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Autore: yonoi    22/07/2018    6 recensioni
Un piccolo paese tra i boschi incappucciati di neve della Danimarca.
Nella mente di Indaco Hansen suona da sempre un'armonia tutta speciale, che solo lui è in grado di udire: il suo corpo risponde, e fin da quando ha imparato a reggersi sulle gambe, la danza è la sua dimensione, il suo destino e la sua gioia. Accanto a lui è cresciuto l'amico indivisibile, Larse Kruse. Larse è schivo e introverso, ma possiede anche lui un modo tutto speciale per comunicare il suo spirito: il disegno è la sua voce, la via di liberazione da tutte le sue inquietudini, dalle pene segrete, dal suo amore nascosto per Indaco Hansen. Indaco è il suo desiderio, l'oggetto dei suoi ritratti, ma Indaco è totalmente devoto alla sua danza.
La storia di un'amicizia, di un amore che si consuma nel silenzio, di un sopruso e un inganno, di una malattia che non lascia scampo, di un'antica e sinistra leggenda.
Prima classificata pari merito al contest "Zodiac game" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP; storia valutata al contest "Sense and Sensibility" indetto da Iamamorgenstern.
Seconda classificata al contest "Concorso a tema (l'amicizia) indetto da Dreamkath.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Ero lì, con le mie scarpe congiunte ai piedi,
con il mio corpo che si apriva alla musica,
con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole.
 Era il senso che davo al mio essere,
era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia,
era il vento tra le mie braccia,
erano gli altri ragazzi come me che erano lì
 e forse non avrebbero fatto i ballerini,
ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.”
(R. Nureyev, Lettera alla danza)


“Questo paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è tornato”
(William Shakespeare)
 

           
4 - Atto quarto – Non avere altro da dire

 
            Contrariamente alle aspettative di Larse, che non l’avrebbe mai confessato ma quanto ad ambizione aveva gli occhi grandi quanto Indaco Hansen, Scarpette rosse non riuscì ad ottenere il podio: non vinse il primo premio, neppure il secondo o il terzo. Quegli scenari cupi, il senso di inquietudine che ispiravano quelle tavole in cui prevaleva il nero, e dove l’unica macchia di colore era il rosso delle scarpe e del sangue, non riuscì a fare breccia in una giuria composta da insegnanti che lavoravano nelle scuole, ed erano abituati ai disegni dei loro allievi, più semplici e innocui, e a trame meno angoscianti.
            Scarpette rosse si classificò quindicesimo.
            Malgrado la soddisfazione di Shlomit Abramovich, che non cessava di parlare e di gesticolare per sciogliere la tensione - anche per lei si trattava del primo evento importante a cui prendeva parte un suo allievo - Larse accusò il colpo con un senso di disfatta totale.
            Seduta a un tavolino del piccolo caffè del Palazzo delle arti, circondata dai molteplici strati delle sue gonne e accompagnando le parole con un tintinnio di bracciali che a Larse dava sui nervi ogni minuto di più, Shlomit rimarcava il fatto che quello era il loro primo concorso nazionale, non una semplice gara tra compagni di classe, e che il piazzamento era di tutto rispetto, essendo i partecipanti ben più di duecento, duecentoventi per l’esattezza: c’erano tutti i motivi per essere contenti, anzi per festeggiare.
            Dal canto suo Larse Kruse, considerando che al rifiuto di Indaco si andava ora a sommare quello del mondo intero, almeno per quanto concerneva il fumetto, riteneva piuttosto che il quindicesimo posto fosse un motivo più che legittimo per un suicidio onorevole, alla maniera degli antichi samurai giapponesi.           
            Seduto al tavolino di quel caffè d’altri tempi - ricco di volute e di stucchi, in quello stile ridondante che si addiceva a Shlomit Abramovic, e che Larse cominciava a odiare - il ragazzo cercava di sviare lo sguardo: come se anche le orecchie potessero seguirlo, e risparmiargli i discorsi con cui la sua insegnante cercava di convincerlo che aveva vinto lo stesso. Fu in quel momento che Larse intercettò un signore distinto, un gomito appoggiato al bancone del bar, due occhi come pozzi neri che lo fissavano. Shlomit andava avanti a parlare dei prossimi progetti, dei maestri che aveva incontrato al concorso, di una selezione che si sarebbe tenuta entro il mese prossimo, per la pubblicazione di una raccolta dedicata al fumetto giovane.
            Larse guardava altrove, precisamente in direzione di quell’uomo elegante, i capelli corti e ravviati in onde scure, così simili alla frangia sempre disordinata di Indaco Hansen. Nei rari momenti in cui l’estraneo smetteva di fissarlo, con quegli occhi come pozzi in cui Larse stava già precipitando senza neanche accorgersene, il suo profilo gli faceva pensare allo stesso volto di Indaco: o meglio, a Indaco Hansen a trentacinque anni, forse anche quaranta.
            Sentendosi osservato come lui l’osservava, lo sconosciuto gli rivolse un sorriso educato.
            Larse rispose con un’alzata di spalle e un sorriso a una volta, accennando a Shlomit che gli sedeva accanto come a dire vedi cosa mi tocca sopportare, non c’è modo di farla star zitta un secondo.   
            Una strizzata d’occhi da parte dell’estraneo, un altro sorriso triste da parte di Larse.
            Poi il ragazzo si girò verso Shlomit, che ancora gesticolava di maestri e progetti, e di punto in bianco le chiese chi fosse lo sconosciuto in piedi al banco del bar. Non fece neppure a tempo a udire la risposta che l’uomo era già lì, in piedi dinanzi a lui, e gli tendeva la mano:
            -“Piacere, Herre Halvorsen”-
            Shlomit s’interruppe all’istante, bloccando quel fiume in piena di gesti e di parole e trasformandosi in una statua di sale coi boccoli. Tra l’eventualità di cadere dalla sedia o  restare congelata con la tazza da thè in una mano e un biscotto nell’altra, Shlomit Abramovich scelse la terza via: si alzò in piedi col rischio di ribaltare teiera e tavolino per l’impatto delle sue gonne a nastri e balze, nonché per l’entusiasmo di trovarsi di fronte all’Autore per eccellenza, che ammirava da quando aveva imparato a tenere la matita in mano.
