Ore 23.59
L’aria era irrespirabile.
Sentiva la gola bruciare. Un fuoco
mostruoso, secco e
devastante gli stava mangiando la carne dall’interno,
raschiandola con le sue
unghie laceranti e incorporee. Deglutì un paio di volte,
cercando di scacciare
la dolorosa sensazione di ruvidità, ma non aveva
più saliva. Sentì un disperato
bisogno di tossire crescere dentro la sua gabbia toracica ma non
poteva, oh no, non poteva
assolutamente. Non lì.
In qualsiasi altro posto si, ma lì no.
Nemmeno morto.
Faceva una fatica tremenda a
respirare.
Non aveva più alcuna
difesa. Sentiva le vie respiratorie
asciutte quanto la gola. Si sforzò di inspirare ed espirare
rapidamente,
cercando, con la disperazione che gli stringeva il petto, di impedire
al fumo
di penetrare all’interno dei polmoni e soffocarlo.
Gli girava la testa.
L’ambiente era
insopportabilmente buio, gli occhi gli prudevano
con una ferocia tremenda. Tutto quel fumo secco, denso e appiccicoso
gli dava la
nausea. Era tutto troppo stretto, troppo chiuso, orribilmente
opprimente.
Sentì la paura di svenire
farsi strada nella sua mente.
Mio dio no,
non
adesso.
Non riusciva a vedere la schiena di
Jay. Da quella nebbia
spettrale sbucava solamente la sua mano, i cui contorni risaltavano
incredibilmente nitidi contro il bianco nauseante che li circondava,
che
stringeva debolmente l’indice e il medio della sua mano
sinistra. Stava
cercando di concentrare tutta la sua attenzione su quel lieve contatto,
tenendo
lo sguardo fisso sulle sue dita, cercando con tutta la buona
volontà rimastagli
di non farle scivolare via.
Non era nemmeno sicuro di dove
stessero andando, né
tantomeno gli importava. Voleva uscire da lì più
di ogni altra cosa al mondo.
Si faceva trascinare passivamente, la testa annebbiata dalla mancanza
di ossigeno.
Stava trattenendo il respiro, non se n’era nemmeno accorto.
Interruppe
bruscamente l’apnea e prese una lunga boccata
d’aria. Il fumo arido e
disgustoso si espanse dolorosamente all’interno dei suoi
polmoni. Sentì gli
occhi inumidirsi nello sforzo di trattenere la tosse. Si
passò una mano fra i
capelli, tirandoli lievemente, cercando di mantenere la calma.
Vedeva le sagome nebulose delle altre
persone, nere contro
il candore dell’aria, che gli passavano accanto rapidamente.
Procedevano molto
più veloci di lui. E sentiva le loro voci, che parlavano e
ridevano tutte
insieme, rimbombare pesantemente nelle sue orecchie. Percepì
un dolore acuto
bucargli le tempie come uno spillo e diramarsi in tutto il cranio come
una
scossa.
Una ragazza sbatté
inavvertitamente contro la sua spalla,
costringendolo a fermarsi per un secondo. Il suo cuore
accelerò improvvisamente
la sua corsa nel momento in cui si rese conto di aver perso la mano di
Jay. Le
sue dita scivolose, rese ancora più deboli dalla confusione
crescente e inesorabile,
avevano lasciato la presa senza il suo consenso.
Il panico lo assalì
rapidamente, morboso e schiacciante,
diffondendosi nel suo petto come una nube tossica e mozzandogli il
respiro. Lo
stomaco si contrasse violentemente, provocandogli una nausea terribile.
Incrociò le braccia sopra la pancia, cercando di schermirsi
il più possibile dalle
figure intorno a sé, e provò a fare un passo in
avanti. Fu rispedito indietro
da una spallata. Qualcuno gli pestò un piede.
Voltò la testa a destra e a
sinistra, senza pensarci, cercando qualcosa – qualcuno di
familiare, mentre la
sensazione di terrore serpeggiava, sottile e paralizzante, intorno al
suo cuore
impazzito.
Dio santo
calmati non
è successo niente non è niente smettila ce la
puoi fare.
Sentiva i corpi delle altre persone
orrendamente vicini.
Sentiva il calore sporco e fastidioso che emanavano, sentiva braccia e
fianchi
e pance strofinarsi contro di lui e, Gesù
santissimo, stava per morire soffocato, lo sapeva, ne era
sicuro, l’apnea
era l’unica cosa a cui si stava aggrappando, a cui poteva
ancora aggrapparsi.
