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Autore: mikimac    17/10/2018    2 recensioni
L'amore colpisce tutti. Spesso, quando meno te lo aspetti. Qualche volta, per chi non dovresti amare.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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La cena
La serata era tiepida e una brezza piacevole stava allontanando l’afa che aveva oppresso Londra durante il giorno. La villa era illuminata, pronta ad accogliere gli ospiti. L’imponente e severa dimora si trovava nella periferia di Londra più ricca ed esclusiva. Il maggiordomo attendeva i convitati sulla porta, pronto ad assisterli mentre si toglievano i leggeri soprabiti, per passarli alla cameriera, che li riponeva nel guardaroba. Le guardie al cancello avevano avvisato che stavano arrivando le prime automobili. Mary e Theodore Morstan scesero la grande scalinata, che portava dal piano superiore all’ingresso, uno accanto all’altra. La tensione esistente fra padre e figlia era chiaramente palpabile.
Mary era avvolta in un abito nero, lungo fino alle caviglie, che la avvolgeva morbidamente svelando le sue forme senza essere troppo aderente e le cui spalline di raso coprivano le spalle. Una profonda scollatura a V, scopriva la schiena fino a metà. Una collana di brillanti con sette smeraldi incastonati le contornava il collo bianchissimo e dalla chiusura partiva un filo di brillanti che si fermava in mezzo alle scapole. Anche i lunghi pendenti, che ornavano le orecchie, erano brillanti, con uno smeraldo a fissare l’orecchino al lobo.
Theodore era fasciato in uno smoking nero, dalla cui giacca si vedeva una camicia bianca, ed era chiuso da una cravatta nera. Ai polsini brillavano due rubini rosso fuoco.
“Dovevi invitare il tuo dottorino proprio questa sera, vero?” Sibilò Theodore, tenendo il tono basso, per non farsi sentire dalla servitù.
“Mi sembrava che avessimo già messo fine a questa discussione, padre,” ribatté Mary, nello stesso tono.
“Come puoi fidarti di lui, dopo che ti ha abbandonato per entrare nell’esercito?”
Mary si bloccò a metà delle scale e si voltò verso il padre, trattenendo a stento la rabbia. Il corpo vibrava, mentre con un soffio rispondeva al genitore: “Adesso so che sei stato tu a farlo scappare! John era molto giovane e tu hai approfittato della sua inesperienza per allontanarlo da me!”
“Se ti avesse veramente amata, non sarebbe corso via a gambe levate, mettendo un intero continente fra voi due.”
“Potrebbe averlo fatto proprio perché mi amava così tanto da non sopportare di rimanere a Londra senza potermi frequentare e corteggiare. Non lo sapremo mai. Grazie a te. Ho la mia seconda occasione. Non ti azzardare a rovinare anche questa o te ne farò pentire!... padre.”
“Oh, che cosa mai potresti fare per vendicarti di me, figlia cara?” Domandò Theodore, con un sorriso sarcastico sulle labbra rosse.
Mary salì un gradino, per trovarsi più vicino al viso del padre: “Non ti conviene scoprirlo, padre,” mormorò, minacciosa. Il sorriso svanì dalle labbra di Theodore. Padre e figlia si fissarono negli occhi per qualche secondo. Il maggiordomo si schiarì leggermente la gola, per attirare la loro attenzione: “I signori Potter sono arrivati, signore e signorina,” annunciò.
Mary si girò e terminò di scendere le scale. Un sorriso radioso le illuminò il viso, mentre la porta si apriva. Da perfetta padrona di casa, Mary allungò le braccia e accolse i Potter, come se nulla fosse accaduto.