            Herre Halvorsen, però, badava solo a Larse, ignorando completamente quella che in fin dei conti era la sua insegnante:
            -“Sei tra i partecipanti? Con quale punteggio ti sei classificato? Soltanto quindicesimo?”- e qui Larse non poté fare a meno di rivolgere a Shlomit un’occhiata che era una via di mezzo tra il rimprovero e la rabbia, come a sottolineare che lei, evidentemente, non aveva capito niente. -“Mi faresti la cortesia di mostrarmi le tue opere?”-           
            Seppur bizzarra e stravagante per molti versi, Shlomit aveva sale in zucca da vendere: era prudente, soprattutto quando si trattava di accompagnava i suoi allievi in quella città che, proprio perché era grande, doveva necessariamente esser piena d’insidie, come la vecchia Leah non si stancava di ripetere; oltre a questo, Shlomit era dotata di un sesto senso infallibile: tenendo d’occhio il suo allievo mentre si allontanava verso i pannelli espositivi insieme a Herre Halvorsen, avvertì un senso d’irrequietezza e di gelo, come un avvertimento
            Abituata a dar credito alle proprie intuizioni, decise di non lasciarsi piantare così, in asso: sono pur sempre la sua insegnante, si ripeté, soprattutto per mettere a tacere quella voce che la spingeva a intervenire con urgenza, come se stesse succedendo chissà che cosa.
            Li trovò di fronte al pannello su cui erano esposte le tavole di Larse. L’uomo, che pure aveva fatto parte della giuria, si era lanciato in un lungo discorso che andava a ricercare nell’opera di Larse strani significati, riferimenti stilistici che potevano essere colti solo da un occhio esperto, non certo da quegli zotici che sedevano sul palco ed erano abituati a trovarsi sotto al naso scarabocchi da poppanti.
            Larse pendeva letteralmente dalle sue labbra, con gli occhi dilatati dallo stupore, il viso e tutto il corpo protesi verso di lui come una pianta verso l’unico raggio di sole: senza neanche pensare che, a conti fatti, il quindicesimo posto lo doveva anche a quell’uomo.           
            In contemplazione estatica come davanti a un’apparizione, Larse beveva i discorsi di Herre Halvorsen senza capirci niente: realizzava soltanto che i suoi disegni piacevano a quel tizio che gli ricordava Indaco ma che era ben più fascinoso e consapevole, oltre che un mostro sacro nel regno del fumetto.
            Alle parole di Halvorsen si limitava ad annuire in adorazione, crogiolandosi nei toni caldi di quella voce che lo adulava con paragoni improbabili, riferimenti ad autori di cui non sapeva nulla, tracciando attorno a lui una tela in cui Larse si lasciava sprofondare pericolosamente, ma anche con piacere. 
            Accanto a loro nella parte del terzo incomodo, ma ben lungi dall’idea di star lì a reggere il moccolo, Shlomit era infastidita dai discorsi dell’uomo, che esaltava lo stile visionario di Larse, paragonandolo a illustratori rinomati che il ragazzo non aveva mai sentito nominare appunto perché era poco più che un bambino: e anche la sua mano, pur essendo di certo dotata e promettente, era pur sempre quella di un allievo agli inizi.
            Ancor di più la indispettiva l’atteggiamento di Larse, che come una spugna bisognosa di conferme assorbiva le parole di quello sconosciuto, con un’attenzione così cristallina che non aveva mai visto, quanto meno durante le lezioni nel suo studio. Pur trattandosi del famoso Herre Halvorsen - si ritrovò a pensare Shlomit, esasperata - quell’uomo non era l’insegnante di Larse: e anzi il tono con cui criticava alcuni aspetti tecnici, come l’uso degli spazi e la disposizione delle vignette, facendo intendere a Larse che chi l’aveva istruito non aveva capito niente, la faceva tremare di rabbia dalla punta delle scarpe a quella delle mollette con cui teneva in ordine le volute dei capelli.
            Supponente e arrogante: fu questa l’opinione che Shlomit Abramovich riportò dal suo primo e unico incontro col grande illustratore, la stessa che, più tardi, non esitò a comunicare anche a Larse, quando furono finalmente in separata sede, di nuovo sulla corriera che li riportava al paese.
            -“Spero non crederai a una sola parola di tutti gli spropositi che ha detto quell’uomo”- minacciò Shlomit, decisa a non farla passare liscia al suo allievo - “mi auguro soprattutto che non avrai intenzione di incontrarlo di nuovo”-
            Poco prima, difatti, al Palazzo delle arti, quando lei s’era decisa a recuperare Larse afferrandolo per un braccio con una scusa qualunque - la corriera è in partenza tra meno di mezz’ora, ed è l’ultima - Herre Halvorsen stava appunto promettendo al ragazzo di prenderlo a lezione presso lo studio d’arte che aveva aperto da poco in un posto speciale: interamente circondato dal bosco in modo da consentire la massima concentrazione, e dove l’unica voce era quella del fiume. Un luogo di cui nessuno conosceva l’esistenza, neanche i giornalisti che gli stavano alle calcagna come cani affamati, e tutti quegli stupidi che collezionavano i suoi albi: gli stessi che copiavano lo stile delle sue tavole, con risultati che facevano solo pena - e qui Herre Halvorsen aveva rivolto a Shlomit un’occhiata mista di compatimento e alterigia. Questo, naturalmente non era il caso di Larse, che sarebbe stato ben accetto nel suo studio professionale, in quel posto speciale che guarda caso si trovava proprio a un tiro di schioppo dal paese.
            Ora, sulla corriera che segnava di nuovo il ritmo sonnolento della vita di tutti i giorni, accomodata sul sedile di fronte a Larse con tutte le sue gonne un poco spiegazzate, Shlomit Abramovich intendeva fare i conti e parlare chiaro:
            -“L’arte s’impara, caro. Non è solo questione di vincere i concorsi, quelli a volte sono solo questione di fortuna, e lasciano il tempo che trovano. Non è neppure sufficiente avere talento, occorre il lavoro duro, è necessario imparare come fare le cose. Accettare una sconfitta è essenziale per  migliorare, perché l’adulazione, come dice mia zia, è il pane dolce dei fessi”-
            Seduto di fronte a lei, Larse Kruse l’ascoltava, di nuovo con l’aria dello scolaro diligente, educato e rispettoso. Stavolta però si trattava soltanto di apparenza. E quando la maestra gli pose una domanda, io e te abbiamo un progetto: te la senti di continuare, e di portarlo avanti insieme?, Larse non disse niente. Pareva ancora mortificato dall’esito della gara, mentre in realtà pensava allo studio di Herre Halvorsen in mezzo al bosco, all’unica voce del fiume, alle stupende tavole che avrebbe realizzato in quel luogo segreto, così fuori dal mondo che là non prende neanche il telefono cellulare.
