Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |      
Autore: Anonimadelirante    18/10/2018    7 recensioni
1. Non distrarsi
2. Muoversi lentamente
3. Non inciampare
4. Non farsi prendere dal panico
5. Avere sempre a portata di mano un'arma
6. Non cercare di ragionare con gli zombie
7. Non dare confidenza agli sconosciuti
8. Non dare confidenza agli zombie. Neppure se sono ragazze molto carine e poco decomposte
9. Avere sempre un piano B
10. Non dare mai retta a Leo Valdez
(Non necessariamente in quest'ordine.)
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calipso, Jason/Piper, Leo/Calipso, Percy/Annabeth
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Pairing/Personaggi: Leo/Calipso; Piper (mention); Annabeth/Percy (mention); Jason; Dylan Lo Spirito Della Tempesta;
Atlante e le Esperidi (mention)
Disclaimer: ciò ha partecipato alla seconda settimana #COWT8 per la M3, col prompt Zombie e alla Dei, miti ed eroi, challenge indetta dalla community campmezzosangue col set: Leo/Calipso e il prompt: Zombie!AU, «Come fai non sapere che è in corso un'Apocalisse Zombie?!»
N/A: correggendolo per pubblicarlo qua m’è venuta voglia di scrivergli un seguito, quindi ho trasformato la short in un primo capitolo fondamentalmente ho cambiato il titolo e aggiunto un’intestazione e… boh. Stay tuned! In tempi biblici, come sempre, però, eh, non illudiamoci

 

 

 

 

 

 

Come sopravvivere ad una
invasione zombie – o anche no
(guida a cura di Leo Valdez)

 

 

 

1. Non distrarsi
Perdere un genitore può essere considerata una disgrazia,
perderli entrambi sa di disattenzione.
(Oscar Wilde, The Importance of Being Earnest)

 

 

 

Leo Valdez era stato un ragazzo problematico. O meglio, probabilmente lo era ancora, ma aveva dato fuoco al suo ultimo psicologo giusto un paio di settimane prima e adesso non c'era più nessuno che si prendesse la briga di fargli sapere quanto pazzo fosse: tutto sommato, quello era un aspetto dell'Apocalisse che non gli dispiaceva. Circa.
Cioè, bisogna sempre cercare un lato positivo nelle cose, no? – questo era quello che diceva Pip più o meno sempre. Leo era piuttosto d'accordo, davvero, ma era più facile a dirsi che a farsi. Prima d'incontrarla, in particolar modo, neppure ricordava più ciò che Esmeralda era solita dirgli anni prima: Mira el vaso medio lleno, niño.
Ma anche dopo, sì, diciamocelo pure: era un bel casino quello in cui si trovavano. Ma almeno erano in due.
Suo fratello Charles, poco prima di esplodere: «Sei allegro solo quando pensi di essere visto da qualcuno di cui t'importa» gli aveva detto, con quel suo sorriso strano, lievemente malinconico. Gentile da parte sua, davvero. Farsi saltare in aria con quella nave piena di gente infetta era stato un colpo da maestri.
Leo dubitava che sarebbe mai riuscito a perdonarglielo.
Comunque, non era questo il punto. Il punto era che il primo punto era non distrarsi. E lui, ovviamente, s'era distratto.
S'era distratto e aveva perso Pip.
Si può essere più sbadati?

 

 

*

 


Ma partiamo dal principio. È meglio.
Leo Valdez era stato un ragazzo problematico e con tutta probabilità lo era ancora, ma esiste una scala di priorità, gli era sempre stato detto, e ci sono momenti in cui l'essere iperattivi e avere problemi affettivi e comportamentali passa in secondo piano. Ad esempio, se il mondo sta finendo.
Era un giovedì qualunque, quando Leo Valdez – alto poco più che un metro e uno sputo, per tre quarti Texano e con un sorriso da folletto che chiunque avrebbe preso volentieri a schiaffi – pensò con inquietante lucidità: Ecco. Ora morirò.
E subito dopo: Tutti noi moriremo.
Ora. Tendenzialmente, Leo non era una persona drammatica. Ma, ecco, quello era un problema.
Il problema si chiamava – o si era chiamato? – Dylan, ed era un bulletto antipatico con addosso una felpa troppo costosa; una felpa troppo costosa sporca di sangue. Il problema in questione, oltre a chiamarsi Dylan ed avere uno squarcio sul petto che avrebbe dovuto stenderlo, come minimo, sembrava anche affamato – e, ehm, sì, da quanto avesse capito Leo voleva mangiare, be', loro.
Il pavimento dello Skywalker era lucido e scivoloso e Leo sdrucciolò per qualche metro, indietreggiando, prima che Jason lo afferrasse per la giacca a vento: «Grazie amico» borbottò, mentre il biondo si guardava intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse essere passabile come arma.
«Dylan, ascolta...» tentò Jason, camminando piano in avanti. Nella confusione di poco prima aveva perso una scarpa e Leo provò l'istinto di fargli lo sgambetto «Ora noi ce ne andremo. Okay?»
Dylan piegò la testa di lato con aria estremamente ottusa ed allungò le braccia verso di loro, emettendo un verso gutturale che non prometteva nulla di buono.
«Va tutto bene, Dylan?» ritentò Jason. Leo trattenne il respiro. Non per fare il nerd, eh, ma quello sembrava proprio...
«Jason.»
Jason avanzò ancora, facendogli un cenno distratto che probabilmente voleva dire non preoccuparti e che quindi preoccupò enormemente Leo. «Okay» disse «c'è qualcosa che posso fare per aiutarti, Dylan?»
Dylan. Quello stesso Dylan che spadroneggiava nei corridoi e cercava d'infilargli la testa nel water e ruttava in mensa. Oh, Jason e la sua mania di cercare di ragionare con chiunque. Faceva quasi tenerezza.
Dylan ringhiò. Ma Dylan era un idiota, lo era sempre stato, figurarsi ora che era...
...ma non poteva esserlo, perché se lo fosse stato, quello sarebbe stato un-
Morto. Dylan era morto. Doveva esserlo.
Ed era- «Jason no!» Leo cercò di acchiapparlo per la giacca, ma in quell'istante Dylan balzò in avanti e strinse le mani al collo del biondo.

