancia, soffocando senza pietà l’ultima briciola di lucidità che ancora gli rimaneva. Tornò rapidamente a nascondersi dietro la schiena di Jay, con la gola che pulsava per l’agitazione. Continuò a sfregarsi nervosamente le mani una contro l’altra, senza successo.

Improvvisamente Jay fece un passo in avanti, tendendole la mano in un gesto di disinvolta cordialità, e Lane rimase completamente scoperto.

Trattenne il respiro, cercando di stroncare sul nascere il lampo di confuso terrore che era sicuro fosse ben visibile nei suoi occhi.

Vide distintamente lo sguardo del ragazzo alla sua sinistra posarsi su di lui e squadrarlo apertamente. Istintivamente inchiodò lo sguardo sulla nuca di Jay, sfregò impercettibilmente le mani sui pantaloni e attese che quel momento terribile scivolasse via, per lasciare il posto a ciò che fino ad un paio d’ore prima non aveva nemmeno osato ritenere possibile.

Ma non era più tanto sicuro di potercela fare.

Jay si spostò, scivolando rapidamente verso la ragazza che sedeva dall’altra parte del divano, e fece scoppiare la bolla di angoscia e indugio nella quale Lane aveva tentato di rannicchiarsi fino a quel momento.

Avanzò di un passo verso di lei.

I suoi enormi occhi azzurri rilucevano debolmente nella penombra, illuminati solo dalle fiamme tremolanti delle candele, e lo stavano fissando in maniera così intensa che dovette fare uno sforzo immenso per non cedere all’imbarazzo e distogliere immediatamente lo sguardo.

Sentiva la faccia bruciare.

Pensò, molto banalmente, che fosse davvero come nelle foto.

Anzi, sembrava che le foto non bastassero, non bastassero affatto a contenere tutto ciò che lei era.

C’era troppo, davvero troppo su cui soffermarsi e lui non aveva nemmeno la forza di osservarla apertamente per tre maledetti secondi.

Non poteva credere a ciò che gli stava davanti agli occhi. Non riusciva a concepire, nella sua mente da creatura ansiosamente ordinaria, il fatto di non aver preso in considerazione la valanga di cose che gli stava piombando addosso in quel momento, sommergendolo, soffocandolo, riempiendolo con una violenza spaventosa.

Non aveva più spazio, non c’era più spazio per i pensieri, non c’era più spazio per un cazzo, era stato tutto risucchiato, cancellato, brutalmente sostituito.

Esisteva un prima ed esisteva un dopo. Esisteva un modo in cui aveva inteso la vita prima, e il modo in cui, in quel momento, nella sua maldestra postura, davanti a quel divano poeticamente rovinato, sorpreso, confuso, disperatamente impacciato, aveva capito cosa la vita voleva da lui.

O almeno, ciò che non riusciva proprio a pensare di smettere di fare, era lasciarsi ingoiare dallo stato di entusiastica, turbolenta estasi nella quale era cascato, come un sasso nell’acqua, totalmente e incondizionatamente.

Notò che portava la frangia, che ruotava graziosamente il collo in piccoli gesti nervosi in modo tale da abbracciare con lo sguardo tutto il cerchio di persone, e che sopra di lei, proprio sopra la sua incredibile, bellissima testa, stava un bel riflettore.

Un riflettore che illuminava la sua figura come se lei fosse stata il sole e tutti gli altri, immersi in una cupa e densa ombra, stelle morte da milioni di anni.

I dettagli che coglieva erano come tanti pezzi di un unico, perfetto puzzle.

Le sue labbra, rese lucide e scure dal rossetto, si schiusero in un sorriso abbagliante. Ruotò il busto verso di lui, incrociò le gambe, spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e infine gliela tese.

«Ciao, sono Zoey, piacere» disse solamente.

Lane la strinse lievemente.