            Dal finestrino della corriera che s’inoltrava nel buio, le sagome degli abeti emergevano dalla nebbia che era improvvisamente calata insieme alla notte, e che si diradava in una pioggerella di aghi lunghi e gelidi solo in prossimità dei canali.
            Larse pensò che Herre Halvorsen gli aveva promesso di contattarlo la sera stessa per prendere accordi, e non vedeva l’ora di arrivare a casa. Come lo stesso Indaco gli aveva detto in faccia, era tempo di crescere e iniziare a fare sul serio.

 
******
           
All’Accademia il secondo anno era appena iniziato e già Indaco Hansen si ritrovava sovraccarico di impegni: allo sforzo richiesto dal corso con Madame, si aggiungeva quello delle lezioni supplementari con la classe di Jens. A insegnare danza nella classe maschile era stato chiamato, quell’anno, un primo ballerino dell’Opera di Berlino, un tizio alto e biondo dall’aria feroce che a quanto si diceva riusciva a essere persino più intransigente di Madame, ammesso che ciò fosse possibile: di fatto, fin dal primo giorno herr Halle diede prova di meritarsi appieno l’appellativo di iena. Era un fanatico dell’ordine e della disciplina che faceva lezione in un clima di terrore, e tirava certe urla da far rizzare i capelli in testa come chiodi, se soltanto notava una minima sbavatura negli esercizi. Correva voce che misurasse l’altezza dei salti con il metro, e che questa trovata fosse in realtà una scusa per spiare gli allievi in mezzo alle gambe: fosse realtà o leggenda dettata dal dispetto di fronte all’eccessivo rigore dell’insegnante, di fatto Indaco Hansen non ebbe l’occasione per accettarsene. All’inizio, durante le lezioni di herr Halle si muoveva disagio, come se si trovasse a camminare sulle uova o in un campo minato: in breve, si rese conto che più ce la metteva tutta per non sbagliare, più l’ansia lo tradiva e gli errori scappavano da tutte le parti.
            Molto più saggiamente, prese la decisione di non lasciarsi intimorire e di considerare le urla dell’insegnante come parte dell’accompagnamento musicale. Fu così che herr Halle lo prese a benvolere, e quando si trattò di assegnare le parti per il balletto lo raccomandò alla Madame Grisi.
            Una volta conclusa la giornata in sala prove, Indaco era impegnato con la scuola serale.
            A differenza degli anni precedenti, quando s’addormentava di schianto sulla corriera, e soprattutto durante le ripetizioni con suor Diletta, la novità della nuova vita nella capitale e il moltiplicarsi vertiginoso degli impegni gli aveva donato una sferzata di energia: sicché persino a scuola riusciva a stare fermo e composto al banco, senza cedere al sonno e neppure alla tentazione di alzarsi e cominciare a volteggiare tra i banchi.
            In realtà, dopo avere trascorso un’intera giornata in esercizi spossanti, Indaco era troppo stanco per aver voglia di saltellare. Ma c’era in lui anche una nuova consapevolezza, che lo spingeva a mettere lo stesso tenace impegno in qualsiasi attività gli fosse richiesta: si trattasse di mettere a punto un nuovo passo o di imparare a calcolare l’area del cerchio, di affinare la tecnica per eseguire più salti senza cadere sfinito, o di mandare a memoria una pagina di storia.
            Presso l’affittacamere che lo teneva a pensione insieme a un gruppo di commessi viaggiatori che periodicamente si fermavano a Copenhagen, Indaco attirava quella curiosità che da sempre circonda il mondo del teatro agli occhi dei profani: la sua presenza portava una nota allegra, un soffio di originalità un po’ scapigliata in mezzo a quegli uomini in giacca e cravatta che passavano il tempo tra rendiconti e commesse e lo consideravano senza troppa serietà, come se quel ragazzo fosse dedito a un passatempo e non a uno studio serio.
            -“Beato te, ragazzo!”- gli diceva ogni tanto il decano dei commessi, un tizio con la bombetta e l’orologio al panciotto che sembrava uscito da un romanzo d’altri tempi. E subito intonava con voce gracchiante: -“Vissi d’arte, vissi d’amore…”-
            Dell’arte Indaco conosceva le fatiche, dell’amore non ne sapeva ancora niente, ma conosceva bene quella romanza che li citava entrambi e insieme, perché a pensione da frue Margarethe c’era anche un tenore, un pezzo d’uomo che pareva il figlio del pirata Barbanera e della strega di Biancaneve, tanto per stare a quel gioco con cui Indaco e Larse erano soliti sghignazzare alle spalle del prossimo: anche se, in questo caso, il tenore pareva Barbanera in persona, anche senza il contributo della strega. Di notte, herre Clausen faceva vita bohemienne, confermando negli austeri commessi viaggiatori l’idea che l’arte fosse un darsi alla pazza gioia nel modo più sfrenato.
            Rientrava in casa all’alba, ubriaco e spesso portato di peso da altri che facevano le veci delle sue gambe. Dormiva qualche ora poi, con una capacità di recupero formidabile, attaccava a cantare romanze d’ogni sorta: compensando con la potenza della voce e tutta la passione possibile e immaginabile a certe stecche tremende, da far tremare i piatti sulla credenza del soggiorno e i vetri delle finestre. Frue Margarethe si tappava le orecchie, preoccupata per i vetri e per le sue porcellane dell’ottocento inglese.
            Indaco non sapeva se trovarlo spassoso oppure terrificante: di certo, lo spettacolo di quell’omaccione peloso fin dentro alle orecchie, con la barba da bucaniere e la pancia capace di reggere ettolitri di birra senza colpo ferire, che intonava Celeste Aida con la boccuccia a cuore per forbire le note era un’esperienza che valeva la pena di vivere.
            In quei momenti, Indaco avrebbe voluto avere accanto a sé Larse, per godere dello spettacolo e sbellicarsi insieme. Ma Larse era più introvabile di prima, e Indaco non riusciva mai a contattarlo, per quanto ci avesse provato tramite il cellulare che ora anche lui possedeva, e che gli aveva regalato nonna Mette all’indomani del suo trasferimento in città, per qualsiasi evenienza.
            Segno chiaro ed evidente che Indaco, alla veneranda età di tredici anni, poteva considerarsi grande a tutti gli effetti.
            Di fatto, proprio in quell’anno Indaco cominciò una crescita accelerata che lo portò in breve tempo ad assumere la fisionomia di un giovane uomo. Mentre la danza continuava a forgiarlo con l’esercizio quotidiano, come obbedendo a un ordine impartito da qualche centralina segreta il suo corpo cominciò a svilupparsi in altezza, poi a buttar fuori una voce più traballante e incerta, e per un certo tempo assunse le fattezze del brutto anatroccolo: troppo alto e dinoccolato per essere un bambino, ma ancora troppo imberbe per spacciarsi da adulto.
