Anime & Manga > Yuri on Ice
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Autore: Tenar80    14/10/2018    0 recensioni
Di Victor, che deve fare i conti con la realtà
Di Yuuri, che deve fare i conti con Victor
Di Otabek, che deve fare i conti con i propri desideri
Di Yuri, che pretende che tutti che facciano i conti con lui.
Di quello che accade dopo l'ultima immagine della serie, della difficoltà di ancorare le fiabe alla realtà. Una realtà che abbonda di elementi disturbanti quali omofobia, doping, accenni a molestie e ad abuso d'alcool, ma in cui c'è ancora spazio per la tenerezza.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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«Ti ha chiesto di togliergli un guanto con i denti. È evidente che vuole la tua lingua nella sua bocca».

    Con le parole di Martha ancora nelle orecchie, Otabek ritirò il proprio passaporto, preparandosi a uscire nell’area Arrivi dell’aeroporto di San Pietroburgo.

    Maglione grigio, giacca a vento, jeans neri e scarpe in tinta, era tutto ok. Tanto per cambiare lo avevano scambiato per un potenziale delinquente e si era beccato di nuovo la perquisizione, colpa forse della scritta “atleta” alla voce “professione” del documento d’identità che agli occhi delle autorità russe suonava fasulla in relazione al suo fisico. Se non altro, fermandosi solo due notti non aveva la necessità di recuperare il bagaglio, quello che gli serviva stava tutto nello zainetto. 

    Prese un respiro e distese le mani. Due notti, due sere, ma una gara di mezzo. Poteva farcela. E poi lo avrebbe trovato di buon umore. Era riuscito a sbirciare il cellulare. Ai campionati di Russia, nel programma corto che si era disputato quella mattina, Yuri si era classificato primo, davanti a Popovic. Victor era addirittura terzo. Doveva per forza essere di buon umore.

    Aggrappandosi a questo pensiero varcò le porte scorrevoli.

 

    Eccolo. Prima ancora dei capelli biondi Otabek notò la felpa rossa con un leone dorato sul petto che faceva capolino dalla giacca a vento aperta. Bisognava che facesse qualcosa per il suo abbigliamento. In fretta.

    – Ehi! Sono qui!

    – Ti ho visto. Non passi esattamente inosservato.

    Otabek fu sollevato dalla scelta del saluto dalle braccia del russo che gli si attaccarono al collo stile bradipo. Il kazako adorava il fatto che per farlo Yuri dovesse alzarsi sulle punte dei piedi. Lui non era proprio una stanga e non era una cosa che gli capitasse spesso. Doveva godersi il momento, dato che Yuri, a quindici anni, stava di certo ancora crescendo.

    – Allora, pronto a essere incoronato Zar di Tutte le Russie? – disse, quando si separarono.

    Per un istante i loro visi erano stati vicinissimi, ma c’era davvero troppa gente, gente russa oltre tutto, per nulla accomodante su certe questioni, per dare in quel momento l’assalto alle labbra del ragazzo. Quelle stesse labbra che, appena Otabek ebbe finito di parlare, si incurvarono in una smorfia tra l’imbarazzato e il disgustato.

    – Hai visto i punteggi?

    – Sono a terra da dieci minuti e otto li ho impegnati a svestirmi e rivestirmi davanti a un poliziotto. Ho appena guardato i risultati – sospirò Otabek.

    Doveva aspettarselo, per Yuri il pattinaggio veniva prima di qualsiasi altra cosa.

    – Meglio così. Devi assolutamente fare una cosa per me – il ragazzo si guardò intorno, mordendosi il labbro inferiore, poi il suo sguardo si fermò su qualcosa. – Al diavolo Lilia e la sua dieta. Hamburger?

    – Sono le quattro e mezza di pomeriggio… Merenda?

    – Pranzo.

    – Andiamo.

    La verità era che Otabek avrebbe detto sì a qualsiasi proposta. Con gli occhi verdi e enormi di Yuri che lo fissavano si sarebbe messo anche un diadema di piume rosa in testa.

