Il mio cuore per
una rosa
I wish I could
come back to you
Once again feel
the rain
Falling inside me
Cleaning all
that I've become
(The beauty of
the beast, Nightwish)
Il lago di
Bolsena è uno specchio
d’acqua placido e azzurro che si perde in mezzo al verde
della campagna
italiana. Appartiene ai principi di Roma, questa landa verde e
rigogliosa
protetta dall’Appennino, antica come i popoli perduti di cui
mi parlavi e che,
non lontano da qui, hanno ancora le loro necropoli mute. Morirai qui
Pedro, mon chere. Il mio sguardo
stanco dalla
lunga veglia corre sui libri che ingombrano ogni angolo, mensola,
tavolo della
nostra casa. Da troppi mesi giacciono intonsi. Edizioni preziose,
stampate ad
Anversa, Roma e Venezia, uscite direttamente dai laboratori di Aldo
Manuzio o
provenienti dalle fredde terre tedesche. Alcuni, come quelli proibiti
di quel
monaco eretico che trovò la morte nella piazza di Campo
de’ Fiori, li brucerò
io stessa non appena la tua anima lascerà il tuo corpo
sbagliato, amore mio. Ma
davvero c’è un errore, nell’aspetto
animalesco che il Signore ti ha donato? Il
tuo fisico è ormai roso dalla malattia e forse non mi
ascolti già più, mio
principe, mio amore, mio signore e allora, nelle poche ore che ci
restano da trascorrere
insieme prima che l’Angelo della Morte venga a portarti via,
ti racconterò di
nuovo la nostra storia, perché è vero quello che
dicevi quando mi stringevi a
te dopo aver soffiato sul lume, nella nostra camera da letto. Catherine, mia bella, sussurravi nel
buio, la nostra storia dovrebbe essere scritta perché
assomiglia a certe fiabe
antiche – a quella, così dolce, di Apuleius
su tutte – e allora, mentre mi addormentavo sul tuo petto
largo e ampio, con
voce bassa e lieve ti mettevi a raccontare di come Psiche
s’innamorò di Eros e
poi lo perse. Anche io ora ti sto perdendo, Pedro. Ogni tuo respiro
è un
rantolo, la vita scivola via dal tuo corpo strano e diverso.
Sotto il pelo
che ti ricopre da capo
a piedi e che suscita nel prossimo dileggio e stupore, ammirazione e
meraviglia, dietro la maschera di lupo, io lo so, batte un cuore
d’uomo. La pelliccia
non nasconde la dolcezza del tuo sguardo né la tua voce
cortese e gentile o il
tuo spirito appassionato e brillante. Me ne sono accorta tardi, mio
signore.
Adesso, mentre ti stringo la mano e tu a malapena riesci ad ascoltarmi,
sento
il cuore accartocciarsi in un senso di colpa senza soluzione per non
aver
capito né visto immediatamente cosa c’era, dietro
la faccia che mostravi.
Occhi belli, ma
tristi. Quelli che
gli altri non vedono. Naso regolare, fronte alta, labbra sottili, ma
belle.
Basta chiudere gli occhi e posare le dita sul tuo viso, per riconoscere
la tua
bellezza di principe lontano, di figlio dei re Guanci. Hai vissuto
sempre a
corte ma nel modo sbagliato, mon chere.
A Parigi come a Parma e a Roma hai incontrato prima il dileggio e poi,
solo poi,
il sospetto dell’ammirazione. Quella è venuta
dopo, quando l’ilarità e lo
stupore abbandonavano finalmente gli occhi di chi ti guardava. Via il
mostro,
l’uomo cane, la Bestia che ha sposato la Bella per il
sollazzo di una regina
straniera e spietata, ed ecco l’uomo di lettere colto e
sensibile che parlava
con i grandi del suo tempo tenendogli fieramente testa.
Mi hai
conquistata con una rosa colta
in un giorno di pioggia e offerta con una frase gentile.
L’hai fatto quando
ormai nel tuo cuore non c’era più la speranza di
essere visto per quello che
eri, di essere amato, perché è vero quello che
diceva il poeta fiorentino
esiliato, che amor c’ha nullo amato
amar
perdona. Credevi che il tuo aspetto mostruoso e il vello che
nasconde i
tuoi lineamenti celassero completamente la vera essenza della tua anima
gentile,
l’animo appassionato e sensibile che alla fine ho visto.
Sfiorando i petali
serici di quella rosa offerta con devozione, capii che dei due ero io,
il
mostro. Troppo giovane, vanitosa e ingenua per comprendere, vedere,
sentire.