 

 

*

 


Non distrarti.
Leo, non ti distrarre. Ecco che gli aveva detto Piper, prima che lui si, be’, distraesse.
E ora Piper era scomparsa – molto bene, certo, come no. Ma probabilmente, dal punto di vista di Pip, era lui ad essere scomparso, dal momento che, uhm, si era perso. Apparentemente.
Sul lato della strada, c'era una di quelle cartine rigide con scritto a caratteri cubitali TU SEI QUI, ma questo non aiutava, visto che l'intera città era invasa da zombie. Zombie. Quindi, a rigor di logica, Leo avrebbe dovuto ringraziare la sua buona stella per essere stato un piccolo nerd sfigato nei sedici anni che aveva vissuto prima dell'apocalisse: era stato campione imbattuto di Ammazza lo Zombie per sette settimane di fila, prima che un certo Death Boy scalasse il podio in due ore scarse, e conosceva a memoria gran parte di The Walking Dead. Sapere che gli zombie sono creature lente, poco intelligenti, che vanno colpite alla testa per neutralizzarle... tutto questo doveva essere a suo vantaggio, no? Ovviamente, sì, certo, se avesse avuto idea di dove fosse Piper e di dove fosse il loro rifugio – peccato che lui non fosse del posto e che non trovasse minimamente familiare il quartiere dove si trovava.
Non distrarti, aveva detto Pip. Bravo Leo, davvero, complimenti.

 

 

*

 


