I Visitatori
Anno 2237
Lena si agita appena, nel sonno dorato che le sigilla le palpebre. È
scossa da
spasmi delicati, il suo corpo snello si flette, le sopracciglia
scattano e
quasi si congiungono sulla fronte aggrottata... ma poi si distendono,
pacifiche,
obbedienti.
Nel dormiveglia
di velluto in cui è imprigionata, tutto è morbido, ovattato, caldo.
Lena
annega nei suoi sogni – remoti, incantevoli, niente
labirinti, niente
mostri.
*
È il vento a risvegliarla.
È un suono così fastidioso, così
pungente. Lena cerca
di ignorarlo, rigirandosi, dibattendosi, ma i suoi sogni si riempiono
di
spifferi, di fruscii, di quel crepitio da incubo che non le dà tregua –
il
vento le fischia nelle orecchie, le grida nella testa, e i suoi sogni
si
infrangono uno dopo l’altro, in una dissolvenza perlacea che le fa
venire
voglia di cavarsi gli occhi, pur di non guardare, pur di non dover
capire.
Si risveglia con una scossa. Si
sente il corpo
pesante, viscido; un cerchio di fuoco le corre lungo le tempie, ma è
niente in
confronto alla pressione che avverte in gola, alla sensazione di soffocare.
Con un movimento convulso, Lena
sbarra gli occhi. Il
panico esplode quando si rende conto che non vede niente.
No, niente non
è corretto, ma è tutto sbagliato, tutto distorto. Lena sbatte
freneticamente le
palpebre, ma onde concentriche d’un azzurro anomalo si schiudono come
fiori nel
suo campo visivo.
Lena inizia a piangere senza
nemmeno rendersene conto.
È così confusa, così spaventata. Il dolore alla
testa è feroce, le
impedisce di pensare bene, di schiarirsi le idee – i suoi
pensieri sono
lontani, come reminiscenze perdute, come ricordi di una notte passata a
bere
per dimenticare un amore spezzato.
Le lacrime le colano sul viso, ma
non si mescolano
allo strano liquido gelatinoso e caldo in cui è immersa. Lena sa di
dover stare
calma, ma tra saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo.
Le sembra di essersi svegliata da
ore, di essere
prigioniera da ore, e invece non è passato neanche un minuto. Con la
mente
raschiata dal panico, non si accorge subito che i singulti del suo
pianto
isterico le stringono la gola già serrata, ed è con un brivido di
autentico
terrore che avverte di avere qualcosa ficcato giù
per la trachea.
Impazzita, Lena cerca di portarsi
le mani al collo, ma
il liquido d’un azzurro ultravioletto è denso, melmoso.
Le sue braccia
si muovono con esasperante lentezza, conquistano faticosamente un
centimetro
dopo l’altro, finché alla fine le dita le si schiantano contro il mento.
Rantolando, Lena si tasta frenetica
il volto. Avverte
qualcosa di liscio, incredibilmente freddo, sembra una specie di
boccaglio. È una maschera, realizza
con un brivido,
una maschera che le permette di respirare anche nel liquido violetto in
cui è
immersa.
Il crepitio, insistente, continua,
ronzandole nelle
orecchie. Lei capisce che si era sbagliata: non era vento, non lo era
affatto, è
il rumore della melma che la tiene prigioniera, è il suono delle onde
concentriche che si allargano quando si muove.
Afferra i bordi della maschera e
tira, incurante delle
conseguenze.
Una piccola parte del suo cervello
annebbiato sa che è
una pessima idea strapparsi dalla gola la macchina che le permette di
respirare, soprattutto quando si trova immersa in una sostanza
sconosciuta. Ma
la parte irrazionale di lei – quella che ha visto i suoi
sogni crollare in
dissolvenza e ha aperto gli occhi su un mondo di onde d’un azzurro
ultravioletto – non sopporta la sensazione che le dà la gola
ostruita, non
sopporta di essere in trappola.
Lena tira e non fa male, ma si
sente comunque
scoppiare il cuore nell’avvertire il tubo di metallo, gelido, che
scivola contro
le pareti della sua gola.
Lo sputa via, grata di essere
arrivata alla fine, e
sente sulla lingua il gusto del liquido azzurrino. È salato, come il
mare, e
allo stesso tempo è un sapore completamente nuovo.
Alieno, le suggerisce
una vocetta beffarda nella sua testa.
Già senza fiato, Lena si costringe
a spingersi
attraverso la melma spettrale. Il suo corpo si muove lento, troppo
lento, ma
alla fine trova una parete di vetro con la punta delle dita. La tasta,
ma
sembra infinita, e allora fa l’unica cosa che le pare sensata, col
cervello a
corto di ossigeno e la vista distorta: risale verso l’alto. Nuota tra
le onde
concentriche con lentezza, col crepitio che le scrocchia nelle orecchie
e la
testa che esplode, finché il suo viso infrange la superficie del
liquido e lei
si ritrova di nuovo a contatto con l’aria.
Trae un respiro ansante, convulso.
L’aria fresca è
meravigliosa lungo la gola infiammata, sulla sua pelle accaldata.
Schiude gli occhi, tremante, ma non
vede altro che
pareti liscissime, d’un bianco abbagliante, e la vasca di vetro in cui
è ancora
immersa, piena del liquido d’un azzurro ultravioletto che crepita piano.
Con la mente ancora annebbiata dal
dolore, cerca di capire
dove possa essere, ma non ci sono punti di riferimento, né finestre.
L’unica
certezza è il calore della melma che ondeggia attorno al suo corpo
cosparso di
tremiti, la melma che fruscia suadente in quella che, lo capisce
all’improvviso, è una capsula di sopravvivenza.
Dove
sono finita?
Lena si costringe ad issarsi fuori
dalla capsula,
tremante. I polsi le cedono diverse volte, ma alla fine riesce a
scivolare sul
pavimento bianco. Il tonfo del suo corpo bagnato è attutito dal liquido
gelatinoso che le è rimasto addosso, ma lei scatta lo stesso a
guardarsi
intorno. Ha il terrore che la sentano.
Sa che non è più sulla Terra. Lo sa
perché non ha mai
dimenticato, nemmeno quando dormiva, che la guerra con i Visitatori è
molto lontana
da una fine. Non ricorda molto di come sia finita nella capsula –
una luce,
un dolore sordo dietro il collo, uno strappo -, ma è certa di
essere stata
rapita. Come tanti altri prima di lei.
Nel silenzio remoto della stanza
dalle pareti d’un
candore abbacinante, Lena sente rimbombare il battito del proprio cuore.
E poi un fruscio, un crepitio, una musica.
Lena sviene prima di poter
percepire il tocco freddo del
Visitatore sulla nuca.
*
Era un giorno di maggio come tanti,
quando la prima
astronave aliena comparve in cielo.
Faceva caldo, un caldo surreale per un mese così pacato –
il mese delle spose, Kyle ripeteva sempre che loro due avrebbero
scelto un dicembre irto di ghiacci, non rose e albe dorate, come tutti
gli
altri.
Lena ricorda che quasi correva tra la gente che affollava la piazza,
coi libri
stretti al petto e i capelli neri che le ricadevano tra le ciglia.
Qualche
passante si voltava a guardarla, incuriosito: dopo la rivoluzione
tecnologica
del 2169, erano in pochi a usare ancora i libri. Il cartaceo era
diventato una
rarità, ma non nel mondo accademico, dove conviveva pacificamente
accanto agli
schermi ultrapiatti e alle celle di memoria impiantate nella corteccia
cerebrale. Era anche per questo che Lena aveva scelto quel campo – amava la sensazione delle pagine sotto le
dita, il fruscio setoso quando le scorreva. Suo padre
sosteneva che era
stata una pessima idea, che avrebbe dovuto dedicarsi all’ingegneria
aerospaziale e fare richiesta per andare a vivere in orbita, su una
delle
quattro stazioni che gravitavano attorno al pianeta – era
quello il futuro, diceva. Lena non gli aveva dato retta.
