Anime & Manga > Sailor Moon
Segui la storia  |       
Autore: Urban BlackWolf    17/07/2018    5 recensioni
Può un falco forzare se stesso e rallentare per mettere in discussione le scelte fatte nonostante la sua natura lo costringa alla velocità, alla determinazione nel raggiungimento dell’obbiettivo di una vendetta?
E può una gru riuscire a proteggere con l’amore e la cieca fedeltà tutto ciò nel quale crede fermamente?
Possono due esseri tanto diversi fondersi in uno per tentare di abbattere le barriere che li separano pur solcando lo stesso cielo?
Ungheria 1950: Michiru, figlia della ricca e storica Buda, dove tutto è cultura e tradizione, lacerata tra il dovere ed il volere, dalla parte opposta di un Danubio che scorre lento e svogliato, Haruka figlia di Pest, che guarda al futuro correndo tra i vicoli dei distretti operai delle fabbriche che l’hanno vista crescere forte ed orgogliosa.
Una serie di eventi le porteranno ad incontrarsi, a piacersi, ad amarsi per poi perdersi e ritrovarsi nuovamente, a fronteggiarsi e forse anche a cambiare se stesse.
Genere: Romantico, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Usagi/Bunny | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XVII

 

 

Due bambine

Periferia rurale di Baja, Ungheria meridionale – Casa Hino, Settembre 1939

 

 

L’estate era stata calda, Torrida come si dice in questi casi, sotto ogni punto di vista e ora toccava a loro, due bambine dall’indole solitaria, pagarne il prezzo. Uno scotto salato che le avrebbe divise. Loro; anime affini, unite dalla sorte per chissà quale scherzo del destino. La prima, più grande di quattro anni, abbastanza taciturna, per alcuni misticamente schiva, la seconda, ponderata, timida al punto da preferire passare ore rintanata nella cucina dietro alle sottane di qualche anziana cuoca pur d’imparare i segreti dell’arte culinaria del loro paese. Due cuori grandi come la loro acerba curiosità. Dieci anni Rei. Sei anni scarsi, Makoto.

“E così ve ne andate?!” Lamentò la ragazzina dai lunghi capelli neri mentre spostando le iridi pece verso lo stagno, le perdeva sulle ninfee in fiore che si aprivano sull'acqua dietro il capanno degli attrezzi del podere di famiglia.

Makoto sospirò portandosi le ginocchia al petto. Quella notizia datale dalla madre Belami la sera precedente, era stata come un fulmine a ciel sereno. Si trovava bene con la famiglia Hino e proprio non riusciva a capire perché da qualche tempo in quella casa si respirasse un’aria tanto pesante.

“Già.” Rispose laconica seguendo la scia di un gruppo di formiche, iniziando a farle deviare dal loro andare con l’ausilio di un filo d’erba ormai secco.

Essendo un poco più grande e stando lentamente per entrare in quello spicchio di vita chiamato pre adolescenza, Rei invece qualcosa aveva intuito. Le discussioni che sempre più frequentemente sentiva accendersi tra i suoi genitori non lasciavano tanti fronzoli all’immaginazione. Era Belami la causa dell’esplosioni di gelosia che sovente colpivano la madre.

Belami Kino era una bella donna proveniente dalle zone palustri dell’ovest del paese, che tre anni prima aveva trovato lavoro presso le coltivazioni della famiglia Hino. Lavoratrice attenta ed infaticabile, aveva immediatamente fatto buona impressione, tanto che la stessa signora della masseria le aveva chiesto di rimanere con loro anche nei mesi invernali. Forse a causa del suo essere una ragazza madre, vogliosa perciò di offrire a sua figlia un nido nel quale crescere, Belami aveva accettato con gratitudine diventando presto una di famiglia. Tutto fino alla primavera precedente, alla rottura che Rei aveva intuito essere la sbandata del padre verso quella donna più giovane che non lo corrispondeva e che gia' tanto aveva sofferto per amore di un uomo sposato.

In tutta franchezza delle beghe tra quei tre adulti a Rei poco importava. Quello che per lei invece contava davvero, era l’amicizia che aveva istaurato con quella bambina e la profonda solitudine che avrebbe provato nel vederla andar via.

“Io i grandi proprio non li capisco. - Sputò tutto dun fiato lanciando un sasso nell’acqua. - Non si ascoltano. Non osservano!”

A quelle parole la più piccola la guardò in modo strano, molto probabilmente non capendo neanche lei.

“Cosa intendi dire?”

Sospirando l’altra si ritrovò a sorridere a quella faccina tonda e buffa dagli occhi tanto brillanti.

Cosa ne potevano sapere due bambine come loro delle questione degli adulti. E come poter dar torto alla signora Hino, se la storia pregressa della foresteria e le attenzioni, giustificate o meno, del marito al suo indirizzo, la stavano portando a sospettare di chissà quale torbida storia consumata tra i fienili della loro proprietà? Se Belami non fosse stata una ragazza madre, se non si fosse fatta abbindolare da un uomo venuto da Budapest, un aitante e focoso magiaro emigrato sette anni prima per bonificare le campagne palustri dell’oriente ungherese, niente sarebbe accaduto.

Anche se piccola, Rei aveva un intuito fuori dal comune, che spesso stupiva i suoi genitori e gli abitanti di quel fazzoletto di terra di confine. Un intuito che portava guai, ghettizzazione, sguardi increduli e diffidenza.

“Nulla Mako. Nulla.”

Si limitò a dire sorridendole bonaria, perché anche se le avesse confessato la vera causa dell’allontanamento suo e di Belami, l’amichetta non avrebbe capito. Anima candida, non era ancora entrata nei meccanismi adulti che la stessa Rei faceva ancora fatica ad afferrare pienamente.

“Non voglio andare via. Mi trovo bene qui!”

Cingendole le spalle con un abbraccio, l’altra non poté che ammettere quanto la cosa devastasse anche le.

“Scappiamo!” Disse improvvisamente la piccola alzandosi di colpo.

“Cosa?”

“Si Rei, scappiamo. Andiamo a Budapest, li c’è mio padre! Lui ci aiuterà.”

Seguendola lentamente, la moretta sembrò non capire. “Come tuo padre!?”