Leo era stato espulso da diverse scuole, era scappato da otto case famiglia, tre genitori affidatari e da zia Rosa, che, fra tutte le cose che gli erano capitate, era forse la peggiore. Dodici psicologi si erano susseguiti in sedute e test ed avevano stabilito che il ragazzo avesse, in primis, un disturbo dell'attenzione. Ma bravi, che scoperta. L'unica cosa che riusciva a far stare Leo concentrato per più di dieci minuti erano le sue invenzioni – e i progetti di Annabeth, certo, ma quelli erano venuti dopo. E Leo a volte aveva l'impressione di avere parametri di giudizio un po' sballati, perché, insomma, ogni tanto si sorprendeva ad essere quasi grato, a quella dannata Apocalisse – se il mondo non avesse deciso di riempirsi di zombie, lui non avrebbe mai conosciuto Annie, che era in assoluto la persona più geniale (e paurosa, anche, sì, ma sfidava chiunque a non essere un po' intimorito da un metro e ottantaquattro di capelli biondi, gambe chilometriche e puro genio che lo aveva tenuto appeso a testa in giù per una buona mezz'ora, la prima volta che si erano visti. Lunga storia. Lunga, imbarazzante, assolutamente da non divulgare storia. Davvero, era meglio così) che avesse mai conosciuto. Le trappole che avevano costruito – per uccidere zombie, per catturare piccioni e lepri selvatiche, e per rallentare gli infettati – e l'impianto idrico che erano riusciti a raffazzonare erano in assoluto le cose più appaganti che avesse mai fatto. E non avrebbe neppure conosciuto Pip, che gli era cara come una sorella e sapeva essere sorprendentemente pericolosa, con un fucile in mano. Ma. Se i morti non avessero deciso di risorgere – se lui stesso non avesse dovuto guardare negli occhi Buch, prima di sparargli in testa – adesso Charles sarebbe stato ancora vivo. E Jason. E lui a volte era dannatamente egoista, ecco cosa. Dèi, che situazione...
Leo provò ad immaginare un universo alternativo, in cui lui ed Annabeth avrebbero discusso dei libri di Asimov seduti ad un caffè, e Percy... ma lui non conosceva Percy. Anzi, aveva i suoi dubbi che Percy fosse ancora vivo – anche se, ovviamente, non lo avrebbe detto ad Annie. Lei parlava spesso del ragazzo e mai col passato definito che si usa per i morti. È scomparso, diceva, un'orda di non-morti ci ha sorpreso e ci siamo persi di vista.
Che poi era quello che Leo sperava che Pip le stesse dicendo di lui in quel momento. Che non credesse che fosse morto, o morso. Che era più o meno la stessa cosa, sì, ma Leo preferiva non pensare all'eventualità che l'una o l'altra cosa potessero effettivamente accadere. Nah, lui sarebbe sopravvissuto eccome. Avrebbero trovato un posto dove il morbo ancora non era arrivato, lui ed Annie e Pip. Avrebbero una vita lunga e felice e piena di oggetti strambi, fatti di rotelle e molle. Sì.
Ma intanto, fantasie steanpunk a parte, lui continuava a non avere idea di dove si trovasse. E a distrarsi.
Maledetto disturbo dell'attenzione.
Anche con un disturbo dell'attenzione come il suo, però, non avrebbe potuto non notare gli zombie. Cioè, non gli zombie in generale, che avevano invaso la terra e scoperchiato le tombe. Quegli zombie. Quel nutrito gruppo di zombie che gli stava andando incontro – e quelli che non si era accorto di avere alle spalle. Aveva già detto che non bisognava distrarsi? Già, uh, quella era la prima regola; distrarsi non andava bene, no. E lui si era distratto. Un'altra volta. Sarebbe mai finita questa cosa? Lo zombie più vicino a lui scoprì i denti in un ringhio. Pensa, Leo, pensa. Pensare sotto pressione era una cosa che gli riusciva abbastanza; non tanto quanto ad Annabeth – Annabeth era un maledetto genio in qualunque situazione – e probabilmente neppure meglio di Piper, che trovava sempre soluzioni sorprendentemente semplici ed efficaci, per fuggire a morte certa. Però, gli riusciva discretamente, ecco. Meglio che ad altri. Scivolò verso destra, lungo la strada deserta che si faceva mano a mano sempre più gremita di non-morti con la bava alla bocca. Poi, scattò oltre il marciapiede, verso quello che aveva tutta l'aria di essere un parco pubblico in disuso. Correre era sempre l'idea migliore, quando ci si trovava a due centimetri dal naso di uno zombie. Figurarsi cinquanta nasi, con annesse e connesse cento mascelle pronte a scattare.
Appena fu al sicuro, fra le frasche del parchetto abbandonato, Leo rallentò suo malgrado: sentiva ancora il ringhiare basso dei non-più-tanto-cittadini di New York, ma muoversi velocemente significava fare meno attenzione e fare poca attenzione portava a spiacevoli incidenti – be’, sì, si era visto. Leo si sforzò di rimanere concentrato su un piano d'azione. Doveva assolutamente trovare un posto tranquillo, e possibilmente un punto di riferimento – la statua. La statua di piazza Termo. Da lì avrebbe saputo ritrovare il rifugio che avevano costruito lui e Piper. Decisamente, doveva muoversi verso est fino a quando non avesse ritrovato la statua – e delle provviste: in fondo, lui e Pip erano usciti proprio per quello, prima di venir divisi, quella mattina.
Oltre il parchetto, coperto da un cespuglio di rovi, c'era un muretto. E sopra il muretto di cemento, spuntavano delle sbarre verdi, appuntite in cima: oltre, si doveva estendere il parco di una villa. Leo aveva una certa esperienza in violazioni di domicilio ed effrazioni – con un balzo fu sull'albero vicino e poi, adagio, scivolò verso l'altro lato dello steccato e si lasciò cadere.
L'atterraggio non fu particolarmente piacevole, rotolò nelle spine e arrancò oltre, mentre gli zombie gli si facevano sempre più vicini. Ansimando, una caviglia dolorante e i graffi sulle braccia che bruciavano, Leo superò un altro enorme albero e s'inoltrò nella boscaglia. Da quanto poteva essere abbandonata, quella villa? Da prima, probabilmente, dell'Apocalisse. O forse... forse- i cespugli e la sterpaglia si fecero meno fitti, fino a diradarsi e a sparire del tutto, per lasciare spazio ad un roseto mano a mano sempre più curato. I ringhi e i versi degli zombie non si sentivano più, da lì, e, anzi, gli parve quasi di sentir canticchiare. Il che non era possibile, ovviamente. Chiunque avesse vissuto in quel parco, in un mondo pre-Apocalisse, doveva essere stato incredibilmente ricco – e i ricchi erano stati i primi e fra i pochi ad avere la possibilità di scappare.
O forse... o forse, Leo provò l'impulso di ridere, forse il parco non era affatto abbandonato: che idea folle. Non era possibile che qualcuno con tante risorse non se ne fosse andato; eppure, l'erba sembrava essere stata tagliata da poco e la siepe che costeggiava il roseto era stata potata di fresco e le finestre della villa non erano sbarrate. Erano spalancate. Soffocando lo stupore, Leo si chiese se potesse essere una trappola – certamente era una trappola, ma che altra scelta aveva?