Scostandosi una ciocca ondulata dal
viso, accelerò il
passo. Era in ritardo, come sempre, ed era anche più grave del solito:
il
professore di letteratura la stava aspettando per discutere del suo
dottorato,
e non era proprio il caso di farlo attendere.
Ricorda come se non fosse passato
più di un anno il
momento in cui era inciampata, spargendo una decina di libri piuttosto
costosi sul
selciato della piazza. Le era sfuggita un’imprecazione a denti stretti,
ma non
aveva fatto in tempo a chinarsi che erano cominciate le grida, seguite
da un
silenzio attonito ancor più agghiacciante.
Un’ombra scura era scesa sulla
piazza, lenta ma
inesorabile. Tutti guardavano in alto, ma Lena si sentiva il collo
rigido,
bloccato. Aveva ancora un braccio allungato per afferrare uno di quegli
stupidi
libri.
Chissà
se anche Kyle sta guardando in alto.
In cielo, un triangolo perfetto si
stagliava contro il
sole, come in un’eclissi.
Nero, nero, nero.
*
Lena riprende conoscenza dopo
giorni di affilato
nulla, ma non lo sa. Le sembra passata soltanto una manciata di istanti
da
quando si è issata fuori dalla capsula di sopravvivenza e si è lasciata
cadere
sul pavimento candido, la pelle velata d’azzurro violetto – ricorda con orrore il crepitio del liquido contro
le orecchie, il
tubo di metallo infilato in gola.
È di nuovo in una stanza
completamente bianca, le
pareti sono arrotondate, concave. Gli unici elementi presenti sono il
ripiano
su cui è sdraiata e un riquadro di un azzurro tenue, vacuo, che si
increspa
appena, all’apparenza senza uno schema, incassato nel muro davanti a
lei. Lena
crede che sia l’ingresso della sua cella, ma non si fida abbastanza di
se
stessa e delle sue impressioni per provare ad avvicinarsi e ad aprirla.
La testa le fa ancora un male del
diavolo, tutto quel
bianco le dà fastidio agli occhi. Il ripiano su cui l’hanno sistemata
non è
duro, ma non è nemmeno un letto di piume e il suo corpo indolenzito
lancia la
sua protesta in scricchiolii sinistri quando lei si solleva a sedere.
Ha addosso una specie di camice,
del consueto candore
immacolato. È morbido e caldo, ma Lena dubita che sia stoffa: sotto le
dita ha
la consistenza dell’acqua quand’è agitata, sembra turbinare sotto i
suoi polpastrelli
esitanti.
Lena studia quella tonaca per ore,
senza sapere cosa
fare. Nella stanza non c’è nient’altro da poter osservare, e le sue
mani con le
unghie rosicchiate a sangue non sono un bello spettacolo –
ed è meglio che non ci pensi, che non rimugini.
Il tempo pare non passare mai. Lena
tenta di dormire,
ma il ricordo della capsula – le onde
concentriche, quell’azzurro alieno, il crepitio beffardo – glielo
impedisce. Teme che se precipitasse in un sogno, questa volta non si
sveglierebbe.
Se solo
ci fosse una finestra.
*
Lena ricorda bene quand’è scoppiata la guerra. Non era trascorsa
neanche una
settimana dall’arrivo degli alieni – le
reti nazionali non facevano che ronzare di notizie sui Visitatori, chi
sono,
cosa vogliono, perché non se ne vanno.
Le cose erano iniziate a sfuggire
di mano nell’arco di
cinque, maledetti giorni. Lena non sa cosa sia successo, ma conosce
abbastanza
il suo governo per sapere che probabilmente ha peccato di “prudenza”, a
voler
essere indulgenti.
Erano cominciate le luci nel cielo,
a tutte le ore
della notte. I notiziari descrivevano minuziosamente gli attacchi
terresti ai
danni dei triangoli neri che sostavano nell’atmosfera. Peccato non
arrecassero
nessun danno. Le astronavi aliene continuavano a girare in orbita,
apparentemente imperturbabili. Non c’era stata risposta.
Poi erano cominciate le sparizioni.
In tutto il mondo.
Quasi soltanto donne.
Era tardi per la diplomazia, ma i
politici ci avevano
provato lo stesso. Nessuna risposta, solo luci accecanti nel cielo.
La popolazione era insorta, c’erano
stati disordini, proteste,
caos, e infine guerra. Guerra e morte in ogni angolo del pianeta.
Nessuna risposta –
solo luci e quel silenzio asettico, inumano.
Lena ricorda la paura, mentre
vedeva il suo mondo
scomparire in mille, fragili pezzi. I governi cadevano, le città
venivano messe
a ferro e fuoco, il panico dilagava, come un’infestazione letale.
E la gente continuava a sparire.
Le luci nella notte ora non
significavano più
astronavi amiche pronte a cacciare il silenzioso invasore. Ora le luci
gridavano che la caccia era aperta.
*
Quando il riquadro celeste
incassato nel muro si
solleva, Lena quasi non se ne accorge. È persa nei suoi pensieri, nei
ricordi
terribili della guerra – ripensa a Kyle,
Kyle dal sorriso appena accennato che non ti faceva mai capire se ti
amava sul
serio oppure no, Kyle con gli occhi di un blu quasi marcio e la voce
piena.
È il ronzio ad attirarla. È appena
percepibile, poco
più del frullo d’ali di una farfalla, ma nella stanza bianca non c’è
niente,
non succede niente, non esiste niente,
e quindi Lena se ne accorge.
Solleva lo sguardo in un gesto
meccanico, il corpo
snello ancora abbandonato sul ripiano adibito a giaciglio, e il respiro
le si
spezza in gola.
Sulla soglia, il Visitatore sosta
immobile,
silenzioso.
Non assomiglia a un essere umano,
anche se a una prima
occhiata i contorni possono sembrare gli stessi. È alto, altissimo – Lena stimerebbe quasi il doppio di lei nel
suo metro e sessantadue, se non fosse sotto choc.
Ha quattro arti, lunghi,
affusolati, che terminano in
appendici curiosamente rigide, ramificate. L’epidermide è di un grigio
lucente,
traslucida – sotto pelle danza un intrico di vene d’un azzurro
violetto, ombre
più scure delineano la struttura dello scheletro, un bagliore distante
pulsa
negli organi vitali, con un brillio luminescente che sparisce ad
intermittenza.
Il Visitatore, con movimenti lenti,
aggraziati, rassicuranti, posa
davanti a lei una
ciotola bianca. Al suo interno giacciono cinque pastiglie dai colori
brillanti.
Lena fatica a guardarle.
Afferra la ciotola con mani tremanti, indugiando con lo sguardo sugli
arti
inferiori dell’alieno. Lui – o lei? – non indossa nulla, eppure non ha
tratti
sessuali distinguibili ad occhio nudo.
“Prendile.”
Il sussurro le rimbomba nella
testa, perfettamente
chiaro, perfettamente udibile, un’eco un po’ metallica a sottolineare
che non è
una richiesta. In un angolo remoto del suo cervello, Lena realizza di
aver
udito come una musica, ma non se ne ricorderà per molto tempo ancora,
perché in
quel momento decide di sollevare lo sguardo sul volto del Visitatore.