“Si! Mamma mi parla spesso di lui quando non riesco ad addormentarmi. E’ bello. E’ forte. E’…”

“E’ a Budapest, Mako. Ma lo sai quanto è lontana?”

“Non m’importa!” Urlò stringendo i pugni.

“Và bene! Và bene! Ma sai almeno come si chiami e dove viva?” Chiese cercando di calmare quell’improvvisa esplosione di frustrazione.

Qualche secondo e poi abbassando le mani la bambina ammise dolente. “No…”

“Allora mia cara Mako non credo che…”

“Lo riconoscerò! - Se ne uscì con la convinzione tipica delle bimbe della sua età. - Mamma dice che gli assomiglio.”

“Cosa vuol dire!”

Afferrandole una mano lei insistette. “Rei, sono sua figlia. Vedrai che questa cosa mi condurrà a lui.”

“Makoto…”

“Ma come! Non sei tu a dire sempre che i sensi degli esseri umani sono più sviluppati di quanto non credano?! Che fai? Ora ti rimangi le parole?”

“No è che… - Poi guardandola in quella trasparenza al limite del pianto, non poté far altro che arrendersi. - O al diavolo! D’accordo, ci proveremo. Ma riuscirai a tenere il segreto fino a quando non avrò pianificato tutto?”

“Certo!” Si mise sull’attenti come un bravo soldatino.

“Bambine… Dove siete?!” Sentirono la voce della signora Hino provenire dalla stalla.

“Andiamo Mako e… acqua in bocca.”

“Si! Rei…”

“Dimmi.”

“Hai detto al diavolo.” Portandosi le mani alla bocca e ghignando, fece roteare gli occhi dell’altra che afferrandole la treccia dai capelli scarmigliati, iniziò a trascinarla senza ritegno lungo il sentiero che le avrebbe ricondotte a casa.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

Camminando leggermente dietro al secondino che la stava accompagnando attraverso il Blocco C, l’agente scelto Hino iniziò a focalizzare la sua attenzione sulle disposizioni di sicurezza. Le veniva naturale, come respirare o correre. Deformazione professionale, avrebbero detto in molti. Puro e semplice spirito di osservazione, avrebbe giurato lei. Non era nata con la sindrome della guardia. Non era il mestiere che avrebbe voluto per se o quello che sognavano i suoi genitori. Eppure il destino, il fato o la pura casualità, avevano scelto per lei e lo avevano fatto bene, visto che ad appena ventitré anni, Rei Hino era di fatto l’agente scelto più giovane della sezione investigativa della città di Budapest.

Passata la pesante porta di metallo che immetteva alla zona “privata” del blocco, le due donne si trovarono davanti un corridoio insolitamente spazioso e ricco di finestre, anche se sbarrate dalle immancabili grate. Stupendosene, l’agente continuò a seguire il suo Virgilio fino ad arrivare alla porta dell’ufficio della Direttrice.

“Prego. La dottoressa Meioh vi sta aspettando.” E bussando, attese una voce aprendo con discrezione.

Da dietro la sua scrivania, Setsuna ingoiò a vuoto indossando la maschera della sicurezza.

“Prego agente. Accomodatevi.”

Una ragazzina. Non si sarebbe mai aspettata di ricevere un agente tanto giovane. Sbattendo le palpebre per la sorpresa, la donna le andò incontro porgendole la mano che l’altra afferrò prontamente.

“Buongiorno Direttrice Meioh.”

“Agente Hino… Benvenuta alla casa della luce.” Disse notando solo in quel momento e con un pizzico d’allarmismo, il pesante borsone che la donna stringeva nella sinistra.

A Rei non sfuggì e per chissà quale meccanismo mentale si senti soddisfatta. Affondando il palmo in quello dell’altra, sorrise forte del suo primo punto.

“Mi dispiace di aver dovuto incomodare il Ministero, ma conoscete anche voi il protocollo di sicurezza da adottarsi in questi casi. - Continuò Setsuna. - Confido e sono fiduciosa sul fatto che non vi occorrerà più di una mezza giornata per raccogliere tutte le informazioni che vi serviranno per stilare una relazione sull’accaduto.”

Appoggiando il bagaglio a terra, l’ospite mise subito le cose in chiaro. E fu come una dichiarazione di guerra su larga scala. “Ci vorrà quel che ci vorrà. Non è mia abitudine fare le cose di corsa, dottoressa.”

Forse perché molto giovane e donna, Rei sentiva pressione e la necessità di dover sempre dimostrare qualcosa.

“E’ per questo che avete portato quello?” Chiese la direttrice accettando la sfida.

“Sono sicura che riuscirete a trovarmi un alloggio.”

“… Naturalmente, anche se ribadisco che per una semplice rottura strutturale non ci vorrà più di qualche ora.” Insistette.

“Questo lasciate che sia io a stabilirlo. Appena alloggiatami vorrei che mi conduceste nel punto esatto dove pensate sia partito il problema che ha portato all’allagamento delle celle del seminterrato. In più vorrei avere i tabulati di tutte le detenute presenti nell’isolamento al momento dell’evacuazione e quella dei secondini di servizio.”

Merda, pensò l’altra sbiancando.

“Ci sono problemi?”

“Niente affatto agente Hino. Ma prego, vi faccio strada. - Le aprì la porta mentre afferrava le chiavi del blocco che portava nella tasca del vestito. - Troverete le stanze per il personale un poco anguste, ma sono calde e tutto sommato confortevoli. Non usiamo camerate qui, ma purtroppo i bagni e le docce sono in comune.”

“E’ tutto sullo stesso piano?”

“Si, al primo. Prego per di qua.”

Imboccando le scale di servizio, Rei continuò ad annotare mentalmente falle nella sicurezza. In primis nella stessa direttrice.

“Perdonate se vi faccio questa domanda, ma sono le chiavi delle stanze del personale quelle che avete preso?”

“Di tutto il blocco, perché?”

“E le portate spesso in giro con voi?”

Inchiodando di colpo per girarsi verso l’altra, Setsuna inalò rizzando la postura. “C’è qualcosa che non vi quadra, agente Hino?!”

Per nulla intimorita ammise che visto il contesto, era quanto meno un’azione azzardata. “Non avete paura di un colpo di mano da parte di qualche detenuta?”

