Le
luci lo stordivano, allontanandolo dalla realtà. Jake girava da una parte
all'altra cercando il tavolo da gioco.
Il mio tavolo, lo aveva soprannominato. Perché era il suo tavolo
vincente.
Ed
eccolo lì. Lo stava aspettando, verde e ricoperto da decine di fiches colorate.
Jake estrasse le proprie dalla tasca della camicia e le posizionò di fronte a
sé sul tavolo.
Il
croupier lo fissò impassibile, con la sua tipica aria di superiorità, vestito
da maggiordomo.
Jake
fece il suo gioco, puntando come al solito poca roba, per poi aumentare la
posta a mano a mano che vinceva. E avrebbe vinto, non aveva dubbi. Proprio come
aveva vinto ogni giorno dell'ultimo mese.
"Vedrai
se non ti farò cambiare quella tua espressione da signorino altezzoso",
pensò guardando il croupier che metteva in moto la biglia nella guida.
La
pallina rotolò e rotolò. Esitò. Si fermò.
Jake
aveva vinto. Ritirò il compenso.
Altro
gioco, altra vincita. E ancora. E ancora. Era ora di puntare più forte.
Mise
metà di quello che aveva sul rosso. Uscì il rosso. Scelse il 17. E 17 fu.
Dopodiché
puntò tutto sullo 0, senza alcuna esitazione. Gli altri giocatori lo fissavano
senza parole. Jake riusciva perfino a vedere l'acquolina formarsi nelle loro
bocche secche.
Il
croupier fece il suo lancio, la biglia sembrava non fermarsi. Ma era solo
un'illusione. Ecco che perdeva velocità e interrompeva il suo giro.
Un
urlo agghiacciante.
«Nooooooooo.
Come può essere?»
Jake
era disperato: la biglia si era fermata al numero accanto al suo.
«Voglio
rifare, non è valido. Il lancio era chiaramente truccato»
Il
croupier rise, sinceramente divertito, ma non diede segno di volerlo ascoltare.
Passò al tiro successivo.
Jake
era paonazzo e voleva urlare contro quell'uomo, ma trattenne la propria rabbia.
«D'accordo»,
disse furibondo. «Allora punto questa. E questa.» Si tirò via giacca e orologio
e li porse al croupier. Quello sorrise perfidamente e proseguì.
Perse.
Giacca e orologio non erano più suoi.
Ancora
più adirato, Jake puntò camicia e scarpe.
Perse
anche quelle. Non si arrese.
Mise
in gioco i propri pantaloni.
Sconfitta
clamorosa. I presenti ridevano con gusto. Lui iniziò ad avere freddo, ma
continuò a puntare. Quando fu nudo e congelato, sfinito ma ancora deciso, Jake
si giocò ciò che aveva di più caro.
La
sua stessa vita.
Parte 2
Oliver
passò dallo sportello per convertire il proprio denaro in tante belle fiches
variopinte. Poi si sedette al tavolo con i suoi due accompagnatori.
«Si
gioca», disse allegro. I due si sfregarono le mani.
Giocarono.
Vinsero. Persero. Risero.
Poi
tutti e tre ammutolirono.
Oliver
era improvvisamente silenzioso. Non emetteva più un verso, un suono. Guardava
in basso, la propria mano chiusa davanti a sé, a coprire l'ultima fiche rimasta.
Sudava.
Con un enorme sforzo, raccolse il coraggio di aprire la mano.
Due
minuscoli occhi, un naso e una bocca minuta sporgevano dalla fiche rosa. Le
piccole ciglia si erano mosse, solleticandogli le dita.
Oliver
sporse l'orecchio, portandolo a pochi millimetri da quello strambo dischetto
rosa. Allora lo udì. Un flebile respiro strozzato e una vocina quasi
impercettibile.
«...ake.
Aiutatemi... Mi... c-chiamo Jake»