            In quel periodo in cui non era né carne né pesce, i grandi del corso maschile lo prendevano bonariamente in giro, chiedendogli se si era fatto la barba al mattino, se per caso era cresciuto qualche pelo, se ogni tanto cresceva anche il resto. Ridevano con tanto di pacche sulle spalle, e Indaco doveva puntare tutti e due i piedi per non finire a gambe all’aria: lungi dal vergognarsi era fiero dei cambiamenti, e non attendeva altro che di essere come loro. Tanto che quando un giorno finalmente un pelo spuntò, non mancò di esibirlo di fronte a tutti gli altri con l’orgoglio di chi ha ottenuto una promozione a pieni voti.
            Quel periodo da frutto acerbo durò una sola stagione: già prima dell’estate il suo fisico aveva ricomposto le tessere, coperto quella nuova struttura da spilungone con una muscolatura più definita, riempiendo le spalle e assottigliando i fianchi, rimpolpando le lunghe gambe da trampoliere, donando al viso un’espressione più matura. Solamente i suoi occhi, estatici e sognanti, erano sempre gli stessi, e anche i lividi che ogni tanto rimediava urtando da qualche parte.
            Alla fine del corso, Indaco Hansen non era più un moccioso nella classe dei grandi. Era alto esattamente quanto loro, dotato della stessa muscolatura potente, come se la sua ammirazione per quei giovani uomini avesse avuto il potere di spingere qualche tasto e attivare un comando segreto nel suo organismo, in grado di trasformarlo in uno di loro.
            Alla scuola serale, come al pensionato, Indaco era considerato la vedette della classe: in quell’aula frequentata da giovani operai con turni massacranti, ex detenuti che riprendevano gli studi e apprendisti occupati nei più svariati lavori, Indaco era una sorta di calamita che attirava l’attenzione di tutti. Gli insegnanti erano tolleranti nei confronti delle numerose assenze dovute alle prove per il balletto, a lezioni supplementari, a tour de force di ogni genere.
            Il professore di matematica gli chiese addirittura l’autografo con largo anticipo:
            -“Così, quando sarai famoso, non sarò costretto a correrti dietro”-
            Soltanto l’insegnante di ginnastica - un omone tatuato e appassionato di culturismo, che gestiva una palestra piena di macchinari che a Indaco sembravano strumenti di tortura - detestava la danza come roba da checche, e per questa ragione ce l’aveva con lui.  
            -”La bella statuina, là in fondo!”- sbraitava quando lo vedeva sollevare le braccia in posa plastica -“Hansen, non stai ballando Il Lago dei Cigni: sei a ginnastica!”-
            Di solito, il rimprovero finiva lì senz’altre spiacevoli conseguenze. Solamente una volta, vuoi perché l’omaccione era di pessimo umore per motivi suoi, oppure perché Indaco s’era reso colpevole di un eccesso di moine nel sollevare le braccia, alla consueta reprimenda l’omone aveva aggiunto quanto c’era di peggio:
            -“Diritte quelle braccia, maledetto finocchio!”-
            Indaco non aveva risposto all’offesa, non s‘era lamentato né dopo né in seguito. Non s’era ripromesso di andare in direzione a piantare una grana: aveva preferito risolverla lì e subito. Era già un metro e ottanta, superava di almeno due spanne l’insegnante e anche se le proporzioni del suo fisico erano molto diverse da quelle di un culturista, non era più mingherlino.
            Si era avvicinato al robusto insegnante, che peraltro si era già pentito di quanto gli era appena uscito di bocca, e stava già pensando a come rimediare e scusarsi con l’allievo.
            Nel mentre ci pensava, in un silenzio di tomba perché l’intera classe stava trattenendo il fiato, Indaco Hansen gli era venuto davanti, e senza tanti preamboli gli aveva sferrato un calcio, dritto e potente in mezzo alle gambe. L’insegnante si era piegato in due come un salice, recuperando da qualche parte - probabilmente tra agli alluci - la presenza di spirito e l’autocontrollo necessari per non lasciarsi scappare nemmeno un gemito.
            Quanto a Indaco Hansen, suggellò la sua impresa con poche parole che caddero nel silenzio generale, come altrettanti semi sopra a un terreno fertile. Fatto sta che da allora divennero leggenda:
            -“A me non piacciono gli uomini. Io, le palle degli uomini le schiaccio sotto i piedi come si fa con l’uva”-
            Nessuno si prese la briga di contraddirlo.

 
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            Finalmente il progetto del balletto di fine anno si stava concretizzando, era stata resa nota la trama su cui sarebbe stata allestita la coreografia, era già stato scelto Jens Lilin per la parte di Heel Halewijn, il leggendario cavaliere che traeva ricchezza, fascino e giovinezza dal sangue delle sue vittime. Per la parte di Maghtelt era stata designata una giovane ballerina dei corsi avanzati. A Indaco era toccata la parte secondaria dell’albero delle teste mozzate, ma non se ne lagnava: gli altri allievi della sua classe avrebbero partecipato come corpo di ballo, mentre a lui spettava un assolo ancora da definire - perché in realtà non si capiva molto bene come avrebbe fatto un albero, per di più appesantito da teste di cartapesta, a volteggiare qua e là.
            La Madame Grisi, che nella sua lunga esperienza di teatro, oltre ad aver danzato davanti a tutte le teste coronate del suo tempo, vantava anche l’allestimento di più di cento balletti in giro per il mondo, aveva già iniziato a impostare la coreografia imponendo agli allievi prove supplementari che si sapeva quando iniziavano - alle diciassette puntuali ogni giorno, domeniche incluse - ma non si sapeva quando finivano: spesso si andava avanti fino a notte inoltrata, e l’indomani le lezioni ricominciavano daccapo. Madame e herr Halle facevano a gara a spremere i ballerini come i famosi chicchi d’uva per i quali Indaco Hansen s’era ormai fatto un nome alla scuola serale, al punto che chicco era ormai diventato uno dei suoi tanti soprannomi.
            All’Accademia, neanche a dirlo, restava sempre il turista, perché la propensione a viaggiare con il naso per aria non gli era venuta meno malgrado i cambiamenti dell’adolescenza, e anche se a vederlo pareva già un uomo fatto.