La cena


John uscì dalla villa in cui viveva e si diresse verso la limousine nera, che aveva affittato per l’occasione. L’autista di famiglia aveva seguito i genitori nel loro rifugio nel Sussex, dopo i funerali di Henry. Alle cene mondane poteva capitare di bere più del dovuto e John non voleva guai con la polizia. Gli occhi azzurri chiarissimi dell’autista lo seguirono, mentre si avvicinava all’automobile con passo leggermente claudicante. Sherlock non poté che ammirare il corpo proporzionato e allenato del dottore, avvolto da uno smoking nero… no blu scuro, non nero. Il collo della camicia azzurro chiaro era avvolto da una cravatta regimental ambrata nei toni del blu, che richiamavano quello dell’abito. Mentre il giovane medico si accostava, Sherlock notò il fermacravatta d’oro a forma di testa di drago con un topazio blu di Londra come occhio. Lo stesso tipo di pietra preziosa adornava i gemelli ai polsini della camicia. Tutto l’insieme metteva sapientemente in risalto gli occhi azzurri come un oceano profondo di John e il suo fisico atletico. Non si poteva dire che il medico non stesse facendo del proprio meglio per attrarre la sua preda. La stretta allo stomaco della spia fu forte e dolorosa. Sherlock la ignorò. Non era il momento di pensare al cibo. Doveva dare al giovane e inesperto dottore le ultime istruzioni. Non poteva permettere che Mary e Theodore Morstan scoprissero il suo doppio gioco. Sarebbe stato pericoloso per John. E lui non voleva perderlo. Sarebbe stato uno spreco di tempo, che non avevano. John salì in auto e Sherlock la mise in moto: “Buonasera, dottore. Vogliamo ripassare un’altra volta i suoi obbiettivi per questa sera?” Domandò con voce calda e bassa.
“Non credo di averne bisogno, non dovrò fare praticamente nulla, a parte non farmi cacciare da Theodore. Non devo fare domande, non devo frugare da nessuna parte. Solo godermi la cena e osservare, tenendo a mente il nome degli invitati, che le riferirò, quando ci incontreremo domani alle corse. Non capisco perché lei non possa farsi passare per il mio autista. Faremmo più in fretta se le facessi rapporto stasera stessa.”
“Vero, ma non sappiamo chi siano gli invitati. Uno di loro potrebbe riconoscermi e questo metterebbe fine al nostro piano. Meglio attenerci scrupolosamente a quanto stabilito. Fra alcuni minuti, io scenderò dall’auto e un mio collega la accompagnerà alla festa. Faccia in modo di essere uno degli ultimi ospiti a lasciare la casa, affinché l’agente Albert Wolf possa fotografare gli altri invitati. Domani mattina mi dirà come si chiamino e che cosa abbiano fatto durante la serata. Si diverta, dottore. E non combini guai,” borbottò Sherlock, con impazienza.
“Ai suoi ordini, signore,” ribatté John, calcando in modo sarcastico sull’ultima parola.
Un silenzio teso calò nell’auto. Quando arrivarono in prossimità di un parco, Sherlock controllò che non vi fossero altre auto, accostò e scese, lasciando il posto a un uomo alto, moro e magro. Se anche qualcuno avesse sorvegliato John all’uscita di casa, non avrebbe mai capito che c’era stato uno scambio di persona.
Sherlock osservò l’auto allontanarsi. Lo stomaco ebbe un’altra stretta violenta. Il giovane Holmes strinse le labbra, mentre la voce di Mycroft gli sussurrava in un orecchio: “Tenere alle persone non è un vantaggio.”