Mormorò un rauco e brevissimo “Lane” e ritirò frettolosamente la mano, ma i suoi occhi indugiarono su di lei ancora per qualche secondo. La osservò mentre aspirava una lunga boccata dalla sigaretta: l’ombra del sorriso di poco prima le aleggiava ancora sul viso, e non scomparve nemmeno quando soffiò via una sottile linea di fumo in direzione del suo petto.

Fu in quel momento che lo sguardo sfuggì al suo controllo e saettò via, per posarsi sulla figura di Jay, che lo fissava con le mani affondate nelle tasche, impassibile. Era in piedi affianco a Sam, che stava chiacchierando animatamente con le sue amiche, seduta sul bracciolo della poltrona di vimini.

Distolse lo sguardo e lo puntò a terra, avviandosi a testa bassa verso di lui. Quando lo raggiunse fece per superarlo, ma il ragazzo si spostò all’ultimo e lo urtò lievemente con la spalla, costringendolo a fermarsi.

«Ti sei accorto» sussurrò in maniera quasi impercettibile, scimmiottando le parole che lui stesso gli aveva rivolto poco prima «che non ha smesso un secondo di fissarti, vero?»

Lane percepì distintamente il suo cuore fare un salto nel petto e tremare dentro la gabbia toracica, tuttavia alzò le spalle e si passò una mano fra i capelli.

«Non significa niente» mormorò in risposta, lanciando una breve occhiata alla sua sinistra. Lei aveva le gambe strette contro il corpo e stava ascoltando con enorme interesse ciò che stava dicendo Sam, con gli occhi azzurri spalancati e le labbra distese in un sorriso distratto, appena accennato. I capelli liscissimi ondeggiavano lievemente ad ogni suo movimento.

Era ipnotica.

All’improvviso si chinò lievemente, allungando il braccio per prendere il posacenere, e il suo sguardo cadde su di lui. Lane fece in tempo a vedere i suoi occhi spostarsi dalla figura di Sam e inchiodarsi nei suoi, solo per un secondo, prima di interrompere bruscamente quel contatto, esattamente come aveva fatto qualche minuto prima, per fissare nuovamente il viso dell’amico, sul quale era stampato un mezzo sorriso canzonatorio.

 «Si infatti» disse Jay a bassa voce, alzando le sopracciglia «probabilmente si è accorta di quanto tu sia strano e socialmente incapace».

Lane alzò gli occhi al cielo e fece per ribattere, quando all’improvviso una voce chiara vibrò nell’aria, sovrastando tutte le altre.

«Ragazzi, qualcuno può portare delle sedie per Sam e gli altri?»

Era stata lei a parlare, ovviamente. Nessuno stava badando a loro, nemmeno Sam, che per la sorpresa si era alzata di scatto dal suo posto scomodo e improvvisato.

«Ci penso io» rispose il ragazzo che sedeva nell’altra poltrona di vimini. Lane lo guardò alzarsi e scomparire rapidamente dietro le tende leggere, che oscillavano debolmente, mosse dal vento. Portava una disordinata coda di cavallo e la barba lunga, ma era vestito in maniera tutt’altro che trasandata, come se quello non fosse il suo ambiente abituale e avesse necessità di fare una buona impressione.

Tornò qualche secondo dopo con un pesante tappeto arrotolato sulle spalle.

«C’era solo questo» disse, poggiando il suo carico a terra. Poi guardò per un secondo Lane, alzando le sopracciglia con aria irritata, e cominciò a srotolare in silenzio il misero sostituto delle sedie.

«Grazie Darren» disse lei, sorridendo nella sua direzione. Poi fece loro cenno di accomodarsi.

Jay, che era rimasto immobile per tutto il tempo con le braccia magre incrociate sul petto, fu il primo a muoversi. Rivolse un gran sorriso a Darren, uno dei suoi soliti sorrisi, si lasciò cadere sul tappeto e distese le gambe. Poi tirò fuori dalla tasca la carta argentata, le cartine e tutto il resto.