Non poteva respirare, non ci
riusciva. L’odore della massa
brulicante si mischiava a quello stagnante e pungente delle sigarette e
dei
bong. Decine di bocche stavano sputando nell’aria fiotti di
fumo ripugnante e
impalpabile, che arrivava al soffitto e tornava indietro, come una
bestia
confusa, espandendosi nei gazebo senza alcuna possibilità di
fuga.
I suoi occhi pizzicavano, tentando
inutilmente di salvare i
suoi condotti lacrimali dalla disidratazione totale. La sua gola era
così
stretta che non riusciva più a deglutire, e la teneva
serrata nel tentativo di
trattenere la tosse che minacciava di uscire da un momento
all’altro.
All’improvviso, in maniera
talmente inaspettata che a
malapena riuscì a realizzarlo, la faccia di Jay
bucò la superficie di quella
nauseante foschia , bianca come il gesso, decisamente infastidita. I
suoi
capelli rossi vi spiccavano in modo quasi violento. Per un unico,
crudele
momento credette di esserselo immaginato. Ma poi la faccia
parlò e lui sentì un
immediato sollievo diffondersi piacevolmente nel petto, come aria
fresca,
prendendo il posto del panico.
«Muoviti» disse
solamente, a voce più alta del normale,
cercando di sovrastare il rumore, prima che Lane potesse aprire bocca.
Gli
prese la mano con aria impaziente e si voltò, accingendosi a
procedere.
Ma gli scivolò via, e
ricadde debolmente contro il fianco di
Lane, che solo in quel momento si rese conto quanto fossero gelide le
sue mani.
Chiuse il pugno automaticamente, infastidito.
Jay lo guardò in silenzio
per un attimo. Poi gli afferrò più
saldamente il braccio, e riprese a trascinarlo dietro di sé
come se nulla fosse.
Man mano che procedevano gli occhi di
Lane, sempre meno
asciutti, riuscivano a distinguere più chiaramente
l’ambiente in cui stavano
camminando con così tanta fretta.
Non vedeva più quel
tappeto di persone così fitto che a
malapena si distinguevano l’una dall’altra.
Si rese conto di essere
all’interno del corridoio
dell’ultimo gazebo nel momento in cui urtò per
sbaglio una delle pesanti tende
che li separavano l’uno dall’altro. Aveva tenuto
per tutto il tempo la testa
bassa per evitare di inciampare nelle buche del terreno e di incrociare
gli
sguardi degli altri.
Si era limitato a provare a non
perdere Jay, che a sua volta
seguiva Sam, che sgusciava via tra la folla come uno scoiattolo.
Il gazebo erano stati messi
l’uno di seguito all’altro per
formare una sequenza continua, un’area riservata e discreta.
Tuttavia ogni
gazebo costituiva una stanza a sé, separato dagli altri da
una parete di spesse
tende logore. Era la cosa più vicina ad un edificio che ci
fosse nella Cava.
Ogni gazebo
è
assegnato ad uno scrittore diverso.
«Siamo quasi
arrivati» sentì dire a Jay, e la presa intorno
al suo polso si fece leggermente più stretta.
Inciampò un paio di volte
nelle pieghe dei tappeti che
ricoprivano alla bell’e meglio quel che c’era da
coprire, senza distinzioni tra
sassi o fossi, mentre Jay continuava a trascinarlo, imperterrito, come
se non
si accorgesse di nulla. Aveva ripreso a fare piccoli respiri veloci, ma
gli
sembrava di inalare cenere ardente.
Improvvisamente si fermarono. Lane
vide a malapena una tenda
scostarsi bruscamente a un metro da lui. Un rettangolo di piacevole
luce dorata
si spalancò davanti a loro, e un secondo dopo
cominciò a sentirsi decisamente
meglio.
Batté le palpebre un paio
di volte. Provò un sollievo molto
simile alla gratitudine nel sentire che gli occhi si stavano idratando
di
nuovo: aveva una sincera paura che le lenti gli rimanessero incollate
agli
iridi. La penombra e tutto quel bianco opprimente avevano alterato le
sue percezioni,
e la luce improvvisa, così calda e gialla, gli aveva
procurato una fitta acuta
alla testa.
Inspirò a fondo,
sinceramente contento di avere tutta quella
benedetta aria pulita intorno a sé. Lo stimolo
incontrollabile di tossire era
scomparso, così come la costante e paralizzante sensazione
di oppressione.
Jay lo aveva lasciato. Si stava
accendendo una sigaretta.