 

 

*

 


C'era stato un tempo, in cui Leo era scappato. Quando sua mamma era morta e sua zia Rosa aveva cercato di dissuadere i servizi sociali dal costringerla a prenderlo in casa col lei. Quando quella squilibrata di Tia Era gli aveva messo in mano un serpente a sonagli. Quando la polizia non gli aveva creduto, dopo che aveva detto loro di aver visto Tia Era la sera dell’incendio – perché la signora era una così brava nonnina e perché aveva un’alibi di ferro, certo, si trovava nella casa di riposo Olympus Grammy’s House, a chilometri di distanza, e perché in definitiva era stato lui ad appiccare il fuoco (no, per la cronaca. Era un bambino iperattivo, non un bambino pericoloso. Poteva avere qualche problema con i suoi compagni delle elementari, tutt’al più, odiare la sua insegnate di matematica, ma non appiccava incendi a otto anni. Era stata la sua ex-babysitter e nessuno glielo avrebbe tolto dalla testa). E poi da ogni famiglia affidataria lo avesse accolto dopo che zia Rosa aveva tentato di esorcizzarlo convincendo definitivamente i sevizi sociali che non era il caso di lasciarlo nelle sue mani. D’accordo, magari non proprio da tutte-tutte. Da un paio era stato cacciato – e no, non aveva fatto scoppiare la caldaia dei Mason apposta per farsi riportare alla casa famiglia, davvero: quello era stato un incidente in buona fede. Avrebbe voluto rimanere coi Mason, invece – quella volta cercava soltanto di rendersi utile: quel Jake che avrebbe dovuto chiamare fratello gli stava sinceramente simpatico. Aveva una cotta imbarazzante per la sua vicina di casa pazza – una svalvolata che leggeva i tarocchi e aveva i capelli rosa Big Babol – ma era un tipo apposto, tutto sommato. Si era sentito terribilmente in colpa a saperlo in ospedale per via dell’accidentale esplosione della caldaia, sul serio.
E ancora: da ogni scuola, collegio, orfanotrofio avesse frequentato per più di tre giorni. Ed erano stati molti.
Aveva passato anni a scappare. E poi, un giorno, si era fermato.
Non ricordava precisamente il momento in cui aveva deciso che alla Scuola della Natura avrebbe anche potuto finire l’anno scolastico, ma ricordava con certezza l’istante in cui, correndo per i corridoi nella speranza di non farsi beccare dal coach Hedge era stato colpito da quel pensiero: aveva paura di essere beccato, perché essere beccato a tentare di staccare la porta della palestra per usare gli infissi come supporti per degli amplificatori – un bel progetto, davvero, se avesse avuto un po’ più di tempo sarebbe venuto su un gioiellino – significava essere espulsi. In direttissima. E a lui non sarebbe dovuto importare – quante volte era stato espulso o sospeso o più o meno gentilmente invitato a non presentare la propria iscrizione l’anno seguente? – eppure gli importava. Aveva rallentato, stupito. Perché gli sarebbe dovuto importare? 
Poi, la testa bionda e irrealisticamente pettinata di Jason Grace era spuntata da un aula, gli occhiali storti sul naso, e gli occhi azzurri carichi di disapprovazione: «Vieni» gli aveva detto. «Dobbiamo finire il tema per domani» come se avessero effettivamente studiato insieme per tutto il pomeriggio.
Il coach Hedge non ci aveva creduto neanche per una frazione di secondo, ma Jason Grace era un fottuto raccomandato, ecco cosa, e nessuno si sarebbe mai sognato che sapesse mentire così bene – tanto meno Leo: «Le assicuro, prof, che stavamo studiando. Ci stiamo portando avanti con i compiti della settimana prossima.»
«Sei impazzito?» gli aveva chiesto invece, quella notte, mentre cercava di mettersi la maglietta di Superman che Leo gli aveva regalato per Natale in una parodia riuscita male di una scena di Harry Potter e che lui aveva eletto a suo pigiama preferito – rinunciò a cercare di infilare la testa al posto del braccio per sbagliare clamorosamente il verso della t-shirt. Quando riuscì ad avere la meglio sull’indumento gli piantò gli occhi addosso e, scompigliandosi i capelli biondissimi: «Vuoi farti espellere?» gli domandò. Glielo aveva chiesto con rabbia, un certo risentimento, ma sembrava realmente interessato alla risposta, come se avesse preso in considerazione l’idea che Leo gli rispondesse che , voleva farsi espellere, esattamente.
Leo, seduto sul letto con in mano l’ultimo numero di L’incal si era preso qualche istante, per rispondere. E quando l’aveva fatto s’era scoperto assolutamente paurosamente sincero, nel dirgli: «E perché dovrei? Sono in camera col mio migliore amico, quando mi ricapita una cosa del genere?»
C’era stato un tempo in cui era scappato da ogni casa famiglia, orfanotrofio o college in cui zia Rosa riuscisse a spedirlo – poi aveva conosciuto Jason e si era sentito stranamente tranquillo, a casa per la prima volta dopo tanto tempo.
Tre settimane dopo, era scoppiata l’Apocalisse.

