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Autore: MadLucy    28/08/2018    1 recensioni
Ermione, figlia di Elena e Menelao, non partecipa direttamente a nessuna delle leggendarie vicende della guerra di Troia. Ma osserva. È testimone della vita che vivevano le mogli e figlie greche durante i dieci anni e gli anni dei nòstoi, assiste allo svolgersi della saga degli Atridi fino alla sua conclusione. La sua vita dipende sempre dalle azioni degli altri. L'abbandono da parte di sua madre, le strategie politiche della sua patria, il matrimonio con uomini sanguinari. Ma i suoi pensieri erano solo suoi, e mi sono permessa di dare loro voce.
"In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori.
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?"
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Quando ti dissero che una nave inattesa aveva attraccato, all'inizio pensasti a Neottolemo che aveva finito prima del previsto e non si era preso la briga di avvisare. Poi giunse il secondo verdetto: era un ospite, che veniva in pace. Lasciasti il fuso, i polpastrelli che bruciavano. I tuoi passi piccoli su quelle grandi scale, tonanti.
Era un ragazzo, solo. Senza scorta, senza accompagnatori. Quasi gracile, nel gran salone. Le braccia distese sui fianchi sottili. «Come posso aiutarti, straniero?»
«Straniero, io?» La voce aveva un'impronta fresca, piacevole. Melodiosa. Lo scrutasti, confusa. I capelli neri, così neri da assumere sfumature indaco nell'ombra di grotta. Il fisico asciutto, esile. Il viso dai tratti fini, regolari, nobili. Occhi gelati, invernali. Gli occhi di Agamennone, ma non solo. Come non riconoscere quelli di Crisotemi.
Boccheggiasti, impreparata. Mentre il passato ti risaliva dalla pancia, non sapevi come gestirlo. Aveva un sapore troppo primigenio. Oreste capì che avevi capito e le sue labbra s'incurvarono.
Lo abbracciasti, stretto, disperatamente. Saggiasti la sua gabbia toracica, la struttura delle sue ossa. Allungate, assestate. Ti riappropriasti di quella crescita a cui non avevi potuto assistere. Con quell'abbraccio, volevi riprenderti tutto. Il tempo perduto. L'amore che non avevi potuto dare e ricevere. Lo spazio nella sua vita. 
«Ciao, Ermione.» La sua voce, la sua memoria, ora ti suonava come un miracolo. Ricordava.
«Pensavo fossi morto.» Le tue parole mentivano, esitavano, non sapevano che fare. «Volevo... non ho potuto fare niente per te... Sei... sei bellissimo.» Quella verità ti uscì commossa. Lo scostasti da te per guardarlo in faccia. Era bello davvero. Ma sapevi già da quando era piccolo che lo sarebbe diventato. Avrà tutte le donne ai suoi piedi questo bambino. Elettra rideva con te, quando lo dicevi. 
Elettra.
«Elettra, lei è-»
«Viva, sta bene.» Oreste pareva quasi divertito dal tuo stupore, dal tuo affanno. Tu liberasti un sospiro, un lungo sospiro trattenuto da dieci anni. La luce era irrotta nella tua mente.
«Dove sei stato per tutto questo tempo?»
«Focide, da nostro zio Strofio, appena tornato dalla guerra. Nascosto.»
Tu gli stringesti le mani sulle spalle, esultante. Le sue articolazioni avevano conservato una dolce fragilità. Ricordasti quando lo prendevi in braccio, quando fingevi di rimproverarlo perchè pesava troppo, e invece non pesava nulla. «Ha funzionato! Egisto e tua madre non ti hanno trovato.»
«No, non mi hanno trovato.» Oreste era calmo, sereno, come un nume. I suoi occhi azzurri erano fissi su di te più intensamente di quanto lo fossero i tuoi su di lui, con una pupilla scattante, vivida. «Ho trascorso sette anni al sicuro insieme a lui, nostra zia Anassibia e nostro cugino, Pilade.»
Lo ascoltavi con un orecchio solo, eri troppo impegnata a riaccostare i ricordi di un bimbo vivace ed impertinente a quell'adolescente smilzo. Il bambino che dormiva tra te e Elettra, rannicchiato come un cucciolo. Che saltava esultando per il ritorno imminente del padre. 
«Ero così in pena per te... Non sai quanto mi rende felice il pensiero che... hai avuto una casa che ti ha amato.» 
Il sorriso di Oreste si affilò. «Sì. Non a Micene, però. Sarei dovuto crescere in quel palazzo come un re.» 