“Assolutamente no. - Riprese per la rampa. - L’accesso a quest’ala è da un’unica porta apribile solamente dall’interno, ed è sempre presidiata. Ogni detenuta che ha l’autorizzazione ad entravi viene sempre scortata da una o più guardie, sia se venga a rapporto nel mio ufficio, sia che vada in infermeria.”

“Durante le degenze sanitarie?”

“Controllo a vista h 24.”

“Pulizie e manutenzioni?"

“Delle prime sono incaricati nostri soggetti altamente selezionati, mentre per i secondi ci rivolgiamo a personale esterno mandatoci direttamente dal Ministero.”

“Perciò se ho ben capito le pulizie all’interno del blocco vengono fatte dalle stesse detenute. Anche nel vostro ufficio?”

Arrivata sul piano Setsuna si fermò ancora. Che cos’era quello? Un interrogatorio accompagnato da una sfilza di critiche all’indirizzo della sua gestione?!

Insospettatamente e contro ogni forma di quieto vivere, la più giovane disegnò sulle labbra un sorriso spavaldo, perché nonostante quella bella donna dal volto abbronzato, la statura slanciata e la postura impettita, continuasse a controbattere colpo su colpo, era lapalissiano che la struttura di quel carcere non fosse sicura.

Nel leggere quel ghigno, Setsuna provò il solito bruciore alla bocca dello stomaco preludio di grampi ingestibili. Avrebbe voluto estrarre gli aculei come un istrice sotto attacco, ma era una donna intelligente e forte della sua maturità, non abboccò alla pungola arroganza dell’altra. L’estranea era giovane e perciò saccente. Cadere in bieche provocazioni non avrebbe fatto altro che rendere la direttrice ridicola.

“Agente Hino, da quando sono a capo della gestione di questo carcere, non è mai accaduto nulla e potete star certa che quando avrete svolto il vostro compito e sarete andata via, l’andazzo rimarrà lo stesso.”

“Sento nervosismo nella vostra voce, dottoressa. Se vi ho offesa, mi dispiace. Credo però di avere accumulato abbastanza esperienza nella casa della giustizia per poter affermare che questo posto non ha i requisiti di sicurezza che mi sarei aspettata di trovare.”

A quella rivelazione l’altra sentì la pelle scossa da un brivido. Questo cambiava tutto. “Avete prestato servizio in quella struttura?!”

“Già… - disse Rei puntando lo sguardo a terra. - … e non ne vado affatto fiera.”

 

 

Non si era mai sentita tanto impacciata, fuori posto e ridicola. Mai! E si che di stupidaggini ne aveva fatte in vita sua. In situazioni tragicomiche ci si era venuta a trovare, soprattutto da ragazzina. Corse sfrenate tra sterco di vacca conclusesi con salti pindarici in pozze di guano troppo ben celate. Arnie accidentalmente sfasciate con conseguenti fughe, sia dal padre, che dalle stesse occupanti. Scivoloni sul ghiaccio. Neve piombatale a bruciapelo giù dai tetti. Ruzzoloni dal letto, quando beatamente immersa in piena fase REM la sorella la svegliava urlandole nelle orecchie. Lo stesso volo coatto fatto la prima volta che aveva incontrato Michiru e che l’aveva vista schiantarsi sul basalto bagnato del tracciato della gara per la Festa della vendemmia, poteva essere annoverato in quella fascia di bonaccia dove il suo orgoglio era stato preso a calci. Ma quello no! Una situazione avvilente al limite del pianto.

“Scusami…” Abbassando la zazzera bionda, Haruka si sentì mortificata.

Di fronte a lei Michiru si massaggiò il collo del piede destro alzando il braccio opposto come a volerla tranquillizzare.

“Non è successo… niente Tenoh. Non… importa.”

E come se importava, visto che era il terzo pestone che riceveva in cinque minuti. Ma d'altronde era stata lei a volerlo, scegliendolo quel supplizio con indicibile masochismo, ed ora che l’aveva trovato grazie alla forza della sua intelligenza, non poteva certo tirarsi indietro. Ne tanto meno lagnarsi. Haruka l’aveva avvertita di essere un ciocco nel ballo, ma lei, convinta di trovarsi in presenza di una puerile scusa per evitare di sottrarsi ad una sua richiesta, aveva minimizzato ergendosi a signora del Jazz Swing. La prossima volta le avrebbe creduto dandogliela vinta a mani basse.

“Te l’avevo detto che ero un’impedita! Mi dispiace Kōtei.” Allargando le braccia desolata, cercò il pietismo che le sarebbe servito per far desistere l’altra dal suo assurdo proponimento.

“Haruka, va tutto bene. Certo i tuoi piedi sono un po' ingombranti, ma ce la faremo vedrai.”

Dio mio quanto sei testarda, si disse la bionda vedendola avvicinarsi.

“Vuol dire che ci metteremo più tempo. Coraggio… Riproviamo. Ricordati… Uno, due, tre… Uno, due, tre…”

“Quello l’ho capito. So contare sai…” E si sentì afferrare la sinistra tornando a respirare a fatica.

La faceva facile quella piccoletta, ma l’ambiente marcatamente ostile fatto da un paio di guardie, tra le quali una ilare Johanna, ed una decina di detenute che la stavano prendendo per i fondelli, unito a quel corpo perfettamente collimante con il suo che aveva avuto l’onore di vedere nudo, non rendevano l’apprendimento una cosa facile. In più, del ballo a lei non gliene era mai fregato niente e questo diminuiva, se non azzerava, la già scarsa concentrazione che stava usando nell'imparare quella fesseria.

“Perché dobbiamo farlo proprio qui?” Sussurrò irrigidendosi nuovamente.

“Perché qui c’è spazio, mentre in cella no. E’ poi quel posto è deprimente. - Dichiarò sicura iniziando a rigirarsi la mano dell’altra nella propria. - Com’è grande rispetto alla mia.”

Avvertendo un’esplosione di calore nel cervello, Haruka guardò altrove cercando di minimizzare. “Non più di tanto.”

“Hai dita affusolate, ma forti.”

“E piene di calli.” Sbuffò annaspando.