Dove dovrebbe esserci il viso
dell’alieno, non c’è
altro che quella pelle traslucida, grigio fumo. Due piccole fessure
allungate,
nere come abissi, si schiudono nella parte alta del volto. Sono occhi,
illeggibili, extraterrestri – neri come
un’eclissi, ma senza luce. Sulla cima del cranio, un
intreccio di ossa
curiosamente ritorte e aggrovigliate tra loro sembra proteggere la
scatola
cranica. La testa è collegata al torso da un collo lungo, sinuoso, che
presenta
due tagli netti da ciascun lato – se Lena
fosse meno sconvolta, forse si accorgerebbe della vibrazione
impercettibile che
scuote i due lembi di pelle quando la musica tintinna nella stanza.
Lena si caccia le pastiglie in gola
pur di farlo
andare via, le iridi velate di lacrime.
“Sei
stata brava.”
*
Quando il Visitatore esce dalla
stanza, il riquadro
celeste ritorna al suo posto, vorticante.
Se Lena non fosse così stremata,
forse si accorgerebbe
della musica, appena fuori dalla soglia della sua prigione. È una
conversazione, e nella sua lingua suonerebbe più o meno così.
“Ti ha
visto.”
“Sì.”
“Non
devi parlarle, conosci la procedura.”
“È
inoffensiva...”
“No, è
irrilevante. Ricordalo.”
*
Abbandonata sul suo giaciglio
inospitale, Lena ripensa
con angoscia ai suoi ultimi giorni sulla terra.
Ricorda come il pianeta fosse
devastato dalla guerra,
dalla violenza, dal terrore. Senza un governo a guidarla, la gente
pareva
impazzita: c’era chi si comportava seguendo un istinto primordiale di
pura
sopravvivenza, chi si lasciava dominare dai propri demoni affamati, chi
si
nascondeva come un ratto. E poi c’erano i fanatici, che la notte
salivano sulle
colline e accendevano fuochi per venerare gli dei-alieni, venuti a
distruggere
un mondo corrotto, venuti a donare il silenzio della loro razza
superiore. Tra
le danze caotiche, i fanatici imploravano di venire scelti e di sparire
tra i
fasci di luce che piovevano dal cielo –
Lena ricorda ancora le loro litanie nauseanti nella notte, i canti
tribali, le
scintille dei roghi.
Lei e Kyle erano scappati via,
attraversando foreste,
fiumi, villaggi disabitati. Dappertutto c’erano solo morte e
disperazione. E la
notte, le luci. Nessuna risposta da loro.
Lena ricorda il volto duro di Kyle,
mentre si
aggiravano per rovine fantasma, mano nella mano, come se l’umanità si
fosse
estinta e al mondo fossero rimasti soltanto loro. Ricorda la paura,
l’incertezza – ma anche l’euforia, la
scarica di adrenalina, l’amore viscerale che le si risvegliava dentro
ogni
notte, quando scivolava su di lui, “Così se ci dovessero prendere,
saremo
insieme, insieme”, sospirato sulla sua bocca fino a non averne più le
forze.
E poi avevano incontrato loro. La
Resistenza, si
facevano chiamare. Era un nutrito gruppo di persone, riunite sotto la
guida di
un’assemblea. Cercavano di riportare l’ordine in una terra schiava del
terrore,
e allo stesso tempo abbracciavano la via della diplomazia. I loro
obiettivi a
breve termine prevedevano di riuscire a ristabilire la pace sulla
Terra. A
lungo termine, invece... l’idea era di stabilire un contatto. Era la
prima
razza aliena con cui gli esseri umani entravano in contatto, ed era un
avvenimento troppo importante per non sfruttarlo.
Kyle aveva annuito, quando avevano
spiegato loro che
il governo era stato avventato nel dichiarare guerra a una potenza
aliena
sconosciuta. Era sembrato così ragionevole, con la luce del fuoco a
illuminarne
i lineamenti decisi, così concentrato. Uno dei tre dell’assemblea a
capo della
Resistenza aveva assicurato loro che gli alieni non erano ostili:
d’altronde,
avevano forse mai risposto agli attacchi delle astronavi terrestri?
Avevano mai
distrutto o minacciato l’umanità? Kyle era sbottato in una risata un
po’ amara,
ma lei sapeva che condivideva le idee di quel gruppo di ribelli. Anche
Lena era
d’accordo, ma era rimasta zitta – pensava
alle luci nella notte.
Erano rimasti con la Resistenza. Un
posto fisso, cibo
tutti i giorni, poche responsabilità... Lena sapeva fin dall’inizio che
non era
destinato a durare.
Chiusa nella cella dalle pareti
d’un bianco
abbacinante, si sente un topo in trappola. Ripensa ai canti dei
fanatici nella
notte, che pregavano di essere
scelti, e una risata squilibrata le sgorga dalle labbra rosicchiate a
sangue.
E pensare che era stata così
stupida da unirsi alla
Resistenza, da credere che i Visitatori non fossero invasori, non
fossero crudeli. Aveva davvero
creduto che fosse
stata la solita politica umana, distruttiva e poco lungimirante, a
rendere la
guerra inevitabile. Era stata stupida, talmente
stupida...
Ora che è prigioniera e Kyle là
fuori chissà dove, a
milioni di chilometri da lei, le sue idee non le sembrano più tanto
superiori. La
risata s’interrompe all’istante e Lena soffoca un singhiozzo tra i
denti, il
volto sepolto tra le mani.
*
I giorni passano uno dopo l’altro,
o almeno così le
sembra – scopre di essere incapace di
misurare il tempo, senza il suo orologio regolato sul sole, scopre di
non saper
nemmeno restare sola con se stessa, senza la sua vita a farle da
contorno.
Fuori dalla sua cella, ogni tanto
sente la musica. È
un canto delicato, vibrante, ricco di note.
Forse un po’ triste.
Lena lo ascolta con piacere,
torturandosi le unghie e
contorcendosi sul giaciglio. Tutto quel bianco la fa impazzire.
Si ritrova a pregare che il
Visitatore torni una
seconda volta.
*
Le sue preghiere vengono esaudite
da un dio che non
esiste, e l’alieno torna a farle visita. Si palesa nella stanza senza
un
fruscio e si arresta sulla soglia, immobile.
Senza il terrore della prima volta,
Lena riesce a
guardarlo meglio. La sua pelle traslucida che permette di vedere cosa
succede
appena sotto la superficie la affascina, con le ombre delle ossa, i
guizzi dei
capillari e delle vene, il bagliore indistinto degli organi. Lena
lascia
scorrere lo sguardo sugli arti lunghi, esili, sulle appendici ritorte
dove, in un
umano, ci sarebbero le mani.
E poi lo guarda in faccia.
Quel volto alieno con la pelle
tirata sulle ossa le
mette i brividi. Non ha una bocca, un naso, niente: solo quella pelle
grigio
fumo, appena traslucida, e le fessure oblique degli occhi – sembrano buchi neri, magnetici, impossibili.
L’appalto osseo sul cranio della
creatura le ricorda
un intrico di rovi, solo che questi sembrano fatti di metallo e non di
spine.
Nonostante la mostruosità di quel
volto, Lena non è
spaventata. Non come l’altra volta, almeno.
Forse è perché il Visitatore non ha
un’aria affatto
minacciosa, immobile sulla porta come la statua di un idolo pagano di
altri
tempi – o forse è il sollievo a impedirle
di provare paura, il sollievo di non dover più subire quella solitudine
d’un
bianco crudele.
“Seguimi.”
La voce metallica le rimbomba nella
testa con un
crepitio soffuso. Nella cella, risuonano debolmente alcune note.