 

 

*

 


Leo soffocò un urlo. Il suo piede slittò sul pavimento come se questo fosse ricoperto di sapone e lui scivolò all’interno della casa. Con uno strillo sorpreso si aggrappò alle tende – davvero? Erano secoli che non vedeva delle tende – e, nel maldestro tentativo di riprendere l’equilibrio le trascinò via con sé. Più precisamente, come scoprirono le sue costole due secondi dopo, per planare contro un tavolo. «Ahia!» borbottò, massaggiandosi il fianco offeso, cercando di fare mente locale per capire cosa diavolo fosse successo. Fu allora che qualcosa lo colpì. E tutto divenne buio.


«Incredibile!» stava borbottando una voce, da qualche parte alla sua destra. «Incredibile! Di immortales!» e altri mormorii che non riuscì a cogliere. La testa gli pulsava. Con uno sforzo non indifferente, gli riuscì di mettere a fuoco la sala dove si trovava… no, non la sala. Il salone. Era un salone di quelli che dovevano essere stati familiari a Jason Sono Nato In Una Famiglia Di Ricchi Pazzi Grace – una di quelle stanze che si vedevano nei film, con il lampadario a gocce e il pavimento lucidissimo, come se qualcuno avesse passato pomeriggi interi a stenderci sopra copiose quantità di cera e… 
C'era una tipa, davanti a lui. Con uno strano vestito chiaramente rubato ad un cosplayer di Elyon Portrait, durante l'incoronazione della regina di Kandrakar. E, uhm. Apparentemente lo stava minacciando. Con una padella.
«Chi diamine è Elyon Potrait?!»
Ecco. Stava di nuovo parlando invece che pensare: «Le W.I.T.C.H., hai presente? Il fumetto? Elisabetta Gnone? Will, Irma...?»
«Ma che cavolo stai dicendo, scarabocchio?!»
Leo scosse la testa: «Non importa. Perché…» oh, Dei, era legato «Perché sono legato?»
«Perché!» strillò la tizia. Era molto più che una cosplayer di Elyon Potrait. Era una cosplayer bella – bellissima: aveva gli occhi a mandorla, la carnagione leggermente olivastra, i capelli come caramello fuso. Ed era furiosa. E isterica. Esattamente come tutte le ragazze per cui Leo era stato solito prendersi una cotta prima dell’Apocalisse: in una parola sola, inaccessibile. «Perché sei entrato in casa mia, piuttosto! Come hai fatto?! Mi hai sporcato il pavimento! Rovinato il tavolo!»
Attraverso lo strillare isterico della tipa e le fitte che sia il suo fianco sinistro che la sua testa gli mandavano a intervalli intermittenti, Leo si accorse che la psicopatica che l’aveva legato a una sedia e stava gesticolando con una padella, in preda ad un evidente attacco di nervi, profumava di cannella. Di male in peggio. Davvero. Leo non aveva mai conosciuto una ragazza sana di mente che avesse un profumo così buono – erano tutte cheerleader assetate di sangue, squilibrate reginette della scuola e in generale tizie molto, molto più in alto di lui, nella gerarchia scolastica-sociale tipo. 
«Un… un buon profumo?» sillabò la ragazza, voltandosi a guardarlo come se fosse lui quello fuori di testa. E, okay, magari il fatto che stesse ancora parlando, invece che pensare non aiutava a dare una buona impressione di sé. Prese un sospiro sconsolato: «Guarda» disse. «Non so chi tu sia, né perché credi che una padella potrebbe essere adatta contro degli zombie, ma facciamo così: prometto che se mi liberi me ne vado. Giuro. Subito. Sul serio. Non voglio problemi.»
«Se non avessi voluto problemi non saresti entrato a casa mia! È proprietà privata! Oh, ma io chiamo la polizia» e descrivendo un’ellissi perfetta con la padella fece per uscire dalla stanza a passo di marcia. A Leo fuggì una risata che poteva essere vagamente isterica. Davvero divertente, pensò: «La polizia? Sul serio? E chi pensi che ti risponderà?» 
Lo sguardo della ragazza si fece ancora più irritantemente superiore: «Sei stupido
Leo avrebbe volentieri risposto con un’altra risata, ma la tizia iniziava a farsi odiosa sul serio, così si limitò a lanciarle un sorrisetto diverto e sollevare le sopracciglia: «No, davvero: chiama pure la polizia.»
Probabilmente, avrebbe chiamato i suoi amici, invece – nessuno sopravviveva da solo all’Apocalisse – e visto che Leo era così fortunato, sempre, costantemente, in ogni istante della sua vita, i suoi compagni sarebbero stati grossi il doppio di Butch e cattivi quanto zia Rosa. Non ne sarebbe mai uscito vivo. 
La ragazza ebbe uno scatto nervoso, ma invece di uscire dalla stanza gli si avvicinò, brandendo pericolosamente la padella per il manico: «Perché la cosa ti fa ridere? Qual è il tuo problema?» ringhiò.
Leo si strinse nelle spalle, sforzandosi di non sembrare preoccupato dalla dannata padella: «Qual è il tuo, di problema» replicò «Perché non te ne sei andata come tutti ricchi normali?» 