Vorrei
confessarti, ora che sono al
tuo capezzale e il nostro tempo insieme è finito e molti
anni sono trascorsi
dal nostro primo incontro, che la prima volta che ti vidi riuscii a
scorgere la
tua anima bella, mio signore. Mi
piacerebbe ricordare, con il cuore traboccante d’orgoglio, di
come fui in grado
di capire immediatamente la fortuna che mi sarebbe toccata sposandoti.
Vorrei
dirlo, il Signore sa se lo vorrei, ma sarei più bugiarda e
crudele di quelli
che hanno osato trattarti come fossi un animale parlante. Non hanno
saputo
guardare nei tuoi occhi, amore mio, e la verità è
che non sono stata in grado
di farlo nemmeno io.
Mi hai sempre
detto che il tuo
aspetto è stato la ragione della fortuna che hai avuto.
Avresti potuto condurre
un’esistenza ordinaria, banale: morire dove sei nato e non
vedere nulla del
mondo, non incontrare me. Invece
Dio
ti ha regalato la possibilità di parlare con re e regine,
papi e principi, dotti
e scienziati di tutto il mondo. I più grandi pittori del
nostro tempo ci hanno
ritratti – io, te e i nostri figli – e le immagini
su tela di noi sono esposte nelle
regge d’Europa e ci rimarranno per chissà quanto
tempo. Non ci saremmo mai incontrati,
Catherine, mio amore, se non fosse stato
per il mio viso di lupo. Lo hai detto tante volte da perdere
il conto, a
volte con voce mesta, altre ridendo.
È
arrivato un messaggio da Praga,
marito mio. Una città lontana persa nel cuore
dell’Europa dove si recò un uomo
di lettere che conoscesti a Parma. Dovrei aprirla e leggerti quello che
succede
nel mondo, ma stanotte, Pedro, voglio raccontarti un’altra
storia: la nostra.
Il sole tramonta già sul lago di Bolsena, in questa terra
antica abitata dai
Volsci e poi dai Romani; forse non vedrai l’alba, e allora
lascia che le mie
parole ti accompagnino nel tuo ultimo, estremo viaggio. Stringendo la
tua mano
stanca e debole, non posso fare a meno di chiedermi cosa
dirà la gente di noi.
Osserveranno i nostri visi riprodotti con pennellate sapienti e precise
e si
chiederanno cosa ci faceva la Bella con la Bestia, se l’abbia
mai amata.
Scriveranno di noi i poeti? E se anche fossero ispirati e le loro penne
corressero veloci sulla carta, riuscirebbero a cogliere, a capire
quello che
c’è stato tra noi? La tua Catherine si preoccupa
ancora di quello che pensa la
gente, alle volte.
C’era
una volta Parigi, Pedro, dove mi
chiamavano Catherine la Bella. Indossavo
abiti di seta e raso, mi guardavo allo specchio ammirando le collane e
gli
anelli che avevano il solo scopo di esaltare ancora di più
la mia pelle chiara,
il naso regolare, le labbra ben disegnate. Una ragazzina vestita da
donna cui
era toccato l’enorme, assoluto privilegio di servire la
regina madre di Francia
in persona, Caterina de’ Medici. La ricordi, Pedro? Ancora
oggi tremo un po’
nel rievocarla, marito mio. Forse era per via del suo accento, forse
per quel
viso triangolare su cui spiccavano due occhi attenti e severi o per le
battute
taglienti che uscivano dalle sue labbra sottili. L’italiana
che non era figlia
di re e che storceva il naso se qualcuno toccava il cibo con le mani,
la
sovrana che ha donato tre sovrani alla Francia. Non ho mai conosciuto
una donna
così volitiva, intransigente, rigida, vendicativa,
intelligente. Nei suoi occhi
scintillava sempre una luce indefinibile, divertita e allo stesso tempo
spietata. La servivo da pochissimi mesi quando mi disse che ero bella.
Mi
alzò il mento con due dita,
sorrise appena e mi guardò come si fissa un cappello nuovo o
una giumenta: mi
stava valutando. Aveva deciso di fare un esperimento, di creare un
bizzarro
miscuglio, di punire l’ingenuità del mio sguardo e
la giovinezza che lei aveva
dimenticato. Nelle rughe che le solcavano il viso c’era il
dolore per i figli
morti troppo giovani e avuti con difficoltà, per il marito
amato disperatamente
che l’aveva sempre divisa con la sua amante, per la famiglia
di papi e signori
straziata dal fato. Le piacevano le stranezze, alla regina Caterina, e
io
portavo il suo stesso nome, ero la sua dama più bella.