L’auto si fermò davanti all’ingresso della villa. Un valletto aprì la portiera dalla parte di John, che scese senza salutare l’autista. Il cuore del dottore iniziò a battere più velocemente. Era stato altre volte in quella casa. Allora era un ragazzo imberbe, che fingeva di essere innamorato della figlia del padrone di casa per nascondere la propria vera natura. Ora era un giovane uomo, che fingeva di essere innamorato della figlia del padrone di casa per mandarla in prigione, dove meritava di stare. Almeno secondo la versione dell’affascinante e ammaliante Sherlock Holmes. Sperava solo che fosse vero e che la sua menzogna avesse una giustificazione accettabile. Un lieve sorriso triste increspò le labbra di John. Erano trascorsi anni, ma la situazione non era cambiata. Lui entrava in quella casa sempre sotto mentite spoglie. La porta si aprì e il maggiordomo gli sorrise in modo professionale: “Bentornato, dottor Watson,” lo salutò, prendendo il soprabito che John teneva sul braccio.
“Grazie, Edgar. È un piacere rivederla. Non è cambiato, in questi anni.”
“John! Sei arrivato! Sono così contenta che tu sia venuto,” lo accolse Mary, stringendo John in un abbraccio caloroso.
“Non sarei mai potuto mancare,” John ricambiò l’abbraccio.
I due giovani si scostarono e John si voltò verso il padrone di casa, che allungò la mano e rivolse al medico un sorriso gelido: “John. Benvenuto a questa piccola cena. Vedo che zoppichi.”
“Grazie per l’invito, signor Morstan. Danni collaterali della guerra,” ribatté John, in tono cordiale, ma freddo.
Mary prese John sotto braccio: “Direi che gli ospiti siano arrivati tutti e che possiamo cenare,” disse, conducendo John verso un grande salone. Nel centro era stata allestita una lunga tavola. John contò ventidue coperti, inclusi quelli per i padroni di casa. Non avrebbe dovuto ricordarsi di troppe persone. Mary presentò John agli altri commensali. Se anche qualcuno sapeva che lui era il fratello del famigerato Henry Watson, non lo fece capire. John si rilassò e si lasciò condurre alla tavola, dove scoprì di essere stato messo alla destra di Mary. Cavallerescamente, il dottore scostò la sedia e fece accomodare la padrona di casa, prima di sedersi lui stesso. I camerieri iniziarono a servire la cena, mentre i convitati parlavano del più e del meno, soprattutto spettegolando su conoscenze comuni e sulle ultime notizie relative alla famiglia reale. John aveva notato che erano state invitate sette coppie sposate, una ragazza e cinque uomini senza accompagnatori, lui incluso. A tenere viva la conversazione erano soprattutto le coppie sposate, mentre gli altri quattro uomini sembravano annoiarsi educatamente tanto quanto John. La ragazza, seduta accanto a Theodore, era triste, quasi sull’orlo delle lacrime, e non diceva una parola. Mary notò lo sguardo di John e si avvicinò a lui, in modo che gli altri commensali non sentissero il loro discorso: “Quella è mia cugina Charlotte. È stata appena lasciata dal suo fidanzato, che si è messo con una volgare ballerina di fila. I suoi genitori, che sono la coppia seduta accanto a lei, hanno insistito per portarla. Povera Charlotte. Ha il cuore spezzato. Ci vorrà molto tempo, prima che si fidi di un altro uomo,” concluse, con un sospiro.
“Hai proprio ragione,” assentì John, provando pietà per la giovane donna, sicuramente al centro di feroci pettegolezzi nei salotti della buona società londinese.
Stava per riprendere a mangiare il pollo al vino rosso, che era stato appena servito, quando un urlo sovrastò il chiacchiericcio della tavola, concentrando l’attenzione di tutti su uno degli altri uomini non accompagnati da una donna: “No! Fermo! Che cosa sta facendo! Porti via quella bottiglia!” Sbraitò spaventato, rivolto al maggiordomo, che stava stappando una bottiglia di vino.
Edgar si fermò a metà del gesto, guardando prima l’ospite poi il padrone di casa in modo sorpreso. Theodore strinse le labbra e fece un rabbioso cenno con la testa al maggiordomo: “Edgar, procedi,” ordinò.
Il maggiordomo annuì e aprì la bottiglia, versando il liquido rosso nel calice di Theodore. John aveva osservato l’ospite per tutto il tempo. L’uomo, che Mary gli aveva presentato come Steve Ballard, era di mezza età, alto quanto John, ma molto più tarchiato, con i capelli neri tagliati corti. Ed era terrorizzato. Quando vide il vino rosso scendere nel bicchiere, la sua espressione si rilassò, ma solo per un momento, come se un altro terribile pensiero avesse attraversato la sua mente. Con un sorriso imbarazzato, passò lo sguardo sugli altri commensali: “Chiedo scusa. Ho pensato che il vino non fosse adatto alla pietanza… ovviamente mi sono sbagliato,” borbottò, quasi a scusa.
John spostò la propria attenzione sulle bottiglie, con le quali Edgar e gli altri camerieri stavano riempiendo i bicchieri degli ospiti. Si trattava di un costoso vino francese, scelta ideale per il pollo servito. Una bottiglia di Chateau Margaux “Pavillon Rouge” del 2011 fu posta proprio davanti a Mary, così John riuscì a studiarla bene, senza destare sospetti. Non aveva nulla di strano. John osservò Steve Ballard con noncuranza, fingendo di guardare la signora Grant, che stava raccontando un aneddoto divertente capitato a corte. L’uomo era pallido, tremava e sembrava che volesse essere inghiottito dalla Terra. Tutti risero, così il dottore si unì alla risata generale, senza sapere per che cosa stesse ridendo. Fu a quel punto che si rese conto che anche gli altri tre uomini senza accompagnatrici stavano ridendo per cortesia e non perché avessero ascoltato il racconto della donna. Uno era furente, mentre gli altri due provavano una grande compassione.


