Abîmée
Pioveva.
Pioveva
fuori casa, sulle foglie della sua betulla piantata in giardino, sui sassi
nascosti nel terreno, sul fūrin posto fuori l’entrata del resort e
nella sua mente.
Le chiome
degli alberi pendevano in ogni direzione danzando sulle note del monsone, e
nell’aria aerava un delizioso e pungente odore di erba bagnata.
Era
magnifico, soprattutto se chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare da
quella melodia che stava accompagnando il suo sonno da ore, dimenticando così il
mondo circostante.
Una volta
isolati, però, non c’era nessun altro se non loro due: Yuuri Katsuki e i suoi
pensieri.
Il giovane
pattinatore giapponese, poteva assumere quanti sonniferi preferiva, poteva
assaporare quante tisane e thè bollenti che voleva, ma prima o poi le sue ansie
l’avrebbero raggiunto comunque, e tutto ciò che lui avrebbe dovuto fare,
secondo il giudizio della gente, era affrontarle.
Era facile
parlare in terza persona, nessuno sapeva cosa stesse realmente provando,
nessuno aveva mai provato quella sensazione di sperdimento, di rabbia contro se
stessi che poteva aumentare e diminuire con la stessa velocità di un fulmine,
o, cosa peggiore, nessuno, se non lui, sapeva quanto fosse doloroso e faticoso il
cercare di non fallire per non deludere se stessi e chi sta intorno.
“Hai voluto interrompere la tua carriera per
degli sbilanciamenti, ora la vita ti sta dando un’altra chance. Non sprecarla,
Yuuri”
La voce di
sua madre riecheggiava chiara nella sua mente: riuscì anche ad intercettare una
nota di desiderio nel modo in cui gli parlò.
L’aveva
capito, e anche benissimo, che gli si era presentata un’occasione al dir poco
irreale, e che avrebbe dovuto coglierla dal primo istante, eppure, sentiva che
c’era qualcosa che non andava.
Si sentiva…inadeguato.
Pensandoci,
probabilmente avrebbe preferito rimanere le cose al proprio posto: lui, ex
pattinatore giapponese che lavorava nel resort di famiglia e, lui pattinatore di fama mondiale e un
sogno irrealizzabile.
Eppure era
lì, nella stanza accanto alla sua.
Viktor
Nikiforov e lui erano separati da una sottile parete.
Avrebbe
preferito non farne nulla per tanti, piccoli e ingombranti motivi: il primo
era, per quanto avrebbe cercato di impegnarsi, per lui, per la sua famiglia, e
per il suo neo-coach, sapeva che non avrebbe mai raggiunto la finale, anche se
allo stesso tempo avrebbe continuato a provarci e a riprovarci, più che per se
stesso, l’avrebbe fatto per Viktor, per dimostrargli che non stava perdendo
tempo, e che non aveva gettato un anno nel vuoto.
Il secondo
motivo, era l’averlo sottratto dalle piste di pattinaggio.
“Non darti la colpa per cose che non hai fatto”
Gli aveva
detto Mari, aggiustando una stampella in uno degli armadi delle stanze, mentre
lui sedeva per terra esponendole il suo problema. La scelta di abbandonare
momentaneamente le piste era stata di Viktor, lui non aveva nulla a che farci,
questo lo sapeva.
Eppure,
c’era qualcosa che vagava per la sua mente, che faceva sentirlo colpevole.
Forse, se
non si fosse abbandonato ai suoi pensieri, se avesse reagito in tempo invece di
esitare, se avesse reagito, il
grande pattinatore russo, a quell’ora, magari, sarebbe in una pista di
pattinaggio a ideare, comporre e interpretare il proprio libero, invece che
passare il tempo a insegnargli le tecniche base della disciplina.
Il terzo,
più che un senso di colpa, era una domanda: perché proprio lui?
Sì, Viktor
aveva più volte risposto alla sua domanda, dicendo lui che tanto talento non
avrebbe dovuto essere sprecato, che tutti abbiamo alti e bassi e che la
capacità di riprendersi, è solo ed esclusivamente nostra.