“Ti sposi,” disse solo.
La prima volta
che ti vidi svenni,
amore mio.
Agghiacciata dal
tuo aspetto di
bestia, non ressi l’orrore e persi i sensi.
Cos’eri, Pedro? Un animale su due
gambe, vestito di tutto punto come un uomo? Le altre dame, dietro di
me,
ridevano di gusto sussurrando divertite oscenità, mentre il
resto della corte
ci fissava allibita e stupita più che se fosse stata davanti
a uno spettacolo
teatrale. E quello messo a punto da Caterina per ammazzare la noia e
punire la
mia famiglia era questo, nient’altro. Il gioco di una bambina
dal volto di
vecchia che, come una strega crudele, voleva divertirsi a creare un
ossimoro
ambulante: la bella con la bestia. Tu eri stato maledetto dal Cielo in
persona,
io dalla mia sovrana.
All’inizio
fu l’orrore, a serrarmi il
cuore e il petto. Non riuscivo a guardarti né a pensare che
il mio corpo e la
mia anima sarebbero stati tuoi fino a che la morte non ci avrebbe
divisi. Mi
arrivarono strane dicerie all’orecchio, in quei mesi di
preparativi dove la mia
voce e le mie lacrime non significavano niente per nessuno:
raccontavano di
come la regina avesse scommesso – che tremenda menzogna
– sulla natura dei
nostri figli. Altri ancora, più pietosi o semplicemente
vicini a te,
sussurravano di come Caterina volesse trovarti una sposa degna del tuo
nome e
della tua mente acuta e brillante, capace di guardarti
l’anima e scoprire
quanto fosse bella. Non era stata lei e il suo entourage a volere che
tu
ricevessi la migliore delle istruzioni, quella degna di un dotto
umanista? Non
era grazie al suo interessamento che potevi parlare di qualsiasi opera
con i
dotti della Sorbona? Tu, lo strano principe guancio meraviglia
d’Europa che
solo la corte di Valois aveva il piacere e l’onore di
ospitare, don Petrus
Gonsalvus.
Ma allora
perché scegliere me, una
ragazzina? Solo per il mio aspetto? O vide qualcos’altro, sua
Maestà Caterina?
Fu mio padre che aveva offeso in qualche modo la discendente del
magnifico
Lorenzo a causare la mia rovina? Aveva desiderato, per me, un
matrimonio
importante vantandosi della mia bellezza, e così
l’astuta regina italiana aveva
trovato il modo per esaudire in maniera tragica il suo desiderio
superficiale?
Il giorno delle
nostre nozze non fu
felice per nessuno dei due, amore mio. Il tuo sguardo
scivolò su di me più
volte con rassegnata tristezza, perché leggevi sul mio viso
l’angoscia e la
paura e pensavi che nessuno, mai, avrebbe potuto amarti: soprattutto
non io. Avevi
deciso di sposarti perché la tua sovrana te lo aveva
ordinato e nutrivi nei
suoi confronti una riconoscenza enorme per le possibilità
che ti aveva dato, ma
la speranza, quella, era svanita dal tuo cuore. Come poteva una dama di
corte come
me capire la tua stranezza e accettarla?
Vissi nella tua
casa come una
prigioniera. Incatenata dal terrore che mi scuoteva le vene, la notte
mi
rannicchiavo nel letto sperando di non sentire la tua mano che sfiorava
la mia.
Ma tu non eri il mostro delle fiabe pronto a divorare
l’incauta sposa che ti
era stata assegnata da una strega crudele; rispettasti il mio riserbo
senza
violare lo spazio che c’era tra noi. Così
passarono i mesi. Entrambi eravamo
vittime di una maledizione.
Furono i libri,
ad avvicinarci. Gli studi
foraggiati dalla regina Caterina ti avevano reso un uomo appassionato
di lettere
e sensibile, e io lo scoprii sfiorando il dorso consunto dei testi che
amavi e
che avrei desiderato consultare: l’educazione di una
fanciulla, di una dama di
corte, deve limitarsi a ciò che può esserle utile
per intavolare una conversazione
piacevole, intrattenere gli ospiti, essere una padrona di casa affabile
e
gentile. Nella tua biblioteca c’erano libri di filosofia e di
medicina, di arte
e di letteratura, di matematica e di scienze. Li lessi avidamente, di
nascosto
da te, e quando mi scopristi – lo ricordi? – mi
sorridesti con gentilezza
dicendomi che potevo consultare ogni testo, appunto, volume che avessi
trovato.