Le tue mani corsero al suo viso, sfiorarono le guance. Erano ancora morbide, come quando era piccolo, ma si percepiva il filo duro della barba rasata. L'idea ti intenerì, ti fece pensare che lo stavi trattando come il bimbo che era stato, mentre ora era quasi un adulto. «Nessuno potrà mai porre rimedio al torto che hai subito.» Ma passava tutto in secondo piano, era lì, ed era vivo. 
«E nessuno mi toglierà mai più quello che è mio» precisò lui, serafico. 
«Certo che no. Mio marito, Neottolemo, lui può aiutarti -lui adora le guerre. Raduneremo un esercito -contro Micene. Ci riprenderemo il palazzo e il regno. Lo daremo a te, come di diritto. Giustizieremo Egisto, esilieremo tua madre e il loro figlio illegittimo. Tutto si aggiusterà, adesso che siamo insieme.»
Le tue parole erano appassionate, dipingevano in fretta e furia la realtà ideale, un mondo di armonia e completezza. Volevi prenderti cura di lui, ora che l'avevi ritrovato. Volevi farlo sentire in salvo.
Oreste sorrise. «I tuoi consigli bellici giungono tardi, cugina. Ormai è tutto finito.»
Fu quella strana ironia a raffreddare il tuo entusiasmo. Cercasti di sviscerare il suo leggero, enigmatico sorriso. «Tutto finito?»
«Giustizia è stata fatta.» Erano parole macabre. Ormai sapevi che odore aveva la giustizia, in questa epoca, in questa guerra che aveva solo finto di finire. I contorni imprecisi della sua affermazione ti turbarono. 
«Cosa è successo?» 
«Non ti preoccupare di queste faccende. Ora resta un'ultima cosa da fare, in cui tu puoi aiutarmi.» 
La mano di Oreste abbandonò il tuo fianco. Risalì fino allo scollo triangolare del tuo chitone e vi si insinuò. Strinse il tuo capezzolo, senza farti male. 
Lo fissasti, senza capire. Quell'allusione sessuale ti turbò come un dolore fisico. Provasti un conato di spavento, un gelo sulla nuca, come se la pelle si stesse arricciando e irrigidendo in un formicolio di brina.
La tua memoria, frammentata, ti parlava ancora di un bambino, ricostruiva imperterrita e sorda quell'immagine. 
«Non farlo.» Le parole non servivano a nulla, ma non avevi la forza per muoverti. 
Le dita di Oreste scivolarono fuori dalla veste, per sfiorarti il collo, delicate. Il suo viso era ancora limpido, sereno. «Non temere. Intendo rendere ufficiale la nostra unione.» 
Il senso di riconoscimento, lo stimolo alla familiarità che avevi incoraggiato fino ad allora, scivolò di nuovo giù nel gorgo del passato, come saliva ingoiata. Il ritratto di Oreste bambino, tenuto per mano durante le passeggiate nel cortile reale di Micene, fu infranto da un sasso, come un riflesso sull'acqua.
Ti sentivi tradita. Quello era un impostore, doveva esserlo, perchè l'altra verità era veleno. Ti sforzasti di distorcere i lineamenti di fronte a te, di trovare una differenza che invece diminuiva sempre di più. Passato e presente collimavano e si discostavano, senza tregua. 
«Il matrimonio tra consanguinei è maledetto dagli dèi.»
«I matrimoni che gli dèi avversano sono quelli che rimangono senza figli, cugina. E stai pur certa che io te ne darò.» Lo sguardo di Oreste era allusivo, malizioso. 
L'idea ripristinò la nausea. Quando aveva un paio d'anni lo aiutavi a fare il bagno, colmavi la tinozza, insaponavi le piccole membra. «Puoi avere ragazze più giovani. Più belle.» La tua voca era acre, diffidente. Cenere.
«Io non mi prendo mai niente di più di ciò che è mio, Ermione di Sparta.»
Sorrise. Non potesti fare a meno di pensare ch'era lo stesso sorriso che aveva visto tua zia Clitemnestra prima di morire. L'ultimo. Senza gioia. Scopristi in seguito che si diceva che le Erinni lo inseguissero ovunque andasse.
«Se intendi affrontare mio marito, te lo sconsiglio» replicasti, dura. E la sua reazione, il suo ghigno un po' più sprezzante, ti colsero alla sprovvista.