Istintivamente si allontanò di un passo da lui.
Credeva che la schiera dei gazebo
fosse finita, e invece no.
Ad un paio di metri da quel corridoio infernale, illuminata da una
quantità
notevole di lanterne e tremolanti candele di cera bianca, si ergeva una
struttura di ferro di modeste dimensioni, ricoperta – letteralmente ricoperta, pensò
Lane – da un considerevole numero di
tendaggi color melanzana. Tuttavia l’intero insieme era
assolutamente
differente da ciò che si erano lasciati alle spalle solo
qualche secondo prima.
La prima cosa che saltava agli occhi, infatti, era la totale scissione
che
esisteva tra quel gazebo e gli
altri
gazebo: erano come due mondi separati, completamente dissociati
l’uno
dall’altro.
Lane si concesse qualche altro
secondo per osservarlo.
Le tende e i drappi erano sottili,
leggeri e svolazzanti,
sistemati intorno ai senza un ordine o uno scopo preciso al di fuori di
quello
decorativo.
Non esistevano pareti. Poteva udire
distintamente un animato
chiacchiericcio provenire dall’interno, tuttavia quasi
musicale, attutito e
piacevole. Il pavimento era ricoperto da uno spesso tappeto verde, di
estensione maggiore rispetto al gazebo, di un colore più
scuro rispetto a
quello delle fragili piantine che crescevano sul suolo della Cava, e vi
si
distinguevano chiaramente gli schizzi di cera pallida lasciati dalle
candele.
Fece a malapena in tempo a notare i
contorni sfumati delle
sagome delle persone che si muovevano debolmente dietro il tessuto
semitrasparente, quando sentì una mano posarsi sulla sua
spalla e stringerla
piano.
«Cosa
c’è? Non vai? »
Gli arrivò subito alle
narici l’odore sgradevole della
sigaretta. Il naso gli bruciò
di nuovo.
Girò la testa dall’altra parte.
«No» rispose,
irritato «aspetto Sam».
Sentì le sue dita, tiepide
e lisce, scivolare delicatamente
sul mento, costringendolo con una leggera pressione a voltare il viso
verso di lui.
Non oppose resistenza e chiuse gli occhi, perché non lo
toccava mai in quel
modo.
La mano di Jay scese lungo il suo
collo, sfiorandolo
lievemente. L’odore era perfino più forte ora, ma
non gli importava. Sapeva che
lo stava guardando, le punte delle sue dita continuavano a muoversi
lentamente,
ritmicamente, su e giù lungo la sua pelle. Sentì
la tensione scivolare via
piano dal suo corpo.
«Te la sei cavata
bene» sussurrò. Era più vicino di
quanto
non credesse.
Lane sbuffò piano e
aprì gli occhi. Guardò per un secondo i
suoi iridi castani, scintillanti alla luce delle deboli fiammelle,
prima di
voltare di nuovo la testa per osservare la bizzarra struttura nella sua
interezza.
«Non tanto»
sbuffò, chiudendo il pugno. Strinse le dita
contro il palmo, per tentare di riscaldare almeno un po’ le
mani, ancora umide
per l’ansia di poco prima.
«Meglio del
solito» ribatté Jay, abbandonando
improvvisamente il contatto. Il suo sguardò
guizzò su qualcosa alle spalle di
Lane.
«Sbrigati» gli disse
semplicemente, prima di iniziare a camminare verso l’entrata,
dalla quale Sam
li stava vigorosamente invitando a raggiungerla.
*
Entrò subito dopo Jay, con
lo sguardo fisso per terra. Aveva
esaminato con eccessiva e insistente concentrazione il tappeto sin dal
primo istante,
e aveva continuato a contare le numerose e irregolari macchie scure che
si
allargavano sul tessuto verde finché non aveva rischiato di
andare a sbattere
contro la schiena di Jay, che si era fermato improvvisamente al centro
del
gazebo.
Lanciò una rapida occhiata
oltre la sua spalla.
Vide due persone, due ragazze, nella
porzione di spazio che
l’angolazione nella quale si trovava gli permetteva di
vedere. Una stava seduta
su una poltrona di vimini marrone, con le gambe raccolte sotto il mento
e i piedi
poggiati sul cuscino consunto: in
una
mano teneva una sigaretta ancora spenta, nell’altra il
cellulare, e aveva
un’aria così assorta che nemmeno alzò
lo sguardo per guardare Sam, che nel
frattempo aveva cominciato il giro di saluti. L’altra era
seduta in modo
scomposto su un divano viola scuro dall’aria lurida e
terribilmente vecchia,
con le gambe distese davanti a sé e un gran sorriso stampato
in faccia. Un
secondo dopo Sam comparve da dietro il collo di Jay e si
chinò per darle un
bacio.