Amavamo le stesse cose.
Furono le poesie
che iniziasti a
leggermi accanto al camino, ad avvicinarci. Mi parlavi
d’amore traducendo dal
latino al francese i tuoi libri e io rimanevo incantata ad ascoltarti,
rapita
dalle parole che uscivano dalla tua bocca e dal loro suono rotondo,
gentile,
caldo. Cosa c’era dietro il tuo aspetto così
diverso? Me lo chiesi allora, in
quelle sere in cui mi stringevo nello scialle chiedendoti di leggere
ancora,
per favore. I servitori che si occupavano di noi, già da
tempo erano soliti
raccontarmi aneddoti su di te e su quanto fosse nobile il tuo spirito,
ma io
non ero mai riuscita a credere ai loro racconti. Eppure, accanto al
fuoco,
vicino a te, riconobbi nella passione con cui leggevi i poeti antichi
che c’era
qualcosa che bruciava, nella tua anima. Me ne accorsi una sera
qualunque, una
tra tante: mi leggevi dell’amore appassionato di Arianna per
Teseo e del suo
dolore per essere stata abbandonata, e io sussultai sulla poltrona e mi
ritrovai a piangere come l’eroina cantata da Ovidio. Nella
tua voce c’era
dolore, Pedro.
Fu una rosa
donata in un giorno di
pioggia, colta per me e offerta con un sorriso, a farmi pensare che la
mia
regina non era stata né ingiusta né crudele
organizzando il nostro matrimonio. Lei,
che aveva amato e sofferto, perso e ottenuto, aveva saputo guardare
dentro di
te più a fondo di quanto non avessi fatto io. La presi tra
le dita e ti sorrisi
per la prima volta come dovrebbe fare una donna devota e innamorata. La
maledizione
di una vita senz’amore che sembrava destinata a scandire la
tua esistenza si
stava per spezzare, ma noi ancora non lo sapevamo.
Non ci si
sveglia un mattino
innamorati, questo lo so. Eppure c’è un momento,
un istante particolare, in cui
i sentimenti che già abitano nel nostro cuore smettono di
nascondersi ed
esplodono. A volte è la gelosia a togliere il velo dai
nostri animi, altre il
desiderio che soffoca l’orgoglio. La rosa non era ancora
appassita sul mio comò
quando capii che non c’era luogo, in terra o in cielo, dove
sarei voluta andare
senza di te. Tu mi amavi già, questo lo so. Non a parole, ma
con i gesti, i
fatti, le piccole attenzioni quotidiane che io notavo appena e che oggi
mi
scaldano ancora il cuore. Un libro di poesie fatto arrivare da lontano,
la
decisione sofferta di dividere il letto senza consumare affatto, un
mantello poggiato
con attenzione sulle spalle un pomeriggio di vento, il vezzo di
regalarmi un
servizio da tè realizzato con la porcellana più
fine solo per strapparmi un
sorriso.
L’orologio
sulla mensola batte solennemente
le due del mattino e il lume accanto al letto getta un’ombra
triste sulla
parete. La corte di Valois non esiste più e Parigi
è ormai una città estranea,
per noi. La magnifica eccentricità della nostra famiglia e
l’amore che ci lega
ha incantato la corte di Parma e Roma. Fantasticano di noi –
della bella che s’innamorò
della bestia – e già qualche scrittore ha mutato i
dettagli e i particolari della
nostra vita per creare una fiaba più bella. Nelle loro
parole io sarò Psiche e
tu Eros, un mostro crudele travestito da principe che
incanterà le fanciulle
facendo sognare loro un amore perfetto, reso più inebriante
dal brivido che
scaturisce al pensiero di avere accanto un uomo simile a una bestia. Ma
questa
è una favola che non ci appartiene, Pedro. Noi siamo solo
due peccatori che si
sono incontrati, due spiriti affini che una sera lontana hanno letto
insieme un
libro d’amore e, a un certo punto, hanno lasciato le pagine
stampate e si sono
guardati negli occhi per poi sfiorarsi le labbra. Mi confessasti il tuo
amore
quella notte, dopo un bacio a lungo cercato e spontaneo. “Sei
così bella
Catherine,” mi dicesti, “troppo.”