    – Cos’è che devo fare? – chiese, quando si furono seduti al fast food dell’aeroporto.

    – Controllare se Victor è davvero morto, ucciso da un’indigestione di maialino giapponese.

    Otabek si permise di sogghignare.

    – È andato così male?

    Era quasi commovente il modo in cui Yuri teneva a quelle poche persone che in qualche modo avevano scalfito la sua armatura di aggressività. Dal canto suo il kazako, però, gareggiava nei senior da un tempo sufficiente da considerare Victor una meravigliosa spina infilata in qualche posizione dannatamente scomoda da raggiungere. Non aveva stappato champagne alla notizia del suo ritiro temporaneo, ma non ci trovava nulla di male nell’augurargli di godersi la vita a fianco del suo ragazzo il più lontano possibile dalle competizioni.

    – Facciamo così – disse Yuri. – Ti faccio vedere il video della sua esibizione e tu calcoli il punteggio. Lo sai fare, vero?

    Otabek lo guardò male.

    – Sono iscritto all’università. Matematica.

    Yuri prese la propria coca cola e iniziò a mordicchiarne la cannuccia come un cucciolo nervoso e passò il proprio cellulare al kazako. Dal canto suo, Otabek sarebbe stato assai più volentieri a osservare il proprio interlocutore, piuttosto che quella che si prospettava come la caduta di un dio. Ma era evidente che per Yuri il suo giudizio era importante.

    Fece partire il video. Il costume, blu e argento, lo aveva già visto, ma non dal vivo. Victor, decidendo di tornare alle competizioni a metà stagione, doveva aver rispolverato dei vecchi pezzi. Non quelli più famosi, però, come ci si sarebbe aspettato, ma roba di dieci anni prima o quasi. La musica iniziò, appena intuibile nel chiacchiericcio del fast food. Victor era Victor, maledizione a lui. Era stato fermo nove mesi e non aveva perso un grammo di fluidità ed eleganza. 

    Otabek arrivò in fondo e poi fece ripartire. Diligente, Yuri gli aveva avvicinato un foglio e una penna per segnare i punteggi.

    Non era la caduta di un dio. Era, senza ombra di dubbio, una bella esibizione. Non la più tecnica che gli avesse visto fare, c’era solo un quadruplo, per quanto impeccabile, e c’era stata una sbavatura in una combinazione. Se l’avesse presentata, eseguita così, alla finale del Grand Prix, il mese precedente, non avrebbe certo insidiato il record di Yuri e forse sarebbe persino arrivato dopo di lui. Era comunque un’esibizione da vertici mondiali. E dire che l’anno prima, ai Mondiali, per quanto sul gradino più alto del podio, Victor gli era sembrato così spento che Otabek aveva avuto la netta sensazione di aver assistito al canto del cigno di un atleta finito.

    – Fatto? – chiese Yuri, impaziente.

    – Quasi.

    Meglio rivedere la stima al ribasso. Se saltava fuori che aveva concesso a Victor più dei giudici era la volta che Yuri gli staccava una mano a morsi. Abbassò di un punto.

    – 104.80 – annunciò.

    Il viso del russo era indecifrabile. Perché era così importante?

    – Tu quanto hai fatto? – chiese, per tastare il terreno.

    – 106.30. Ho fatto un casino su una trottola, imbarazzante.

    – Eh, immagino – sorrise Otabek.

    Con un movimento casuale, allungò la propria mano per metterla accanto a quella di Yuri, appoggiata sul tavolino. Non si imponeva, ma rimaneva a disposizione.

    – Che miracolo ha fatto Georgi per arrivare secondo? – chiese.

    Georgi Popovic, povera creatura che viveva da sempre all’ombra di Victor, di solito faticava a superare i cento punti.

    – 102.60

    – Eh? Che punteggio ha preso Victor? Non posso aver sbagliato così tanto i calcoli.