Nessuna delle due era lei.
Le mani, che fino a quel momento gli
avevano concesso una
confortevole tregua, diventarono improvvisamente fredde. Prese a
strofinarle
piano fra loro, nel pallido tentativo di riattivare la circolazione,
mentre il
suo stomaco si ripiegava fastidiosamente su se stesso.
L’imminenza era
insopportabile. La tensione era
insopportabile.
Ma l’attesa, quella lo
stava mangiando vivo.
Si passò una mano fra i
capelli, prese un bel respiro e fece
un piccolo passo di lato.
Nella porzione di gazebo che gli era
rimasta nascosta fino a
quel momento Lane vide un’altra poltrona, identica alla
prima, sulla quale era
seduto un ragazzo, e il lato sinistro del divano, occupato da una
ragazza.
E il suo cuore impazzì
definitivamente, perché era lei.
A qualche metro da lui, seduta con le
gambe distese sui
cuscini e la schiena appoggiata al bracciolo, con lo sguardo puntato su
Sam,
che le stava dicendo qualcosa a cui lui non prestò la minima
attenzione, e una
sigaretta sospesa a pochi centimetri dalle labbra rosse, sulle quali
aleggiava
un sorriso appena accennato, c’era lei.
Notò subito che era bassa.
Le sue gambe non arrivavano a
toccare e cosce dell’altra ragazza e le sue braccia pallide,
che sbucavano
dalle maniche troppo larghe della maglietta, erano spaventosamente
magre.
Percepì
un’ondata di doloroso calore avvolgergli la pancia,
soffocando senza pietà l’ultima briciola di
lucidità che ancora gli rimaneva.
Tornò rapidamente a nascondersi dietro la schiena di Jay,
con la gola che
pulsava per l’agitazione. Continuò a sfregarsi
nervosamente le mani una contro
l’altra, senza successo.
Improvvisamente Jay fece un passo in
avanti, tendendole la
mano in un gesto di disinvolta cordialità, e Lane rimase
completamente
scoperto.
Trattenne il respiro, cercando di
stroncare sul nascere il
lampo di confuso terrore che era sicuro fosse ben visibile nei suoi
occhi.
Vide distintamente lo sguardo del
ragazzo alla sua sinistra
posarsi su di lui e squadrarlo apertamente. Istintivamente
inchiodò lo sguardo sulla
nuca di Jay, sfregò impercettibilmente le mani sui pantaloni
e attese che quel
momento terribile scivolasse via, per lasciare il posto a
ciò che fino ad un
paio d’ore prima non aveva nemmeno osato ritenere possibile.
Ma non era più tanto
sicuro di potercela fare.
Jay si spostò, scivolando
rapidamente verso la ragazza che
sedeva dall’altra parte del divano, e fece scoppiare la bolla
di angoscia e indugio
nella quale Lane aveva tentato di rannicchiarsi fino a quel momento.
Avanzò di un passo verso
di lei.
I suoi enormi occhi azzurri
rilucevano debolmente nella
penombra, illuminati solo dalle fiamme tremolanti delle candele, e lo
stavano
fissando in maniera così intensa che dovette fare uno sforzo
immenso per non
cedere all’imbarazzo e distogliere immediatamente lo sguardo.
Sentiva la faccia bruciare.
Pensò, molto banalmente,
che fosse davvero come nelle foto.
Anzi, sembrava che le foto non
bastassero, non bastassero
affatto a contenere tutto ciò che lei
era.
C’era troppo, davvero troppo
su cui soffermarsi e lui non aveva nemmeno la forza di osservarla
apertamente
per tre maledetti secondi.
Non poteva credere a ciò
che gli stava davanti agli occhi.
Non riusciva a concepire, nella sua mente da creatura ansiosamente
ordinaria, il
fatto di non aver preso in considerazione la valanga di cose
che gli stava piombando addosso in quel momento,
sommergendolo, soffocandolo, riempiendolo con una violenza spaventosa.
Non aveva più spazio, non
c’era più spazio per i pensieri,
non c’era più spazio per un cazzo, era stato tutto
risucchiato, cancellato,
brutalmente sostituito.