Lane voleva morire. Non aveva nessuna intenzione di stare seduto là, di fronte a lei, mentre Jay stava facendo di tutto per attirare l’attenzione. Infatti, nel momento stesso in cui il suo minuscolo pacchetto aveva mandato un debole bagliore alla luce delle lanterne, cinque paia di occhi si erano posati simultaneamente su di lui, e adesso erano in attesa.

Ma non poteva nemmeno restare in piedi come un idiota. Così si avviò nella direzione di quel triste spettacolo e si sedette affianco all’amico, incrociando le gambe, e cominciò a fissare insistentemente la superficie di quel tappeto polveroso e logoro, che era macchiata di cera esattamente come il resto del gazebo. Qualche secondo dopo Sam prese posto accanto a lui.

Vedeva con la coda dell’occhio le mani di Jay muoversi in modo rapido e fluido, con gesti esperti e sicuri. Sul gruppetto era calato un silenzio tombale. Quasi senza accorgersene, cominciò a grattare via con le unghie una goccia di cera incrostata.

Fu solo quando il ragazzo ebbe finito di fare ciò che stava facendo che la tensione nell’aria si smorzò con una rapidità quasi sorprendente. Nel momento in cui strinse tra le labbra la sua opera e l’accese, nessuno lo stava più guardando.

Lane invece rimase ad osservarlo accigliato mentre aspirava il primo tiro, vide le sue spalle irrigidirsi lievemente e rilassarsi subito dopo, i muscoli delle guance tendersi in modo impercettibile.

Soffiò via lentamente una nube di fumo denso e chiaro, poi si sporse leggermente in avanti e allungò due dita verso di lei, porgendole ciò che in quel momento rappresentava a tutti gli effetti un regalo, senza degnare Darren di uno sguardo.

Lane teneva gli occhi puntati sulla canna, sospesa a mezz’aria nello spazio che li separava, stretta nella mano bianca di Jay, con la punta già nera e i lati lucidi di saliva. Un secondo dopo lei allungò le gambe davanti a sé e avvicinò il busto il tanto che bastava per permetterle di prendere ciò che voleva.

La incastrò fra le labbra e la brace brillò debolmente nella penombra.

A quanto pare è stato un colpo di genio, si ritrovò a pensare, mentre l’ostilità sorda che sentiva verso Jay scivolava via dal suo corpo con la rapidità con cui era venuta.

Lei raddrizzò la schiena e si appoggiò di nuovo al cuscino del divano, accavallando le gambe. Fece un paio di tiri, senza staccare gli occhi da Jay, poi la passò distrattamente alla ragazza alla sua sinistra, che la afferrò immediatamente con l’indice e il pollice.

«Sam» disse all’improvviso «come mai ci hai portato facce nuove oggi?»

La ragazza, che fino ad un istante prima stava fissando il sottile oggetto passare sgraziatamente da una mano all’altra, si riscosse dall’annoiato torpore nel quale era sprofondata e la guardò con i suoi grandi occhi scuri.

«Sono amici, li ho incontrati poco fa» disse, alzando pacificamente le spalle.

Lane ormai stava giocherellando apertamente con un pezzo di cera grande quanto una moneta, staccato dal tappeto, e ascoltava. Perché era sicuro che prima o poi le parole che temeva di più sarebbero uscite dalla bocca della ragazza, e il panico gli avrebbe finalmente dato il colpo di grazia, schiacciandolo a terra come un insetto.

Si accorse di stare trattenendo il respiro, di nuovo.

«Venite spesso?»

Lane alzò lo sguardo, sorpreso. Lei si aspettava una risposta da lui, era chiaro, ma fu Jay a parlare.

Un’altra fitta di tiepida gratitudine lo pervase.

«No in realtà» disse «io solo ogni tanto, per Lane è la prima volta»

Eccolo, il momento. Stava arrivando, lo sentiva, ormai correva furiosamente verso di lui come un treno e lui non poteva evitarlo, perché era legato ai binari.