    – 99.40. Gli hanno dato pochissimo di artistico, oltre che massacrare la combinazione – Il tono del ragazzo aveva il suono della desolazione. – L’esibizione non è piaciuta.

    D’istinto, Otabek ritrasse la mano, mentre la sua mente assimilava le implicazioni.

    – Non è piaciuto l’anello che ha al dito, vuoi dire, e il fatto che glielo abbia infilato un uomo.

    – Te l’ho detto. È morto per indigestione di maialino giapponese – replicò Yuri, amaro.

    – No. Lo vogliono uccidere per aver assaggiato il maialino – rettificò Otabek.

    Già l’hamburger gli faceva schifo. Ora di sicuro non l’avrebbe digerito. All’inferno Martha e tutte le aspettative che gli aveva cacciato in testa.

    – Come l’hanno presa Victor e il vostro allenatore? 

    Mentre formulava la domanda, Otabek realizzò che era in casa di quell’allenatore che avrebbe dovuto dormire nelle famose due notti. 

    Yuri si strinse nelle spalle.

    – Non lo so. Sono scappato appena è stato possibile. Ti ho aspettato per più di un’ora… Che cosa stupida, però, incasinarsi così la vita per una scopata.

    – Da quello che hanno detto a Barcellona è un po’ più di una scopata – replicò Otabek, con dolcezza.

    Mentalmente stava sussurrando alla propria lingua di dimenticarsi di poter esplorare in serata la bocca di Yuri. Le cose non stavano girando bene. Per niente.

    Il ragazzo, infatti, gettò uno sguardo sconsolato alle patatine che aveva preso solo per lasciarle raffreddare nel loro cartone.

    – Tu dici? Più invecchio e più penso che l’amore sia la più grande fregatura che abbiano cercato di venderci. Non ho mai conosciuto nessuno che ci abbia guadagnato qualcosa.

    – Eh già, uomo vissuto. Ricordami un po’, quando compi sedici anni?

    Forse non lo avrebbe baciato neppure il giorno successivo.

    – Tra due mesi.

    – Un vegliardo, proprio.

    – Perché tu, uomo di mondo, ci hai mai guadagnato qualcosa?

    – Qualche bella scopata, anche se non credo fosse propriamente amore, quello – rispose Otabek, sincero. 

     E anche un’ossessione per i ragazzi biondi con i capelli un po’ lunghi e il pessimo abbigliamento, aggiunse mentalmente.

    – Per il galà dobbiamo modificare l’esibizione – sospirò Yuri la cui mente era già tornata al pattinaggio.

    – Niente guanto tolto con i denti – precisò Otabek. Scosse la testa con finta noncuranza. – Meglio. Non sono sicuro di riuscire a rifarlo. Avrei finito per staccarti un dito a morsi.

    – Yakov mi avrà mandato venti messaggi per essere sicuro che non mi dimenticassi di dirtelo. Come se avesse a che fare con le cose schifose di quei due, poi. Era solo un guanto. E l’effetto mi piaceva da matti.

    L’effetto era stato conturbante ai limiti del lecito, secondo il giudizio del kazako. Dopo aver rivisto il video dell’esibizione aveva provveduto a fornirne alla famiglia una versione censurata. Anche così, a detta di sua madre, quel ragazzetto russo sembrava un po’ svergognato. Lo svergognato, però, sembrava non rendersene per niente conto e ora stava raccogliendo con le dita le briciole del proprio panino, senza accorgersi del desiderio che aveva l’altro di afferragli la mano e leccargli le falangi.

    – È venuto anche Yuuri a vedere la gara? – chiese, per cambiare argomento.

    – Emmenomale! È arrivato ieri. Victor stava iniziando a comportarsi come una ragazzina isterica. Terribile. E adesso il suo malumore se lo cucca lui.

    Otabek sorrise.

    – Cos’hanno intenzione di fare quei due?

    – A parte scopare? – replicò Yuri con una smorfia di disgusto.