Eppure,
aveva la sensazione che più ci provava, più diventava ridicolo, fallendo.
Viktor
Nikiforov nei panni di suo coach e Yuri Katsuki prossimo vincitore del Grand
Prix.
Che coppia
falsa, e che assurdità.
Si alzò dal
letto, sistemando il suo lettore MP3 nella tasca del pigiama mentre apriva la
finestra per rinfrescare l’aria nella stanza.
La pioggia
cominciò a bagnare il davanzale della finestra, e alcune gocce finirono sul
pavimento. Se sua madre l’avesse visto, gli avrebbe lanciato il panno per i
pavimenti addosso, con tanto di supporto.
“Cadrai, cadrai come questa goccia d’acqua che
casca sul pavimento”
Pensò, guardandole
bagnare il pavimento.
Improvvisamente,
le pile di fogli sulla scrivania, caddero per terra seguiti da penne e matite.
“Merda!”
Nell’arco
di un secondo, si ritrovò col volto a pochi millimetri dal parquet e con un
calzino bagnato.
Si diede
dello stupido, quando sotto i palmi delle mani sentì dei piccoli pezzi di
porcellana: aveva rotto la piantina che suo padre gli regalò.
Non sapeva
neanche raccogliere dei fogli di carta, come poteva pensare di arrivare alla
finale? L’immaginazione e l’autoconvinzione di Viktor lo colpivano sempre di
più.
Si mise a
sedere con la schiena contro il pilastro della scrivania, raccogliendoli pezzo
per pezzo e buttandoli nel cestino.
Forse, il
rompere gli oggetti a cui teneva di più o anche quelli degli altri senza farlo
appositamente, era una sua dote nascosta.
Ricordò
all’improvviso, mentre raccoglieva la ceramica caduta sul pavimento, mentre
percepiva l’improvviso bruciore sotto le palpebre, il litigio avvenuto quattro
pomeriggi fa, quel maledettissimo freddo pomeriggio di novembre mentre si
allenava all’Ice Castle.
“Ti ripeto che se continui così non farai altro
che perdere tempo! Com’è possibile che stai evitando, perché sì, stai evitando,
di fare un quadruplo salchow?! Vedi di concentrarti! Stiamo da tre ore a
ripetere lo stesso programma, vedi di concludere qualcosa! Yurio il programma
lo seppe imparare subito! ”
“Per favore, stai zitto”
Pensò,
ignorando cosa avesse appena detto.
Da coach,
avrebbe dovuto notare che la stava mettendo tutta per eseguire un salchow
quadruplo, ma non sapeva il motivo per il quale non riuscisse. Ed era
l’ennesima volta che Viktor lo rimproverava per gli stessi errori.
Si preparò
per un Toe Loop, seguito da un triplo Axel e un quadruplo salchow, ovviamente
alternati dall’esecuzione di passi che stesso Viktor aveva preparato per lui.
Sbagliò.
Fece un
triplo, il ventiquattresimo di fila per l’esattezza.
D’istinto
si girò verso il suo coach, il quale tra il nervosismo e la delusione, decise
di concludere gli allenamenti lì e di mettere fine a quella giornata.
“Se solo ti
concentrassi di più Yur-“
“Senti
Viktor, io sono concentrato, ma se solo la smettessi di sottolineare e
sottolineare il fatto che non riesco e di urlarmi contro, probabilmente un
risultato in più l’avresti!”
“Sono il
tuo coach, sono in pieno diritto di sottolinearti che sbagli!”
“Mi stai
trattando così da giorni, non è che se ti chiami Viktor Nikiforov e noti uno sbaglio, devi salire sul
piedistallo e trattare di merda gli altri!”
“Sincer-“
“Ieri ho
preso una storta e l’unica cosa che hai fatto è stato dirmi che tempo un minuto
avremmo ricominciato, eppure mi vedevi che non riuscivo manco a mettere il
piede a terra!”