Lei alzò le sopracciglia con aria interrogativa.

«Come mai solo oggi?» chiese, fissando apertamente Lane.  Aveva incrociato le gambe e si teneva le caviglie con le mani, tamburellando distrattamente con le unghie sul tessuto dei jeans.

A quel punto accadde.

Sam sorrise brevemente e gli lanciò una rapida occhiata.

«Lane scrive» disse, sinceramente contenta di quella domanda. Poi fece il tiro che le spettava e gli porse il mozzicone, ormai morente.

Lane pensò che in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per scambiare la sua esistenza con quella dell’inutile, puzzolente mozzicone, che per sua fortuna stava per abbandonare per sempre questo mondo. Nel momento in cui l’ultima sillaba uscì gioiosamente dalle labbra della ragazza si sentì invadere dal panico. Le mani ricominciarono a sudare. Strinse i pugni, cercando di mascherare il più possibile l’imbarazzo.

Per piacere, per piacere non adesso.

«Non posso» rispose atono, facendo un breve cenno con il capo in direzione della canna «devo guidare»

Jay alzò gli occhi al cielo. Poi si riprese ciò che era suo, ficcandoselo rapidamente fra le labbra.

«E cosa scrivi?»

La ragazza si stava sporgendo verso di lui, sinceramente interessata. Si sosteneva il mento con il pugno chiuso, il gomito appoggiato sulle ginocchia. Le sue sopracciglia ormai erano sparite sotto la frangia, ma i suoi occhi erano spalancati e lo stavano ingoiando intero.

Un serpente – il pensiero lo colpì in testa come una pietra – un sottile, silenzioso mexican black che sa di poterti mangiare, perché tu, stupido topo, non tenterai mai di mangiare lui.

Deglutì impercettibilmente.

«Niente di serio» disse piano, maledicendosi per il suono fastidiosamente rauco della sua voce.

«Ad esempio?» insisté lei, passandosi una mano fra i capelli scuri e scompigliandoli con grazia.

«Racconti, perlopiù» borbottò lui, mentre il suo autocontrollo scivolava via lentamente «nessun genere preciso»

Calò il silenzio per un paio di secondi, rotto solo dal rumore delle dita di Jay, che stavano facendo pigramente a pezzi una cartina.

Hyena lo stava fissando, ancora, in attesa. Non era soddisfatta.

«Ma» aggiunse Lane, appiattendosi nervosamente i capelli con la mano «non sono venuto qui per questo»

«E come mai sei venuto allora?»

Aveva inclinato lievemente la testa di lato e stava facendo scorrere distrattamente le unghie sulla nuca. Il volto era serio, concentrato.

«Solamente per guardare» mormorò lui, abbassando di nuovo la testa sul suo scivoloso pezzetto di cera.

Non vedeva l’ora che quella conversazione terminasse.

Mangiami e basta.

«Allora ti lascio una cosa» disse lei, e senza aspettare una risposta si alzò in piedi e fece rapidamente il giro del divano, per poi sparire dietro le tende fluttuanti.

Si accorse solo in quel momento che Jay lo stava osservando, impassibile. Gli lanciò un’occhiata di sbieco, ma prima che potesse dirgli qualsiasi cosa un leggero rumore di passi annunciò il ritorno della ragazza.

«Tieni» disse, porgendogli un sottile blocco di fogli di un bianco abbagliante, tenuti insieme da una morbida rilegatura di plastica.

Lane sentì il respiro mozzarglisi nel petto.

Si alzò in piedi e allungò il braccio per afferrarlo, facendo attenzione a non toccare la sua mano.

Nel primo foglio c’erano soltanto due parole.

La prima era il suo nome, nero su bianco, quello con cui si era fatta conoscere, quello che ormai tutti consideravano una sua proprietà.

La seconda era il titolo.

Nessuno si ricorda del re dei topi.

Quel fascicolo non era mai stato aperto.