Lei si che aveva delle mani bellissime. Ma porca miseria… Kōtei. Penso'.

“Mi piacciono anche con i calli.” E sorrise perché anche lei, suonando uno strumento a corda, ne aveva.

“Adesso svalvola.” Appoggiata al muro come al suo solito, Johanna guardò Minako poco oltre cercando di rimanere seria. Non aveva mai visto la sorella tanto vulnerabile. Abbattuta la corazza che nel tempo Haruka era riuscita ad ergere tutto intorno alla sua anima, Michiru Kaioh stava operando ad insaputa di entrambe, un miracolo e Johanna non poteva che gioirne, anche se l’ombra scura di quel cognome, Kaioh, aleggiava sempre nei suoi pensieri.

“Tenoh è cotta a puntino.” Rispose Kino alzando le sopracciglia.

“Haruka sei troppo rigida. Cerca di scioglierti un poco. - Consigliò Michiru afferrandole la destra per spostarla sul proprio fianco. - Stringimi. Sei tu che dovresti condurre, non io.”

“Mmm…” Credeva fosse facile?! No, non lo era!

“Avrebbe bisogno di una scossa.” Soffiò Makoto e Johanna prese la così detta palla al balzo.

“Kōtei, perché non vi scambiate i ruoli? Evidentemente Tenoh è troppo timida!”

Un affronto che la bionda ingoiò male e digerì peggio. Passi fare l’uomo, condurre, dettare tempo e ritmo nei movimenti, ma farsi scorrazzare per una pista come una femminuccia, mai! Come rianimata, Haruka afferrò la destra di Michiru posizionandosela sul petto, all’altezza del cuore e biascicando un fottiti all!indirizzo della sorella, si strinse contro la sua dama fissandola negli occhi.

Sorpresa l’altra sbatté le palpebre arretrando un po’ la testa. “Come?”

“Nulla. Non ce l’avevo con te. - Ed inalando ossigeno divenne ancora più seria. - Ricominciamo.”

Così fecero e questa volta andò meglio. Estremamente. Due creature meravigliosamente affini, ancora un poco titubanti, ma splendide. La grazia di Kaioh, la gru di Buda. La passione di Tenou, il falco di Pest.

 

 

Tutto contro

 

Ripensando alle prove pomeridiane, Haruka sospirò al silenzio della lavanderia scaraventando l’ennesimo panno nell’acqua insaponata. Doveva ammetterlo; l'era piaciuta quell’esperienza. Non certo per il ballo in se per se, ancora pallosissima pratica, ma per l’opportunità che aveva avuto nel sentire Michiru tanto vicina. Corpo ed anima. E si, quella tremenda ragazza si era aperta, nel senso che al piccolo Turul era sembrato che tutto il nervosismo sceso fra loro da quei tocchi carnali nelle docce, fosse scomparso, polverizzato, lasciato ad una giovane tenerezza nei contatti e una voglia nello sfiorarsi che Michiru non aveva mai manifestato prima. Certo, tralasciando il primo giorno di reclusione e la sera nella quale le aveva regalato la dolce melodia del suo violino, il comportamento nei suoi confronti era ancora abbastanza criptico, ma almeno adesso non c’era più irritabilità in lei. Una sola cosa stava confondendo Haruka ponendola in un perenne stato di tensione e voglia; ovvero l’atteggiamento che Kaioh sapeva padroneggiare splendidamente e che prendeva il nome di femminilità. Stuzzicava, scappava, si riavvicinava per poi scappare nuovamente.

“Sembri confusa.” La voce della sorella le sembrò irriverente come al solito.

“Non so a cosa tu ti stia riferendo Johanna e francamente poco me ne frega.”

Scaraventando l’ultima maglietta nell'acqua la sentì al fianco. “Piantala di avercela con me! E’ dalla morte di nostro padre che non parliamo più noi due.”

“La stai mettendo sul personale?”

“Non è forse così, Ruka?” Chiese dando le spalle al vascone in pietra appoggiando i palmi al bordo logoro.

Era vero e la bionda lo sapeva. A dividerle non era stato solo quel meschino voltafaccia che aveva costretto Johanna a tradirla, ma tutto quanto. La perdita della C.A.P., il suo farsi deturpare il braccio, quello che quel simbolo inciso nelle carni rappresentava, il prendere coscienza che la sua diversità era dannatamente mal vista e l'arresto ingiusto subito. Queste cose avevano portato Haruka a separarsi da Johanna, a non parlarle più con il cuore nelle mani come invece era sempre stata solita fare, a tenersi tutto dentro, con l’ovvio risultato di un malessere che aveva colpito entrambe.

“Mi manchi. - Mormorò la maggiore abbassando la testa. - E da sorella non sai quanto mi dispiaccia non esserci.”

“Me la sto cavando benissimo da sola!” Tagliò sentendo però la determinazione venire meno, perché anche se non sopportava ammetterlo la cosa era reciproca.

“Lo so. Lo vedo, ma non mi riferisco solo alle cose negative, ma anche a quelle belle.”

Serrando la mascella Haruka raddrizzò la schiena piantandole gli occhi addosso. “Cosa intendi dire?”

“Michiru…” E rimanendo appoggiata all’umidità del bordo Jo ne sostenne tranquillamente lo sguardo.

“Cosa c’entra Kōtei?”

Un piccolo suono gutturale e l’altra dichiarò senza mezzi termini. “Sei innamorata persa.”

“Sciocchezze!” Un ampio movimento con il braccio e via le mani in ammollo per iniziare a strofinare.

“A si? Tu che ti pieghi ad imparare una cosa che francamente ti ha sempre fatto schifo? Tu che proteggi ingoiando risatine e scherno senza sfasciar troppi denti in giro? Tu che ti esponi mostrando il cuore ad una persona che conosci appena? - Staccandosi dal bordo le si avvicinò talmente tanto da sussurrarle in un orecchio. - Tu che tremi di fronte al suo corpo?”

Facendo un rapido movimento all’indietro, Haruka abbandonò l’acqua rimanendo con le mani sgocciolanti lungo i fianchi. “Questi non sono affari tuoi!”

Sorridendo il secondino scosse lentamente la testa tornando ad appoggiarsi alla vasca. “Potrebbe anche essere vero, però lascia che ti chieda una cosa; ti sei resa conto di quanto quella ragazza sia gelosa di me? Questo non ti suggerisce proprio niente?”