Non risposi, non
dissi nulla, perché il
cuore mi batteva troppo forte nel petto. Il mio ti
amo lo avrei gridato in un’alba gelata pochi giorni
dopo, quando
la nostra rosa non era ormai che un fiore quasi appassito. China su di
te, con
le guance bagnate di lacrime, ti avrei stretto con disperazione e,
singhiozzando, ti avrei implorato di non lasciarmi. Ricordare quel
momento fa
male, Pedro, fa ancora male. Sento una spina nel petto, se penso alla
tristezza
del tuo sguardo quando mi allontanai da te per tornare nella casa di
mio padre
anche se solo il tempo di dargli l’estremo saluto, tirandomi
dietro, senza volerlo,
un uomo che pretendeva di sfidarti a duello e portarti via da me. Il
letterato contro
il soldato. Ti difendesti con onore, fosti ferito – lo
ricordi? – e lui vinse.
Ma io, quella mattina gelata, scelsi di rimanere con te.
Fu
l’inizio di un amore lungo
cinquant’anni, marito mio, che nemmeno la morte
riuscirà a spezzare. Nel buio
della nostra stanza da letto ci siamo scoperti e svelati, amati e
consolati
come un uomo e una donna, come due amanti. Con quella rosa donata in un
giorno
di pioggia, spezzammo la maledizione lanciata con scherno da chi
pensava che la
nostra unione di fronte a Dio fosse una farsa, uno scherzo,
l’esperimento di un
alchimista. Siamo stati felici, Pedro, ci siamo amati come nelle fiabe,
e per
questo lasciarti andare è così difficile,
stanotte.
E allora resto
qui, Pedro, ad
aspettare che il tuo respiro si faccia sempre più leggero, a
tenerti la mano
mentre la vita scivola via dalle tue dita e l’alba si
avvicina portandosi via
le stelle. La nostra storia d’amore è stata
meravigliosa, Pedro.
Buonanotte,
amore mio.
Fine
Note
Autore:
Scrivo su altri
fandom e ora, per via
di un contest, sono approdata qui.
Questa storia
partecipa a un contest
ed è basata sulla vita
vera della coppia che ispirò la Bella e la Bestia,
Petrus Gonsalvus
(affetto da ipertricosi) e sua moglie Catherine, dama di corte della
regina
Caterina de’ Medici. La coppia si sposò nel 1573.
Raccontano le cronache, che
la giovanissima e bellissima Catherine svenne quando vide il marito per
la
prima volta. Nonostante questo, l’animo gentile di don Pedro
riuscì a
conquistare il cuore di sua moglie. Nel testo ho cercato di inserire
alcuni
elementi propri della fiaba: la rosa, l’amore di Belle per i
libri, il lume, l’orologio,
lo specchio e il servizio da tè, Gaston (il nobile che sfida
a duello Pedro) e,
ovviamente, la strega/fata, impersonata da Caterina de’
Medici. La regina di
Francia è famosa per aver introdotto l’uso delle
posate alla corte dei Valois e
per aver rivoluzionato la cucina francese. Pedro morì nel
1618 in Italia, in
una casa vicino al Lago di Bolsena: la lettera che Catherine sceglie di
non
leggergli parlava, con tutta probabilità, della guerra che
presto avrebbe
sconvolto l’Europa e che proprio quell’anno
iniziò con la defenestrazione di
Praga (1618). Il monaco bruciato a Roma è, chiaramente,
Giordano Bruno (1600). Ma
basta con i dettagli storici, che pure amo. La verità
è che questo è il mio primo
originale scritto appositamente
per il contest “E
se le fiabe fossero vere?”
Ecco
perché, semplicemente, ho scelto
di raccontare la fiaba de La Bella e la Bestia.
Solo che Pedro non era un uomo incattivito dalla vita,
un’oscura bestia che
viveva rinchiusa in un castello incantato. Era un cortigiano che viveva
in una
delle corti più potenti d’Europa.
Un’ultima nota: nel testo sono
volutamente presenti alcuni termini/paragoni poco
lusinghieri nei confronti di Pedro (affetto da ipertricosi), che viene
appellato dalla moglie, tra gli altri, come “uomo
cane.” Un simile modo di
esprimersi oggi non sarebbe assolutamente lecito, ma lo era nel 1618,
epoca in
cui la fanfiction è ambientata. La sensibilità
cambia. Nel testo spesso
Catherine, voce narrante, si rivolge alla divinità. Anche in
questo caso, si tratta
di un modo, un escamotage che ho ideato per far sembrare più
realistico il
racconto. La fiaba di Eros e Psiche influenzò effettivamente
la storia della
Bella e della Bestia e, nel testo, sono presenti riferimenti alle
Heroides di
Ovidio e a Dante (Canto V).
Grazie per
essere giunti fin qui,
Shilyss