«Oh. Ma te l'ho già detto, cugina mia. Quella parte della storia è già risolta.» Non è possibile, pensasti. Nessuno può sconfiggere Neottolemo. Non questo ragazzino esile. «Quindi. Mi auguro vivamente che le nostre nozze ti appaiano gradevoli quanto il mio aspetto.» Ti canzonava, burlesco e ammiccante come se fosse tutto un gioco. 
Il tuo cuore pulsava, nudo, coperto solo dal chitone. 
«Mi stai minacciando?» L'indignazione si mischiava al disgusto. 
Lui scrollò la testa con disinvoltura. «No di certo. Se sceglierai la spada, te la concederò. Ma tu hai l'aspetto di una donna che sa stare al proprio posto, Ermione. Mi sbaglio?» Parlava lentamente e affabilmente, come se per indulgenza volesse aggiudicarsi le simpatie di un essere stupido e inferiore, troppo tardo per capire. 
Il bambino che avevi visto neonato ti stava minacciando per costringerti a sposarlo.
Cosa ho fatto per meritarmelo? Gli avevi sempre voluto bene, quando persino sua madre non glie ne voleva. Ma sua madre era morta, e il bambino era diventato uomo, coltivando la bramosia degli uomini. Che non è mai tenera come l'amore. Raspa, vuole prendersi tutto. Vuole bucare e invadere. Il tuo cuore violato, l'integrità dei tuoi sentimenti offesa. Il bianco del latte si era cagliato, e immaginandolo acido in bocca ti veniva da vomitare. 
Ed eri triste, come il padrone il cui cane morde la mano che l'ha protetto. Perchè mi oltraggi così? Perchè insulti la purezza del mio affetto? Io che sono stata buona in un mondo ostile.
La voce di Neottolemo riaffiorò. Apri gli occhi, ingenua! Apri gli occhi. I tuoi occhi erano aperti ora. Ma a che prezzo?
«Come è successo?» Lo chiedesti con una voce sfondata. Oreste era compiaciuto dell'effetto che le sue parole avrebbero prodotto. 
«Lapidazione. Gli ho ritorto contro i cittadini di Delfi con una scusa. Non è stato breve. Ma la colpa è tutta sua» spiegò, tranquillo. «Non era abituato a perdere, vero?»
Non potevi immaginare quella pioggia di pietre per ore contro lo stesso corpo che ti aveva stretta. Un omicidio da codardi, una morte umiliante. Nessun mito immortale per Neottolemo, l'Eacide, il figlio degenere. Non era stato un cattivo marito. Non ti aveva amata, ma ti aveva rispettata, in un mondo di mariti che picchiano le mogli. La rabbia era nera, di granito, dentro di te. Ti occludeva la gola, il pensiero. Non piangesti. Non spezzarti, Ermione. Non ti sei spezzata. Hai fatto i bagagli, con calma, con dignità. Per salire su una nave che ti avrebbe riportato in un sogno che si era trasformato in un incubo. 
Con il tempo, grazie alle chiacchiere degli schiavi, del popolo, ricostruisti la storia. Cosa accadde pochi giorni prima al palazzo di Micene -prima che la tua vita cambiasse per sempre. Oreste, accompagnato dal fidato Pilade, si era presentato dopo sette anni, sotto le mentite spoglie di un forestiero che portava una buona nuova alla regina Clitemnestra: suo figlio Oreste era morto, nel nascondiglio dove era rimasto tutti quegli anni. Lei non aveva esultato. Lo aveva fissato dritto negli occhi, e aveva capito l'errore che era stato compiuto, nel lasciarlo entrare. Prima che potesse chiamare le guardie, era già legata e imbavagliata.
L'avevano lasciata per ultima, Clitemnestra. Oreste era andato a cercare Egisto, e lo aveva trascinato per i capelli giù dal letto che era stato di Agamennone, trapassandolo con la spada. Poi aveva incrociato Alete, l'erede abusivo, che aveva tentato un'inutile difesa con la spada. Pilade lo teneva fermo mentre Oreste lo faceva a pezzi. 
Crisotemi sopraggiunse, spaventata dal trambusto. Si fermò, nel corridoio allagato di sangue, fissando inebetita un braccio di Alete strappato, poco lontano la testa. 
Oreste le sorrise, le mani rosse. «Sorella. Che bello ritrovarti. Ora che questi usurpatori sono sconfitti, potremo tornare a governare insieme in questa città.»