“Cosa dovrebbe suggerirmi?!”

L’altra socchiuse allora gli occhi rendendoli due fessure interdette. “Che Michiru è persa per te. Ma ci fai o ci sei Haruka?! Cosa devo farti… un disegnino?”

"Azzera la saccenza da sorella maggiore e donna navigata, perché mia cara Johanna, a quel che so non puoi ergerti a conoscitrice dell’amore più di quanto non lo sia io!”

“Vero anche questo. Ma è talmente palese che vi piacciate.”

“E cosa dovrei fare, sentiamo.”

Sbattendo le palpebre Jo sembrò spiazzata dalla domanda.“Amarla….”

Abbassando le difese la minore le sedette accanto. Non l’avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma era bello e liberatorio tornare a confrontarsi con lei.

“Non è facile. - Poi le labbra si stirarono e la voce le tremò un poco. - Davvero pensi si sia innamorata di me?”

“Si… “

Il cuore che accelera per poi tornare stabile. Questo provò il Turul dei cieli di Pest a quella semplice affermazione e poi felicità, perché pur se avendolo intuito, quella conferma era qualcosa di meraviglioso.

“Ora ho altro a cui pensare e sai quanto per me, per noi, sia vitale.”

Entrambe posarono l’attenzione sull’avambraccio semi coperto dal maglione che la bionda prese a massaggiarsi.

Battendo il ferro, Jo riattizzò il fuoco mettendo nuova legna. “E’ dunque più importante una vendetta che comunque non potrà riportarci apa, che un futuro che potreste avere insieme fuori da qui?!”

“Io glielo devo Johanna.” Mormorò con fredda convinzione spingendola a proseguire.

“Nostro padre avrebbe voluto vederti felice e diventando un’assassina non potrai mai esserlo. Abbandona questa follia per amore tuo e di Michiru. Vivi la vostra storia… Vivi.”

“Jo io non… - Ma bloccandosi di colpo, Haruka fu presa da un’inquietante consapevolezza, una cosa alla quale non era ancora riuscita ad arrivare, nonostante ci avesse provato con tutta se stessa. - Aspetta un attimo! Ecco perché!”

“Perché cosa?”

Alzandosi di scatto le puntò contro due occhi glaciali. “Mi sono cervellata per giorni, ma proprio non riuscivo a capire il perché della tua bastardata, il perché avessi deciso di tradire il tuo stesso sangue. Dovevi tenermi chiusa qui il più allungo possibile e intanto cercare qualcosa che mi facesse desistere dal mio proponimento, qualcosa talmente importante da farmi inconsciamente scegliere di lasciare sulla terra quel porco di Kaioh!”

“Aspetta …”

“… E hai visto in Michiru quella che per te poteva essere l’ancora della mia salvezza!” Mettendole le mani al colletto della giacca la trascino' in piedi.

“un attimo…”

“Se è vero che anche lei mi ama, stando sempre insieme prima o poi ci saremmo arrese all’attrazione che proviamo l’una per l’altra. Ecco perché mi hai tradita! - Strattonandosela contro il viso prese a studiarne le fattezze. - Scommetto che in questa storia c’entra anche quella narcisista manipolatrice di Set!”

“Lascia che ti spieghi, Ruka.”

“C’è poco da spiegare! Ringrazia Dio che non ti metto le mani addosso Johanna Tenoh!”

“… Ruka.”

“Ringrazia iddio!” Urlò mentre nell’aria iniziava a riecheggiare uno strano fischio, seguito a poca distanza da uno più gutturale e lacerante. Bloccando la tensione muscolare, la bionda si girò verso la porta della lavanderia.

“Ma… cos’è?!”

“L’allarme generale! Deve essere successo qualcosa di grave… E lasciami imbecille!" Ordino' l’altra staccandosela di dosso con una secca botta alle braccia correndo poi verso l’uscita e li, seguita dalla sorella, vide un’ombra sgattaiolare veloce dietro un angolo ad una ventina di metri.

 

 

Non aveva mai rassettato tanto. Non le era mai servito in vita sua. Per l’ovvia conseguenza del suo benessere, c’era sempre stato chi lo aveva fatto al suo posto, ma in realtà essendo per indole ordinata, anche se non avesse avuto una domestica, se la sarebbe cavata benissimo da sola. Ecco perché ogni volta che si ritrovava a guardare la porzione di cella in genere occupata dalla bionda, Michiru non riusciva a capire come l’altra potesse anche soltanto respirare in quel porcile che aveva la sfrontatezza di chiamare letto. Forse quella ragazza glielo faceva apposta o forse avrebbe dovuto essere lei a smetterla di pretendere troppo da quell'uragano.

Quell’uragano fantastico che sei... Haruka, pensò Kaioh slanciandosi sul letto superiore per afferrare il sopra del pigiama che la bionda aveva dimenticato appallottolato tra materasso e muro. Un saltello sulla traversa metallica e tornata con i piedi sul pavimento sorrise al cencio avvicinandoselo al viso inalando così l’odore buono che emanava. Adorava quella fragranza di pelle, fin dalla prima volta che l’aveva sentita, così come adorava il suono del suo respiro addormentato nel silenzio della notte e quei piccoli mugolii che alle volte le uscivano dalle labbra quando sognava.

Ormai era evidente; Michiru era arrivata al punto nel quale una ragazza afferra la consapevolezza dei propri sentimenti, tracciando la strada e i successivi passi da compiersi per cercare di far sbocciare un qualcosa di bello. Anche se la situazione nella quale stava vivendo non era delle più semplici. Un carcere e l’oggetto di una passione che sentiva crescere esponenzialmente con il passare dei giorni. L’attrazione verso il suo stesso sesso.