            -“Turista, riga dritto!”- lo riprendeva Madame, con sempre maggior fervore man mano che il balletto prendeva forma -“oppure, invece dell’albero, reciterai la parte di una delle teste tagliate! Che tanto tu, la testa, l’avrai sempre nel sacco!”-
            Ben presto, anche iena Halle incominciò a chiamarlo turista, o meglio a urlargli dietro, con quella sua voce terrificante da comandante di eserciti all’assalto, quello che in bocca a lui pareva un nome da battaglia all’ultimo sangue.
            Il soprannome di turista affibbiato al loro allievo più talentuoso era l’unica cosa su cui Madame e Halle si trovassero d’accordo: per il resto, l’organizzazione del balletto e la preparazione degli allievi era occasione di liti che si rinfocolavano ogni giorno, con una puntualità e un impegno inappuntabili, e declinate in tutte le possibili maniere con cui un essere umano può attaccare un altro.
            Si andava dallo scontro diretto, con urla da squarciare la gola a entrambi, e da cui neppure Madame si tirava mai indietro, malgrado l’innegabile superiorità vocale dell’altro, ai duelli all’arma bianca, dove l’arma in questione era ovviamente la lingua, di cui entrambi i maestri sapevano far uso con un’abilità strategica eccellente. Madame, che era una signora e non perdeva il suo aplomb neanche quand’era inferocita oltre ogni limite, preferiva colpire in punta di fioretto, laddove il suo avversario preferiva la scure, e andava giù di parole come se si trattasse di abbattere la quercia che cresceva possente nel cortile dell’Accademia:
            -“Halle, lei lo capisce che Heer Halewijn non è una testa di cuoio che si muove a spallate, ma una figura avvolta da un alone di mistero? Il suo ballerino deve muoversi lentamente per suggerire l’idea di una minaccia incombente, e non saltare come un saltimbanco da fiera! Non stiamo mica allestendo uno spettacolo di burattini per scaricatori di porto! Se proprio non ci arriva con la testa, caro collega, posso farle un disegno”-
            Iena Halle non aveva ancora dimestichezza con la lingua danese, sicché spesso prendeva lucciole per lanterne, pur obbedendo puntualmente alla consegna - che lui stesso si era dato - di non darla vinta al nemico per nessuna ragione. Per non saper né leggere né scrivere, affondava l’ascia a caso - o meglio, in base a quello che aveva capito al momento:
            -“Vecchia strega, che dici? Testa da culo sarà lei, tanto per cominciare”-
            Queste scaramucce, che erano all’ordine del giorno e solitamente finivano per far slittare gli orari previsti per le prove e accumulare altri ritardi, si svolgevano tutte lontano dagli occhi - anche se non dalle orecchie - dei solisti e del corpo di ballo. Molto lealmente, sia Madame che herr Halle di fronte alle classi mostravano il massimo rispetto l’uno per l’altro, esigendo dagli allievi lo stesso comportamento ineccepibile.
            Questi, dopo un breve periodo di disorientamento, impararono alla svelta quando Jens Lilin, per troppa confidenza, rischiò addirittura di essere escluso dallo spettacolo. Accadde un pomeriggio quando, esasperato dall’ennesimo rimprovero per un serie di piroette che non riusciva a rendere con sufficiente slancio, Jens sbottò esasperato, nel corso di una prova della classe maschile:
            -“Ma insomma, herr Halle, l’ha detto anche quella vecchia gallina della Grisi che in questi passaggi occorre meno spinta!”-
            Iena Halle aveva scatenato un pandemonio. Le sue urla avevano fatto tremare il Teatro, e si erano sentite fino alle aule insonorizzate degli orchestrali. Fatto sta che, di lì a poco, era comparso il primo violino - un vecchietto azzimato in doppiopetto e papillon - a chiedere se per caso era successo qualcosa. Non appena aveva visto in faccia herr Halle, era sparito subito con la stessa rapidità con cui era comparso. L’insegnante di ballo non se n’era neanche accorto, impegnato com’era a fare i contropelo a Jens Lilin:
            -“Cazzo dici, imbecille! Sei fuori dal balletto! Fuori dalle lezioni! Sei fuori da tutto, coglione deficiente! Impara l’educazione, razza di delinquente!”-
            Ma senti da che pulpito, pensò tra sé Indaco cercando di rendersi al contempo invisibile, non fosse mai che Iena potesse leggergli i pensieri scritti in faccia. Quella volta c’era voluto l’intervento della Madame Grisi in persona per rimettere ordine, e soprattutto per consentire a Jens di riprendere il suo ruolo da protagonista. Indaco era stato felice per l’amico, anche se herr Halle l’aveva già convocato in disparte per affidargli su due piedi la parte.
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            A Natale, durante quella pausa di tre giorni concessa agli allievi a patto che si astenessero da panettone e dolci allo zenzero, Indaco e Larse s’erano ritrovati nella soffitta del condominio, dove si rifugiavano quando il tempo era brutto ed entrambi sentivano il bisogno di un rifugio: là, sotto al manto di neve che ricopriva i tetti e custodiva il silenzio, mentre i fiocchi continuavano a cadere da giorni e anche il cielo era bianco come un’alba perenne, il calore che proveniva dai piani sottostanti intiepidiva il legno grezzo del pavimento, e Indaco lo sentiva salire sulla schiena simile a una carezza: come di consueto se ne stava appoggiato al muro in verticale, con le lunghe gambe diritte contro alla parete. Accanto a lui, Larse Kruse cercava la leggenda di Heel Halewijn sfogliando un grosso libro: girava le pagine con cautela, facendo bene attenzione a non lasciar cadere certi biglietti su cui, nei momenti più tristi, aveva scritto lettere, poesie o anche solo parole che non aveva mai osato rivolgere a Indaco Hansen.
            La luce di una lampada da campeggio, posta sul davanzale interno della mansarda, accresceva le ombre sul volto di Larse: in quel periodo si sentiva come chi vaga in un tunnel senza più via d’uscita, e il suo umore era sempre instabile, oscillante tra la rabbia e il pianto.
            Neppure la visita del suo migliore amico aveva contribuito a migliorare il suo stato d’animo. Mentre continuava a cercare la ballata di Heer Halewijn in quel volume di antiche leggende, Larse in realtà pensava che anche se un biglietto fosse scappato fuori e Indaco l’avesse intercettato con la rapidità che gli era consueta, non gliene sarebbe importato più di tanto.