    – Per il pattinaggio. Se Victor vuole continuare a farsi seguire da Yakov e allo stesso tempo allenare Yuuri, lui che fa? Si trasferisce qua?

    In questo bel clima accogliente?

    – E io che ne so? Ovvio che Victor continua con Yakov, con chi altro potrebbe allenarsi?

    – Mah, c’è gente che ha cambiato allenatore ed è sopravvissuta, sai? Io ad esempio.

    – Non se hai Yakov.

    Otabek non replicò. L’allenatore russo in realtà lo terrorizzava e ricordava i pochi giorni di stage  fatti sotto la sua guida alcuni anni prima come un incubo. In effetti, Yakov terrorizzava tutto il mondo del pattinaggio, con la sola eccezione dei suoi allievi. Yuri ci viveva addirittura in casa e lo aveva visto rispondere a un suo messaggio con l’emoticon di una linguaccia. Se non era coraggio quello…

    – E quindi Yuuri non ha molta scelta – concluse Otabek.

    Scosse il capo. Si chiese con quanta coscienza del futuro quei due avessero annunciato il loro fidanzamento, il mese precedente. Erano stati teneri e coraggiosi, a modo loro, ma del tutto folli. E la cosa non sarebbe stata un problema suo, anzi, se si distruggevano come atleti erano due grossi problemi in meno, se non che lui si trovava ad attentare alla virtù di un ragazzetto terrorizzato dall’amore che aveva, guarda caso, proprio in uno di quei due pazzi uno dei suoi pochi modelli di riferimento. Veder naufragare la storia di Victor e Yuuri tra omofobia e problemi pratici di sicuro non avrebbe avvicinato le labbra di Yuri alle sue. Sperò almeno che non si lasciassero proprio in quei due giorni.

    

*


    Victor pregò, ancora una volta, che l’ibuprofene si degnasse di fare effetto e lo graziasse almeno del mal di testa scatenato dalla rabbia. Non poteva evitare di essere furioso, ma non voleva rovinarsi del tutto il poco tempo che poteva passare con Yuuri.

 

    – È che non ci sei abituato – aveva riassunto Yakov, serafico, quando era diventato evidente quello che era accaduto.

    – A cosa? – aveva sibilato.

    – A non piacere.

    Lui aveva avuto la tentazione di rispondere con qualcosa di tagliente, ma il vecchio allenatore, che lo aveva riaccolto senza una parola di biasimo, o, meglio, senza una parola che lui si fosse soffermato ad ascoltare, non meritava il suo malumore.

    – Non sono più conforme ai Sacri Valori della Patria, eh? – aveva replicato, gettando uno sguardo all’anello d’oro sulla propria mano sinistra.

    Era quello e nessun altro l’elemento della coreografia che proprio non era piaciuto. E dire che si era impegnato, impegnato davvero, per tenere il più basso profilo possibile. Quella mattina Yuuri era rimasto tra il pubblico, affidato a Dimitri, il vice di Yakov, mentre lui posava per le foto di rito e eludeva le domande personali.

    – Che cosa ti aspettavi? Molla il ragazzo o fattene una ragione.

    Yakov, se non altro, era sempre lo stesso.

    – Devo farmi massacrare in silenzio, secondo te? 

    – Ma io con chi sto parlando? Con un idiota totale? – aveva sbraitato l’allenatore. – Certo che sì, in caso contrario non saremmo qui a parlarne. Questo è quello con cui dobbiamo fare i conti. Scarica il tuo giapponesino tremebondo o fai in modo, domenica mattina, di metterli tutti a tacere.

    Le urla di Yakov, in qualche modo, scaldavano il cuore. Quel suo modo di dare per scontato che lui ce l’avrebbe fatta sempre, che sarebbe riuscito in qualche modo a rimanere ancora il più grande di tutti, lo aveva quasi distrutto. Eppure, adesso, era infinitamente rassicurante ritrovare quella stessa granitica fiducia nelle sue possibilità. 

    – Qualcosa mi inventerò – aveva risposto.