Viktor
decise di non risponderlo, di chiudere la porta degli spogliatoi e di avviarsi
al parcheggio, seguito da Yuri.
Il ritorno
fu particolarmente silenzioso e teso:
i due non si guardarono in faccia neanche per sbaglio, e non proferirono parola
fino al resort, quando Yuri faticò ad aprire la porta privata del retro, dato
che il padre la chiuse prima del loro ritorno.
Bussò più
volte, prima dal campanello, poi col palmo della mano mentre chiamava sua
sorella, prima di rassegnarsi che sarebbe dovuto entrare dall’entrata
principale.
Era da
quand’era piccolo che preferiva l’entrata dal retro, non solo perché era
privata e quindi solo i membri della famiglia ne avevano accesso, ma anche
perché era direttamente collegata alle loro camere, e non avrebbe dovuto
percorrere l’intero residence prima di gettare il borsone degli allenamenti sul
suo letto.
All’entrata
li accolse un’anziana signora, probabile loro ospite.
Aveva una
mano sulla sua schiena un po’ ricurva, come se avesse compiuto un grande sforzo
camminando. La ringraziarono.
“Yuri!
Com’è andata? Vi siete divertiti?” chiese sua madre, la quale corse da dietro
al bancone per lasciargli un bacio sulla guancia.
“Ciao
Viktor, come stai?”
I due
pattinatori evitarono di guardarsi, Viktor fu attento a rispondere con un
sorriso forzato e un flebile “Bene”.
“Cosa sarebbe andato bene, scusami?” commentò il
più giovane dirigendosi alla reception per prendere una caramella.
“Yuri, ne
abbiamo già parlato”
“E cosa
avremmo concluso? Nulla, assolutamente nulla”
“Se sono
qui è per farti da coach!”
“Non te
l’ho certo chiesto io di muovere il culo dalla Russia al Giappone! Ti stai
comportando da due settimane buone come se io te l’avessi chiesto! Che diavolo
Viktor!”
La signora
Katsuki avrebbe voluto rimangiarsi le parole appena proferite.
S’era
sentita terribilmente a disagio e dispiaciuta per aver dato inizio a quella che
era sembrata l’ennesima discussione, avrebbe voluto nascondersi sotto un letto
e sparire per il resto della giornata.
“Ah scusami
allora, se ho avuto l’idea di aiutarti!”
“Che cosa
ci ottieni se mi paragoni con gli altri?! Scusami se non sono come te!”
“Che cavolo
significa?! Come te e come gli altri, per arrivare al mio posto ho messo fatica e pas-“
“Questa è
la realtà non una fiaba dove magicamente si sistema tutto! Come potrei amare
questo sport e chi mi sta addosso in
questo modo se non riesco ad amare nemmeno me stesso?! Cazzo Viktor, non ci
hai mai pensato!? Che coach sei?!”
Lasciò
cadere la borsa all’entrata e corse verso la sua camera.
Si chiuse a
chiave facendo due mandate, come se così facendo fosse stato più al sicuro
dagli altri.
Si lasciò
cadere con la schiena contro la porta, stringendo i capelli che ricadevano
sulla sua fronte nel pugno della mano e sospirando a lungo.
Era una
testa di cazzo.
Non avrebbe
mai voluto trattarlo così, dopo tutto ciò che stava facendo per lui
–gratuitamente tra l’altro- stare zitto e continuare avanti sarebbe stato il
minimo.
Ma non ce
la faceva più.
Troppa
pressione.
Troppe
aspettative.
Troppi ‘Se
continuerai così non ce la farei mai’.
Troppi
fallimenti.
Troppo
nervosismo contro se stesso per aver fatto parlare nuovamente la sua ansia al
posto suo.
Avrebbe
voluto aprire la finestra e urlare, ma era seduto per terra con lo sguardo
rivolto al cielo nella speranza che il nodo alla gola che s’era venuto a
creare, prima o poi sarebbe scomparso, e che la sua rabbia andasse diminuendo.
“VAFFANCULO”
Urlò con
tutta la sua voce, tirando il primo oggetto che gli capitò sotto mano in una
direzione non specifica.