            Dentro di sé sapeva che il suo amore per Indaco non sarebbe mai venuto meno, e più che mai in quel momento si aggrappava a quel sentimento pulito, in cui c’era spazio solo per il bene dell’altro. Altri pensieri però tormentavano Larse Kruse da qualche tempo: precisamente da quando erano cominciate le lezioni di disegno in quello studio che era grande il doppio di quello di Shlomit, e che era situato in un luogo sperduto in mezzo al bosco e vicino al fiume.
            Il posto speciale di Herre Halvorsen era un’antica fortezza medievale sottoposta a parziale restauro, eseguito con cura e senza badare a spese, ma che aveva riadattato solamente gli interni: vista da fuori, la rocca continuava a esibire le fattezze poco rassicuranti di un cumulo di rovine, dall’aspetto talmente malandato e pericolante da invitare i curiosi - cercatori di funghi, bambini appassionati di storie di fantasmi, satanisti allucinati e viandanti sperduti in cerca di un riparo - a tenersi prudentemente alla larga. Dal sentiero sterrato su cui l’auto di Halvorsen si era impantanata almeno quattro volte, per via delle buche profonde e trasformate in altrettanti acquitrini dalla pioggia, la dimora esibiva un aspetto sinistro, anche considerando che sia la sterrata, sia la radura dove sorgeva all’improvviso, mancavano totalmente di illuminazione.
            La prima volta che Herre Halvorsen vi aveva condotto Larse, questi aveva avvertito un senso di inquietudine non appena l’auto del nuovo insegnante aveva abbandonato la statale per inoltrarsi nel buio di un viottolo: lasciandosi alle spalle la fila di lampioni che peraltro fendevano la nebbia a malapena, quel tanto che bastava a evitare incidenti.
            In quel tardo pomeriggio d’inverno, il buio era già assoluto come in piena notte.
            Quando l’auto aveva cominciato a inoltrarsi sulla sterrata, traballando scossoni sul terreno accidentato e rischiando addirittura la rottura di un asse, finché il conducente non s’era deciso a procedere a passo d’uomo tra mille improperi, Larse aveva già voglia di ritornare a casa: di più, ne avvertiva il bisogno urgente, come se ad ogni scricchiolio delle ruote, ad ogni tonfo sordo dentro a una buca d’acqua, ad ogni imprecazione di quello sconosciuto che stava alla guida, un pericolo che fino ad allora non aveva minimamente considerato si stesse condensando, enorme, sulla sua testa.
            Senza neanche accorgersene, mano a mano che l’auto s’inoltrava in nell’oscurità Larse si era appiattito contro la portiera, la mano sulla maniglia.
            Aveva persino timore di guardare in faccia l’uomo che gli sedeva accanto, impegnato nel difficile compito di mantenere il veicolo stabile e in equilibrio su quel tratto accidentato.
            Quel profilo tagliente che chissà come gli aveva ricordato Indaco Hansen, adesso gli appariva per quello che era: il volto di un estraneo di cui non sapeva nulla, dai tratti congelati nello sforzo di mantenere il controllo dell’auto, la bocca come un taglio da cui uscivano parole a cui Larse Kruse, che pure proveniva da una periferia misera, non era mai riuscito a fare l’abitudine.
            A un certo punto l’urgenza di sottrarsi a quella situazione si era fatta così pressante, che Larse si era rivolto al suo accompagnatore con un tono di supplica:
            -“Scusi se glielo chiedo, signore, ma vorrei tornare a casa”-
            Herre Halvorsen si era voltato verso di lui all’improvviso, con un cambiamento così repentino che Larse era rimasto letteralmente sbigottito. Di colpo, dall’espressione tesa e accigliata con cui scrutava la strada, sterzando con violenza e manovrando il cambio come se volesse strapparlo, il volto dell’uomo s’era aperto in un sorriso insinuante: nelle intenzioni, quel sorriso  voleva essere rassicurante, ma siccome aleggiava soltanto sulle labbra mentre il resto del volto rimaneva di pietra, appariva talmente falso che persino Larse Kruse, che non aveva mai brillato per intuito, se ne accorse immediatamente. Adesso più che mai desiderava scendere, a costo di buttarsi dall’auto in corsa e finire affogato dentro a qualche pozzanghera: a costo di smarrirsi nella nebbia e non riuscire mai più a trovare la via di casa.
            Incominciò a trafficare con la maniglia ma subito Herre Halvorsen, allungando le mani ben curate sul cruscotto, azionò un comando adibito a serrare le portiere definitivamente.
            -“Ma dove vuoi andare?”- sorrise divertito -“e la nostra lezione?”-
            Gli allungò sulla guancia una strizzata complice. Dovette allungarsi un bel po’, perché Larse era ormai tutt’uno con lo sportello:
            -“La prego, mi faccia scendere”-
            -“Hai paura del buio? Guarda, siamo arrivati”-
             Dinanzi a loro sorgeva quel rudere diroccato, e a quel punto Larse era ormai in preda al panico:
            -“Ma dove mi ha portato?”-
            L’estraneo rise: evidentemente, la paura del ragazzo lo divertiva. Sbloccò le porte di uscita, ma Larse non fece in tempo a mettere piede fuori dall’auto, che già Herre Halvorsen gli si parava dinanzi:
            -“Adesso, vieni dentro”-
            Larse puntò i piedi:
            -“Voglio tornare a casa”- l’altro lo afferrò per un braccio, con l’intenzione di guidarlo dentro allo studio, in realtà trattenendolo con una presa d’acciaio:
            -“Andiamo, ragazzino. Ci aspetta una lunga lezione di disegno”-

 
******
 
            Quella sera, in realtà, avevano disegnato.
            A Larse non era accaduto proprio niente di male, così s’era convinto a tornare una volta e un’altra volta ancora: dandosi del cretino per avere pensato che in quello studio elegante, attrezzato con ogni genere di conforto, potesse capitargli qualche cosa di strano.
            Lo allettava l’idea di acquistare importanza agli occhi di un adulto, di essere protetto e guidato da qualcuno che credeva davvero nelle sue possibilità: Herre Halvorsen era una persona importante, la migliore nel suo campo, e averlo incontrato ben poteva considerarsi, secondo Larse, la giusta ricompensa e un equo indennizzo per tutte le delusioni patite fino ad allora, in amore come al concorso.
            In quello studio modernissimo e luminoso, arredato con lampade a stelo, un divano lungo quanto il soggiorno di casa sua e un tavolo da lavoro che pareva una piazza d’armi, Herre Halvorsen gli aveva mostrato i suoi lavori: quelli in corso d’opera e le numerose pubblicazioni, tutte stampate da editori di prim’ordine. Con in mano una tazza di cioccolata calda e finissima, qualcosa di ben diverso dalla risciacquatura di piatti allo zenzero di Leah Abramovich, Larse aveva ammirato le tavole appuntate sul piano da disegno: al confronto, le opere di Shlomit, per non parlare delle sue, parevano scarabocchi da bambini dell’asilo.