    – Meglio. Però, per Carità di Dio o di quello che è, non fare di testa tua. Avvisami, quando ti viene l’idea, ok?

    Victor fece una smorfia.

    – E quando mai non ti ho avvisato?

    – Chiamami, a qualsiasi ora. Che non ti veda domenica fare qualche idiozia per cui io poi devo giustificarti con la stampa. Me lo devi.

    

    Glielo doveva. Ma neppure aveva idea di cosa fare. Alzare il livello tecnico del programma libero? Con tre settimane scarse di preparazione alle spalle? Era la volta che ne usciva in barella. Cambiare coreografia in toto? Non sapeva neppure se il regolamento glielo permettesse. E comunque i costumi quelli erano e quelli sarebbero rimasti. Cambiare in parte una coreografia che già funzionava? Pagare un sicario per uccidere qualche giudice?

    Si prese con due dita la radice del naso e poi alzò gli occhi al soffitto affrescato alla ricerca di uno sguardo di sostegno da parte delle dee, o delle eroine o di chiunque fossero le figure ritratte. Si rendeva conto di non essere per niente di compagnia. Aveva recuperato Yuuri quasi si trattasse di un pacco e aveva lasciato il palazzetto dove si svolgevano i Campionati di Russia il prima possibile. Il fatto di non avere più l’auto aveva probabilmente salvato la vita a qualche pedone temerario e il suo portafoglio da una multa epocale per eccesso di velocità. Doveva aver gelato ogni tentativo di conversazione e di consolazione da parte del suo compagno… Quando quella parola si infilò nei suo pensieri sospirò. Un sospiro diverso da quelli precedenti, di sollievo più che di rassegnazione, e quasi subito sentì i muscoli contratti che un poco si rilassavano e persino il mal di testa allentare la presa. 

    Yuuri… Il giapponese aveva accettato con un sorriso e una carezza appena accennata sulla mano il suo desiderio di leccarsi le ferite in silenzio. Ma del resto quello era il suo tocco. Non asfissiava, non si imponeva quasi mai e, quando lo faceva era sempre per mettere lui al primo posto. La sera precedente, chissà se si era reso conto, Yuuri, che le sue mani avevano tremato nell’infilare le chiavi nella toppa della porta del proprio appartamento. Non erano state molte le persone che avevano avuto il privilegio di entrare in quel bilocale, ma era la prima volta che con quell’atto stava davvero aprendo la propria anima. Si era scoperto terrorizzato da ciò che Yuuri poteva trovarci e da come vi avrebbe reagito. 

    Chissà se se ne rendeva conto, Yuuri, che adesso, nel più grande museo di Russia, era lui l’unica opera d’arte che Victor stesse ammirando? Il giapponese stava guardando con fare assorto un piccolo cammeo in cui erano ritratti i volti non troppo eleganti di chissà chi di famoso del passato. Lui invece, con luce proveniente dalla vetrinetta che gli rifletteva in faccia, sembrava avere un viso fatto d’avorio, lo strano, etereo volto di qualche spirito orientale.

    Doveva recuperare. Sapeva quanto Yuuri avesse desiderato visitare l’Hermitage. Aveva espresso quel desiderio con la sua particolare espressione sognante che Victor trovava irresistibile. E adesso, di fatto, stava attraversando le gallerie in silenzio, accompagnato da un fantasma.

    Prima che potesse avvicinarglisi, però, un vociare concitato attirò l’attenzione di entrambi. Un istante dopo un gruppone di turisti giapponesi si riversò nella stanza. I due atleti furono circondati, degnati di un’occhiata veloce, Yuuri mormorò qualche parola di saluto e poi l’onda d’invasione, com’era arrivata, se ne andò. Mentre il gruppo usciva dalla stanza, senza esserselo proposto, Victor visualizzò una versione differente dell’accaduto. I turisti che arrivavano, loro che si scostavano per non esserne investiti, poi un paio di giapponesi riconosceva Yuuri. Gli si accalcavano tutti intorno, chiedendo foto, dilungandosi in complimenti per le sue vittorie nella loro cantilenante lingua. Yuuri arrossiva leggermente e poi si prestava, pur con quel suo fare reticente, ad esaudire le loro richieste, mentre Victor si faceva da parte, cercando di rendersi invisibile, come invece aveva dovuto fare Yuuri quella mattina.