Esisteva un prima ed esisteva un
dopo. Esisteva un modo in
cui aveva inteso la vita prima, e il modo in cui, in quel momento,
nella sua
maldestra postura, davanti a quel divano poeticamente rovinato,
sorpreso,
confuso, disperatamente impacciato, aveva capito cosa la vita voleva da
lui.
O almeno, ciò che non
riusciva proprio a pensare di smettere
di fare, era lasciarsi ingoiare dallo stato di entusiastica, turbolenta
estasi nella
quale era cascato, come un sasso nell’acqua, totalmente e
incondizionatamente.
Notò che portava la
frangia, che ruotava graziosamente il
collo in piccoli gesti nervosi in modo tale da abbracciare con lo
sguardo tutto
il cerchio di persone, e che sopra di lei, proprio sopra la sua
incredibile,
bellissima testa, stava un bel riflettore.
Un riflettore che illuminava la sua
figura come se lei fosse
stata il sole e tutti gli altri, immersi in una cupa e densa ombra,
stelle
morte da milioni di anni.
I dettagli che coglieva erano come
tanti pezzi di un unico,
perfetto puzzle.
Le sue labbra, rese lucide e scure
dal rossetto, si
schiusero in un sorriso abbagliante. Ruotò il busto verso di
lui, incrociò le
gambe, spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e
infine gliela
tese.
«Ciao, sono Zoey,
piacere» disse solamente.
Lane la strinse lievemente.
Mormorò un rauco e
brevissimo “Lane” e ritirò
frettolosamente la mano, ma i suoi occhi indugiarono su di lei ancora
per
qualche secondo. La osservò mentre aspirava una lunga
boccata dalla sigaretta:
l’ombra del sorriso di poco prima le aleggiava ancora sul
viso, e non scomparve
nemmeno quando soffiò via una sottile linea di fumo in
direzione del suo petto.
Fu in quel momento che lo sguardo
sfuggì al suo controllo e
saettò via, per posarsi sulla figura di Jay, che lo fissava
con le mani
affondate nelle tasche, impassibile. Era in piedi affianco a Sam, che
stava
chiacchierando animatamente con le sue amiche, seduta sul bracciolo
della
poltrona di vimini.
Distolse lo sguardo e lo
puntò a terra, avviandosi a testa
bassa verso di lui. Quando lo raggiunse fece per superarlo, ma il
ragazzo si
spostò all’ultimo e lo urtò lievemente
con la spalla, costringendolo a
fermarsi.
«Ti sei accorto»
sussurrò in maniera quasi impercettibile,
scimmiottando le parole che lui stesso gli aveva rivolto poco prima
«che non ha
smesso un secondo di fissarti, vero?»
Lane percepì distintamente
il suo cuore fare un salto nel
petto e tremare dentro la gabbia toracica, tuttavia alzò le
spalle e si passò
una mano fra i capelli.
«Non significa
niente» mormorò in risposta, lanciando una
breve occhiata alla sua sinistra. Lei aveva le gambe strette contro il
corpo e
stava ascoltando con enorme interesse ciò che stava dicendo
Sam, con gli occhi
azzurri spalancati e le labbra distese in un sorriso distratto, appena
accennato. I capelli liscissimi ondeggiavano lievemente ad ogni suo
movimento.
Era ipnotica.
All’improvviso si
chinò lievemente, allungando il braccio
per prendere il posacenere, e il suo sguardo cadde su di lui. Lane fece
in
tempo a vedere i suoi occhi spostarsi dalla figura di Sam e inchiodarsi
nei
suoi, solo per un secondo, prima di interrompere bruscamente quel
contatto,
esattamente come aveva fatto qualche minuto prima, per fissare
nuovamente il
viso dell’amico, sul quale era stampato un mezzo sorriso
canzonatorio.
«Si
infatti» disse
Jay a bassa voce, alzando le sopracciglia «probabilmente si
è accorta di quanto
tu sia strano e socialmente incapace».
Lane alzò gli occhi al
cielo e fece per ribattere, quando
all’improvviso una voce chiara vibrò
nell’aria, sovrastando tutte le altre.
«Ragazzi, qualcuno
può portare delle sedie per Sam e gli
altri?»
Era stata lei a parlare, ovviamente.
Nessuno stava badando a
loro, nemmeno Sam, che per la sorpresa si era alzata di scatto dal suo
posto
scomodo e improvvisato.
«Ci penso io»
rispose il ragazzo che sedeva nell’altra
poltrona di vimini. Lane lo guardò alzarsi e scomparire
rapidamente dietro le
tende leggere, che oscillavano debolmente, mosse dal vento. Portava una
disordinata coda di cavallo e la barba lunga, ma era vestito in maniera
tutt’altro che trasandata, come se quello non fosse il suo
ambiente abituale e
avesse necessità di fare una buona impressione.