Lei si avvicinò, intimidita, atterrita, ansiosa di conquistarsi la benevolenza del fratello pazzo. Oreste allargò le braccia, l'accolse tra esse, la strinse al petto. Era più giovane di lei di cinque anni, però più alto. Crisotemi era sempre stata minuta, di fisico e di statura. Una bambina dolce, una fanciulla dolce. Vulnerabile, mansueta. Inadatta a portare sangue potente, impetuoso. Oreste la abbracciò, poi le trafisse la schiena, senza che il suo sorriso vacillasse. Elettra alle sue spalle, impassibile. Era lei la sua maestra, era lei che gli aveva insegnato chi si era dimostrato fedele al proprio nome e chi l'aveva ripudiato. Guardala, Oreste, la traditrice del suo sangue, gli aveva detto quando era bambino. Oreste aveva guardato, e aveva ricordato.
Solo a quel punto si era occupato di Clitemnestra. L'aveva condotta per mano in mezzo ai cadaveri, glie li aveva indicati.  
«Guarda, qui c'è il tuo amante. Qui c'è tuo figlio, e qua c'è tua figlia. Questa è la famiglia che ti meriti.»
Avrebbe potuto dirgli che lui era nato troppo tardi, non aveva nemmeno conosciuto Ifigenia. Che lui era solo un neonato a quel tempo, non poteva ricordare come Clitemnestra si fosse sentita complice dell'inganno di sua figlia, di come Ifigenia avesse creduto che anche la madre era a conoscenza del piano, del finto matrimonio organizzato per immolarla. Avrebbe potuto dirgli che il padre che Elettra e Oreste stavano vendicando era rimasto a guardare mentre un sacerdote tagliava la gola di sua figlia, sua figlia che lo implorava, sua figlia che lo fissava negli occhi. 
Ma non aveva detto niente. Non aveva nemmeno pianto. Aveva scoperto il petto, e detto, colpisci.  
Il tuo ultimo atto da regina d'Epiro era stato passare il tuo titolo a qualcun altro. Paradossalmente, Andromaca. Da regina, a schiava, a regina. Era madre degli eredi maschi dell'uccisore di suo figlio, dopotutto. Lei non si stupì, non commentò. Accettò questo ribaltamento della sorte come si accetta la pioggia, lo scorrere del tempo. Annuì, inespressiva. 
Le affidasti un fagotto, la piccola Danae, unica figlia femmina di Neottolemo. «Cresci questa bambina come se fosse tua» imponesti ad Andromaca. Una vita da principessa per lei. La sola cosa che potessi fare per Leonassa, l'ennesimo dei tuoi fantasmi.
Oreste non vide di buon occhio la tua decisione. Squadrò i bambini. «Dovremmo fare un bel rogo e buttarli tutti dentro.»
Sentisti la furia, l'impeto. «Quindi non sei meglio del tuo patrigno.» Usasti appositamente quella parola. Oreste irrigidì la mascella. Le tue guance fremettero, in attesa dello schiaffo. Non ti spezzare, Ermione, non ti spezzare.
Non ti colpì. «Stai attenta» disse solo. 
Dopo il tabù del matricidio, Oreste era andato avanti con lo stupro di un amore puro, la profanazione sacrilega del primo istinto materno che tu avessi mai provato. Tu, che non piangevi, che avanzavi come in marcia verso la nave, come un corteo funebre. Faccia di bronzo. Io non mi spezzo. Sotto il velo impreziosito di perle, la guerra ti aveva sfregiata. Non avevi sentito di morti gloriose e di soldati caduti. Avevi sentito solo di donne, bambini, sacrilegi. L'idea di una nuova vita ti stancava, e ti appariva buia. 
Non ti voltasti per non dare soddisfazione ai tuoi nuovi aguzzini. 

~ • ~

Odiavi Pilade, e Pilade ti odiava. Lo comprendesti all'istante, dal primo sguardo che vi scambiaste. Era un ragazzo di bell'aspetto, muscoloso, bruno, che attendeva appoggiato al parapetto della nave. «Ci avete messo un'eternità» esordì, piccato.
Oreste invece era di buonumore. «Pilade, ti presento nostra cugina Ermione, figlia di Menelao ed Elena. Nonno Tindaro la promise a me da prima della mia nascita. Purtroppo, suo padre aveva qualche problema di memoria... Ma quel piccolo contrattempo non sussiste più.» Fece un sorriso indulgente, come se stesse perdonando quell'antico errore. «Ermione, ti presento nostro cugino Pilade. Fidato compagno per me, e prossimamente amorevole marito per Elettra.» Fece sbattere le mani, entusiasta. «Celebreremo un doppio matrimonio. Una festa come non si è mai vista.»