            Nello studio della maestra, Larse aveva già avuto l’occasione di sfogliare le tavole ispirate al “Castello” di Kafka: ora, voltando le pagine con una sorta di timore reverenziale, poteva ammirare anche le cupe ambientazioni e il clima surreale de “La metamorfosi”, le trincee devastate di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, la laguna malsana di “Morte a Venezia”.
            Appuntate sul tavolo e ancora in lavorazione, c’erano altre immagini torbide e impressionanti, ispirate a “La Caduta degli dei” di Luchino Visconti. Da queste, in particolare, che rappresentavano l’ultima fatica di Halvorsen e ritraevano un festino decadente ed equivoco, Larse Kruse non riusciva a staccare gli occhi: pensava che neppure tra un milione di anni sarebbe riuscito a raggiungere quel livello di perfezione stilistica, di padronanza nel tratteggiare le linee dei corpi, di suggestione nel ritrarre gli ambienti.
            In quelle scene sontuose c’era un personaggio che somigliava a lui - o almeno così gli sembrava, e il suo compiacimento raggiunse picchi mai visti: un giovincello dall’aria ingenua e confidente, ritratto su un palcoscenico a suonare un violoncello. Nelle scene successive, non era molto chiaro cosa gli capitava, ma quello che era certo era uno dei protagonisti aveva gli stessi lineamenti di Herre Halvorsen: lusingato di essere parte di una sua storia - sempre ammesso che non si trattasse di un abbaglio - quando si volse a guardare il suo interlocutore, adulto, affascinante e ora anche geniale, Larse era senza parole.
            Herre Halvorsen gli scompigliò i capelli con una carezza che si soffermò un istante di troppo, ma Larse non vi fece caso: poi cavò da un cassetto una serie di fogli bianchi, come aveva già fatto Shlomit Abramovich in un tempo che ora sembrava lontanissimo, lo invitò ad accomodarsi sullo sgabello e a iniziare a comporre una scena.
            A sua volta, si era seduto accanto a lui per dedicarsi in perfetta concentrazione alle sue tavole: procedeva con tratti brevi e precisi, e Larse, dopo qualche istante, si era già dimenticato del compito assegnato e s’era messo a osservarlo in religioso silenzio, concedendosi solo il fiato necessario per poter respirare.
            Herre Halvorsen aveva sorriso quando Larse gli aveva domandato, con un sussurro appena percettibile, se poteva stare a guardare: gli aveva risposto con un sussurro a sua volta, a cui aveva fatto seguito una breve risata imbarazzata di Larse, lieve come un ruscello, e un’altra carezza.
            Era trascorsa così la prima mezz’ora: uno che disegnava con le sue lunghe mani, affusolate ed esperte, l’altro in adorazione.
            Più tardi, Herre Halvorsen si era occupato esclusivamente di lui: gli aveva messo di fronte un costoso manuale sulle tecniche del fumetto, gli aveva fornito le stesse nozioni di Shlomit a proposito della prospettiva e del chiaroscuro, tutte cose che Larse già sapeva da un pezzo ma che sulle labbra di quell’uomo dal fascino sicuro parevano novità da ascoltare a bocca aperta, e alle quali votarsi per il resto dell’esistenza. Di seguito, l’insegnante lo aveva abbandonato un poco a se stesso, chiedendogli di realizzare una tavola che descrivesse il loro arrivo allo studio, la nebbia sulla strada, il terreno accidentato e la difficoltà di proseguire in auto.
            Larse si era messo all’opera con la devozione di un monaco incaricato di miniare, a lode e gloria di Herre Halvorsen, tutti e quattro i Vangeli in una sola sera. Voleva a tutti i costi stupire il suo maestro, desiderava ricevere da lui anche solo un decimo di quell’ammirazione che provava nei suoi confronti: si trovò addirittura a desiderare un’altra carezza di quelle mani così preziose, in grado di operare con tanta perfezione.
            Quando Herre Halvorsen si accorse della sua difficoltà nel disegnare l’auto in bilico nel pantano, si chinò su di lui e gli prese la mano per guidarlo: Larse sentì il tepore di quelle dita penetrarlo fin nelle ossa con un brivido. Si abbandonò a quella presa e si lasciò condurre, senza capire più cosa stava facendo ma desiderando solo che quell’istante continuasse all’infinito: e intanto assaporava l’aroma di menta del respiro di Halvorsen, con la coda dell’occhio ammirava la tessitura delle sue ciglia chine sopra di lui e sul foglio, e decideva che la sfumatura dei suoi occhi non era bruna come la corteccia degli alberi, bensì di un verde scuro che ricordava i pini che crescevano fitti attorno allo studio, separandoli dal mondo.
            Durante la prima lezione, Larse e il suo insegnante riuscirono a realizzare una tavola completa, e a impostarne altre due. Durante la seconda ne abbozzarono una, dal terzo incontro in poi non ne fecero nessuna.
******
            -“Che succede, små mus? Lo sai come si dice: un soldino per i tuoi pensieri”-
            -“Non valgono così tanto”-
            -“Qualcosa ti preoccupa. È da quando sono arrivato che ti vedo con quell’aria da cane bastonato. Prima che me ne vada, dimmi cosa succede”-
            Seduti e intirizziti sotto alla pensilina in attesa della corriera che avrebbe riportato Indaco a Copenhagen, riconsegnandolo all’Accademia, alla bacchetta di Madame e alle urla terrificanti di iena Halle, i due amici si stringevano per sentir meno freddo: con un gesto inconsueto per lui, da sempre convinto che i gesti affettuosi non fossero roba da uomini, Indaco aveva posato il braccio sulle spalle di Larse, attirandolo a sé per convincerlo a parlare.
            Conosceva fin troppo bene il suo amico, e sapeva che stava nascondendo qualcosa: ed era triste, Indaco, triste per la partenza e perché indovinava che c’era turbamento nel cuore di Larse, un peso che l’amico non riusciva a confidare. 
            Il giorno prima, in realtà - un bel giorno dal cielo sgombro, che invogliava a uscire a far palle di neve come ai vecchi tempi - Larse era stato sul punto di raccontargli tutto. L’aria intorno era tersa come i ghiaccioli che scintillavano a penzoloni dai davanzali, e per il freddo che c’era non si riusciva a star fermi. Il sole, in quella stagione, riusciva a malapena a sparpagliare intorno una luce polverosa.