Tornò qualche secondo dopo
con un pesante tappeto arrotolato
sulle spalle.
«C’era solo
questo» disse, poggiando il suo carico a terra.
Poi guardò per un secondo Lane, alzando le sopracciglia con
aria irritata, e
cominciò a srotolare in silenzio il misero sostituto delle
sedie.
«Grazie Darren»
disse lei, sorridendo nella sua direzione.
Poi fece loro cenno di accomodarsi.
Jay, che era rimasto immobile per
tutto il tempo con le
braccia magre incrociate sul petto, fu il primo a muoversi. Rivolse un
gran
sorriso a Darren, uno dei suoi soliti sorrisi, si lasciò
cadere sul tappeto e
distese le gambe. Poi tirò fuori dalla tasca la carta
argentata, le cartine e
tutto il resto.
Lane voleva morire. Non aveva nessuna
intenzione di stare
seduto là, di fronte a lei, mentre Jay stava facendo di
tutto per attirare
l’attenzione. Infatti, nel momento stesso in cui il suo
minuscolo pacchetto
aveva mandato un debole bagliore alla luce delle lanterne, cinque paia
di occhi
si erano posati simultaneamente su di lui, e adesso erano in attesa.
Ma non poteva nemmeno restare in
piedi come un idiota. Così
si avviò nella direzione di quel triste spettacolo e si
sedette affianco
all’amico, incrociando le gambe, e cominciò a
fissare insistentemente la
superficie di quel tappeto polveroso e logoro, che era macchiata di
cera
esattamente come il resto del gazebo. Qualche secondo dopo Sam prese
posto
accanto a lui.
Vedeva con la coda
dell’occhio le mani di Jay muoversi in
modo rapido e fluido, con gesti esperti e sicuri. Sul gruppetto era
calato un
silenzio tombale. Quasi senza accorgersene, cominciò a
grattare via con le
unghie una goccia di cera incrostata.
Fu solo quando il ragazzo ebbe finito
di fare ciò che stava
facendo che la tensione nell’aria si smorzò con
una rapidità quasi
sorprendente. Nel momento in cui strinse tra le labbra la sua opera e
l’accese,
nessuno lo stava più guardando.
Lane invece rimase ad osservarlo
accigliato mentre aspirava
il primo tiro, vide le sue spalle irrigidirsi lievemente e rilassarsi
subito
dopo, i muscoli delle guance tendersi in modo impercettibile.
Soffiò via lentamente una
nube di fumo denso e chiaro, poi
si sporse leggermente in avanti e allungò due dita verso di
lei, porgendole ciò
che in quel momento rappresentava a tutti gli effetti un regalo, senza
degnare
Darren di uno sguardo.
Lane teneva gli occhi puntati sulla
canna, sospesa a
mezz’aria nello spazio che li separava, stretta nella mano
bianca di Jay, con
la punta già nera e i lati lucidi di saliva. Un secondo dopo
lei allungò le
gambe davanti a sé e avvicinò il busto il tanto
che bastava per permetterle di prendere
ciò che voleva.
La incastrò fra le labbra
e la brace brillò debolmente nella
penombra.
A quanto
pare è stato
un colpo di genio, si ritrovò a pensare, mentre
l’ostilità sorda che
sentiva verso Jay scivolava via dal suo corpo con la
rapidità con cui era
venuta.
Lei
raddrizzò la
schiena e si appoggiò di nuovo al cuscino del divano,
accavallando le gambe.
Fece un paio di tiri, senza staccare gli occhi da Jay, poi la
passò
distrattamente alla ragazza alla sua sinistra, che la
afferrò immediatamente
con l’indice e il pollice.
«Sam» disse
all’improvviso «come mai ci hai portato facce
nuove oggi?»
La ragazza, che fino ad un istante
prima stava fissando il
sottile oggetto passare sgraziatamente da una mano all’altra,
si riscosse
dall’annoiato torpore nel quale era sprofondata e la
guardò con i suoi grandi
occhi scuri.
«Sono amici, li ho
incontrati poco fa» disse, alzando
pacificamente le spalle.
Lane ormai stava giocherellando
apertamente con un pezzo di
cera grande quanto una moneta, staccato dal tappeto, e ascoltava.