Represse una smorfia quando si rese conto dell’ossimoro, nella speranza che la tizia non si dimostrasse eccessivamente attenta al tono velatamente accusatorio che non era riuscito a nascondere: non tutti avevano avuto questa possibilità. Molti avevano visto arrivare le orde di zombie e non avevano potuto fare nulla. Annabeth, ad esempio. E, sì, okay, lei aveva capito tutto già da un pezzo, per quanto poco comprensibile la situazione fosse tutt’ora – un’epidemia misteriosa, scatenata da chi sa che cosa, con un epicentro incalcolabile coi mezzi che avevano – ma aveva capito quello che c’era da capire ed era stata presa per pazza quando aveva cercato di avvisare la nuova famiglia del padre. Ma non parlava di persone come Annabeth (Annabeth era una specie a sé, sempre e comunque), pensava a persone come Butch o a Charlie o… o a Nyssa – che era stata morsa dal fratellino di sei anni, Harvey, e non per questo aveva smesso di pensare agli altri prima che a sé stessa, come aveva sempre fatto. Pensava a questo tipo di persone, che erano state costrette a rimanere inchiodate a terra, mentre i ricchi scappavano… non sapeva dove. Neanche gli importava. Ma i ricchi erano scappati e le persone normali erano rimaste a fare da snack ai morti viventi. Era un dato di fatto. Un dato di fatto che gli rivoltava lo stomaco dalla rabbia. E la squilibrata padella-munita era chiaramente il tipo di persona che era cresciuta credendo che possedere un elicottero privato fosse la norma, vista la casa che aveva e vista lei, per cui non c’era motivo per Leo di essere più cortese. Tanto più che l’aveva stordito, legato e lo stava minacciando con una pentola. Neppure impegnandosi avrebbe potuto essere più simile al suo ideale di ragazza, davvero – ammesso e non concesso che gli ideali di ragazza per loro stessa natura spezzassero cuori e calpestassero dignità.
La tizia aggrottò le sopracciglia: «Perché me ne sarei dovuta andare?» domandò e per un istante parve soltanto spaesata. Poi assottigliò le palpebre e tornò ad essere l’esemplare di glaciale super-modella di qualche secondo prima «Dove sarei dovuta andare?»
Leo sbatté le palpebre, confuso a sua volta: «Be’, non so… da qualche parte immagino. Non ho mai avuto una villa, io, che cosa ne posso sapere di dove si scappi dall’Apocalisse?»
«…Apocalisse?»
Leo sorrise apertamente, questa volta: oh, okay, facciamo tutti finta che non esistano i morti viventi, come no: «Ah-ah. Sì, l’Apocalisse. Gli zombie che invadono New York, il panico la gente che muore… tutte cose che per te evidentemente non sono un problema.»
La ragazza sbatté le palpebre. Strinse le labbra. Lo guardò come se fosse tentata di aprirgli in due il cranio. E poi si lasciò sfuggire quello che, con moltissima fantasia, poteva essere interpretato come un risolino. Per sua fortuna, Leo aveva un sacco di fantasia – fantasia da vendere. Annuì. L’Apocalisse? Quale Apocalisse? D’accordo, bella battuta, lo ammetteva.
«Sei scappato dal reparto igiene mentale dell’ospedale Esculapio?»
Lo prendeva in giro? «D’accordo, Elynor, come ti pare.»
«El… non mi chiamo Elynor. Sono Calipso.»
«Come il ballo caraibico?»
«Cosa?»
«Calipso. Come il ballo caraibico.»
La ragazza batte un piede per terra, irritata: «Sì, certo scarabocchio, come vuoi» sbottò. E si voltò verso l’uscita della stanza.
«Ehi!» Leo si agitò sulla sedia «Ehi, aspetta, liberami!»
«Scordatelo» replicò lei. «Vado a chiamare la polizia.»
Leo alzò gli occhi al cielo, esasperato: «Quale polizia?» forse avrebbe dovuto dare corda alla matta fino a quando non avesse più avuto l’aria di volerlo buttare in un inceneritore, ma era più forte di lui. Era insopportabile.
«La polizia» rispose lei scandendo con lentezza le parole «Sai, quel gruppo di persone in divisa che va in giro ad arrestare la gente che entra nelle case altrui..?»
«Ah-ah» replicò di nuovo Leo, agitandosi sul posto per farle il verso «Come no. Sai, quel gruppo di persone in divisa che non esiste più da, tipo, mesi?» un sospetto si stava facendo pian piano largo in lui. Era una cosa così assurda e insensata che Leo non riusciva a crederci, ma d’altra parte la casa era abitata e il giardino era curato e c’erano delle rose e questa Calippo, o quel che era, sembrava completamente fuori di testa, perciò: perché no? «Ehi» mormorò, storcendo il naso «Non sei seria, vero?»
«Certo che sono seria! Sono proprio seria, quando dico di volerti denunciare per violazione di domicilio!»
«Ma non puoi!» esclamò lui a voce più alta, sgranando gli occhi. «Cioè, sì, certo, puoi, accomodati pure, ma non ha senso. I morti viventi, Reggaeton! Ci sono delle persone morte incastrate fra le sbarre del tuo cancello e tu non te ne sei accorta?! Come fai a non sapere che è in corso l’Apocalisse zombie?!» era possibile? Leo ne dubitava fortemente, ma d’altra parte Merengue si vestiva come una dea greca e aveva – d’accordo, aveva avuto un tavolo di cristallo, prima lui lo facesse schiantare contro la parete. Era evidente che non ci stava con la testa.
«Tu sei pazzo» esclamò lei, per tutta risposta, allargando le braccia come ad evidenziare qualcosa di definitivamente ovvio «Completamente pazzo. Sei scappato sul serio dall’ospedale Esculapio?» aggiunse assottigliando lo sguardo.
Oh, a quel paese. Leo non ne poteva più: «Vai a vedere» la sfidò.
Calipso parve sgonfiarsi: «Oh. Oh! Puoi scommetterci che vado vedere!» e uscì dalla stanza a passo di marcia. «Zombie, tsz!» la sentì borbottare.
Leo sospirò: «Fai pure con calma» urlò. «Tanto non mi muovo da qui» aggiunse, torcendo un braccio in un ultimo tentativo di liberarsi.