    – Cos’è che ti fa sorridere? – gli chiese Yuuri, avvicinandosi.

    – Una visione del futuro. E non vedo l’ora che si realizzi – rispose Victor e scoprì in quelle parole più sincerità di quanta non se ne aspettasse. – Vieni, la sala di Leonardo da Vinci non sarà accessibile per un po’, voglio farti vedere la mia opera d’arte preferita.

    – Non sapevo che ne avessi una.

    Victor esagerò una smorfia offesa.

    – Non sono uno zotico totale – disse, portandosi le mani ai fianchi.

    – Disse quello che non conosceva Picasso.

    – Non fare il bulletto con me, Yuuri Kastuki, solo perché hai marinato qualche allenamento con la scusa dello studio.

    – Da quando in qua una laurea è diventata “una scusa”?

    Victor sbuffò. Pur avendo un atteggiamento a prima vista remissivo, Yuuri aveva un caratterino niente male. E era quasi impossibile avere l’ultima parola.

    – Va bene, ero uno zotico totale quando sono arrivato a San Pietroburgo, ma Lilia ha quanto meno tentato di darmi una cultura. E mi ha portato all’Hermitage. E, sì, persino io ho un’opera d’arte preferita, anche se i quadri continuo a non capirli e Picasso, ora che so chi è, mi sembra uno con gravi problemi di vista.

    Con fare deciso afferrò Yuuri per un polso, estrasse la cartina del museo con l’altra mano e sperò di prendere la svolta giusta per raggiungere ciò che voleva fargli vedere.

 

    Sbagliò strada solo un paio di volte, poi individuò la lunga stanza dalle decorazioni dorate, al termine della quale, su un improbabile basamento verde, si trovava la statua che stava cercando.

    – Eccola qui.

    Rappresentava un giovane uomo ricciuto in posizione accovacciata, completamente nudo, intento a massaggiarsi un piede.

    – Non sapevo che ci fosse un Michelangelo, qui all’Hermitage – mormorò Yuuri, ammirato.

    – Ricordo che sul volantino che ho letto, la prima volta che sono venuto qui, c’era scritto che si sta togliendo una spina, ma io ho pensato subito che si trattasse di uno di noi, che si sta massaggiando il piede dopo un allenamento… Ho trovato a suo modo dolce che un artista volesse ritrarre uno sportivo non nella pienezza del gesto atletico, ma in un momento di dolore privato e che questo potesse risultare così bello.

    Yuuri gli si era fatto più vicino e gli sfiorò appena la mano, senza prenderla.

    – Se fosse un pattinatore, gli diresti di mettersi a dieta. Ma capisco perché la statua ti abbia tanto colpito.

    Arrossì, come se avesse detto chissà quale sconcezza.

    – Mah, sembrano più muscoli che grasso, magari fa pattinaggio di coppia e ne ha bisogno – lo difese Victor.

    – Certo… Mi ricorderò di questa statua, la prossima volta che mi chiamerai “maialino” – replicò Yuuri, poi gli sorrise. – Grazie di avermi portato qui.

    – Grazie a te di essere qui… Senza di te non sarebbe stato un bel pomeriggio… Avrei rischiato di fare qualche sciocchezza. Ho il drammatico sospetto di aver bisogno di te.

    Aveva mascherato la serietà della frase con una smorfia melodrammatica, ma questo non la rendeva meno vera.

    – Anch’io ho bisogno di te. Ma il Giappone non è dietro l’angolo. Ci sono decisioni che non possiamo rimandare – disse Yuuri.

    – Lo so. Ma rimandiamole almeno a dopo aver mangiato qualcosa.

    

 

   
 
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