Anche Jay si era alzato in piedi, e stava fissando con vaga curiosità l’oggetto che il suo amico non riusciva a smettere di fissare.

«È una raccolta» disse lei, tirando fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei jeans «ma è molto breve. Oggi non faccio nulla di che, devo solo distribuire la roba nuova».

La noncuranza con cui pronunciò quelle parole lo stupì, ma non disse nulla.

La ragazza guardò l’orologio con le sopracciglia aggrottate.

«Tra poco verranno a prenderle. Ho scritto su facebook  di passare all’una per chi fosse interessato, se vi va di rimanere…» disse, ed ebbe l’accortezza di girare la faccia per non soffiare il fumo in faccia a Lane.

In effetti, era molto vicina. Era davvero molto vicina e lui non se n’era minimamente accorto, completamente assorbito dalla contemplazione del nuovo tesoro che stringeva fra le mani.

Ma adesso se n’era accorto, si, e la stava guardando come un idiota mentre si sistemava i capelli da una parte e sbatteva delicatamente il dito sulla sigaretta per far cadere la cenere.

«No grazie» rispose frettolosamente Jay «oggi proprio non fa, però torniamo sabato prossimo se fai un reading. Vero Lane?» aggiunse, colpendolo di nascosto con il gomito.

«Certo» biascicò il ragazzo, riscuotendosi bruscamente dalle sue riflessioni.

«Va bene allora» disse lei, facendo indugiare lo sguardo un’ultima volta su di lui. Aveva ancora quello strano mezzo sorriso sulle labbra, non abbastanza sincero da farti sentire al sicuro ma abbastanza dolce da farti desiderare di vederlo sempre comparire sul suo viso, per te.

«È stato un piacere» aggiunse poi, alzando brevemente una mano nella loro direzione.

«Anche per noi» disse Jay, afferrando Lane per la spalla e spingendolo lievemente verso l’uscita del gazebo.

«Ciao» mormorò Lane, rauco. La vide fare un cenno di saluto con il capo, e poté giurare di aver visto qualcosa che prima non c’era nascere e morire nei suoi occhi, con la stessa rapidità di un lampo, prima che la sua snella figura sparisse definitivamente dalla sua vista.

 

 

*

 

 

«Allora» disse Jay, mettendosi a cavalcioni sul motorino, strascicando i piedi per disincastrarlo dal terreno irregolare «sei soddisfatto?»

Lane sbuffò, affondando le mani nelle tasche.

«Dammi le chiavi» disse, in un tono che lasciava trasparire la sua irritazione. Jay sorrise brevemente.

«Non c’è bisogno» rispose.

Lane lo fulminò con lo sguardo. Il plico era ancora stretto nella mano sinistra, premuto contro il suo fianco.

Gli tese la destra in silenzio.

Jay sbuffò di rimando, frugò per qualche secondo nella tasca della giacca e ne estrasse uno scarno mazzo tintinnante. Gliele lanciò senza una parola.

Lane le prese al volo e sospirò piano.

«È stato davvero imbarazzante» mormorò, mentre Jay scivolava all’indietro, puntellandosi con le ginocchia, lasciandogli lo spazio per sedersi.

Il ragazzo alzò le spalle e gli passò il casco.

«Non è andata tanto male, tutto sommato» disse, infilando a sua volta il suo e allacciando la cinghia sotto il mento.

Lane non rispose. Aprì il portaoggetti e vi gettò dentro il cellulare e il fascicolo, assorto. Contemplò per un secondo il candore delle pagine contro il buio, poi chiuse lo sportello con un colpo secco.

«Resti da me stanotte?» domandò, inforcando il motorino e facendo girare le chiavi nella fessura. Il fanale si accese, illuminando la distesa di foglie secche davanti a loro.

Sentì le braccia dell’amico circondargli la vita.

«Certo» rispose Jay, prima che il rumore del vecchio motore potesse coprire la sua voce.

   
 
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