Sentì un
vetro rompersi. Involontariamente, aveva rotto una foto di Viktor che lo
ritraeva con la sua famiglia. L’aveva portata con se come unico ricordo dalla
Russia.
Lui l’aveva
rotta.
L’aveva
ridotta in frantumi come il vaso che aveva appena finito di raccogliere e
buttare nel cestino.
Non aveva
neanche avuto il coraggio di bussarlo e chiedergli scusa, anzi.
S’era
fintamente autoconvinto che dato che Viktor non aveva passato il sabato al
residence, non avrebbe potuto comunque comunicarglielo.
L’aveva
sentito rientrare verso le undici di sera, mentre sistemava la sua scrivania.
Aveva
raccolto la sua foto in un contenitore di vetro, e gli aveva anche procurato
tre cornici di colori e forma diversa, nel caso una delle due non fosse
piaciuta.
Qualcosa di
buono nella giornata l’aveva conclusa.
Guardò
l’orologio, segnava le tre mezzo di notte e lui, di andare a dormire, non ne
aveva la minima voglia.
Neanche il
pensiero degli allenamenti alle sette e mezzo del mattino, l’avevano convinto a
riposare. Se fosse andato, chiariamo.
Era una di
quelle notti che avrebbe passato a fissare la luna e a meditare sulle sue
scelte, nella speranza che il giorno arrivasse nel modo più lento possibile.
Sospirò,
accovacciandosi sul parquet e riuscendo, pian piano, a prendere sonno.
* * *
Poche ore
dopo, durante quel mattino illuminato da luce abbagliante, i suoi pensieri
negativi e le sue paure sembravano scomparse.
Più pensava
alla notte passata insonne, più poteva ricordarne di meno.
Si accorse
di essersi addormentato sul parquet, e che probabilmente aveva dormito più del
dovuto.
Lanciò un’occhiata
all’orologio, segnava le undici e venti.
Una morsa
allo stomaco.
Era il quarto
giorno consecutivo che saltava gli allenamenti e non aveva nemmeno dato l’avviso
a nessuno dei quattro, stava solo peggiorando le cose.
Si
precipitò a bussare in camera sua, ma
non ricevette alcuna risposta.
Passò alle
terme, alla piscina, al campo da tennis, nella sala da thè, in quella ristorante,
nel parcheggio e infine nella reception.
Se non l’avesse
trovato lì, sarebbe corso all’Ice Castle.
“Mamma!
Mamma dov’è Vik…mamma?”
Il suo
sguardo la colpì.
Era…delusa.
Triste e delusa.
Non disse
nulla, gli passò un foglio e andò via, bisbigliandogli un “Vedi, l’orgoglio cosa crea?” e lasciò la sala.
Leggere il
solo primo rigo, fu come essere stato travolto da un camion in pieno:
“Non mi aspettavo di ricevere questa pugnalata
di sfiducia, dritto nelle vene.
Non me l’aspettavo.
Molto probabilmente ho solo giocato, ho
sbagliato a mettermi col pensiero di vederti sul podio con una medaglia d’oro.
Stavo solo sognando.
Amo pattinare e creare sequenze, ma ad
insegnare faccio pena.
Eppure, se mi preoccupassi di quale sia la cosa
giusta, finirebbero entrambe per essere sbagliate.
Non sono riuscito a leggere la tua
immaginazione e ad aiutarti, mi dispiace.
È stato davvero un piacere conoscerti, spero prima
o poi di vederti gareggiare, ma chissà.
L’anno che ho preso potrebbe prolungarsi anche
più.
Sei una persona determinata quando vuoi, spero
per te tutto il bene del mondo.
Viktor”
Se n’era
andato.
Per colpa
sua.
Se n’era
andato, e con lui, l’unica occasione di riacquistare un po’ di dignità.
“Cadrai, cadrai come questa goccia d’acqua che
casca sul pavimento”
Ricordò.
E
improvvisamente, i suoi occhi rotearono all’indietro, e tutto si fece buio.