Pilade ti rivolse un'occhiata colma di disappunto. «Spero che valga la pena del viaggio.»
Più tardi, in disparte, te lo disse in faccia, senza vergogna. «Se progetti qualche tiro mancino, lascia perdere. Non osare torcere un capello ad Oreste. Già abbiamo dovuto perdere tempo e assumerci rischi immani per accontentare questo suo capriccio e procurarci una donna usata da un selvaggio. Non creargli problemi con il tuo rancore del cazzo. Ci siamo capiti?»
Tu non rispondesti neanche, guardavi il mare. Il tempo liquido che ti separava dal nuovo destino. Potevi vedere quant'era. Sembrava infinito, ma sarebbe terminato prima che te ne accorgessi. In ogni onda rivedevi la forza di Neottolemo, i ricordi di quando tre anni prima si tuffava a nuotare di notte, nel tragitto verso l'Epiro. Ti aspettavi che rispuntasse dalle acque per rompere il collo a Oreste con le sue mani. Era troppo inconcepibile immaginarlo morto. 
La prospettiva di rivedere Elettra ti spaventava. Dopo che per anni era stata l'unica cosa che avessi desiderato, ti spaventava. Non eri pronta a rimanere delusa, a non riconoscerla più. 
La memoria dell'amore che avevi provato per Oreste bambino era sporca, corrotta per sempre dalla sua empietà. E la visione del futuro era quella di un matrimonio che ti provocava una repulsione viscerale, quanto l'idea di concederti a tuo padre, di amplessi impuri e vani che non ti avrebbero portato che infelicità. 
Oreste e Pilade bevevano, brindavano, ogni notte. Se potevi, ti ritiravi sottocoperta, senza riuscire a dormire, ma perlomeno sola; a volte venivi costretta a restare, ad assistere alle loro sbornie, alla puzza del loro vomito riversato fuoribordo. Non eri abituata, non con Neottolemo che non beveva mai, non voleva mai perdere il contatto con la realtà. In più di un'occasione, quand'erano così ubriachi e semicoscienti, sorse il desiderio di spingerli in mare. 
«Come Agamennone ha tolto Briseide ad Achille, hai ricalcato la grandezza paterna, togliendo al figlio del Pelide questa donna» millantava Pilade, desideroso di lusingarlo. 
«Dicci, Ermione,» sghignazzava Oreste, «cosa ti piaceva di più del tuo defunto marito? Aveva una spada adeguata al suo ego?»
Tu infrangibile. «Mi piaceva mia suocera. Un'ottima persona. Viva, tra l'altro.»
Adesso era il turno di Pilade, di sghignazzare ancora più forte, davanti all'irritazione di Oreste. «Linguacciuta la ragazza.»
Lui ti fissava, continuando a parlare con l'amico. «Non preoccuparti, so esattamente cosa si deve fare con le eroine come lei.»
Tu raddrizzasti le spalle. Non temevi più la violenza degli uomini, erano solo gli scarti minori del male che ti avevano già inferto.  
«Forse lo Scita la picchiava, e le piaceva» ipotizzava Pilade, versandosi altro vino. 
«Inutile, cugina. Non ti picchierò. Il tuo corpo è molto prezioso» obiettò Oreste, sfoderando di nuovo il suo sorriso di fiele e zucchero. Attirò l'attenzione di una guardia. «Tu, taglia una mano a una serva a caso.» Vedesti il moncherino, il sangue che spruzzava, la ragazza che si sgolava dal dolore. Stringesti i denti. 
«All'improvviso ti senti più gentile, vero? Molto bene» approvò Oreste, soddisfatto. La macchia di sangue non andò mai davvero via, per quanto le assi di legno del pontile venissero sfregate. 
Durante la notte, sentivi i loro gemiti nella cabina accanto. Pilade e Oreste intrattenevano una relazione molto più intima della mera amicizia, la sacra comunione delle cosce, come dicevano la chiamasse Achille. Tu, pur non avendo mai sentito parlare dell'amore femminile prima che te ne raccontasse Leonassa, sapevi che quello tra maschi era un fenomeno diffuso, ma non avevi mai avuto modo di venirne in contatto. Il segreto mistero di quel rituale ti avrebbe quasi affascinata, se le condizioni del tuo viaggio non fossero state così penose. Il loro legame non era quello tipico tra erastes ed eromenos, non si trattava di una fase, un periodo formativo per il più giovane e di sfogo sessuale per il più vecchio: sarebbe durato fino alla morte. Loro si guardavano negli occhi quando facevano l'amore, e non c'era distinzione tra amante e amato. Pilade era protettivo nei confronti di Oreste, si era preso cura di lui a casa e aveva continuato a farlo seguendolo nel suo impopolare piano di vendetta. 