Lena aggrotta appena le
sopracciglia. Non sa come sia
possibile, ma capisce perfettamente quello che l’alieno vuole dirle. Lo
capisce
tra i suoi pensieri, chiaro, lineare, ma
le sue orecchie avvertono solo quella musica che – ormai le è piuttosto
chiaro
– è la sua lingua.
Non si muove, il capo sollevato per
guardare quel
volto privo di lineamenti.
“Riesci a capirmi?”
“Sì.”
Il tono non cambia, sempre freddo,
sempre metallico.
Non sembra ostile, ma lei non si alza lo stesso.
“Seguimi.”
Senza aggiungere altro, le volta le
spalle ed esce
dalla sua cella.
Lei fissa con vaga apprensione il
vuoto che ha
lasciato, ma alla fine si decide a seguirlo. D’altronde, potrebbe fare
diversamente? Non vuole nemmeno immaginare che cosa potrebbe succedere
se si
rifiutasse, se il Visitatore dovesse obbligarla a obbedire – il pensiero di quegli arti ramificati addosso le
mette i brividi.
Con cautela, esce dalla stanza. Si
ritrova in un
corridoio lungo, asettico, del solito bianco snervante –
l’illuminazione è troppo alta, le brucia gli occhi, le ricorda i suoi
sogni che crollavano in dissolvenza.
L’alieno è fermo, la aspetta.
S’incammina senza
voltarsi indietro.
“Dove mi stai portando?”
Nessuna risposta.
Camminano per qualche minuto, senza
un suono. C’è qualche
svolta, ma loro proseguono sempre dritti, in un paesaggio candido che
la
costringe a tenere socchiuse le palpebre. Lena si ritrova quasi a
rimpiangere
il liquido d’un azzurro ultravioletto.
“Chi sei?”, ritenta, esasperata.
L’alieno non dà segni d’averla
sentita.
Lena sta quasi per mettersi a
urlare, quando lo
sguardo le cade su un oblò che interrompe il corridoio. Prima che il
Visitatore
possa anche solo pensare di fermarla, scatta verso quella specie di
finestra,
vi si aggrappa con le unghie martoriate.
Siamo
in orbita, pensa
con un fremito.
Là fuori, c’è il vuoto, nero,
oscuro. La Terra è
vicina, luminosa, tutta azzurra e verde –
di un colore così pacifico, così equilibrato, non quel bianco che non
la fa
dormire.
Lena sente gli occhi riempirsi di
lacrime, al pensiero
di essere così vicina. Così vicina.
Kyle...
“Seguimi.”
L’eco metallica la raggiunge,
distante,
disinteressata. L’alieno non si è nemmeno fermato a fissarla.
D’altronde, dove
potrebbe andare?
Dove potrebbe scappare?
Dopo un interminabile minuto, Lena
si stacca dall’oblò
e prosegue lungo il corridoio. Sa che resistere non ha alcun senso.
Finalmente, arrivano a
destinazione. Il Visitatore la
fa entrare in una stanza grande, circolare, piena di macchine che ronzano
piano, che si illuminano
a intermittenza, fioche.
Lena
non riesce a intuire a cosa possano servire, ma sente i brividi
artigliarle la
schiena.
“Siediti.”
Lei
obbedisce, un po’ stordita. Lungo la parete più lontana della stanza,
corre una
capsula di sopravvivenza, il liquido al suo interno crepita, beffardo.
Il
panico minaccia di sopraffarla al pensiero di rischiare di dover
tornare lì
dentro.
Si
siede su un ripiano simile al suo giaciglio, osservando l’alieno che
sfiora
appena le macchine di lucido metallo con quegli arti nodosi. Quasi non
le
tocca, ma quelle rispondono lo stesso al suo comando. Pigolii, luci,
come
quelle nella notte.
Lena
prende un respiro tremante, prima di parlare.
“Siamo
su una delle vostre astronavi. Lo so. Chi siete? Cosa volete?”, ci
pensa un
attimo, poi si corregge, “Cosa vuoi da me?”
Nessuna
risposta. Quelle spalle aguzze restano voltate verso le macchine, come
se lei
neanche esistesse.
Un
principio di panico le serra la gola, ma Lena lo domina con rabbia –
deve
controllarsi, lo sa, Kyle non vorrebbe mai che si lasciasse uccidere
per un
commento di troppo.
Il
Visitatore si volta e le si avvicina. Tiene in mano una specie di
provetta,
solo molto più lunga del normale: sarà almeno venti centimetri.
“Il
braccio, prego.”
Lena
resta paralizzata, incapace di muoversi.
Ci
siamo, pensa,
ora mi ucciderà. Mi staccherà un braccio
o mi inietterà qualcosa di letale dritto in vena, e io non rivedrò mai
più la
Terra, mai più il sole, mai più Kyle.
Mai
più.
Scuote
il capo con decisione, stringendosi le braccia al petto. I capelli
corvini le
ondeggiano contro le guance scarne, le ostacolano la visuale, ma lei
non ha
occhi che per i bagliori alieni che si intravedono appena sotto la
pelle del
Visitatore, quella pelle che non è altro che un velo di fumo.
Vivono
in un mondo di bianchi, grigi, azzurri. Forse non possono vedere altro.
“Non
ti farò alcun male. Il braccio, prego.”
Lena
si pianta i denti nel labbro per non lasciarsi sfuggire il gemito
terrorizzato
che le era risalito in gola. Sa di non doversi mostrare spaventata, ma
tra
saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo.
“Mi
serve il sangue. Il braccio, prego.”
Quel
tono così cortese e così freddo la manda fuori di testa.
Dannati
loro e i loro occhi neri come abissi, dannata la loro fissazione per il
bianco,
dannata la loro voce che sembra un canto e dannata la loro traduzione
meccanica
che le risuona in testa in mille echi distorti.
“No”,
ripete lei, stridula, “Voglio sapere cosa succede sulla Terra. Voglio
sapere
perché, voglio tornare a casa!”
L’alieno
inclina lievemente il capo verso di lei per guardarla meglio.
“Il
braccio, prego.”
“No!”
Il
Visitatore non si scompone. Si limita ad avvicinarle alle braccia
incrociate la
provetta.
Una
luce, uno scoppio di dolore, e quella comincia a riempirsi di sangue.
Rosso,
scuro, umano.
Lena
perde completamente la testa.
Cerca
di muoversi, ma scopre di essere come paralizzata sul posto da una
forza
sconosciuta, da quella luce che le piove serafica sulla pelle. Può
ancora
parlare, però, e allora si mette a gridare, senza ritegno, le lacrime
che le
squassano il petto.
“Lasciami
andare, lasciami stare! Voglio andare a casa... Oh, ti prego, ti prego,
farò
tutto ciò che vuoi, qualunque cosa!”
Nessuna
risposta.
“Perché?”
Il
Visitatore canta qualcosa in risposta, ma stavolta la traduzione non le
risuona
nella testa.
Non
può parlare con me. Vorrebbe, ma sa di non dovere.
Il
sangue continua a riempire la provetta, piano.
*
I
giorni passano tutti uguali, nella stanza bianca che è diventata la sua
prigione.
Il
Visitatore non è più tornato, da quando le ha preso il sangue. Le
pastiglie
continuano ad arrivare, saziano la sua fame e la sete –
ma non possono fare niente per l’insonnia, per gli incubi.
Lena
si rosicchia le unghie e si tortura le labbra, ma sa che cosa fare la
prossima
volta che verrà a trovarla.
Non
ha intenzione di arrendersi senza combattere.
*
Il
Visitatore la va a prendere, silenzioso come sempre. Il rettangolo
celeste che
tiene chiusa la stanza si solleva, crepitante, e Lena segue l’alieno
nel
corridoio, docile.