Perché era
sicuro che prima o poi le parole che temeva di più sarebbero
uscite dalla bocca
della ragazza, e il panico gli avrebbe finalmente dato il colpo di
grazia,
schiacciandolo a terra come un insetto.
Si accorse di stare trattenendo il
respiro, di nuovo.
«Venite spesso?»
Lane alzò lo sguardo,
sorpreso. Lei si aspettava una
risposta da lui, era chiaro, ma fu Jay a parlare.
Un’altra fitta di tiepida
gratitudine lo pervase.
«No in
realtà» disse «io solo ogni tanto, per
Lane è la
prima volta»
Eccolo, il momento. Stava arrivando,
lo sentiva, ormai
correva furiosamente verso di lui come un treno e lui non poteva
evitarlo,
perché era legato ai binari.
Lei alzò le sopracciglia
con aria interrogativa.
«Come mai solo
oggi?» chiese, fissando apertamente
Lane. Aveva
incrociato le gambe e si
teneva le caviglie con le mani, tamburellando distrattamente con le
unghie sul
tessuto dei jeans.
A quel punto accadde.
Sam sorrise brevemente e gli
lanciò una rapida occhiata.
«Lane scrive»
disse, sinceramente contenta di quella
domanda. Poi fece il tiro che le spettava e gli porse il mozzicone,
ormai
morente.
Lane pensò che in quel
momento avrebbe dato qualsiasi cosa
per scambiare la sua esistenza con quella dell’inutile,
puzzolente mozzicone,
che per sua fortuna stava per abbandonare per sempre questo mondo. Nel
momento
in cui l’ultima sillaba uscì gioiosamente dalle
labbra della ragazza si sentì
invadere dal panico. Le mani ricominciarono a sudare. Strinse i pugni,
cercando
di mascherare il più possibile l’imbarazzo.
Per piacere,
per
piacere non adesso.
«Non posso»
rispose atono, facendo un breve cenno con il
capo in direzione della canna «devo guidare»
Jay alzò gli occhi al
cielo. Poi si riprese ciò che era suo,
ficcandoselo rapidamente fra le labbra.
«E cosa scrivi?»
La ragazza si stava sporgendo verso
di lui, sinceramente
interessata. Si sosteneva il mento con il pugno chiuso, il gomito
appoggiato
sulle ginocchia. Le sue sopracciglia ormai erano sparite sotto la
frangia, ma i
suoi occhi erano spalancati e lo stavano ingoiando intero.
Un serpente
– il
pensiero lo colpì in testa come una pietra – un sottile, silenzioso mexican black che sa di
poterti mangiare, perché
tu, stupido topo, non tenterai mai di mangiare lui.
Deglutì impercettibilmente.
«Niente di serio»
disse piano, maledicendosi per il suono
fastidiosamente rauco della sua voce.
«Ad esempio?»
insisté lei, passandosi una mano fra i capelli
scuri e scompigliandoli con grazia.
«Racconti,
perlopiù» borbottò lui, mentre il suo
autocontrollo
scivolava via lentamente «nessun genere preciso»
Calò il silenzio per un
paio di secondi, rotto solo dal
rumore delle dita di Jay, che stavano facendo pigramente a pezzi una
cartina.
Hyena lo stava fissando, ancora, in
attesa. Non era
soddisfatta.
«Ma» aggiunse
Lane, appiattendosi nervosamente i capelli con
la mano «non sono venuto qui per questo»
«E come mai sei venuto
allora?»
Aveva inclinato lievemente la testa
di lato e stava facendo
scorrere distrattamente le unghie sulla nuca. Il volto era serio,
concentrato.
«Solamente per
guardare» mormorò lui, abbassando di nuovo la
testa sul suo scivoloso pezzetto di cera.
Non vedeva l’ora che quella
conversazione terminasse.
Mangiami e
basta.
«Allora ti lascio una
cosa» disse lei, e senza aspettare una
risposta si alzò in piedi e fece rapidamente il giro del
divano, per poi
sparire dietro le tende fluttuanti.
Si accorse solo in quel momento che
Jay lo stava osservando,
impassibile. Gli lanciò un’occhiata di sbieco, ma
prima che potesse dirgli
qualsiasi cosa un leggero rumore di passi annunciò il
ritorno della ragazza.
«Tieni» disse,
porgendogli un sottile blocco di fogli di un
bianco abbagliante, tenuti insieme da una morbida rilegatura di
plastica.
Lane sentì il respiro
mozzarglisi nel petto.
Si alzò in piedi e
allungò il braccio per afferrarlo,
facendo attenzione a non toccare la sua mano.