C’era dunque tanto in gioco e mai come in quel periodo, Michiru avrebbe voluto avere la madre accanto. Un consiglio, una parola gentile, i suoi sorrisi, gli abbracci. Cosa avrebbe detto nel sentirsi dire: mamma sono innamorata di una donna fantastica di nome Haruka Tenoh. E’ alta, bella, forte, testarda, orgogliosa, generosa e chissà cos’altro, perché sono centinaia le cose che ancora non so di lei. Ma quando mi guarda con il verde dei suoi occhi, è come se riuscisse a penetrarmi l’anima. Dimmi mamma… , dimmelo tu. Cosa devo fare? L’avrebbe capita Kurēn, capita e sostenuta, arrivando financo ad approvarla. Si, Michiru non aveva dubbi ed era per questo che ogni volta che sentiva di stare per perdere la bussola per colpa di un atteggiamento troppo possessivo o difficilmente interpretabile di Tenoh, sentiva fortissima la voglia di avere ancora la madre accanto.

Non era mai stata una ragazza troppo religiosa. Da mezzosangue aveva appreso i rudimenti del cattolicesimo paterno e dello scintoismo materno, fondendoli in una unica e per lei grande verità; quella di un comune bene superiore. Tutto il resto, dal culto, alle tradizioni, lo lasciava alle persone intellettualmente impegnate, ai teologi, ai dotti, ai filantropi, sperando solo che dopo la morte potesse esserci un qualcosa che riportasse all’unione le anime che in terra si erano amate. E’ per questo che alla scomparsa di Kurēn, aveva preso a parlare con lei come se fosse stata ancora in vita, riuscendo a stemperare così il dolore per una perdita tanto importante, imparando nel contempo ad ascoltare se stessa.

Certo, il mio cavaliere è un tantino diverso da quello che mi figuravo da ragazzina, ma ti sarebbe piaciuta mamma, continuò commuovendosi al ricordo delle lunghe chiacchierate che erano solite fare al crepuscolo, dopo cena, sedute sul legno perfettamente piallato del portico davanti al centenario nihon teien della famiglia Kōtei.

Che carattere particolare che ha. Fino a quando la presa in giro di Horvàth non le è arrivata alle orecchie, Haruka era goffa ed impacciata. Poi il suo sguardo è cambiato di colpo, tanto da lasciarmi stupita. Le sue braccia mi hanno afferrata e stretta. Il suo corpo ha aderito al mio in maniera tanto perfetta che mi sono sentita sciogliere.

“Michiru… ancora in piedi?”

Sobbalzando si girò di scatto al secondino fermo sull’uscio della cella ancora aperta. Anya, che tutte giocando sul nome proprio della donna e sulla condizione di genitore, chiamavano anya egységes, letteralmente “madre in uniforme”, se la guardò sorridendole come sempre. Era lei che in genere veniva a prenderle la mattina, ed era sempre lei che spesso dava loro la buonanotte alla chiusura delle porte. Comprensiva ed umanissima, con il passare degli anni era diventata, al pari di Shiry, una sorta di figura iconica, soprattutto per le giovani del Blocco B. Usagi e Minako l’adoravano.

“Credevo che con tutto il da fare che avete in questi giorni, vi foste coricata già da un pezzo.”

Il voi. Michiru l’aveva capito subito quanto la sua condizione di oppositrice del Regime, per assurdo che fosse le avesse portato rispetto, soprattutto da parte delle donne in uniforme.

“In effetti sono esausta, ma sto aspettando Haruka.”

“Scommetto che è andata in lavanderia.” E rise entrando.

“Esatto.”

“Io glielo chiedo sempre a quella benedetta ragazza del perché non riesca a tenersi pulita una camicia per più di un giorno, ma lei mi fa spallucce mettendo su una faccia da schiaffi degna del mio figliolo più piccolo.”

Anche Michiru rise per chiederle poi quanti ne avesse.

“Tre.” Rispose con una certa punta d’orgoglio, ammettendo però che visto il lavoro che svolgeva nel carcere, era costretta a vederli di rado.

“Sapete, il più giovane ha dieci anni e suona il violino come voi. Ha una vera e propria passione per quello strumento e vorrebbe fare il conservatorio. Credo abbia preso dal padre di mio marito.”

“Perché no? Se ha talento.”

“A tal proposito mi piacerebbe avere un vostro giudizio. Magari un giorno, quando sarete stata scarcerata.”

“Con piacere, anche se non so proprio quando riuscirò ad uscire da qui.”

“Non si sa ancora nulla dal Tribunale?”

“No.”

“Vedrete che presto tutto andra' per il meglio. Non disperate…”

Ma prima ancora che la donna potesse metterle una mano sulla spalla in segno di profonda comprensione, la sirena dell’allarme generale riecheggiò tra i ballatoi e le volte del Blocco A.

“Dannazione.” Esclamò sentendo a malapena la voce del capo Shiry urlare a tutte le guardie di chiudere le celle.

“Cosa sta succedendo?”

“Kōtei restate tranquilla.” Suggerì schizzando fuori per sbarrarle la porta metallica sul viso.

“Aspettate! Cosa significa questo suono?!”

“Restate tranquilla ho detto!” Ripeté correndo via mentre le colleghe iniziavano a spintonare le altre detenute all’interno delle rispettive celle.

 

 

L’agente speciale Hino guardò il fascicolo alzandoselo davanti agli occhi. Alla luce della lampada quel nome era riuscito a toglierle con furia la pesante coperta che aveva cercato d'abbandonare sui ricordi del periodo nel quale aveva preso servizio alla casa della giustizia. Tenoh. Possibile che l’unica detenuta in isolamento al momento dell’allagamento del piano interrato, fosse connessa all’ultimo uomo che lei aveva visto morire in quel carcere maledetto e che di fatto, le aveva dato il coraggio di abbandonare quell’incarico?

“Jànos Tenoh. Haruka Tenoh. - Sibilò, mentre con la sinistra afferrava un altro fascicolo; quello di un secondino in servizio alla casa della Luce da poco più di un mese. - Johanna Tenoh, registrata sotto il cognome materno di Horvàth.”

La stessa Johanna Tenoh che al momento della presunta rottura delle tubazioni si stava aggirando nei seminterrati.

Poggiando la schiena alla traversa di legno della sua sedia, Rei sospirò avvertendo nei muscoli del collo tutta la tensione accumulata in quelle poche ore. Raccogliendo i lunghi capelli neri e bloccandosi sulla testa con una matita, iniziò a massaggiarsi la pelle cercando sollievo. Aveva la necessità di elaborare un programma da seguire per quello che non sarebbe stato il compitino semplice che il suo superiore le aveva prospettato con tanto entusiasmo. Perdendosi al neutro della vernice che ricopriva la stanza, ricordò gli sprazzi salienti della conversazione che l’avevano portata in quel carcere.