Una notte sentisti le loro voci, perchè per colpa del vino stavano parlando a voce alta.
«Saremmo dovuti andarcene a Lemno...» Questo era Pilade.
«Non essere sciocco. Io avevo un trono da rivendicare.» La voce di Oreste lo rabboniva con dolcezza.
«Saremmo dovuti tirarcene fuori, Oreste.» Gorgheggiava. «Io e te... Senza nessun altro.»
«Non cambierà niente.» Oreste parlava più piano. «I matrimoni non cambiano niente. Niente di quello che c'è tra noi.» 
«E cosa c'è tra noi?» Un lamento da ubriaco.
La risposta, netta, sicura come tu non avresti mai saputo darne a nessuno. «Tutto.» 
Ben presto, imparasti a interpretare l'ostilità di Pilade come gelosia. In un mondo più equo, forse sarebbero dovuti essere loro due a sposarsi. In un mondo più equo, tu non saresti mai stata vedova. 
La nave attraccò. Di nuovo Micene. Meno grande di come appariva nei tuoi ricordi, meno incredibile. Una volta era maestosa, adesso era decadente. I buchi neri nei mosaici, i colori opacizzati dagli anni di incuria. Il mercato non era più il piacevole tumulto multietnico della tua infanzia, era una fretta di formiche spaventate che facevano incetta dei prodotti a basso costo.
Elettra vi aspettava fuori dal palazzo, vittoriosa, con un sorriso appena accennato. Fu immediatamente diversa, al primo colpo d'occhio. Ora portava i capelli raccolti in una calantica. Tu li ricordavi sciolti. La facevano sembrare più vecchia. Era più vecchia. Aveva quasi la tua età. Speravi di provare una fortissima emozione. Provasti un tiepido sospetto. 
«E così ci rivediamo.» La sua voce suonava distante, irraggiungibile. 
«Sono contenta che tu sia viva.» Eri sincera. Era quello che avevi sempre voluto. Che lei stesse bene.
Ma la Elettra che avevi lasciato non era la stessa Elettra che ritrovavi. Aveva dieci anni di scherno e soprusi in più in una casa con una madre che l'aveva rinnegata e un patrigno, assassini di suo padre. Dolori a cui tu non avevi assistito. Ti eri persa troppo di lei, non si poteva recuperare con una semplice chiacchierata a letto, come facevate da ragazzine. Quella era colei che aveva creato Oreste, colei che aveva approvato il suo piano pluriomicida. Colei che trovava giusto che voi due vi sposaste.
Vi affrontaste con compostezza. Non era così che avevi continuamente immaginato il vostro ricongiungimento. 
«Ci sono volute molte morti affinchè noi potessimo sopravvivere» decretò Elettra.
«O forse ne sono avvenute più del necessario.» La tua voce era piatta, senza clemenza. 
«Questo lo sanno solo gli dèi.» La sua era più morbida, come accondiscendente verso la tua immaturità. «Viva gli Atridi, cugina.»
Era un'idolatria che non potevi capire, un richiamo brutale al sangue che ti inquietava. La amavi prima, quando era una fanciulla ardita e orgogliosa ma buona e razionale, quando la sua umanità era più importante della dignità della sua famiglia. Adesso ti sembrava che quella ragazza fosse morta.
Anche Elettra avrebbe sposato un consanguineo, Pilade era suo cugino da parte di padre. C'era qualcosa di ugualmente marcio nei vostri matrimoni. Veniste preparate insieme. Un altro rito di passaggio della vita che condivideste. Ma per te era il secondo, e non potevi dimenticarlo. 
«Oreste ti ha salvato da una disgraziata condizione.»
«Oreste ha imposto la sua volontà, ignorando la mia.» Speravi in un minimo di empatia da parte sua. Era stata tua amica, e prima di tutto era una donna. Ma Elettra ridusse gli occhi a due fessure.
«Stare a contatto con l'ammazzabambini ti ha fatto passare dalla sua?»
Secondo te, lei era cambiata. Ma secondo lei, eri tu ad essere cambiata.
Sì, eri cambiata. Eri forte, e non potevi essere spezzata.
  
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