            Con la scusa di camminare per scrollarsi via il gelo e gli eccessi del pranzo di Natale, Larse aveva condotto Indaco fino al posto speciale: addentrandosi per i vialetti che gli spalatori avevano scavato come trincee, avevano camminato fin fuori dal paese, e di seguito nella pineta incappucciata dove si udiva, a tratti, solamente lo schiocco di qualche ramo spezzato.
            Alla luce del giorno che già iniziava lentamente a declinare, la rocca non aveva un aspetto sinistro: pareva solamente un luogo desolato, un ammasso di pietre sotto alle quali nessuno che avesse un briciolo di buon senso si sarebbe fermato neanche in caso di pioggia, per quanto appariva instabile e pericolante.
            Quando Larse, che lo precedeva, si era avvicinato alle mura con la stessa disinvoltura che avrebbe usato per entrare in casa sua, Indaco lo aveva acchiappato al volo per la giacca:
            -“Sei diventato scemo? Non vedi che sta su per miracolo, e solo a parlar troppo forte c’è il rischio che crolli tutto?”-
            Larse, che in sua presenza era sempre imbarazzato e non riusciva mai a levare gli occhi da terra, lo aveva guardato dritto, con un’aria che non prometteva niente di buono.
            Il suo viso era terreo.
            -“Io qui ci vengo sempre. Ci vengo tutti i giorni, qui, a disegnare”-
            -“Disegni fuori, al freddo?”- Indaco s’era guardato intorno, sconcertato.
            Nella radura che circondava la rocca c’erano solo i pini con i rami abbassati dal peso della neve: l’oscurità iniziava a salire dalla terra, portando via gli scampoli di quel sole troppo distante per far luce fino a tardi.
            -“Tra poco è buio, andiamo”- Indaco si stava già incamminando, e solo allora fece caso alle tracce di pneumatico lungo il vialetto che portava all’ingresso. La neve era stata spalata di recente e accumulata ai bordi, in modo da costruire una di quelle trincee candide che si vedevano anche in paese. Quell’anno, era venuta giù davvero senza risparmio.
            -“Ho spalato io qua intorno, se proprio vuoi saperlo”- gli fece eco Larse, che nell’ultima luce del giorno pareva ancora più livido, con certe occhiaie fonde che mettevano spavento.
            -“Si può sapere che succede? Hai una faccia da morto”-
            -“Vieni a guardare dentro”- Larse l’aveva spinto verso una finestrella che la neve alta portava a livello del suolo -“guarda qua, che bel posto. Io ci vengo ogni giorno”-
            Indaco s’era allungato per guardar dentro e aveva intravisto qualcosa dello studio: dalla penombra che avvolgeva l’interno emergevano, coi lunghi colli inclinati, le costose lampade a stelo, la sagoma di uno spazioso tavolo da disegno, il divano lunghissimo.
            Malgrado l’apparente stato di abbandono, la rocca celava un luogo raffinato e accogliente.  
            -“Me l’hai già detto, che vieni qui ogni giorno. E quindi? Beato te che vieni in un posto del genere”- e stava per aggiungere e a me che me ne frega, ma l’espressione dipinta sul volto dell’amico, in tutte le sfumature possibili del grigio, continuava a preoccuparlo.
            Larse aveva staccato un ghiacciolo che penzolava dal telaio della finestra, e l’aveva scagliato lontano:
            -“Hai detto bene, beato me. Proprio!”-
            -“Se non mi dici cosa succede, ti piglio a calci nel culo”-
            -“Mi manca solo quello”-
            Il gelo cominciava a mordere forte. Non c’era quasi più luce:
            -“Perfetto, come vuoi. Me lo dirai dopo”- Indaco aveva cominciato ad avviarsi, pensando che l’amico l’avrebbe seguito. Larse rimase un poco, e sentendosi meno a disagio senza gli occhi dell’altro puntati addosso, era quasi sul punto di iniziare a parlare. Ma invece delle parole gli uscì fuori un fiotto di vomito, e pochi istanti dopo Indaco lo reggeva mentre il pranzo di Natale finiva in volute calde, bollenti ai piedi di un albero. Dalla neve fusa saliva un odore di marcio.
            Con un’avventatezza che non riuscì mai a perdonarsi, Indaco pensò che la chiave di quel comportamento indecifrabile di Larse fosse il mal di stomaco, molto probabilmente un principio d’influenza:
            -“Andiamo a casa, subito”-
            L’aveva sorretto lungo tutto il tragitto, malgrado Larse fosse perfettamente in grado di camminare. Stare abbracciato a Indaco Hansen, sentire sulla guancia il suo fiato che usciva in nuvolette tiepide, se non era al primo posto era comunque ben piazzato nella classifica dei sogni proibiti di Larse: sicché in quel momento si stava realizzando qualcosa che non aveva mai osato sperare, neppure nelle sue fantasie più azzardate. Ma ora non gl’importava, anzi temeva che per effetto di quel contatto il suo amico finisse per scoprire qualcosa: che quel segreto che desiderava confidargli senza riuscire a trovare il modo, finisse per scappare fuori da solo.
            A un certo punto, l’aveva spinto via da sé in malo modo:
            -“Smettila con questi atteggiamenti da finocchi. Ce la faccio da solo”-
            Alla stessa maniera, il giorno dopo alla fermata s’era levato il braccio di Indaco dalle spalle:
            -“Dovevo immaginarlo che a furia di ballare diventavi uno di quelli”-
            -“Ancora con questa storia?”- Indaco aveva capito che quello era solo un modo per sviare il discorso. Cercò di tornare al punto:
            -“La corriera sta arrivando. Non hai altro da dirmi?”-
            -“E per giunta, da vecchio, sarai come la Madame Grisi”- andando a ripescare quella vecchia battura, Larse si era sforzato di ridere. Ma era livido in faccia anche più del giorno prima, e Indaco non poté fare altro che fissarlo costernato.
            La corriera, sbuffando, si fermò e pareva sul punto di sfasciarsi. Davanti a Indaco Hansen, si aprì la portiera. Salendo a capo chino, si sentì come se Larse lo stesse scacciando. Non c’era bisogno di avere gli occhi dietro alla schiena: tanti anni di amicizia e di condivisione erano sufficienti per sapere che Larse, dietro alle sue spalle, stava tirando un lungo sospiro di sollievo.
            La corriera ripartì, immettendosi nel traffico con quella sua andatura ondeggiante da pachiderma. Indaco si voltò indietro per salutare, ma la fermata era deserta.
 
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