Come se ne era andata, Clipso – Clarisse? Cosette? – tornò nella stanza. Non era più rossa in viso, però, e non aveva più l’espressione di una che voleva staccargli testa per metterla su un piatto d’argento. Era pallida come un lenzuolo e aveva gli occhi sgranati.

Leo gonfiò le guance. Davvero, stentava a crederci: «Come diavolo hai fatto a non accorgertene?» le chiese. Calipso sobbalzò e lo fissò a lungo, come se si fosse ricordata solo in quel momento di avere un tizio legato in salotto: «Non esco molto» ammise con una voce sottile che mal si sposava con l’idea che si era fatto di lei nei minuti precedenti. Non che gli importasse, chiaramente. 
«Sei un’eremita» tradusse, scuotendo la testa.
«Non… non è vero» ringhiò lei, ma non sembrava davvero interessata a ingaggiare nuovamente una battaglia verbale con lui. Si lasciò cadere stancamente sull’enorme divano che troneggiava al centro della stanza. Leo sbatté le palpebre. No, no: non poteva cominciare a ignorarlo adesso. Doveva slegarlo e lasciarlo andare, perché lui aveva da fare, seriamente. Doveva ritrovare Pip e tornare al rifugio e farsi sgridare da Annie per la sua distrazione. A proposito di distrazione… «Scusa, eh, ma la spesa? Come cavolo hai fatto a non accorgerti degli zombie, eddai!»
Calipso lo fulminò con lo sguardo, ma almeno si rimise in piedi e gli si avvicinò con fare marziale. Decisamente, irritarla era un vantaggio.
«Non faccio la spesa, okay?»
«Non mangi?»
«Sono vegana. Ho un orto. So cucinare!»
Una vocina nella sua testa gli disse che si sarebbe trovata incredibilmente bene con Piper: «E ti vesti coi le cose che i tuoi antenati dell’Antica Grecia reputavano fuori moda?»
La sberla sulla nuca che gli arrivò era più forte di quello che si aspettava – le mani di Calipso non erano le mani di una cheerleader. Erano quelle di una ragazza abituata a lavorare la terra e lavare i pavimenti e: «Mi piace cucire» replicò «E mi disegno gli abiti.»
«Ah, be’» chi era lui per criticare i gusti altrui? 
«Quindi, niente polizia?» s’informò la ragazza. Sembrava più turbata dalla mancanza di forze dell’ordine che dall’idea che ci fossero dei maledetti zombie tutto intorno al suo terreno.
«Niente polizia. Non serviva a molto. L’esercito… ma mi sembra esagerato chiamare l’esercito per me, Rapunzel.»
Calipso parve divertita, ma solo per un istante: «Gli zombie non giustificano il fatto che tu mi sia entrato in casa, comunque» lo rimproverò.
«Ero circondato, Raggio di Sole!»
«Sembrano lenti» commentò lei, alzando le sopracciglia. E poi aggiunse: «Calipso. Mi chiamo Calipso, non Raggio di Sole.»
Leo fece per ribattere, ma… erano lenti. Quello era un dato di fatto. Sbuffò: «Mi sono distratto, okay? Capita. Guarda quanto poco attenta sei tu.»
Calipso fece per colpirlo di nuovo, ma poi decise diversamente: «Voglio che tu te ne vada» disse, con rinnovata energia.
Leo non si sentì ferito. Era stupido, sentirsi feriti. Calipso era… una sconosciuta violenta, tutto qua. Una sconosciuta carina e violenta, tutt’al più. Non era simpatica. E aveva tutte le ragioni del mondo per odiarlo, dopo che le aveva dato una notizia del genere: «Devi liberarmi, Raggio di Sole» replicò, con più irritazione di quanta avrebbe voluto nella voce.
«Non chiamarmi così» Calipso fece spallucce «Giurami che poi te ne vai» replicò, serissima.
Leo alzò gli occhi al cielo: «Promesso.»
Lei sembrò convinta, perché annuì e… uscì dalla stanza.
«Cosa… no! Raggio di Sole! Torna qui!»
La voce della tizia arrivò ovattata alle orecchie di Leo: «Non mi chiamo Raggio di Sole!»
«Calipso!»