“Non preoccupatevi Hino! La casa della luce è una struttura della fine dell’ottocento e come tutte le vecchie signore, ha i suoi acciacchi. Vedrete che basterà un sopralluogo di qualche ora. Saranno saltate le tubature. Non ci sono state mai evasioni, incidenti o rivolte. Non impensieritevi dunque e pensate alla carriera!”

Certo, quello che in pratica le aveva ripetuto fino alla noia anche la direttrice Meioh e che chissà perché, il suo intuito da segugio le suggeriva di non accettare come la più papabile delle ipotesi. Eppure le tubazioni che aveva visto non lasciavano spazio all’immaginazione. Con molta probabilità le temperature rigide degli ultimi giorni avevano finito per ghiacciare parte delle sezioni e la pressione dell'acqua aveva fatto il resto. Un copione già visto, soprattutto alle loro latitudini e in strutture tanto datate. Ma fino alla definitiva conferma, Rei si sarebbe sentita agitata.

“Speriamo sia la strada giusta.” Rantolò stiracchiandosi posando l'avambraccio destro sugli occhi proprio mentre il silenzio del Blocco C veniva interrotto dal suono lancinante di una sirena che purtroppo ogni guardia che si rispetti sapeva riconoscere come segno di pericolo.

Spostando il braccio guardò la porta trattenendo il respiro. Poi un vociare concitato proveniente dal corridoio la costrinse a scattare in piedi.

 

 

Ungheria meridionale – scalo ferroviario, Agosto 1939

 

Rei si svegliò di soprassalto, come se qualcosa le avesse urlato di farlo. Alzandosi a sedere sul giaciglio di paglia improvvisato trovato nell’ultimo vagone merci che avrebbe portato lei e Makoto nella capitale, si sentì stranamente agitata. Non aveva fatto brutti sogni e riteneva quel treno un luogo sicuro. Toccandosi il petto inalò più volte. Allora perché tanta inquietudine. Verificando di non aver svegliato la sua piccola amica, voltò la testa verso il fianco accorgendosi con terrore della sua mancanza. E capì. Scattando verso il portellone parzialmente aperto, saltò giù dal treno ritrovandosi illuminata dalla luna in quella che presumibilmente era una stazione di scambio.

Coricatesi alla solita ora, le due bambine avevano atteso che i rispettivi genitori avessero fatto altrettanto, per poi sgattaiolare fuori dalle loro stanze e facendo affidamento sulla stanchezza che ogni bracciante agricolo portava con se nel letto, avevano racimolato qualche provvista in dispensa per poi incamminarsi mano nella mano verso il centro città di Baja. Era stata una traversata lunga per due esserini come loro, ma determinate nel loro proponimento erano riuscite a coprire i chilometri necessari per arrivare in stazione. All’alba, sfinite, si erano infine issate su di un treno merci diretto a Budapest e li erano crollate cullate dallo sferragliare delle ruote sul binario.

Cercando di mantenere l’equilibrio sulle montagnole di ghiaione ingrigito dalla fuliggine e sentendo negli occhi la furia delle lacrime, Rei richiamò a se tutta la calma della sua giovane età. Non era da Mako allontanarsi così. Dove poteva essersi cacciata? Zigzagando tra le lamiere ricacciò più volte l’ovvio grido di richiamo che avrebbe tanto voluto emettere, sapendo che se scoperte, gli adulti le avrebbero rispedite al mittente senza pensarci su due volte.

Dove sei Mako, dove sei!? Pensò avvertendo l’adrenalina pulsarle nelle tempie e l’arsura impastarle la lingua. Poi, nel silenzio di quel luogo sconosciuto fatto di possenti giganti bruniti parzialmente dormienti, un urlo tarantolato le diede la direzione da seguire.

Quando meno di un paio di minuti dopo riuscì a far capolino tra l’ancoraggio di due vagoni, la scena che le si presentò agli occhi fu quella di una Makoto terrorizzata, scalciante come un puledro ad una fiera e bloccata per le braccia da un uomo in uniforme blu.

“Stai ferma piccola Erinni.”

“Nooo! Lasciatemi!” Strillò peggio divincolandosi nel suo giacchetto scuro.

“Makoto! Toglietele le mani di dosso!” Saltando fuori ed afferrando una delle tante pietre disseminate a terra, Rei la lanciò verso la testa dell’individuo colpendolo in pieno.

Sentendosi finalmente libera, la bambina corse dalla più grande che riarmando la mano l’accolse con l’altra stringendosela forte al petto.

“Maledetta!” Bofonchiò quello arretrando mentre incurvava la schiena tenendosi la testa tra le dita.

“Ma di ragazzina, sei impazzita?”

Una seconda voce proveniente dalla sua destra e Rei scoprì che l’uomo colpito non era solo, anzi, che aveva quattro compagni. Macchinisti, o almeno questo sembravano dalla logora divisa della MÁV che avevano su.

“Rei…” Piagnucolò Makoto stringendosi alla sua giacchetta mentre quelli si avvicinavano.

“Fermi o ve ne tiro un altro.” Minacciò lei alzando il braccio.

“Stai tranquilla.” Disse quello tra loro che sembrava il più anziano.

Capelli brizzolati, sguardo stanco, ma buono, avanzò di un passo alzando le braccia in segno di pacificazione.

“Non fidarti Rei… Sono cattivi.” Supplicò l’altra camuffando la voce tra la stoffa ed i singulti impauriti.

“Che le avete fatto!?”

“Noi assolutamente nulla. E’ lei che ha mancato. Abbiamo pizzicato questa ossessa a rubare.”

Come colta da uno spasmo di rivalsa, la piccola scattò allora la testa verso l’individuo ringhiando di collera. “Non è vero! Io non sono una ladra!”

“Abbiamo avuto dei furti durante le scorse ore!”

“Non sono stata io!”

“E allora cosa ci facevi li dentro?!” Inquisì indicando il vagone alle loro spalle.

“Non sono affari vostri!”