Cammina
in silenzio, senza una parola – ripensa ai fanatici coi loro
roghi nella
notte, ripensa alle suppliche lasciate senza risposta.
Poi
vede una curva, il corridoio si snoda in un secondo svincolo. Sempre
bianco,
sempre vuoto.
A
volte, si è chiesta se su quella maledetta astronave non ci siano
soltanto lei
e lui.
Lena
scatta e si mette a correre, imboccando l’altra via senza fermarsi. Il
respiro
le si affanna subito, si sente debolissima, e sa, lo sa, che non c’è
alcuna
speranza, alcuna possibilità di salvezza, ma che cosa può fare? Gli
esseri
umani sono creature irrequiete, che amano la libertà, che non
sopportano una
fine in gabbia.
Il
corridoio sembra non finire mai. Lena sente solo il rumore del suo
respiro
spezzato e della sua corsa sempre più debole.
E
poi all’improvviso eccone altri due. Alti, spettrali, come mostri in un
labirinto di specchi che riflettono solo luce bianca così forte da
ferire gli
occhi – Lena pensa ai canti nella notte, al credo blasfemo di
quei pagani
che veneravano gli dei-alieni, e per un attimo le sembra di capire.
Li
supera di corsa, improvvisamente rapida, improvvisamente piena di
energie, ma
loro non cercano nemmeno di fermarla. Come sempre, non hanno reazioni,
nessuna
che lei possa notare.
È
con sgomento che si rende conto di essere tornata davanti alla sua
cella. Lui è
dentro che la aspetta.
“È
inutile fuggire. Non c’è nessun posto dove andare.”
La
sua voce metallica trafigge secca i suoi pensieri e la musica si
spande, dolce
come miele. È incredibile che un essere così imperturbabile, così
granitico,
sappia produrre dei suoni talmente belli, così intensi da farle salire
le
lacrime agli occhi.
“Perché
lo fate? Che cosa volete?”
Nessuna
risposta, solo quel silenzio un po’ beffardo che le ricorda il crepitio
della
melma azzurrina.
Le
cedono le caviglie e crolla a terra. I capelli neri le si chiudono
attorno al
volto quando si affloscia su se stessa.
Il
Visitatore lascia sul suo giaciglio la consueta dose di pillole e
nutrienti che
servono a tenerla in forze, e Lena capisce che forse una speranza c’è.
“Non
le prenderò più, se non inizierai a parlarmi. E se mi costringi, mi
farò del male.”
La
sua voce risuona tagliente. L’alieno non dà segno di averla sentita e
non si
volta a guardarla, ma non sta più camminando per andarsene.
Lena
continua, incoraggiata.
“Vorrei
solo poter parlare un po’. Sapere che cosa ci faccio qui, che cosa
succede
sulla Terra, come sta...”
Come
sta Kyle,
stava per dire, ma si
morde le labbra, incerta.
“Non
sono un pericolo per te. Puoi parlare con me...”
Il
Visitatore esce dalla stanza senza un suono.
Lena
si torce una ciocca di capelli e inizia a gridare senza nemmeno
rendersene
conto.
“Impazzirò
se continuerai a non parlarmi. Odio tutto questo maledetto bianco!”
Nessuna
risposta.
*
Il
Visitatore non le parla, ma da un giorno all’altro la luminosità nella
sua
cella si affievolisce, fino al punto in cui il bianco non le brucia più
gli
occhi.
Allora
non sei un mostro.
Lena
sa che cosa fare.
*
Quando
l’alieno ritorna per portarle le pastiglie, Lena lo attende seduta sul
letto a
gambe incrociate. Non riesce a contare il tempo, ma il suo corpo ha
sviluppato
una sorta di sveglia interna e riconosce da solo il momento in cui
arriveranno
i nutrimenti, così quando le viene fame lei sa di doverlo aspettare.
Quando
le posa vicino la ciotola con le pillole, lei la butta ostentatamente
sul
pavimento.
“Non
prenderò più una sola di queste robe, senza una spiegazione.”
Lui
resta ad osservarla per un po’, o almeno quella è l’impressione che le
dà. Non
è per nulla espressivo, col volto senza lineamenti e gli occhi neri
come
abissi.
“Voi
umani siete una razza strana.”
Il
sollievo è così intenso che Lena rischia quasi di mettersi a piangere.
L’alieno
la guarda, immobile.
“Io
rispondo se tu rispondi. Chi è Kyle?”
La
musica del suo canto si spande nella stanza, suadente, incantevole, ma
lei è
paralizzata e non l’apprezza.
Kyle.
Non
avrebbe mai immaginato che il Visitatore sapesse. Come può essere?
Forse le
legge nella testa, esattamente nello stesso modo in cui ci infila la
traduzione
metallica del suo canto.
Forse...
“Ne
parli ogni notte. Quando sogni. Kyle, Kyle, Kyle. Continui per ore.”
Lena
resta immobile, paralizzata dallo stupore.
Continui
per ore... E tu ascolti, ogni notte. Per ore.
L’alieno
è incuriosito da lei, non ha più dubbi. Forse potrebbe provare a
sfruttare
quest’interesse per ottenere qualche informazione, ma non sa se ne sarà
mai
capace, non le sembra di avere la lucidità mentale per farlo.
Scuote
i capelli ondulati, raccogliendo le gambe contro il seno.
“Chi
sei?”
“Io
rispondo se tu rispondi.”
Lena
si morde un labbro, infelice.
“Kyle
è l’amore della mia vita. Sai cos’è l’amore?”
“Sì.”
Lei
sgrana gli occhi, sorpresa. Aveva aggiunto quella domanda retorica con
rabbia,
sicura della risposta negativa, e invece...
“Chi
siete?”
L’alieno
resta in silenzio per un po’, poi comincia a cantare dolcemente, mentre
la voce
metallica del traduttore le si insinua nella testa.
“Siamo
i Visitatori. Il
nome della nostra razza non ha corrispettivi nel vostro linguaggio
primitivo.
Veniamo da lontano, da un pianeta freddo, bianco e azzurro. In cielo
brillano due
soli e ruotano cinque lune.”
Lei
lo ascolta affascinata, suo malgrado. Per un attimo, dimentica di
essere una
prigioniera su un’astronave aliena, dimentica di essere stata rapita.
Attende
che lui le ponga la sua domanda, ma quando non lo fa, prosegue.
“Siete
come noi?”
“Sii
più precisa, prego.”
“Hai
detto che sai cos’è l’amore. Anche voi vi innamorate?”
L’alieno
la guarda con quegli occhi neri in cui non brilla nessuna luce.
“Sì.
L’amore porta avanti la nostra razza. E l’amore è finito tre secoli
fa.”
Lena
aggrotta la fronte. Non capisce bene che cosa lui voglia dire, sospetta
che il
traduttore debba adeguarsi alle diversità immense dei loro linguaggi,
ma qualunque
sia la ragione le parole dell’essere restano oscure, criptiche.
“Che
cosa vuol dire che l’amore è finito?”
“Abbiamo
smesso di produrlo.”
“L’amore
non si produce” obietta lei, svelta.
“Ma
le sostanze chimiche che lo regolano, sì.”
Lena
si sente stringere il cuore in una morsa. Una parte della sua mente sta
intuendo dove finirà il discorso, e l’irrequietudine inizia a scorrere,
mischiandosi
a un preludio di panico.
“Perché
siete venuti qui?”
Non
fa in tempo a finire la frase che un altro Visitatore compare sulla
soglia. I
tagli sulla sua gola vibrano quando comincia a cantare, una musica
rapida,
angosciante, feroce. La traduzione non viene attivata,
ma
Lena afferra il senso ugualmente.