Nel primo foglio c’erano
soltanto due parole.
La prima era il suo nome, nero su
bianco, quello con cui si
era fatta conoscere, quello che ormai tutti consideravano una sua
proprietà.
La seconda era il titolo.
Nessuno si
ricorda del
re dei topi.
Quel fascicolo non era mai stato
aperto.
Anche Jay si era alzato in piedi, e
stava fissando con vaga
curiosità l’oggetto che il suo amico non riusciva
a smettere di fissare.
«È una
raccolta» disse lei, tirando fuori un pacchetto di
sigarette dalla tasca posteriore dei jeans «ma è
molto breve. Oggi non faccio
nulla di che, devo solo distribuire la roba nuova».
La noncuranza con cui
pronunciò quelle parole lo stupì, ma
non disse nulla.
La ragazza guardò
l’orologio con le sopracciglia aggrottate.
«Tra poco verranno a
prenderle. Ho scritto su facebook
di passare all’una per chi fosse interessato,
se vi va di rimanere…» disse, ed ebbe
l’accortezza di girare la faccia per non
soffiare il fumo in faccia a Lane.
In effetti, era molto vicina. Era
davvero molto vicina e lui
non se n’era minimamente accorto, completamente assorbito
dalla contemplazione
del nuovo tesoro che stringeva fra le mani.
Ma adesso se n’era accorto,
si, e la stava guardando come un
idiota mentre si sistemava i
capelli da una parte e sbatteva delicatamente il dito sulla sigaretta
per far
cadere la cenere.
«No grazie»
rispose frettolosamente Jay «oggi proprio non fa,
però torniamo sabato prossimo se fai un reading. Vero
Lane?» aggiunse,
colpendolo di nascosto con il gomito.
«Certo»
biascicò il ragazzo, riscuotendosi bruscamente dalle
sue riflessioni.
«Va bene allora»
disse lei, facendo indugiare lo sguardo un’ultima
volta su di lui. Aveva ancora quello strano mezzo sorriso sulle labbra,
non
abbastanza sincero da farti sentire al sicuro ma abbastanza dolce da
farti
desiderare di vederlo sempre comparire sul suo viso, per te.
«È stato un
piacere» aggiunse poi, alzando brevemente una
mano nella loro direzione.
«Anche per noi»
disse Jay, afferrando Lane per la spalla e
spingendolo lievemente verso l’uscita del gazebo.
«Ciao»
mormorò Lane, rauco. La vide fare un cenno di saluto
con il capo, e poté giurare di aver visto qualcosa
che prima non c’era nascere e morire nei suoi occhi, con la
stessa rapidità di
un lampo, prima che la sua snella figura sparisse definitivamente dalla
sua
vista.
*
«Allora» disse
Jay, mettendosi a cavalcioni sul motorino,
strascicando i piedi per disincastrarlo dal terreno irregolare
«sei
soddisfatto?»
Lane sbuffò, affondando le
mani nelle tasche.
«Dammi le chiavi»
disse, in un tono che lasciava trasparire
la sua irritazione. Jay sorrise brevemente.
«Non
c’è bisogno» rispose.
Lane lo fulminò con lo
sguardo. Il plico era ancora stretto
nella mano sinistra, premuto contro il suo fianco.
Gli tese la destra in silenzio.
Jay sbuffò di rimando,
frugò per qualche secondo nella tasca
della giacca e ne estrasse uno scarno mazzo tintinnante. Gliele
lanciò senza
una parola.
Lane le prese al volo e
sospirò piano.
«È stato davvero
imbarazzante» mormorò, mentre Jay scivolava
all’indietro, puntellandosi con le ginocchia, lasciandogli lo
spazio per
sedersi.
Il ragazzo alzò le spalle
e gli passò il casco.
«Non è andata
tanto male, tutto sommato» disse, infilando a
sua volta il suo e allacciando la cinghia sotto il mento.
Lane non rispose. Aprì il
portaoggetti e vi gettò dentro il
cellulare e il fascicolo, assorto. Contemplò per un secondo
il candore delle
pagine contro il buio, poi chiuse lo sportello con un colpo secco.
«Resti da me
stanotte?» domandò, inforcando il motorino e
facendo girare le chiavi nella fessura. Il fanale si accese,
illuminando la
distesa di foglie secche davanti a loro.
Sentì le braccia
dell’amico circondargli la vita.
«Certo» rispose
Jay, prima che il rumore del vecchio motore
potesse coprire la sua voce.