“Mako! No…” Sentendosi ripresa dall’improvvisa severità di Rei, la bambina abbassò la testa ammettendo che era scesa dal loro treno per andare in bagno, ma che confusa dai tanti binari, aveva finito con il perdersi.

“Credevo fossi riuscita a tornare, ma questi cosi sono tutti uguali.” Frignò stropicciandosi gli occhi arrossati dal pianto.

“Visto!? Una persona e' sempre innocente fino a prova contraria!”

“Questo è quello che dice la tua amica, ma sta di fatto che siete due abusive e qui da noi non siamo soliti far viaggiare la gente a sbafo.”

E la questione finì li. In men che non si dica, Rei e Makoto furono portate alla polizia ferroviaria che una volta sapute le loro generalità, provvide a rispedirle a casa senza troppi convenevoli.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

“Non… non sono stata io…” Spalancando gli occhi Makoto alzò lentamente le braccia alle canne dei fucili.

Cercando di allontanarsi dal corpo disteso accanto a lei, sentì la suola della scarpa sinistra scivolare sulla densa pozza vermiglia che stava allargandosi a vista d’occhio tutta intorno a lei.

“Toglietevi dannazione e fate tacere questo allarme! - Facendosi strada tra il fronte delle quattro colleghe che stavano tenendo la ragazza sotto tiro, Shiry guardò atterrita il pavimento e la giugulare della donna dalla bocca grottescamente spalancata ormai completamente imbrattata di sangue. - Cristo Santo, Kino! Ma che hai fatto?!”

“Capo Shiry… Io non c’entro niente.”

“Sta ferma!” Urlò una dei secondini alzando maggiormente l’arma d’ordinanza.

Con un gesto secco il superiore bloccò la sottoposta mentre con circospezione andava chinandosi per posare indice e medio sul polso esangue ormai privo di vita. Gli occhi corsero al collo squarciato, dove piccole bolle di un rosso arterioso intensissimo stavano andando confondendosi tra i lembi macabramente mutilati di cartilagine e muscoli.

Porca puttana, pensò il capo guardia non essendosi mai trovata davanti ad una scena simile in vent’anni di onorato servizio.

“Spostatevi.” Setsuna irruppe nel corridoio anche troppo affollato, seguita da Rei ed un altro paio di secondini.

“Direttrice… “

“E’ morta?”

“Si signora. Le hanno reciso l’arteria di netto. Il corpo è ancora caldo e se non ci sbrighiamo a pulire… qui tra poco sarà un casino. - Piatta, Shiry tornò eretta estraendo dal cuoio della cintura un paio di manette. - Kino… stai ferma.”

“No!” Schiacciandosi contro il muro la ragazza iniziò a guardarsi intorno per cercare un’improbabile via di fuga.

“Stai calma… Cerca di non peggiorare la tua situazione.”

“Calma una cazzo! Non sono stata io! Stavo rientrando al blocco quando ho avvertito dei rumori e avvicinandomi, ho trovato… lei.”

“D’accordo, ma adesso buona… - Insistette avvicinandosi ordinando nel contempo alle colleghe di abbassare le armi. - … e buttalo in terra. Lentamente…”

Solo allora, seguendo con lo sguardo quello dell’alta fisso sulla sua destra, Makoto si accorse di stare stringendo tra dita una lama artigianale, di quelle ricavate da pazienti battiture di pezzi di metallo trovato chissà dove. Tagliente come un rasoio e ferale al pari di quelle forgiate dal più sapiente dei maestri armaioli. Guardando con orrore il palmo arrossato, la ragazza lasciò cadere l’arma ritrovandosi spinta, rigirata, inginocchiata ed ammanettata dal capo squadra.

“Portatela in…” Stava per dire isolamento, ma ricordandosi l’inagibilità temporanea del seminterrato, Shiry cercò allora consiglio dalla direttrice.

Bianca come un cencio, gli occhi come svuotati, la bocca arsa serrata in una piega amara, Meioh diresse con autorità, sentendosi però la morte nel cuore. Aveva sempre confidato in quella ragazza. Kino era una brava detenuta. “Useremo l’ultima stanza del Blocco C non ancora occupata. Bonifica completa dell’ambiente e sentinella davanti alla porta fino a nuovo ordine. - Poi a voce sostenuta ordinò che fosse chiamato Mamoru Kiba. - Fatelo venire qui! Anche se ormai…”

Prendendo la comanda, il capo squadra affidò alle colleghe la ragazza andando discretamente accanto a Setsuna. “Direttrice… e il corpo?” Sussurrò fissandola negli occhi.

“Abbiamo dei sacchi per cadavere?”

“Credo, anche se non mi chieda dove diavolo siano andati a finire.”

Inalò pesantemente Setsuna, sentendo stomaco e budella contorcersi in un’unica, devastante accozzaglia dolorosa. “Trovateli, fossero anche all’inferno e fino a quando il corpo non sarà rimosso, voglio un presidio. Cerchiamo di non allarmare le detenute. Che nessuna veda questo scempio.”

“Direttrice, non sono stata io! Credetemi…” Intervenne Makoto disperata.

“Detenuta 0201, verremo ad interrogarti tra poco. Allora ci spiegherai quello che è successo. Agente Hino… naturalmente vorrei foste presente.”

Ma Rei non rispose. Non recepì nemmeno quello che per Setsuna era diventata una vera e propria emergenza. Lo sguardo incollato a quello di Makoto, la fronte imperlata di sudore e solcata da una ruga profondissima, anomala per la sua giovane età.

 

 

 

NOTE: Salve! La cosa mi sta sfuggendo di mano! Adesso manca solo Ami e siamo al gran completo. Rei proprio non doveva esserci. Mako proprio non doveva far danno. Setsuna proprio non avrebbe dovuto trovarsi in una situazione come quella di un omicidio all’interno delle mura carcerarie.

Così facendo si rischia di far passare in secondo piano la scintilla d’amore che ormai ha innescato l’attrazione tra Haruka e Michiru.

Qui si rischia di allungarsi tutto troppo!

PS La MÁV sono le Ferrovie Statali Ungheresi, in funzione dal 1869.

Ciau e a presto!

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Sailor Moon / Vai alla pagina dell'autore: Urban BlackWolf