La cena proseguì monotona, senza altri episodi degni di nota. Finito il dolce, i commensali si alzarono per spostarsi nel salotto a prendere il caffè. Mary si accostò a John e sospirò dispiaciuta: “Devo assentarmi per qualche minuto. Ho una riunione d’affari che non può attendere. Tu non scappare. Farò in fretta.”
“Sarò qui ad aspettarti trattenendo il fiato, quindi non ti attardare o mi troverai svenuto in terra,” scherzò John.
Mary rise: “Sarebbe l’occasione giusta per approfittarmi di te,” mormorò, in tono sensuale.
John arrossì leggermente. Mary gli strinse il braccio con dolcezza e si diresse verso la porta che conduceva allo studio del piano terra. Furono i tre uomini senza dame a seguirla. Mary glieli aveva presentati come Thomas Raynolds, Phillip Chappel e Albert Newman. Il dottore avrebbe voluto seguirli e cercare di origliare la conversazione, ma sentì nella testa la voce decisa di Sherlock che gli imponeva di osservare senza intervenire. Non poté, comunque, evitare di udire la piccola discussione fra Theodore Morstan e Steve Ballard.
“Mi dispiace per quello che è successo. Non lo ho fatto apposta. È solo che ho visto la bottiglia e…” cominciò Ballard, con voce lamentosa.
“Non ti devi preoccupare, non è accaduto nulla di troppo grave o irreparabile. Raggiungi gli altri nello studio. Vedrai che andrà tutto bene,” lo interruppe Theodore, in un tono che non convinse nemmeno John.
Ballard esitò, come se esitasse a unirsi alla riunione. Con un sospiro rassegnato decise di raggiungere gli altri. John lo guardò dirigersi verso la porta. Steve Ballard sembrava un uomo che stesse salendo sul patibolo.