«Calipso!» strillò Leo, per l’ennesima volta. L’idea di trascinarsi via con la sedia l’aveva sfiorato e abbandonato immediatamente dopo: andare in giro legato, con un gruppo di morti viventi pronti a mangiarti il cervello non sembrava una buona idea neppure a lui, che era il re delle pessime idee. «Calipso!» urlò ancora.
«Smettila» lo riprese lei, entrando di nuovo nella stanza. Aveva in braccio un cesto dall’aria pesante. Lo lasciò sul pavimento, non lontano dai piedi di Leo, che si sporse per sbirciarci dentro: c’erano patate, carote, pomodori e una gran quantità d’insalata: «Quello è del pane?» mormorò allibito, rifiutandosi di dare ascolto al brontolio del proprio stomaco.
«C’è una macina che mio padre ha fatto ristrutturare quand’ero bambina, dietro la casa. Io e le mie sorelle giocavamo a fare la farina» rispose lei, alle sue spalle. Leo sentì le corde allentarsi e poi cadere a terra con un tonfo leggero: «Prendi quella roba e vattene.»
Leo sbatté le palpebre: «Perché?» domandò dopo qualche istante di silenzio, alzandosi. Le gambe gli formicolavano. Calipso sembrò imbarazzata e Leo si disse che, forse, dopo tutto, poteva anche darsi che fosse il suo modo di chiedergli scusa per averlo tenuto legato ad una sedia per tutto quel tempo: «Okay. Grazie.»
Camminarono insieme per il giardino. Calipso gli spiegò come fare da lì ad arrivare a piazza Termo e Leo le indicò il punto da cui era entrato. La guardò fissare in quella direzione con la stessa aria che hanno le eroine del cinema quando osservano il punto da cui arriverà l’esercito che sbaraglieranno da sole: «C’è un albero da potare nel giardinetti pubblici» le suggerì.
Calipso annuì, portandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
«Ma non farti mordere» continuò Leo, gesticolando. «Gli zombie adorano la gente viva, ma tu non vuoi uno zombie come animale da compagnia. Sul serio, Raggio di Sole, non ti piacerebbe: puzzano
Calipso si lasciò scappare un sorrisetto, immediatamente sostituito da una smorfia supponente. Oh, sì, era pazza di lui, come no: «Guarda che lo so. Cosa credi, che non abbia mai visto un film di Romero in vita mia?»
Woah. I film di Romero. Pip non li aveva visti. Annabeth, ch’eppure era una cinofila appassionata, non li aveva visti. Neppure Jason si era dimostrato particolarmente interessato alla sua idea geniale di farne una maratona, prima che l’Apocalisse scoppiasse e le priorità di Leo cambiassero – prima che, be’, prima che Jason morisse. Leo cercò di non pensarci: «Be’. Non sembri il tipo» replicò, ma nonostante si aspettasse una rappresaglia, riuscì a scansare la spinta di Calipso solo per un soffio.
Si fermarono davanti al cancello della proprietà della ragazza dopo quasi mezz’ora: «Caspita» fischiò Leo, «È grande questo posto.» Non che non lo avesse già capito, ma improvvisamente sentiva il bisogno di riempire il silenzio che si era creato fra loro.
«Sì» rispose lei, senza guardarlo.
«Sai, potresti, ah… uscire, qualche volta. Il mondo è cambiato parecchio ultimamente.»
«Non credo che mi piacerebbe molto.»
«Ma che dici! Piazza Termo è stupenda, ora che tutti i negozi sono chiusi e le finestre sbarrate.»
Calipso si lasciò sfuggire un verso incredulo: «Certo» rispose.
«È molto romantica» incassò il pugnetto che Calipso gli tirò sulla spalla e alzò un angolo della bocca: «Allora… ci vediamo.»
«Non credo.»
Leo si bloccò: «Non posso tornare a trovarti? Certo, solo se la tua torta di bietole è buona come dici…»
Calipso sembrò a disagio: «Non tornerai.»
«Perché non sono il benvenuto?» rise Leo, ingoiando la sensazione di inadeguatezza totalmente inopportuna. Era solo una battuta. Ovviamente non sarebbe tornato. Perché avrebbe dovuto farlo? Calipso era una pazza maniaca. Non importava che lei stesse al gioco o meno.
«Perché non torna mai nessuno» rispose lei, evitando il suo sguardo. 
Oh. Oh. Leo si maledisse. La situazione iniziava a farsi sdolcinata e stupidamente sentimentale e lui non era capace a- «Non hai mai assaggiato le mie leggendarie tortillas vegetariane. Le donne svengono al solo odore. Ti devo passare assolutamente la ricetta, per cui…»
Calipso aprì il cancello senza incrociare il suo sguardo e lo spinse fuori dal giardino. 
«Tornerò» ripeté Leo. 
«Certo, come no» replicò lei, ma, nonostante i capelli che le coprivano gran parte del viso, gli parve che sorridesse.
Mentre si allontanava, Leo si sentì leggero come non lo era da tempo.

  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Anonimadelirante