Non
parlare con l’umana.
*
Fuori dalla cella di Lena, i due
Visitatori si
fronteggiano con l’espressione immobile di sempre.
“Non
devi parlare con lei. È una cavia.”
“Sì.”
“Ricordatelo.”
*
Nonostante l’avvertimento
dell’altro, il Visitatore
torna a trovarla. Chiude la soglia vorticante alle sue spalle, le posa
la
ciotola con i nutrienti accanto e poi rimane fermo nella stanza, in
piedi,
rigido, gli strani arti ritorti abbandonati lungo la figura affusolata.
Lena pensava già di impazzire, e
invece eccolo di
nuovo lì.
“Sei tornato” la propria voce colma
di gratitudine la
disgusta subito, “Temevo non potessi.”
“È
così.”
“Ma sei qui.”
Nessuna risposta.
Lei stira le gambe davanti a sé,
osservando
incuriosita il suo volto senza lineamenti né espressioni, i tagli che
vibrano
sulla sua gola quando parla – quando
canta.
“L’ultima volta che sei stato qui
parlavamo
dell’amore.”
Lui resta in silenzio, ancora. È un silenzio serio,
puntiglioso, ma non disturbante – lui non le
fa paura, anche se la tiene
prigioniera in un mondo di un bianco soffuso.
Lena manda giù le proprie pillole
nella speranza di
renderlo più incline al dialogo, ma il Visitatore non si scompone. Gli
occhi
neri, vitrei, luccicano appena, ma per il resto è una statua di sale.
“Non ne puoi parlare, vero?”
Ancora silenzio. Lena pensa con
terrore che forse non
le parlerà mai più.
“No.
Non è sicuro.”
“Per te?”
“Per
te.”
Lena non insiste, anche se vorrebbe
dirgli che lo sa che non è sicuro,
che tutta la sua
situazione non è altro che un grande, annunciato disastro, e che lo
dovrebbe
sapere anche lui, visto che sono stati loro
a rapirla e a confinarla in una maledetta astronave aliena
per Dio solo sa
quale ragione.
Non lo fa, però.
“Cosa succede sulla Terra? Questo
puoi dirmelo?”
L’alieno la guarda, immobile – un monolito grigio fumo, quegli occhi neri che
calamitano la sua
attenzione.
Quando inizia a cantare, Lena si
sente sciogliere le
gambe dal sollievo. Il bisogno di non restare sola è semplicemente
lacerante.
Anche più forte del desiderio di sapere che cosa sta succedendo sul suo
mondo.
“Il vostro governo si è riformato, la
popolazione è sotto controllo. La guerra tra le nostre specie prosegue.”
E così la guerra non è finita.
D’altronde, perché
avrebbe dovuto? Loro rapiscono la sua gente, rapiscono gli umani, e
chissà cosa
diavolo ne fanno, chissà cosa faranno a lei...
ma è un pensiero che non riesce a turbarla, non davvero – sull’astronave aliena, la crudeltà pare
bandita.
“Dovete fermarvi. Avete seminato il
caos...”
“Non è
possibile.”
“La diplomazia è sempre la scelta
migliore.”
L’alieno piega appena il capo da un
lato, studiandola.
Con interesse, le sembra.
Lena non conosce molto bene la
politica planetaria terrestre
o le strategie difensive adottate dal governo, ma conosce loro, i
Visitatori,
abbastanza da riuscire a intuire quale potrebbe essere il problema.
“Se non c’è dialogo è difficile che
una guerra trovi
la fine.”
“Spiegati.”
Lena sbuffa appena.
“Intendo che la tua razza non può
entrare in un
territorio alieno e non dire mezza parola. È considerato un
atteggiamento
ostile, sai.”
“Abbiamo
tentato. Non siamo stati capiti.”
“Riprovateci.”
“Non
sarebbe utile.”
“Funzionerà.”
“Come
lo sai? Sei un esemplare giovane, anche per il vostro modo di contare
gli anni.”
“Non sono una bambina” sbotta Lena,
fredda, e poi
aggiunge, con appena un velo di rammarico, “Funzionerà perché ora sanno
di cosa
siete capaci.”
*
Per qualche giorno, le pillole
arrivano senza di lui.
Una luce, ed eccole sul pavimento, nella solita ciotola candida.
Lena cerca di arrestare la
delusione, l’ansia, ma è
così difficile. I ricordi della sua vita sulla Terra le sembrano sempre
più
lontani, velati, inessenziali. È difficile ricordare una vita piena di
colori,
di brividi, di passione, nella cella asettica in cui è confinata.
Nell’astronave, tutto è bianco o azzurro, senza sfumature, senza ombre – il colore più violento che ha visto finora
è stato il rosso del suo sangue.
Anche pensare a Kyle non è più un
sollievo. Non sapere
se è vivo le rende difficile respirare, le stringe la gola in una morsa
che ha
il sapore del metallo. Crederlo morto la fa impazzire.
A volte lo sogna, ma sono sempre
incubi. Lo vede di
notte, su una collina, che danza attorno a un rogo. Le fiamme gli
straziano il
viso pallido, i capelli lunghi ondeggiano nella brezza, le scintille
gli
finiscono addosso, bucano la stoffa leggera della sua t-shirt scura. E
quando
apre gli occhi, non ci sono iridi di un blu quasi marcio ad attenderla,
ma solo
tenebra, tenebra infinita – e Lena si
sveglia urlando, tutte le volte.
Sa che non lo rivedrà mai più.
*
Il Visitatore torna mentre lei sta
dormendo. Avverte
la sua presenza anche nel limbo perlaceo dei suoi incubi, che crollano
in
dissolvenza come un castello di carte.
Quando si sveglia, ha il viso
bagnato di lacrime. Ha
di nuovo sognato Kyle che venerava gli dei-alieni per essere scelto.
Si passa le mani sulle guance,
asciugandosi la pelle.
“Perché?”
Lena cerca di ignorare la domanda,
tirandosi a sedere.
Una parte di lei, una parte molto aguzza,
vorrebbe rispondere che il perché è
semplice, che lui e la sua specie di dannati invasori le hanno rovinato
la vita.
La parte più debole di lei – il topo in
gabbia che impazzisce per la solitudine – gioisce del suo
arrivo e resta in
silenzio.
“Perché?”, ripete, e per la prima volta le
sembra di cogliere,
nella sfumatura metallica del traduttore, un principio d’angoscia.
Il suo canto, però, resta dolce
come il miele. Nessuna
fretta e nessuno stridio.
Forse un po’ triste.
“E tu perché sei tornato?”
“Io
rispondo se tu rispondi.”
Lena si lascia sfuggire un sorriso
amaro. Sa che gli
darà la risposta che vuole, e perché non dovrebbe? Non ha più niente da
salvare.
“Mi manca Kyle. Lo sogno tutte le
notti. Incubi.”
Lui rimane in silenzio e lei scuote
il capo.
“Non puoi capire.”
“Capisco.”
Lena solleva gli occhi verdi
sull’alieno gentile. Ha
un aspetto ancora un po’ inquietante, ma è buono con lei.
“Perché sono qui?”
“Per
aiutare.”
La risposta non si fa attendere.
“Come?”
Lui comincia a cantare e lei
ascolta, immobile, come incantata.
“Cinque
secoli fa, la mia razza incominciò a cercare un modo per vivere per
l’eternità. Noi siamo molto più avanzati di voi umani, ma le nostre
competenze
non erano sufficienti. Vennero condotti esperimenti di genetica
applicata,
venne modificato il DNA a quasi metà della popolazione del nostro
pianeta.”