Non avevano fatto in tempo a entrare nello studio, che Albert Newman, un uomo alto e biondo di mezza età con un fisico atletico, aveva finalmente sfogato la propria rabbia: “Maledetto idiota! Herbert è un maledetto idiota! È un pavido e un pusillanime. Se si trovasse in una stanza con qualcuno dell’MI6, spiffererebbe tutto prima ancora che gli ponessero una domanda. Dobbiamo eliminarlo. È una minaccia per la nostra missione.”
“Temo che Albert abbia ragione,” sospirò Thomas Raynolds, un uomo castano di statura normale, un po’ in sovrappeso e più vecchio di qualche anno.
“Ha finito di lavorare alla formula?” Chiese Mary, freddamente.
“Sì. Non abbiamo più bisogno di lui. Possiamo produrre la sostanza anche senza Herbert,” rispose Raynolds.
“Deve sembrare un incidente,” sancì Mary, senza il minimo indugio.
“Me ne occuperò io. – si propose Phillip Chappel, anche lui biondo, ma più basso di Newman e molto giovane – Steve è venuto in auto. Sappiamo tutti che è un pessimo pilota e che per tornare a Londra ci sono alcune curve pericolose. Andrò con lui. Saltare giù dall’auto in corsa sarà un gioco da ragazzi. Per me.”
La porta si aprì. Steve Ballard entrò, timoroso e imbarazzato: “Mi dispiace. Ho visto l’etichetta e ho pensato che Edgar avesse preso la bottiglia sbagliata. Non sono riuscito a trattenermi. So che non avrei dovuto farlo. Non davanti a persone ignare dei nostri piani. Non accadrà più. Starò attento. Vi supplico…”
“Tranquillo, Herbert. È tutto a posto. Andiamo a casa. Ti accompagno io,” sorrise Chappel, rassicurante.
“Davvero? È tutto a posto?” Domandò Ballard, pieno di speranza.
“Certo, Herbert. Non è accaduto nulla di irreparabile. Vai a casa con Phillip. Domani riparleremo di ciò che è successo,” aggiunse Mary, evitando lo sguardo di Ballard.
“Allora… grazie… buonanotte a tutti… a domani…” balbettò l’uomo conosciuto come Steve Ballard.
“A domani,” salutò Phillip Chappel, prendendo Ballard per un gomito e conducendolo fuori dalla stanza.
Un silenzio carico di rammarico calò nella stanza. Mary strinse le labbra e si avviò verso la porta, per tornare dai suoi invitati. Per tornare da John. Non avrebbe mai permesso a un piccolo inconveniente come la condanna a morte di quel vigliacco di Ballard di rovinare i suoi piani per riconquistare John Watson e riportarlo nella sua vita fino a quando la morte non li avesse separati.


Angolo dell’autrice

Per chi non conosca il film, sottolineo che tutta la storia non è assolutamente farina del mio sacco, ma un adattamento dell’originale, ovviamente aggiustato sui personaggi e riportato in tempi contemporanei.

Altra piccola puntualizzazione: io sono completamente astemia. Le mie conoscenze in materia di vino derivano tutte da ricerche in internet. Se ho scritto delle stupidaggini, mi scuso con chi sia un vero intenditore. Ho usato un vino francese, solo perché così l’eventuale offeso per l’uso improprio del vino si troverebbe oltre le Alpi e non in terra nostrana. I vini italiani sono fantastici. Mi dicono.

Avrei voluto scrivere la celebre frase del fratello maggiore in inglese. “Caring is not an advange” fa tanto Mycroft Holmes, ma mi sembrava assurdo riportare una frase in lingua originale in un racconto in italiano. Voi sentitela nella lingua che più vi aggrada.

Stasera sono piena di note, scusate. Forse chi è diversamente giovane, come me, ha notato il nome Albert Wolf, maccheronica versione inglese di Alberto Lupo, che non è il lupo blu creato da Silver, ma un famosissimo attore di qualche tempo fa, che recitava la parte parlata di “Buonasera dottore”, nella versione cantata da Claudia Mori e/o Mina. La canzone mi è venuta in mente a causa della frase con cui Sherlock saluta John. Portate pazienza. Sto lavorando molto e questo mi fa male.

Grazie a chi stia leggendo la storia e sia arrivato fino a qui.
Grazie a meiousetsuna per la recensione allo scorso capitolo, cui spero di riuscire a rispondere presto.

Chi voglia lasciare un commento, sarà sempre il benvenuto, dovrà solo pazientare per avere una risposta.

Alla prossima settimana.

Ciao!
   
 
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