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Autore: SherryVernet    01/09/2018    2 recensioni
È faticoso tornare ad essere vivi.
I conti in sospeso ci seguono anche nella tomba – e sono ad aspettarci se ne riemergiamo.
Nel mentre una nuova guerra si prepara.
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'La Rosa dei Venti'
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Parte I – Nostoi

 

 

 

Capitolo I.2

 

Ad Occhi Aperti II

 

 

 

"... ces rites barbares, qui créent entre les affiliés des liens à la vie et à la mort, flattaient les songes les plus intimes d'un jeune homme impatient du présent, incertain de l'avenir, et par là même ouvert aux dieux. Je fus initié..."

 

– Marguerite Yourcenar, Mémoires d'Hadrien

 

 

*

 

 

Tra la Grande Piana e le Porte del Cielo, circa vent'anni prima del Tempo del Mito

 

 

 

Era un figlio del vento e della steppa.

 

La grande piana brulla, senza limiti o confini – dove gli orizzonti sono solo laddove l'occhio può arrivare e si rincorrono al ritmo forsennato di un galoppo leggero come l'etere, pesante come il cielo –, l'aveva cullato alla sua nenia di zoccoli che alzano la terra sottile come cenere, di aria che sgretola le rocce, di sibili tra le torri del silenzio. La grande piana arida, di polvere e di sabbia, che beve tutta l'acqua, prosciuga tutto il sangue, l'aveva nutrito nel suo ventre sterile, che rigurgita le ossa dei cadaveri e solo i ricordi degli scheletri. La grande piana verde, tutta in fiore, pingue di rugiada e di frescure, che s'insinua flessuosa fra gli immensi monti, incontrastata, profonda come una ferita, gentile come una promessa, cortigiana imperiosa... la grande piana verde, tutta in fiore, lo aveva temprato all'incudine della tentazione del riposo; al martello dell'indicibile bellezza di paesaggi mai violati – altera, imponente, vera bellezza sempre inquietante –, lo aveva fatto diventare quasi un uomo, la grande piana verde, flessuosa, tutta in fiore. Però il suo cuore inquieto e pellegrino seguiva ancora il moto delle stelle, che lo chiamavano, sempre più insistenti, oltre la grande piana; oltre le montagne; oltre il fiume immenso che si dipanava, gigante come il mare o un imperatore; oltre...

 

Era un figlio del vento e della steppa. Era il figlio più bello degli arya, che si dicono nobili.

 

Ogni guerriero gli era stato madre, ogni sapiente padre, i cavalli ed i falchi suoi cugini e fratelli, senza distinzione – questo il costume della sua stirpe di esseri liberi, di conquistatori: senza giogo o possesso, senza catene, senza attaccamento, danzavano col fuoco; cercavano nell'acqua il segreto della vita, l'eterno movimento; battevano la terra col passo incessante degli esploratori; nell'aria, ascoltavano i sospiri del futuro, le promesse di ogni strada nuova, e le affidavano i caduti ed i segreti, gli anziani consumati dal ciclo degli anni, perché li consumasse ancora un poco, acché, ridotti a niente, trovassero un facile ritorno. E l'aria, in fondo, è tanto più leggera della terra: si scosta più in fretta.

 

Era un figlio del vento e della steppa, un figlio fatto nel grembo delle stelle, dal fuoco e dalla sabbia, un figlio battezzato nella pioggia: il più bello e il più saggio dei figli degli arya, che si dicono nobili; anche il più inquieto.

 

Aveva corso il mondo noto, capo a capo, in dorso al suo cavallo: in dorso al suo cavallo aveva dormito, aveva sognato; era cresciuto; era diventato quasi un uomo. Ma il suo cavallo andava troppo piano; così imparò a correre più forte, veloce com'è rapido un pensiero, però mai quanto il costante tremolare che gli stringeva il cuore – e che gli sussurrava di cercare, di avanzare ancora, d'andare un altro poco, un po' più in là, di non aspettare...

 

La grande piana, un giorno, poi, era finita: s'apriva ancora una distesa sterminata, mille direzioni da esplorare, in cui vagare; eppure, i nobili si vollero fermare, vollero imparare le opere dei giorni e delle stagioni, vollero coltivare e costruire. La piana non esiste, se non ci si può smarrire.

 

Ma il loro figlio più forte, il più saggio e il più bello, di tutti il più inquieto, apparteneva al vento ed alla steppa: al vento voleva tornare, e riattraversare la steppa, inseguire le stelle, andare col falco a caccia di qualche cosa che non conosceva, ma che doveva scoprire – e lì, lì fermo, lì non poteva.

 

 

 

Così, per settimane, avanti e indietro, camminò assorto, tra i bordi d'un fazzoletto; insofferente, su quei campi pingui che già iniziavano a fruttare; libero come un prigioniero che non osa scappare. Il mistero del seme che germoglia non lo affascinava; la geometria segreta delle radici nascoste non lo riusciva ancora a interessare. Sospeso a mezz'aria in quella fermezza – non più bambino, non ancora uomo –, non poteva far altro che attendere l'iniziazione, il segno temuto ed agognato di chi sarebbe dovuto diventare, d'un ultimo passaggio da cui non si sarebbe potuto svincolare. Gli astri, però, indifferenti ai vezzi del rituale, quasi si misero ad urlare: il cielo, forse eterno, non conosce pazienza – ed anche lui la doveva ancora imparare.

 

Parvero lustri, quelle settimane: la stasi dell'attesa rende i minuti angusti, l'inerzia sfiancante. Consumò il tempo guardando le fiamme; ignorando sguardi che non poteva – forse non voleva – ricambiare; danzando solo, con la sciabola e la spada; parlando distrattamente al vecchio rapace ch'ormai non osava più volare, al corsiero consunto, stanco di galoppare; smaniando lontananze sconosciute, che gli erano precluse.

 

Giunse, alla fine, la convocazione – nel buio, quando la notte è scura ma non già fonda–; rispose con sollievo e con terrore. Gli Anziani, nobili fra i nobili, non l'accolsero in sella, com'era tradizione: sedevano su stuoie intrecciate, un tetto sulla testa. Il fuoco non era nudo: cinto di bronzo, stretto nel rame, li illuminava come statue di cera vestite a festa.

 

Lui non era come loro erano stati; non era neanche quello che erano diventati. Adesso si sentiva solamente soffocare, il petto costretto in un moto d'angoscia: sarebbe voluto scappare; avrebbe voluto pregarli di non forzarlo, di lasciarlo andare. Come in un sogno sfocato, di quelli che vengono quando se ne va l'aria, carezzò il pensiero di fingersi folle, di farsi scacciare.

 

Lo accontentarono quasi, non dové domandare.

 

"Figlio dei nostri figli e dei nostri avi, dono di fine estate, che hai nome Immortale, tu sei il nostro figlio più saggio, il più bello, di tutti il più nobile", fu quella Antica a parlare, seduta nel mezzo, rugosa e dura come cartapecora, gli occhi fumosi non più distratti da luci e colori – quella che nessuno aveva visto nascere, quella il cui tempo nessuno avrebbe mai saputo misurare. La sua voce sembrava venire dal vuoto, risuonare nel vuoto; sembrava vuoto a sua volta. "Quindici primavere sono passate: il tuo falco non lascia il trespolo, anche il cavallo è sfiancato; per le valli e per l'immensa pianura con noi a lungo hai viaggiato; non più frutto acerbo, sei quasi un uomo, sei maturato. Quello che cercavamo, noi l'abbiamo trovato. Ma tu, tu cosa cerchi, Athanasios dal cuore inquieto?".

 

Al vuoto non si può mentire, non avrebbe senso neppure provare. Il figlio più bello degli arya, che si dicono nobili, era forte, era saggio, fu onesto: "Saggia fra i Saggi, non so rispondere, non prima d'averlo trovato. Le stelle mi chiamano, mi parlano, ma dicono cose che non capisco. Mi mancano il vento e la steppa; mi manca il moto libero del fuoco; mi manca la carezza dell'acqua che tutto conquista".

 

Poi prese fiato; il vuoto dentro di lei si prese un momento.

 

"Figlio dei nobili, parli dell'aria, dell'acqua, del fuoco, ma sei della terra: tu sei la sabbia nel vento; la sabbia che smorza il fuoco; sabbia che intorbida l'acqua, finché non si posa. Noi, questo, non possiamo ricordartelo. Non ti possiamo iniziare".

 

Per lui fu quasi una liberazione, sentì di nuovo di poter respirare.

 

"Da noi hai già imparato tutto quel che ti potessimo insegnare", continuò lei – una constatazione. "La tua cavalcata è lungi da finire. Segui la Via che taglia la notte, ritorna indietro, su per i grandi monti: ti aspetta lì chi ti potrà guidare, fra i passi dove al Cielo si apre la Terra, ed alla Terra il Cielo".

 

Così fu congedato: né lui, né lei, né gli altri sprecarono parole; prima d'allontanarsi, li ringraziò soltanto con un cenno del capo.

 

Il figlio più bello degli arya, il figlio più forte, ed anche il più saggio, fu loro grato che riconoscessero quello che per primo aveva intuito. Non si voltò indietro.

 

 

Chi nasce senza giogo né possesso, chi cresce senza attaccamento, non ha bisogno di prendere commiato: non ha niente da prendere, niente da lasciare.

 

S'incamminò prima che arrivasse il giorno; non si fermò neanche a salutare il falco ed il cavallo che sempre l'avevano accompagnato: forse alla morte – in un'altra vita – sarebbe potuto andare insieme a loro; ma, all'iniziazione, ciascuno, disarmato, va da solo.

 

Furono le stelle, brillanti contro il nero, a fargli compagnia; lo scortò ancora il cammino noto, all'incontrario; la grande piana l'accolse di nuovo, lo lasciò passare laddove diventava più sottile, fino a farsi valle, fino alle pendici. Athanasios corse, corse come un lampo, corse perché non c'era nessuno a trattenerlo: ascoltò le stelle, senza guardarle; non indugiò sulla via del ricordo, lungo il cammino che aveva conosciuto; il ventre della piana – cara, crudele, così tanto buona –, lo sfiorò appena; s'arrampicò lungo le pareti con una carezza lieve delle mani – perché i bambini afferrano le cose, ma i tocchi degli adulti sono più fugaci: hanno imparato, ormai, a lasciarle andare.

 

Salì, salì ancora, salì sempre più in alto, fino all'altopiano brullo, desolato, che si stagliava osceno contro il cielo, spudorato, come tuffandocisi, come a caderci dentro; l'audacia, la bellezza mozzavano il fiato – o forse fu soltanto la scalata.  Toccò la vetta assieme al primo sole.

 

A riceverlo trovò solamente la polvere e la luce, reali quanto quello che dà forma a un'illusione; coagulate in grani fluttuanti, quasi una fiamma immota; evanescenti sul seno dell'aurora.

 

"Benvenuto, giovane Immortale", disse la polvere, disse la luce, dissero insieme – facendosi fanciulla, polvere e luce ancora, vecchio, bambino, fiore, e cavaliere; parlando con la voce delle stelle. Per un attimo, Athanasios credé d'intravedere il proprio sorriso, sulla propria faccia, come se si stesse specchiando sul ciglio dell'acqua che s'increspa; poi fu il riflesso d'un raggio di sole; infine ebbe davanti una forma umana, adulta, femminea, un corpo ed un viso, niente di speciale.

 

"Siediti, ti stavo aspettando", lo invitò la donna – la luce, la polvere –, con un garbato gesto della mano. "Tutti i tuoi sensi si stanno svegliando, ma ci vuole tempo, occorre fatica, per venire al mondo: non è una cosa facile, il risveglio. Siediti, t'insegnerò ad intendere le stelle e l'universo che tutti abbiamo dentro – e che non può morire".

 

Athanasios sedette; lei gli sorrise: "Bene. Adesso chiudi gli occhi: così si vede meglio".

 

 

 

*

 

 

 

Santuario – Casa della Vergine Celeste, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986

 

 

 

Regnava, giù alla Sesta, un silenzio assordante, sepolcrale; l'aria era greve come in una tomba – o forse un mausoleo, ch'è grave anche del peso dell'assenza.

 

Aveva capito subito come sarebbe finita: con una conversazione lunga e complicata che avrebbe preferito non dover affrontare e che, in qualunque altro momento, con chiunque altro, avrebbe cercato di evitare – magari fuggendosene in Jamir, rintanandosi nella propria torre, sbarrando anche la porta che non c'era. Però sapeva pure che quella conversazione era ineluttabile, perché lo conosceva, e conosceva anche i suoi rituali, le piccole manie che avrebbe continuato a negare ciecamente, come ogni evidenza che non gli facesse piacere: nessuno era bravo quanto Shaka a non vedere; ma, se Virgo apre gli occhi, non c'è via di scampo, finché non t'ha svuotato, finché non ha ottenuto tutto quello che vuole ottenere.

 

Invitandosi – offrendosi –, s'era quasi illuso che si sarebbero leccati le ferite vicendevolmente, che si sarebbero fatti un poco compagnia, poggiati l'uno all'altro, trascinandosi fino alla mattina. Dopo, l'avrebbero fatto comunque. Probabilmente.

 

Virgo, però, per esser consolato, esige spiegazioni. E Mu, a Shaka, di spiegazioni, ne doveva troppe; ma, se potesse darne, era un'altra storia – certo non voleva.

 

Shaka aveva già chiesto, davanti a tutti, in mezzo alla battaglia; non avrebbe lasciato cadere la faccenda: Buddha impaziente, era un segugio, un cane da tartufo, quando si metteva qualche cosa in testa. Avrebbe chiesto ancora, se necessario più insistentemente: avrebbe chiesto, esatto le sue ragioni, avrebbe preteso che fossero buone; dovendo, gliele avrebbe estorte, strappandogliele coi sensi, una ad uno.

 

Mu non aveva l'animo per sostenere ancora un altro scontro; però, aveva sempre preso bene le misure, da mastro ferraio, con mano da artigiano: sapeva attendere e osservare.

 

Sospirò. Fra quei cuscini molli, damascati, di fronte al tavolo basso, nell'odore stantio d'incenso bruciato ormai da troppe ore, era davvero con le spalle al muro. Dunque, aveva aspettato di vedere che tè Shaka avrebbe servito: un Chai intenso, speziato, il tè della consolazione, un piccolo lusso, per dimenticare, per smettere – soltanto per un sorso – di pensare, perdendosi nel mare sfumato d'ogni fragile aroma, di ogni sapore effimero; o una miscela inglese, Occidentale, amara, netta, decisa, senza finezze né mezze misure, una domanda che non si può ignorare – il suo modo d'avere a che fare con l'esser preoccupato o l'essere triste.

 

Shaka rientrò, portando il vassoio: aveva gli occhi chiusi, stretti stretti; più stretta ancora la presa delle mani sul bordo del metallo, come se stesse trascinando il peso del mondo – come se il mondo fosse di cristallo e, al primo passo falso, potesse cadere. Mu si diede del folle, dello stolto, per aver avuto anche un solo dubbio, una vana speranza: in quelle due tazze, nel bricco, nella porcellana tonda e bianca della teiera grassa, non c'era proprio nulla d'Orientale.

 

Il suo tè, Shaka lo beveva amaro, come ogni altra cosa. Anche stavolta mancavano lo zucchero e il cucchiaio; Mu quasi sorrise della dimenticanza, ma forse, questa sera, era deliberata, una dichiarazione, forse d'intenti, forse di guerra – forse l'intento e la guerra, stanotte, erano la stessa cosa.

 

L'amaro calice sia, si disse rassegnato.

 

Shaka, tuttavia, non gli sedette di fronte, in un interrogatorio. Dispose invece i pezzi con cura, in ginocchio, assorto come se stesse recitando una preghiera; piano, come preparando la scacchiera per una partita che esitava a giocare: prima una stoffa spessa, pesante, intrecciata – a Mu piaceva immaginare che Shaka, nei nodi, vedesse i colori con le dita –, a ricoprire il legno; poi il bricco panciuto, bollente, col beccuccio già bagnato, brillante d'una goccia di liquido irrequieto, che smaniava d'uscire; dunque le tazze sottili, delicate, posate sul piattino – ché senza, aveva sempre detto, erano incomplete. Gli porse la sua gentilmente, ancora vuota, come un assegno in bianco da firmare. Scivolò infine sui cuscini, facendoglisi accanto, venendogli vicino. Il tè fu servito con un goccio di latte, al fondo, per ciascuno.

 

Tacquero entrambi, immobili quasi, quasi senza respirare, forse per pochi secondi – niente, in quella stanza, segnava il tempo, se non di giorno l'incedere discreto e pigro d'una lama di sole –, forse per un pugno di minuti; parvero comunque essere ore. Shaka non apriva gli occhi; Mu non riusciva a smettere di guardare la piega accigliata fra le sue sopracciglia e l'increspatura dell'acqua dorata nella tazza che cullava tra entrambe le mani, senza sollevarla né portarla alla bocca. Nessuno osava bere; nessuno sapeva come incominciare.

 

Ogni apertura è sempre di cavallo o di pedone; ma la risposta segna il corso del gioco: la prima contromossa lascia intravedere il labirinto che, dopo, porterà a una conclusione.

 

"Perché non mi hai detto niente?".

 

Che avrei potuto dire?, avrebbe voluto rispondere Mu, se fosse stato un po' più ingenuo e non avesse saputo che in battaglia non si lasciano sguarniti mai la testa né il cuore, o che l'attacco è la difesa migliore – ed ogni colpo deve andare a segno e fare male. Non ebbe neppure bisogno di mentire: "Io sospettavo solo. E un simile sospetto è già empio abbastanza da rendere chiunque un traditore". Piccola concessione – un cucchiaino di misericordia –, si risparmiò di dirgli neanche di te mi potevo fidare; era un'omissione così lampante, che finanche Shaka la poteva vedere. Tanto valeva colpire ed affondare: "Ma tu, Virgo, che conosci gli animi e soppesi i cuori... Tu come hai potuto, per anni, non sapere?".

 

A Virgo, adesso, la tazza tremava tra le mani, leggermente – come si fosse scottato, senza bere, e stesse cercando di non lasciarla cadere, di trattenerla nonostante il dolore e un moto di stupore; come se, anche per un attimo soltanto, avesse dimenticato chi la stesse reggendo, o chi stesse soffrendo. E Mu si rese conto che, a un certo punto – Mu non sapeva quando –, aveva aperto gli occhi, appena appena, come se stesse sbirciando qualcosa che soltanto lui poteva vedere, nascosto tra la posa nel tè ormai freddo, insieme alle foglie precipitate al fondo. Poi lo sentì, un tocco leggero, pianissimo, tremante anche quello – come la tazza, le mani, le labbra, le ciglia e forse il resto del mondo – contro il cosmo; un mormorio dell'anima che non aveva bisogno di parole; solo un'ammissione, un dubbio, un concetto: forse non volevo, forse non potevo volerlo, forse lo sapevo ed anch'io fingevo, forse...

 

Dopo una vita spesa nella certezza, nella convinzione della perfezione – la propria e quella dell'ordine del mondo – per oggi Shaka aveva visto e ammesso, perso troppo, troppo riconosciuto, confessato ed espiato, in un solo colpo. Mu, certo, covava da anni il proprio rancore, la propria perdita, con tutta l'amarezza del risentimento che appesantisce il cuore ed avvelena lo stomaco; ma Mu era anche pragmatico e suo amico, una costante – entrambi l'uno all'altro quanto di più simile avessero sempre avuto all'attaccamento. Gli rispose, dunque, di riflesso, allo stesso modo, lasciandogli sentire tutta la propria stanchezza, tutto il vuoto dentro che aveva preso il posto che fu della nostalgia, del sogno del ritorno: lo so; lo sai che capisco; la colpa non è solo tua; basta così, per adesso.

 

Spalla contro spalla, rimasero in silenzio, con gli occhi aperti ed esausti ad ascoltarsi respirare e scrutare la notte della veglia funebre, cercando di non pensare al come, al perché, al poi; né alle fosse che al mattino avrebbero dovuto scavare, o ai morti da seppellire.

 

Spartirono quel po' d'intimità tacita, discreta, di debolezza, fino a che la pietra della stanza non parve iniziare a impallidire e presto sarebbe stato tempo d'andare. Allora, con la voce, quasi strappandosi di gola le parole, Shaka gli disse così sottovoce, come se non volesse farsi sentire: "Mu, dopo il funerale, dovremo convocare un'Assemblea, per decidere il daffare, consultare i Maestri... Mu, il Buddha ha smesso di parlarmi".

 

"Gli ultimi giorni sono stati difficili per tutti, Shaka; per te più che per molti. Non lasciarti suggestionare". Il suggerimento fu accompagnato da un sorriso, rassicurante almeno nell'intento.

 

Ma Shaka si volse a lui, teso come una corda di violino, serissimo, gli occhi brillanti d'acciaio battuto a fuoco, d'ira e d'un poco di vergogna che volgeva a sé stesso: "Da prima che vestissi Virgo. Mu, il Buddha non mi parla da anni".

 

 

 

 

 

 

 

Nota dell'autrice:

 

No, non sono morta. No, questa storia non è abbandonata. Sì, ho deciso di spezzettare ulteriormente questo capitolo perché, allo stato in cui era il precedente file, superava le trentamila parole; il che, per una capitolazione strutturata in paragrafi non continuativi, secondo me ha poco senso. Dunque, aspettatevi più sezioni di "Ad occhi aperti", prima o poi. Ok, probabilmente più poi che prima, ché sono un po' fuori fase con Saint Seiya ed ho poca voglia di revisionare. Del resto, se siete ancora qui dopo anni, siete abbastanza temprati ai tempi biblici d'aggiornamento.

 

9 aprile 2023

Questa storia non è abbandonata ed io continuo ad essere assente ma non morta. Ho svecchiato e uniformato la veste grafica dei capitoli sin qui pubblicati; Ad Occhi Aperti III potrebbe non essere ad anni luce di distanza...

   
 
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