La solita storia. Il solito grande
sogno. Vincere la
morte... ma non si può combattere l’inevitabile.
“L’esperimento
fallì. La nostra vita ora è più lunga, ma il prezzo è stato terribile.
Nell’arco di una generazione, nacquero solo piccoli malati.”
Lena si scopre incapace di staccare
gli occhi da quel
volto senza lineamenti.
“Conosci
l’ormone che voi umani chiamate ossitocina?”
Solleva le sopracciglia,
stupefatta. Non è un’esperta
di chimica, ma praticamente tutti sulla Terra sanno che è l’ossitocina
che
regola i rapporti madre-figlio, ed è sempre lei alla base delle
relazioni
sentimentali.
Lena sa bene cosa sia perché una
volta, ridendo, Kyle
le ha detto che il suo cervello si inondava
di ossitocina quando era vicina a lui. Bastava uno sguardo.
Lena non si era
mai sentita di contraddirlo – ricordava
l’euforia, i brividi, il calore lungo la schiena.
“La molecola dell’amore... ma cosa
c’entra?”
“La
nostra razza vive grazie ad essa. Regola il comportamento sociale, i
rapporti tra i membri della specie, equilibra le emozioni. Se l’ormone
non
entra in circolo, siamo incapaci di riprodurci. Gli esperimenti
genetici
colpirono la ghiandola che secerne l’ormone, quella che voi chiamate
ipotalamo.
I piccoli nascevano con la ghiandola atrofizzata. Le madri, che avevano
l’organo danneggiato, li lasciavano morire per mancanza di istinto.
Morirono a
centinaia prima di riuscire a trovare una soluzione.”
Lena lo ascolta cantare,
paralizzata, l’eco metallico
le risuona in testa come una sentenza di morte.
“Sintetizzammo
l’ormone. Un duplicato sintetico, poco accettabile. È
impossibile trovare il giusto dosaggio. La mia gente continua ad avere
reazioni
inappropriate, in base al livello di ormone in circolo in quel momento.
L’accoppiamento è diventato un atto meccanico, volto unicamente alla
riproduzione. La gestazione è molto dolorosa nella nostra specie e le
femmine devono
essere costrette ad avere una progenie, perché non ne sentono il
bisogno.”
Lo ascolta, sempre più sconvolta.
La sua fantasia
sfrenata delinea un mondo senza amore, un mondo freddo, meccanico,
ostile – bianco, bianco, bianco.
“Gli
effetti collaterali sono enormi. Pur con tutta la nostra tecnologia,
non riusciamo a trovare una cura farmacologica appropriata. Non
riusciamo a
riattivare la ghiandola. Siamo sulla via dell’estinzione.”
Lei resta in silenzio per qualche
minuto. Quando
parla, scopre senza sorpresa che le trema la voce.
“È per questo che siete qui. Anche
noi produciamo
l’ossitocina... sul nostro mondo, tutti hanno ossitocina in circolo,
persino
gli animali!”
“Sì.”
Lena si solleva, camminando nella
stanza, ben attenta
a stargli lontana. Il suo cervello è sovraccarico di informazioni, ma
non si
sente così viva da settimane.
“Volete
la
nostra ossitocina? Volete estrarla dal nostro ipotalamo?”
“Abbiamo
cercato in molte galassie una specie che secernesse l’ormone.”
“Non hai risposto!”
“Sì.
No.”
Esasperata, si gira di scatto a
fissarlo.
“Ci rapite per fare degli
esperimenti.”
Non è una domanda.
“Cercate una cura.”
“Sì.”
“Perché non avete preso degli
animali? Dei mammiferi.
Il nostro mondo non ne è più pieno come un tempo, a causa
dell’inquinamento, ma
ce n’è rimasto un bel numero.”
“Non
sarebbero rilevanti.”
“Perché?”
“Non ci
serve la vostra ossitocina. Abbiamo quella sintetica. Ci serve il
vostro DNA.”
“Siamo troppo diversi.”
“No.”
Lena si zittisce, turbata. Forse
dovrebbe essere più
sconvolta, ora che sa che i Visitatori l’hanno rapita per fare di lei
una cavia
da laboratorio, ma il sollievo di sapere la verità al momento ottenebra
tutte
le altre sensazioni.
Vogliono del DNA, solo un po’ di DNA. Poi mi
lasceranno andare. Non ha senso che mi trattengano... e poi, si
renderanno
conto da soli che, qualunque cosa vogliano farmi, siamo incompatibili a
livello
genetico, è pura follia...
Solleva di scatto lo sguardo su di
lui, ancora immobile,
ancora alieno.
“Perché sei tornato, comunque?”
“Per
dirti che sei stata utile. Le trattative con la tua specie sono
cominciate.”
*
Lena pensa di continuo a che cosa
significhi vivere
senza amore. Anzi, è persino qualcosa in più. Da quello che il
Visitatore le ha
svelato, loro sono più schiavi degli essere umani dell’ormone
dell’amore:
regola i loro sentimenti, le interazioni sociali, il desiderio di
maternità.
Lena si chiede come sia possibile che siano sopravvissuti a un
cambiamento del
genere. Nell’arco di una generazione, si sono ritrovati ad essere
vuoti,
freddi, senza emozioni. Come rettili.
Senza più nemmeno l’impulso
sessuale.
Quando lui torna da lei, è piena di
domande.
“Come fate a vivere senza spinte
emotive? Come fate a
scegliervi un compagno? Com’è possibile che vi prendiate cura dei
vostri
piccoli?”
“Ormone
sintetico.”
“Hai detto che non bastava.”
“Non
basta. Siamo qui.”
Lena lo guarda con gli occhi
lucenti enormi, sgranati,
fissi sul suo volto.
“Siamo
qui da
molti anni. Non ve ne siete mai accorti. Abbiamo iniziato a prendere
qualche
esemplare della vostra razza molto tempo fa. Poi vi riportavamo sulla
Terra.”
Lena si lascia andare ad
un’esclamazione poco femminile, ma non se ne
accorge neanche. È troppo su di giri, dopo giorni di solitudine d’un
bianco
abbagliante.
Crede ancora che la lasceranno
andare. Dopotutto stanno trattando col
governo, e perché trattare, se non sono disposti a liberare i loro
prigionieri?
“Tutta quella gente che raccontava
di essere stata
rapita dagli alieni all’inizio del millennio! Non dirmi che eravate
voi.”
“Sì.”
“Perché?”
“Per
testare la compatibilità.”
“Quale compatibilità?”
Nessuna risposta.
*
“Le
trattative con gli umani sono finite. Basta perdere tempo. È ora.”
“Sì.”
*
È il canto fuori dalla sua cella a
svegliarla.
Lena apre gli occhi appena in tempo
per vedere il
Visitatore ritto sulla soglia.
“È ora.”
Un brivido le corre lungo la
schiena.
“Di fare cosa?”
“Di
andare.”
“Dove?”
“Seguimi.”
Suo malgrado, Lena si costringe a
seguirlo. Non ha motivo di temerlo, non
le ha mai fatto del male, è sempre stato gentile con lei, eppure... eppure non è tranquilla,
continua a fissare quegli arti
ritorti come se si aspettasse di vederseli piombare addosso. È un
pensiero
stupido, eppure ne è ossessionata.
“Le
trattative
con la tua specie sono finite.”
Lei solleva lo sguardo su di lui,
stupita, ma l’alieno sta ancora
camminando e non dà segno di volersi fermare. Lei lo segue, docile,
sorpresa – ma la sensazione di pericolo non
scompare.
“Mi lascerai andare?”
Nessuna risposta.
Lena lo segue meccanicamente, ma
nella sua testa c’è un silenzio candido
che ronza e crepita piano.
Nessuna
risposta.
Arrivano in una sala enorme. A Lena
basta uno sguardo per riconoscere
decine e decine di capsule di sopravvivenza, tutte piene fino all’orlo
del
liquido d’un azzurro violetto in cui si è svegliata settimane prima.
E di persone. Ci sono persone che
galleggiano nella melma.
Le
trattative
con la tua specie sono finite.
La realtà dei fatti le precipita
addosso, spietata. Tutto acquista un
senso. I Visitatori non volevano una guerra. Se l’avessero voluta, la
Terra ora
non sarebbe altro che un po’ di cenere che gira attorno al sole.
Volevano solo
qualche esemplare.
Lena sente il sapore della bile
risalirle in gola.
Ora è tutto chiaro. Terribile, ma
chiaro. Tutto, tranne la gentilezza
disinteressata del suo carceriere.
“Che cos’è questo posto?”
Non pensava di essere l’unica ad
essere stata rapita, certo. Ma non credeva
nemmeno che ne avessero presi così tanti. Ci sono centinaia di capsule
nella
stanza, e quella è solo una delle astronavi che sono arrivate sulla
Terra. Che
stupida, che illusa. Sarebbe
disgustata dalla sua stessa ingenuità, se non fosse paralizzata
dall’orrore.
Il Visitatore risponde con un canto
breve, melodioso. Come sempre, quando
non vuole ignorarla ma non vuole nemmeno che capisca, non permette al
traduttore di farle riecheggiare dei suoni comprensibili dentro la
testa. Se lo
avesse fatto, Lena avrebbe sentito soltanto una parola.
“Non ti capisco”, mormora lei, e
incomincia a piangere.
L’alieno la fissa con quegli occhi
imperscrutabili, illeggibili.
Da
rettile,
sono gli occhi di un rettile. Dio, come ho fatto a non accorgermene
prima?
“Ti ho
detto la
verità. Ho risposto a tutto.”
“No! Perché sono qui? Che cosa mi
farete?”
“Il
vostro
governo ci ha permesso di prendere un piccolo campione di popolazione.
Cinquecento esemplari. Saranno sufficienti. In cambio lasceremo il
vostro
sistema solare e non faremo più ritorno.”
Il respiro le si incastra in gola,
sta rischiando di soffocare.
“Voi
siete una
razza primitiva, ma siete a base carbonio, come noi. Il nostro DNA è
incompatibile col vostro: non potremmo mai mescolare le specie. Ma
l’ormone che
producete è identico al nostro. Vogliamo trovare una cura per la
ghiandola
atrofizzata. Vogliamo tornare a secernere ossitocina in maniera
fisiologica.
Voi sarete utili.”
Lena pensa che è una follia, ma è
troppo spaventata per poterlo dire. Il
canto prosegue, delizioso e letale.
“Non
c’è
garanzia di riuscita, ma niente può restare intentato. Abbiamo preso
esemplari
maschi e femmine, studieremo il vostro sistema ghiandolare e i vostri
meccanismi di accoppiamento. Non ci sarà bisogno di un secondo prelievo
di
esemplari.”
Vogliono
allevarci come cavie da laboratorio. E tutto per l’ossitocina, per
l’amore...
Lena è paralizzata dalla
consapevolezza.
Era quasi arrivata a pensare che
gli alieni non fossero dei mostri, che ci
fosse una spiegazione, che le luci nella notte fossero tutto un errore.
Era
arrivata a credere che tutto si sarebbe risolto per il verso giusto.
Almeno per
una volta, almeno per una volta.
“Stiamo
per
partire per il nostro pianeta. Ci vorrà molto tempo, tanti dei vostri
anni.
Dormirai nella capsula. All’arrivo, troverai me.”
E così la sua vita sarà quella:
intrappolata nella melma d’un azzurro
violetto che crepita senza sosta, imprigionata in incubi che si
squarciano in
dissolvenza uno dopo l’altro. Costretta a dormire, a galleggiare con un
tubo di
metallo infilato giù per la gola.
Il panico le azzoppa le gambe, Lena
perde l’equilibrio e finisce contro la
parete candida.
“Non
avere
paura. Non ti farò alcun male.”
Il Visitatore le si avvicina appena
e le indica con un artiglio ritorto
qualcosa dietro le sue spalle. Lena non ha alcuna voglia di girarsi a
guardare,
ma lo fa.
E non avrebbe dovuto.
“L’ho
preso per te.”
Il viso di Kyle, addormentato, è
esattamente come lo
ricordava: la pelle chiara, le labbra perfettamente cesellate, le
ciglia
dorate; i capelli lunghi gli ricadono fin sulle spalle. Dorme
apparentemente
sereno nella sua capsula, immerso in quel liquido violetto che lo fa
sembrare
estraneo, odioso, alieno.
Lena sente le gambe tremare e la
testa spegnersi e le
lacrime colare.
Non può
essere vero. Dio, fa’ che non sia vero...
“Perché
non sei felice?”
Il volto del Visitatore è
inespressivo, come sempre,
ma il suo canto armonico rivela una punta d’apprensione. Lena
scoppierebbe a
ridere, se il suo mondo non le si stesse sgretolando tra le dita.
Kyle è a meno di cinque metri da
lei. Kyle è stato
rapito. Kyle sarà prigioniero, per sempre.
Lena sa di stare per perdere il
controllo e sa di non
dovere, ma tra saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo,
come
diceva sempre suo padre.
E una
parte di lei, piccola, meschina, un po’ beffarda, non fa che
ripeterle in un orecchio “almeno sarete insieme, insieme, insieme,
insieme...”.
Lena si ficca una mano davanti alla
bocca per
impedirsi di urlare.
“L’ho
preso per te”,
ripete il Visitatore, morbido,
serafico, gentile, “Quando arriveremo sul
nostro pianeta, potrai stare insieme a lui. Avrete dei piccoli. Non in
laboratorio,
alla maniera umana. La nostra razza vi vuole felici, vuole che l’ormone
circoli
nel vostro sangue.”
Lena scatta a guardarlo. Il viso
pietrificato, gli
occhi verdi sbarrati. Nel suo futuro vede un ventre gonfio e un bambino
che non
amerà mai.
I singhiozzi le escono di bocca
sempre più striduli,
sempre più isterici. Il Visitatore la guarda, senza capire.
“Credevo
volessi rivederlo, credevo fosse tutto ciò che volevi”, ripete, tra le sue lacrime.
Nel suo futuro vede Kyle con gli
occhi blu che
bruciano di rabbia, Kyle che la accusa senza dire neanche una parola – è colpa tua, avresti dovuto stare zitta,
non avresti dovuto fidarti, non avresti dovuto sognarmi. Lena
sente le
forze venire meno e vede una prigione di un bianco lancinante, vede un
ventre
gonfio e un bambino che non ameranno mai.
“L’ho
preso per te. L’ho preso per te. L’ho preso per te.”
Lena
non fa che sentirselo rimbombare dentro la testa, mentre crolla
addormentata in
una melma d’un azzurro violetto che esplode in onde concentriche ad
ogni suo
singulto.
Per te.
Note
dell’Autrice
Miei
cari lettori, questo è il mio primo esperimento di un racconto di
fantascienza. Me lo
ha chiesto mia madre, che è un’appassionata, come regalo di compleanno
e io ho
voluto provarci. Per tutta la parte di chimica mi sono affidata al mio fidanzato, che è un tossicologo e ne sa sicuramente più di me: spero che quello che ho ideato sia di vostro gusto e che lo riteniate credibile. Mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate!