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Autore: Urban BlackWolf    24/10/2018    2 recensioni
Può un falco forzare se stesso e rallentare per mettere in discussione le scelte fatte nonostante la sua natura lo costringa alla velocità, alla determinazione nel raggiungimento dell’obbiettivo di una vendetta?
E può una gru riuscire a proteggere con l’amore e la cieca fedeltà tutto ciò nel quale crede fermamente?
Possono due esseri tanto diversi fondersi in uno per tentare di abbattere le barriere che li separano pur solcando lo stesso cielo?
Ungheria 1950: Michiru, figlia della ricca e storica Buda, dove tutto è cultura e tradizione, lacerata tra il dovere ed il volere, dalla parte opposta di un Danubio che scorre lento e svogliato, Haruka figlia di Pest, che guarda al futuro correndo tra i vicoli dei distretti operai delle fabbriche che l’hanno vista crescere forte ed orgogliosa.
Una serie di eventi le porteranno ad incontrarsi, a piacersi, ad amarsi per poi perdersi e ritrovarsi nuovamente, a fronteggiarsi e forse anche a cambiare se stesse.
Genere: Romantico, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Usagi/Bunny | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXIV

 

 

Amara verità

Pest – Distretto VII, Distaccamento della Polizia Tributaria

 

Sentì formicolare le dita della mano destra, le uniche che riuscisse ancora a muovere, le uniche che non avessero ancora ricevuto qualche pestone. Inalando un po’ più di ossigeno, avvertì l’ennesima stilettata al costato ed incurvando le spalle tornò a lasciarsi mordere la pelle dei polsi dalle manette che la stavano tenendo relegata su una sedia di ferro della sede della Polizia Tributaria. Quanto era passato da quando erano riusciti ad arrestarla? Una giornata? O forse due?

Aveva presto perso il contatto con il mondo esterno e la cognizione del tempo che lo governa, non soltanto perché chiusa in un ambiente buio, privo di finestre, ma anche e soprattutto per una brutalità fisica che come donna, in tutta onestà non si sarebbe mai aspettata di ricevere. Così tra una perdita di coscienza e l’altra, erano passate le ore, si erano susseguite le guardie che l’avevano interrogata, così come le manganellate che le si erano abbattute sulle spalle e nello sterno. Trascinata da una stanza all’altra per corridoi freddi e deserti, come una discesa dantesca verso i gironi più nefasti del personale inferno che quella gente stava scrivendo per lei, Haruka Tenoh, rea di essere evasa dalla casa circondariale della Luce, era diventata l’inconsapevole chiave di volta di una vicenda più grande di lei e non importava se fosse una ragazza poco più che ventenne, anzi, il suo sesso sembrava quasi irrilevante per degli uomini che avevano come solo fine il farsi dire dove fossero scappate le figlie dell’ex Generale Aino.

Non importava a nessuno che fosse una donna, anche se forse per alcuni punti di vista poteva dirsi un bene, perché il suo vestire al maschile aveva portato sdegno e non la lussuria che in certi casi porta alla violenza sessuale. Guardata come una bestia rara o chissà quale scherzo della natura, si era almeno risparmiata visitine singole o di gruppo, preludio a disgustosi stupri.

“Dove sono le sorelle Aino?!” Le urlò contro il solito galoppino del Commissario, che semiseduto sul tavolo davanti a lei con una cartellina fra le mani, aveva delegato all’altro di porle l’ennesimo giro di domande.

Scuotendo piano la testa la ragazza tornò ad abbassarla cercando di non dare a vedere quanto tutto quell’urlare iniziasse a destabilizzarle i nervi. Continuamente, ad ogni colloquio, con qualunque persona cercasse d’interagire, le urlavano contro e se all’inizio questa specie di prevaricazione psicologica l’aveva fatta sorridere, adesso, dopo tutte le botte prese, il male sordo che ad ondate le invadeva muscoli, ossa e carne, aveva sulla sua psiche lo stesso potere di un gesso sulla lavagna.

O apa, aiutami, pregò facendo cozzare i denti gli uni contro gli altri.

“Sicuramente le conoscete come Tzukino, non è così signorina Tenoh?” Sottolineò il Commissario continuando con inquietante tranquillità a leggere stralci di documenti.

“Vi ho già detto che non so nulla. Non sapevo che fossero le figlie di Ferenc Aino …- in questo mentì. - … e non sono evasa con loro.” Cercando di ridare alla voce una timbratura più ferma, se la schiarì con un deciso colpo di gola.

“Non sapevo neanche che fossero scappate.”

“L’agente Thöryn afferma il contrario.”

“L’agente Thöryn ha frainteso!” Una frazione di secondo ed al galoppino partì la mano che andò a colpirla sull’orecchio sinistro.

Alzando un braccio il Commissario intimò al collega di fermarsi terminando la rilettura dei fogli per voltarsi finalmente verso di lei. Sporgendosi in avanti la fissò con fare sicuro. Fino a quel momento era l’unico che ancora non si era sporcato le mani.

“In che senso... signorina?”

Faticosamente Haruka ripeté la solita pappardella, ovvero che aveva dovuto mettere in funzione un furgoncino per permettere alle guardie della casa della luce di portare in ospedale un agente ferito, che guidando il mezzo all’aperto si era accorta che il capo squadra Shiry era stata tramortita e che il cancello di servizio fosse parzialmente aperto.

“Se mi avesse fatto spiegare prima di spararmi contro, non saremmo state costrette a darci alla fuga.”

“Voi e la signorina Kōtei…”

“Io e la signorina Kōtei.”

Quanto era stanca, le si chiudevano gli occhi, ma le uniche pause da quell’assurdo supplizio fatto di domande e risposte, sempre uguali, ripetute all’infinito, erano quando le percosse la facevano svenire. Piccole parentesi d’incoscienza benedetta alle quali in genere veniva sottratta con l’ausilio non certo piacevole di una secchiata d’acqua gelata. Quella di non permetterle di dormire era un’altra subdola bastardata per farla crollare.

“Ci risulta che la guardia ferita sia vostra sorella maggiore, certa… - controllò al volo nei fogli. - ... Johanna Tenoh. E questo potrebbe anche avvallare il vostro racconto o portare alla suddetta un’accusa di favoreggiamento.”

“Johanna non centra niente!” Fulminò.

“Questo lo appureranno gli agenti dell’ÁHV. Siete al corrente del trascorso attivista della signorina Michiru Kōtei?”

La bionda tornò a scuotere la testa. “Mi ha solo detto che è stata la causa del suo arresto, ma altro non so. Ve lo assicuro.”

“E che sia la figlia di un ricco banchiere?” Interruppe l’altro.

“In una prigione cosa vuole che importi?”

Ritirando su la schiena, il Commissario scorse il sottile rivolo di sangue ormai coagulato far capolino dalla fronte, proprio all'attaccatura dei capelli. “Importa, perché vede signorina Tenoh, come nella vita, in una prigione è proprio il denaro ha fare la differenza e se se ne possiede molto, si potrebbe anche pensare di usarlo per evadere e portare con se le figlie di un nemico del popolo ungherese.”

Ad Haruka sembrò utopia, ma in realtà la trama che quell’uomo stava cercando di scrivere per lei e le altre era la più ovvia di tutte. Michiru le aveva detto di aver fatto parte dello schieramento del Generale Aino e visto l’amicizia con le sue figlie, era naturale pensare di far uso di una piccola parte del patrimonio di famiglia per scappare e portare con se le due biondine. Già e lei? Haruka Tenoh, figlia di Pest, operaio metalmeccanico, studentessa d’ingegneria, in tutto quell’abbacinante gioco alla Mata Hari, cosa poteva entrarci? Era forse solo la quarta ruota di un carro che senza l’ausilio di un redivivo motore a scoppio non avrebbe fatto muovere le restanti tre?

“Signorina, ci avete detto che siete riuscita a rimettere in funzione un mezzo della prigione e questo ci è stato confermato anche dalla Direttrice Setsuna Meioh.”

“Allora se sapete già tutto, perché continuate a farmi le stesse domande?”

“Perché confermare una singola azione non vuol dire ammettere la totale verità!”

Stirando le labbra ferite quanto basta per riaprirne i tagli, Haruka se lo guardò quasi divertita. “Credete davvero che la signorina Kōtei abbia usato i soldi di suo padre per pagare il mio lavoro su un furgone che avrebbe permesso a lei e alle Aino di evadere?”

"E a voi..."

“Vi ripeto che non era mia intenzione fuggire. Ho usato le mie competenze da meccanico solamemte per cercare di salvare la vita di mia sorella, cosa che dalle mie parti vale molto di più di un mazzetto di banconote.”

Muovendo in aria il braccio lui ammise che poteva benissimo trattarsi di una fortuita coincidenza.

Fortuita coincidenza? Pensò la bionda abbandonando nuovamente il collo mentre con la memoria volava a qualche ora prima che tutto quel casino deflagrasse peggio di una granata in una mensa. Johanna che le sorrideva mentre le aggiustava la giacca e lei a raccomandarle di stare attenta durante la ronda, come se si sentisse qualcosa dentro, come se quello spicchio di pura serenità tra sorelle potesse essere l’ultimo.

“Non ho ricevuto denaro dalla signorina Kōtei. Non ho aggiustato il furgone per mettere in pratica un piano di evasione e non so assolutamente nulla delle sorelle Tzukino o come diavolo si chiamano.”

Allora il galoppino, che tanto sembrava provar gusto nell’umiliarla, tornò incalzante. “Visto che eravate compagne di cella forse non vi ha promesso del denaro, forse è altro che una donna come voi avrebbe voluto ricevere in cambio di un favore.”

Serrando la mascella Haruka tornò il Turul di Pest e lo fece inchiodando addosso a quel mezzo servo di partito due smeraldi traboccanti d'improvvisa ira. “Scusate..., credo di non aver afferrato bene la vostra allusione.”

“Ma andiamo, l’avete afferrata benissimo altrimenti non mi guardereste così… signorina.” E quel titolo di cortesia sembrò improvvisamente lordato.

“Non permettetevi.” Urlò lei trattenendosi a stento.

“Allora avevo visto giusto e ditemi, il pagamento c’è già stato? E per la signorina Kōtei siete stata solo il capriccio di una trasgressione o la conferma di una perversione?”

E l’otre si colmò, Haruka abbandonò la strada della sopravvivenza per lanciarsi a capo fitto in quella della follia imboccando così il burrone del non ritorno. Riuscendo ad alzarsi dalla sedia ed usando la madre dell’uomo per apostrofarne mansioni di strada, gli inveì contro fino a quando un manganello uscito chissà da dove non le si abbatté sul collo tramortendola all'istante facendola ripiombare pesantemente sulla seduta.

“Che grandissima bastarda questa invertita!” Grufolò borioso pronto a colpire ancora.

“Basta così! Ci serve viva. Portatela di là. - Disse il Commissario arpionandole i capelli per guardarla. - Se non vorrete collaborare con noi signorina Tenoh, allora lo farete con ÁHV, alla casa della giustizia.”

 

 

Fót – Sobborgo nord orientale di Budapest, Agosto 1940

 

Un tuono in lontananza e Johanna smise di guardare le trote seminascoste tra il pietrame del torrente per puntare i suoi grandi occhi grigio acciaio all’ammasso temporalesco che stava formandosi a ponente. Sorrise, perché quel tempo le piaceva, perchè era capace d'indurle forza, perché avrebbe spazzato via in pochi minuti il caldo soffocante di una stagione torrida, dando alla terra un’inconfondibile odore di bagnato. Un altro tuono e decise di alzarsi per iniziare ad incamminarsi verso il villaggio. Se si fosse bagnata ancora questa volta Jànos gliele avrebbe suonate di santa ragione. Pochi balzelli sul greto erboso per iniziare a corricchiare sullo sterrato.

Arrivata al bivio per il paese, vide una bambina inginocchiata davanti alla grande vasca in pietra della fonte dov’erano solite abbeverarsi le mucche. La riconobbe subito. Capelli corti, biondi, corporatura esile, carnagione abbronzata cinta da una canottiera bianca e da un paio di pantaloncini blu scuro. Rallentando aggrottò la fronte.

“Haruka.” Chiamò vedendola irrigidire la schiena.

“Cosa ci fai qui?! Hai sentito i tuoni? Tra non molto pioverà.”

“Ho sentito.” Rispose continuando a bagnarsi il viso.

“E allora? Dai muoviti o prenderemo l’acqua.”

Ma la sorella non lo fece. Poggiandosi con gli avambracci al bordo della vasca sbuffò sonoramente iniziando a lagnarsi.

“E’ un altro il mio problema adesso.”

“E cioè?”

Voltandosi la più piccola raddrizzò tutta la postura mostrando con una certa dose d’orgoglio mal celato, la tumefazione che stava iniziando a scurirle parte del viso.

“O Signore. - Andandole vicino Johanna le alzò il mento studiandone i lineamenti. - Chi è stato?!”

Stizzita l’altra si scansò guardando in terra. “Nessuno! Sono caduta!”

“Sopra un pugno, Ruka?!”

“Spiritosa…” Calciando un sasso si piantò le mani nelle tasche gonfiando le guance.

“Allora?”

“Il figlio del mugnaio.”

“Che bastardo! E’ più grande di me!”

“E ce le ha prese!” Urlò cacciando fuori due pugnetti minacciosi.

“Si, ma vedo che le hai prese anche tu e nostra madre ti darà il resto, lo sai.”

“Mmmm… Le dirò che sono caduta.”

“Ancora?! Perché ogni volta che torni a casa dopo aver fatto a botte tiri fuori questa scusa? La mamma non ci casca mai. - Sedendosi sul bordo della fonte incrociò le braccia al petto. - Mi spieghi almeno il perché ti sei battuta con un sedicenne?”

“Perché è un cretino, ecco perché!”

“Questo lo so. Non brilla per ingegno e simpatia, ma arrivare a battersi…”

“L’ho fatto per te! Per difendere il tuo onore!” Disse tenendo serrate le mani lungo i fianchi come una piccola guerriera d’altri tempi.

Alzando le sopracciglia Johanna iniziò a capire. “O Ruka. Lo sai come sono fatti i ragazzi di paese, no?!”

“Si è permesso di dire che vi siete incontrati nel deposito del grano e…” Lasciando cadere la frase iniziò a grattarsi il collo arrossendo un poco.

“E… ?”

“Be si, lo sai.”

“Ci siamo baciati? O peggio?”

“Si.” Masticò sentendo la rabbia tornare.

In effetti quell’incontro c’era stato e la ricerca da parte di lui di un approccio non propriamente amichevole, anche, ma forte di una parlantina invidiabile Johanna era riuscita a tenerlo a bada e a togliersi abbastanza agilmente da quel potenziale pericolo.

“Mamma ci ripete sempre di stare attente ai ragazzi di quell’età, perché alle volte da quel punto di vista sono parecchio esuberanti. Perciò stai tranquilla Ruka.”

“Io sono tranquilla e lui che va a dire in giro quelle cose.”

Tirando su con le spalle Johanna se la rise. “E tu lascialo fare. Presto torneremo a Budapest, che vuoi che me ne importi se un campagnolo qualunque si riempie la bocca con allusioni di quel tipo.”

“Importa a me!” Abbaiò spostando la rabbia dal ragazzotto alla sorella.

“E a me importa che tu non ti faccia male! Mi fa piacere che il mio Turul personale voglia proteggere il mio onore, ma guarda anche chi sta provando ad infangarlo. - Improvvisamente seria si alzò arpionandole la fronte con la destra scuotendogliela un paio di volte. - Non ne vale la pena con gente così. Dai, muoviamoci. Lungo la strada cercherò d’inventarmi una scusa degna di questo nome.”

“Non capisco.”

Uscendo dallo spiazzo in terra battuta che perimetrava la fonte, presero la strada mentre le prime enormi gocce iniziavano a cadere. “Vedi, anche se gli avessi cambiato i connotati a suon di pugni, lui avrebbe comunque continuato a sparlare di me, perché è un cretino ignorante. Haruka non abbassarti al suo livello, tu vali molto di più per gettar bile su cause perse in partenza.”

Inchiodandosi la sorellina se la guardò storta. “Io continuerò sempre a difendere l’onore delle persone che amo, Jo!”

L’altra l’imito sospirando. In fin dei conti quell’atteggiamento protettivo le faceva piacere, perché voleva dire che teneva a lei.

“Devi imparare l'arte della diplomazia, altrimenti capiterà che ce le prenderai Ruka mia.”

 

 

Sentendo la porta aprirsi e la corrente investirla in pieno, cercò di aprire gli occhi ritrovandosi a fissare le suole delle scarpe di un uomo. Solo allora si rese conto di essere rannicchiata su di un fianco, sulle fredde mattonelle di una stanza illuminata dal neon di una lampada, con ancora i polsi legati dietro le spalle.

“Non v’immaginate neanche quanto questa scena mi esalti, signorina Tenoh.”

La voce fastidiosa dell’agente Thöryn le arrivò come un poderoso senso di nausea. Ancora quell’uomo e questa volta sapeva di non poter fuggire o difendersi. Questa volta era alla sua mercé.

Lo zigomo le faceva un gran male, ma riuscì ugualmente a muovere la mascella per parlare. “Ancora sulla mia strada agente? Sta diventando una piacevole abitudine.”

Cercando di spostarsi meglio sulla spalla destra, inarcò il collo vedendolo afferrare la sedia al centro della stanza per poi sedervi di peso.

“Devo dire di essere d’accordo con voi, almeno questa volta.” Schernì accavallando le gambe.

“Cosa volete da me?” Andando subito al dunque, sospirò abbandonando nuovamente la testa sul piastrellato gelato.

“Da voi nulla. Era dalla vostra compagna di cela che mi aspettavo qualcosa.”

A quelle parole la bionda tornò vigile continuando ad ascoltare.

“Vedete, avevo in mente un piano per la pensione, un piano che mi avrebbe portato tanti di quei soldi da permettermi il ritiro anticipato sulle sponde del Don. Errore mio non essermi preoccupato di voi, Haruka. Come avrei potuto immaginarvi amica e complice di una ragazza come quella. Voi che siete, bè, quello che siete. Non potrebbero esserci due anime tanto diverse al mondo.”

“Spiegatevi.” Incalzò lei sempre più sul chi vive.

“Ma si! Vi dirò tutto. Tanto tra non molto verrete trasferita e di voi non rimarrà che un semplice ricordo su una scheda. - Alzandosi le si accovacciò davanti. - Avevo pensato di rapire la vostra bella compagna di sventura per chiedere un lauto riscatto a suo padre. Avevo già sbattuto sulla faccia di quell’altezzosa femmina che dirige la casa della luce, l’ordine di scarcerazione. Falso naturalmente. Ma poi…” Tornando eretto si afferrò i fianchi alzando il cappotto come un grottesco pipistrello.

“Poi vi siete messa in mezzo voi con quell’assurda evasione!”

“Quante volte ancora dovrò ripetervelo!? Non stavamo cercando di evadere! E' stata vostra la colpa! E lo sapete benissimo!"

“Poco male! Sta di fatto che il mio piano è andato all’aria ed il miraggio di spillare al signor Kaioh soldi a sufficienza per vivere da nababbo, anche!”

Haruka non avvertì neanche il pestone che la raggiunse ad una coscia. Kaioh. Aveva detto proprio Kaioh?!

Riafferrando ossigeno, tornò a guardare Thöryn cercando conferme.

“Kaioh?!”

“Si. Alexander Kaioh. E’ da quando la sua unica figlia è stata arrestata che sta facendo di tutto per farla scarcerare. Ho perso il conto delle porte al quale ha bussato o delle ruote che ha cercato di ungere.”

“Michiru è… Il padre di Michiru è…” Si rese conto di stare balbettando mentre il cuore iniziava a correre.

“... E’ il banchiere Alexander Kaioh. Si, certo. - Muovendo una mano per l’aria ricordò la scheda della ragazza. - E’ stata registrata con il cognome Kōtei. Bè, non mi meraviglia vista la posizione politicamente poco invidiabile che quel banchiere sta affrontando per colpa della figlia. Una dissidente alle dipendenze di Ferenc Aino. Al Regime non è piaciuta affatto questa storia, ma sono sicuro che l’ammontare spropositato dei beni della loro famiglia toglieranno presto dagli impicci quella ragazzina.”

Non m’importa del cognome che hai scelto di adottare, per me sei e rimarrai sempre Michi. Di tutto il resto non conta, te lo assicuro.”

Dici sul serio?”

“… Si.”

La figlia dell’uomo responsabile della morte del suo apa.

Sentendosi la testa scoppiare, Haruka cercò di mettersi seduta. Puntando la fronte a terra, fece leva montando rabbia.

“Siete un bugiardo!

“Io? E perché mai dovrei mentirvi?”

Ed era vero. Quel viscido homunculus creato dalla smania di emergere da una condizione d'inadeguatezza, non aveva assolutamente alcun motivo per inventarsi una storia tanto assurda.

“Voglio uscire! - Forzando sul quadricipite destro iniziò a sollevarsi. - Toglietevi dai piedi!”

Arretrando il collo divertito, l'agente vide in quell’improvvisa intolleranza la scusa per ripagare quella bionda della cicatrice che gli campeggiava sulla guancia. Arpionandole una spalla stirò le labbra in una smorfia sghemba.

"Se fossi in voi cercherei di darmi una calmata e di essere un pò più ... diplomatica, signorina."

"Al diavolo la diplomazia! Fatemi uscire di qui!"

“Mi rendete tutto troppo facile.” Ilare serrò il pugno destro alzandolo a mezz’aria verso il viso della donna.

 

 

Un gesto generoso

 

La macchina procedeva senza rapidità. Le strade ancora semi bloccate dalla neve non permettevano di andare oltre la seconda marcia. Una berlina nera con a bordo quattro agenti; uno alla guida, uno sul lato passeggero e due dietro, sul grande sedile di pelle, a far da guardiani a lei, ammanettata ed incappucciata, ancora mezza tramortita per il brutale pestaggio che Thöryn le aveva riservato. Già, lui non era stato aggiunto alla scorta, forse perché ancora adirato per la notizia arrivata al commissariato della tributaria un paio d’ore dopo la conversazione avuta con Tenoh. Un ordine ben preciso, che lui aveva accolto male, per non dire malissimo, additando gli stessi vertici della polizia di essere corrotti, di guardare oltre la giustizia che avrebbero dovuto rappresentare. Pensieri stridenti ed ipocriti dati dallo stesso agente che giorni prima aveva imbastito l’affare Michiru Kaioh fin quasi a vederne il successo.

Un ordine che aveva spinto Haruka Tenoh, ferita, bloccata e con un sacco in testa, dentro l’auto ad una tale velocità che lui quasi non se n’era reso conto. Una ragazza convinta di stare per entrare nel ventre molle della casa della giustizia da dove con ogni probabilità non ne sarebbe più uscita viva.

L’automezzo arrivò a destinazione circa venti minuti dopo. Sotto un cielo livido, si fermò davanti al grande edificio non spegnendo neanche il motore. Ad attenderlo sul marciapiede, un uomo alto, ben piazzato, dagli occhi blu. Il viso stanco, la mascella serrata, la postura ritta come quella di una sentinella.

Vide uscire due di loro; quelli seduti dietro. Li osservò. Mettevano i brividi. Eppure erano uomini come lui, magari anche di caratura inferiore, persone che se incontrate senza quei cappotti scuri dalle mostrine lucide, avrebbero fatto sorridere per la loro pochezza. Ma sta di fatto che al pari degli agenti della polizia segreta, anche quelli della tributaria aveva ormai acquisito una gran brutta nomea.

Senza far trasparire alcuna emozione, uno di questi afferrò la ragazza per un braccio trascinandola sul bordo dal sedile ed una volta liberatale i polsi, la issò attendendo l'aiuto del collega. Poi afferrando le ascelle della malcapitata percorsero i pochi passi che li dividevano dal cancello.

“Ecco la ragazza.” Disse uno liberandola dal cappuccio che proteggeva alla vista del mondo lo scempio che erano riusciti a farle al viso.

L’uomo che aspettava non disse nulla, anche se nel vedere quelle tumefazioni che le stavano impedendo di aprire addirittura la palpebra sinistra, provò un umano senso di pena. Avvertendo la luce del primo pomeriggio, lei si ritrasse come a volersi proteggere l’occhio ancora sano e voltando il viso lo abbassò di colpo. In quella sorta di delirio che era diventata la sua incostante incoscienza, Haruka si sentì i polsi liberi ed il corpo non più sorretto dai due, improvvisamente molle.

“La consegna è stata effettuata. Buona serata.” E facendo all’unisono dietrofront, tornarono verso la berlina salendovi e sbattendone rumorosamente gli sportelli si allontanarono definitivamente nel biancore dal secondo distretto.

Afferrata al volo, la bionda guardò l’uomo, ma non lo riconobbe. Vinta da un giramento di testa e da un lancinante dolore fisico, sentendo le orecchie fischiare andò giù come un piombo.

 

 

Erano stati due giorni terrificanti che mai avrebbe immaginato di dover passare. Spinta dall’ansia e da un profondo senso di colpa, al suo rimettersi, Michiru aveva vissuto quel ritaglio di vita senza Haruka facendo avanti ed indietro nella sua stanza, tra gli oggetti della sua passata quotidianità di giovane universitaria e che ora neanche vedeva più. I libri, compagni di tante sere, le tele, sorelle del suo spiccatissimo senso artistico, financo l’amico a lei più caro, il violino, ormai dimenticato nella custodia di raso nero abbandonata sopra la consolle. Niente aveva potuto dare conforto alla sua pena. Niente, neanche suo padre, riabbracciato tra le lacrime e l’enfasi di un ricongiungimento tanto rocambolesco. Tutto quello che sapeva era che Haruka era stata inghiottita dalla tundra siberiana di quella notte e quello che le era rimasto di lei era il suo Kès, ritrovato nella tasca del cappotto ed il berretto che ora non faceva che stringere nelle mani. Fragranza di un uomo a lei sconosciuto e della sua adorata bionda.

Chi conosceva perfettamente che fine avesse fatto Tenoh era invece Alexander, che visto le condizioni fisiche, ma soprattutto psicologiche nelle quali versava la figlia, aveva preferito tacere sul fatto che fosse stato avvertito da un amico della cattura e successivo arresto della figlia di Jànos da parte della tributaria e del pericolo concreto di un suo successivo trasferimento alla casa della giustizia. La sua bambina sembrava essere molto affezionata a quella ragazza, tanto che più volte si era soffermato a studiarne i sospiri, gli sguardi assenti lanciati ai vetri della finestra, il vai e vieni del suo incedere sulle scale. Su e giù ad ogni suonata di campanello. Su e giù ad ogni movimento in giardino.

Così sapendo di non avere tempo, incalzato anche da Scada Erőskar, amicizia nata da ragazzi sui banchi di una scuola del sesto distretto, Kaioh si era rinchiuso del suo studio ed una volta saputo dal dottor Börcs che il principio di congelamento di Michiru era stato superato, si era gettato anima e corpo nel tentativo di tirare fuori dai guai le due evase. Aveva già unto parecchio per far cadere le accuse di sovversione che pendevano sul capo della figlia e non avrebbe dovuto far altro che aggiungere qualche zero per far chiudere al Ministero di Grazia e Giustizia entrambi gli occhi sulla sua evasione. Ma per Tenoh le cose erano diverse. Per lei avrebbe dovuto fare molto di più.

 

 

Quando i suoi occhi si posarono sul bel volto orrendamente gonfio di quella che avrebbe benissimo potuto essere sua figlia, ad Alexander non rimase altro che sollevarne da terra il peso e stringerselo tra le braccia. La sentì tremare e gemere prima che l’incoscienza gliela facesse afflosciare contro.

Non la lascerò morire così Jànos. Puoi starne certo, pensò varcando velocemente il viale ben ripulito mentre gettava al signor Takaoka una voce.

“Vada immediatamente a chiamare il dottor Börcs!” E l’altro, rimasto fino a quel momento vigile accanto alla porta d’ingresso, eseguì schizzando come un furetto verso il garage.

Entrato in casa ordinò alla cameriera bloccatasi sul pomello di metallo dell’anta, di preparare una bacinella d’acqua calda, degli asciugamani e del sapone, poi rivolgendosi alla figlia impietrita sul finire delle scale, le fece cenno di seguirlo al piano di sopra.

“Forza Michiru, devi aiutarmi a toglierle questi vestiti di dosso e a darle una pulita prima che le ferite s’infettino.” Ma lei niente.

Ad occhi sbarrati, le mani portate alla bocca per placare un urlo, sembrò non aver capito una sola parola.

“Michiru, muoviti!”

Già a metà scala lui si fermò una frazione di secondo adirato con tutto il mondo. Come diavolo si poteva ridurre una donna in quello stato?!

E finalmente la figlia si scosse raggiungendolo per poi precederlo aprendogli la porta della stanza degli ospiti. Sentiva di stare per perdere il controllo, di stare per piangere nella disperata necessità che aveva di abbracciare quel corpo piagato. Guardò il padre adagiare delicatamente Haruka sul materasso, toglierle le scarpe e i calzini gelati.

“Come si sono permessi. Bestie!” Lo sentì ringhiare mentre iniziava a massaggiare la pelle dei piedi della ragazza.

Per Michiru era una cosa inedita vedere il padre in quello stato di violenta prostrazione. Forse solo alla notizia della consunzione della moglie, quando preso dalla collera contro un nemico immaginario Alexander aveva mostrato il peggio di se scagliando inutilmente imprecazioni e pugni contro una parete. Ma erano ricordi di ragazzina, sbiaditi dal tempo e dalla vita che passa.

Quando la cameriera e la figlia iniziarono a spogliare Haruka, Alexander uscì dalla stanza per andare ad aspettare Hisla giù da basso. Cosa sarebbe successo a quella povera creatura se non avesse promesso al Regime un suo immediato ritiro dalle scene dell’alta finanza ungherese? Un prezzo altissimo per un’altrettanto alto servizio che sentiva di dovere a Jànos. Il rischio del crollo finanziario della sua famiglia per ridare ad Haruka la sua libertà.

Un potente mal di testa gli esplose proprio quando il rombo dell’utilitaria di famiglia gli annunciò l’arrivo del dottore. Non fu consolatorio vederlo entrare in casa con gli occhi ancora carichi di sonno. Molto probabilmente la discrezionalità del signor Takaoka aveva fatto si che il medico non arrivasse a capire a pieno cosa fosse realmente successo al fantomatico ragazzetto biondo che Alexander si era caricato tra le braccia.

“Cosa diavolo è successo?!”

“Vieni Hisla, si tratta della figlia di Jànos.”

"Avevo capito si trattasse di un ragazzo..."

"No, e' Haruka.

“Sei riuscito a strapparla alla Tributaria?!” E ne fu sorpreso al punto da inchiodarsi sulla porta ancora aperta.

Da quando Johanna Tenoh era riuscita a parlare con l’amico, Hisla sapeva tutto di Haruka, dall’arresto alla sua amicizia con Michiru, ma mai si sarebbe aspettato un’evasione, tantomeno che Alexander avrebbe fatto così tanti compromessi per rivederla libera. Evidentemente i sensi di colpa che nutriva verso Jànos erano molto più profondi di quel che l'amico pensasse.

“Si, ma non sta bene. E’ stata pestata a sangue. E’ incosciente e non sono riuscito a capire se abbia o meno un’emorragia interna.”

“Addirittura!” Allibito lo seguì stringendo la sua borsa nella destra.

“E’ svenuta quasi subito e da allora non ha ancora ripreso conoscenza.”

“Va bene. Vediamo di darle un’occhiata.”

“E’ stata in quella caserma due giorni. Hisla devi anche controllare se per caso non abbia subito… violenza.” L’ultima parola la sussurrò appena.

Sospirando il medico scosse il capo stringendo le labbra. “Fidati della mia discrezione.”

 

 

Non riusciva a smettere di guardarla. Proprio non riusciva. Al massimo lasciava vagare gli occhi dal costato, alle cosce e dalle braccia nuovamente al viso, forse il più martoriato di tutto quel bel corpo di colpo reso fragile dalle sfumature bluastre dei lividi che a macchia di leopardo sembravano espandersi ad ogni passaggio di spugna, ad ogni carezza di cotone.

Anche la cuoca era salita per aiutarle e da donna più esperta, era riuscita a spogliare la bionda con una grazia che le sue mani callose da lavoratrice tendevano ad avere solo quando maneggiava il cibo. Tozza quanto basta per calzare perfettamente l’idea stereotipata della sua professione, era invece stata capace di una delicatezza che aveva stupito le altre due ed ora, tolto anche l’intimo ad una bionda scossa dal tremore, ne ricopriva la pelle segnata con le lenzuola.

“Perché sta tremando così?!” Le chiese Michiru inginocchiandosi per afferrare la destra di Haruka.

“Per il dolore, signorina. Anche se incosciente il corpo lo avverte lo stesso.” Rispose dolente mentre la vedeva chinare la testa per iniziare compostamente a dare sfogo a tutto il dispiacere che sentiva dentro. Un pianto leggerissimo, al limite del silenzioso.

“Su avanti, non piangete.” E mentre cercava di consolarla posandole una mano sulla spalla, alla porta si sentirono due rintocchi e l’anta si aprì.

“E’ arrivato il dottor Börcs. Tutte fuori.” Ordinò Alexander vedendo le domestiche obbedire.

Con la fronte appoggiata al dorso della mano di Haruka, la schiena incurvata come se pregasse, la figlia non si mosse neanche quando lui cercò di alzarla di peso.

“Michiru, anche tu!”

“Lasciami papà!” Lo allontanò con un gesto secco vedendolo tornare alla carica.

“Piantala di fare la bambina! Hisla deve fare il suo lavoro e lo deve fare con calma, senza che tu gli stia tra i piedi!”

“Non lo farò!” E questa volta la sua voce toccò un preoccupante acuto tanto che, come spesso accadeva quando i due caratteri del padre e della figlia andavano a cozzargli davanti, il medico cercò la via della mediazione.

Virando a più miti consigli assicurò la ragazza. “Sarò delicato vedrai, ma vorrei che tu ti calmassi.

“Cercherò di essere chiara dottore; io non intendo muovermi di qui! Se non posso aiutarvi mi metterò in un angolo e aspetterò che abbiate terminato, ma Haruka non la lascio!”

“Michiru… potrei farle del male. Sei sicura di volere assistere?” Non avendo per risposta che un si, inspirò guardando Alexander.

“Che rimanga se vuole.”

L’altro non commentò, imboccò semplicemente la porta richiudendosela alle spalle. La sua intenzione era quella di proteggere sua figlia, ma se voleva flagellarsi assistendo al dolore di una persona alla quale teneva, liberissima.

Togliendosi cappotto e giacca, Hisla stirò le labbra andando al catino lasciato dalla cuoca. “Siete fatti della stessa pasta. Quando la tua povera madre stava male neanche io riuscivo a tenerlo.”

“Lo so. Come so che lo fa per me. - Accarezzando la frangia di Haruka continuò dolcemente. - Quando un Kaioh ama, lo fa con tutto il cuore, senza mezzi termini.”

La baldanza coraggiosa di Michiru durò però poco. Al primo tiraggio delle ossa spezzate dell’indice e medio della mano sinistra della sua bionda, una specie di singulto le riempì la gola, diventando un vero e proprio gemito quando l’uomo iniziò a fasciare il costato dopo averlo ampiamente ispezionato. Ma fu quando si arrivò al vero e proprio punto dolente, l’occhio, che alla ragazza mancò la terra sotto ai piedi. Appoggiandosi con la schiena al muro lo vide chinarsi sul viso di Haruka, afferrarle la palpebra inferiore e quella superiore ancora serrate e forzarne l’apertura. Al gonfiore della parte, si aggiunse un rivolo di sangue che iniziò a colare lungo la guancia della ragazza ridestandone i sensi con un sussulto.

“Aaaa … Noo…” Cercando di difendersi da quelle mani sconosciute, Haruka alzò le sue ritrovandosi ad urtale la steccatura della sinistra contro l’ascella dell’uomo.

Gemendo si sentì stringere agli avambracci. “Buona, state buona Haruka. Ho quasi finito. Sono un dottore.”

“Ruka. - Michiru le fu immediatamente accanto. - Sei al sicuro. Stai tranquilla.”

Frastornata l’altra cercò di guardarla, ma era tutto così confuso. Le luci, i colori. Non vedeva nulla come avrebbe dovuto.

“Michi… Dove sei?!”

“Qui amore. Sono qui.” E le strinse il palmo destro talmente forte che quando Haruka adagiò nuovamente la testa sul cuscino immobile, quasi pensò che fosse stata per colpa sua.

Guardando confusa Hisla, lasciò che le sorridesse per un attimo per poi tornare a concentrarsi sulla tumefazione. “Non agitarti Michiru, è normale. Perderà e riacquisterà conoscenza molte volte prima di riuscire a ridestarsi del tutto. Ma è un bene, perché adesso dovrò fare una cosa sgradevole e a che ne dica tuo padre, sono sollevato che tu possa darmi una mano.”

 

 

Pest – Distretto V, Ospedale militare di Re Mattia I

 

Johanna dilatò le narici mentre di contro stringeva le dita della destra al cotone del lenzuolo. Come evasa! Come diavolo poteva esserle venuta in mente una cosa tanto idiota!

“Io… la… polverizzo!” Disse lentamente, scandendo le parole piano piano, come un promemoria.

Annamariah se la guardò da sotto la spessa fasciatura che le stringeva la fronte, non sapendo se ridere o piangere, perché se da una parte il progressivo miglioramento della ragazza rappresentasse il più bello dei segnali, dall’altra la sparizione di Haruka e Michiru, perse in quella notte di tormenta, lasciava tutte con il fiato sospeso. Setsuna, Rei, Johanna e naturalmente lei. Non sapevano se fossero state riprese dalla polizia tributaria, perché loro per prime erano ora soggette ad inchiesta.

Tutte e quattro sospese a tempo indeterminato, fino a quando cioè, l’indagine a loro carico non sarebbe terminata. La prima ad essere indagata era stata la direttrice Setsuna Meioh, rea di aver mal gestito la casa della luce. Eufemismo per indicare tre decessi, quattro evasioni ed una lista infinita d’infrazioni a danno del regolamento interno come quello di assumere la sorella di una detenuta. Senza l’intervento di una mano divina, con molta probabilità avrebbe terminato la sua carriera.

La seconda colpevole era Rei Hino, agente scelto, talentuosa e promettente esecutrice dell’ordine costituito ungherese, buttatasi contro un membro della Tributaria che con mano armata avrebbe sicuramente bloccato sul nascere i piani di fuga delle detenute Michiru Kaioh ed Haruka Tenoh. Questo poteva dirsi atto sufficientemente grave per polverizzarle lo stato di servizio. Da ora in avanti quel neo, frutto di un umanissimo quanto deplorabile attacco di pietà, avrebbe macchiato inesorabilmente la placca fino a quel momento immacolata del suo distintivo.

Annamariah Shiry, a ragion veduta la meno colpevole delle quattro, ma anche quella il quale comportamento poco chiaro destava più sospetti. Era stata trovata tramortita in mezzo alla neve con una profonda ferita alla fronte, è vero, ma era veramente poco credibile che due ragazzine del calibro di Minako ed Usagi Aino, se pur con un retaggio militaresco alle spalle, avessero potuto immobilizzarla, rubarle la chiave del cancello secondario, aprirlo per poi fuggire. Credibile era diventata la storia del furgone aggiustato da Tenoh e portato sulla piazzola d’uscita per salvare la vita della sorella, ma se vi fosse un collegamento tra il ferimento di Johanna e la fuga delle figlie dell’ex Generale Aino, questo era ancora tutto da verificare.

Infine proprio Johanna Tenoh, ultima, ma non meno colpevole delle altre tre. Basista? Spalleggiatrice? Complice? Come non dar torto alle riserve delle investigazioni, lei che era niente popò di meno che la sorella maggiore di una delle quattro evase. Pur essendo grottesco, forse la cosa che stava impedendo alla ragazza un arresto, era quella di avere un alibi di ferro; l’essere stata ferita molto prima dell’evasione. Anche se poi l’arma del suddetto ferimento non era stata ancora trovata.

“Ti ho già spiegato come sono andate le cose, no? Non era intenzione di Haruka fuggire.”

“Non indorarmi la pillola Annamariah! Qualunque morivo abbia spinto quella testa di legno a varcare il cancello, l’ha comunque condannata ad una vita in fuga e questo per una sorella… - La guardò con tutta l’angoscia del mondo. - … non è cosa facile d’accettare.”

 

 

Delirio

Buda – Distretto II, Palazzo Kaioh

 

Ti ricordi i principi del nostro credo piccolo Turul?

Si

Allora tieni la prima ciotola; il Mondo Superiore. L’assenzio del divino.

Haruka tossì in preda al delirio. Nella mente ricordi confusi di una scelta difficile. Sulla pelle un dolore pulsante che scendeva nelle fibre muscolari, lambendo e penetrando fin dentro le ossa.

“Michi…” Lamentò inarcando il collo adagiato su un paio di cuscini.

“Sono qui Ruka.”

Ed era vero. Non si era mossa. Mai. Cadenzando le ore con la solerzia di una veglia inutile e per il suo fisico controproducente. Su consiglio del dottor Börcs aveva provato a stendersi al fianco della bionda per cercare di riposare un po’, ma non era servito. Ad ogni spasmo, ad ogni gemito, al mutare del respiro, lei si sollevava ansiosa per guardarla, preoccupata, anche se nel complesso ad Haruka sarebbe potuta andare molto peggio.

Le ferite riportate erano dolorose, ma non gravi. Solo l’occhio sinistro destava preoccupazione, perché fino a quando la benda non fosse stata rimossa ed il gonfiore diminuito, il pericolo della perdita parziale o addirittura totale della vista sarebbe stata possibile.

“Le tumefazioni guariscono. Le ossa si risaldano. La vista di un solo occhio può bastare. Michiru non fare quella faccia e rallegrati, perché oltre a questo la tua amica non è stata obbligata a sopportare altro.” Le aveva detto Hisla dopo il termine della visita ginecologica e lei, a botta calda, poco l’aveva presa bene.

Che discorso assurdo a guardare com’era ridotto il suo amore. Ma poi, con il passare delle ore, riflettendo con mente lucida, da donna, aveva iniziato a capire, fino ad accettare.

“Guarirai amor mio e volerai di nuovo.”

Ma nonostante tutta l'abnegazione di Michiru, Haruka continuava a galleggiare in un mondo tutto suo, fatto di ricordi vicini e lontani nel tempo.

Il Mondo di Mezzo. La mandragola dei boschi.

Nel suo delirio affastellato di flash, Haruka ricordava nitidamente quel sapore di sottobosco, di penombre e terra bagnata, buono e liquoroso come le lunghe sere d'estate. Ancor di più era presente alla sua coscienza la seconda sfera, un pò amarognola e pesante, come un Purgatorio ben descritto, ma tutto sommato ancora accettabile. Era però la terza, quella che il suo Táltos le aveva dato quasi con sfida, come se non fosse realmente convinto della sua determinazione, che non riusciva più a sopportare. Il Mondo Sotterraneo, quello nel quale era entrata e che ora la teneva incatenata al suolo peggio delle manette della polizia o delle sbarre di una prigione.

Michiru è la figlia del banchiere Alexander Kaioh, lampeggiò immersa anima e corpo nel suo vaneggiamento, ed io devo ucciderlo. Devo farlo per il mio apa. Non posso venir meno al mio giuramento.

E gli occhi di suo nonno, ambrati come pozze d’argilla che da ragazzina la fissavano severi. Devi affondare di più il tuo Kés se vuoi procurare danni permanenti, piccolo Turul.

Se fossi più alta sarebbe tutto più facile táltos.

Crescerai. Se hai preso da tuo padre… crescerai.

Ed era cresciuta. E si era fatta una donna. Ed ora ne amava una. Amava la figlia di colui per il quale aveva abbandonato tutto il raziocino inculcatole da piccola, quando Jànos cercava di tenerla lontana dagli insegnamenti del suo sciamano.

Non voglio che l’arte del Kés sia insegnata alla bambina.

Quante volte stando acquattata dietro ad un muro, aveva ascoltato il genitore discutere con suo nonno sull’inutilità di una pratica tanto arcaica e pericolosa. Allora non capiva perché i suoi se la prendessero tanto. Ora, arrivata alla maggiore età, le era tutto drammaticamente più chiaro.

Sei andata da lui vero? Perché non ne hai parlato prima con me idiota!

Perché mi avresti fermata.

Certo che ti avrei fermata! Dio del cielo Ruka… Che hai fatto!

Sarebbe andata contro Johanna ed i dettami del buon senso se non avesse imparato e, sotto sotto, creduto nel codice d’onore insegnatole da piccola? In quel testo non scritto fatto di violenza, dove occhio per occhio diventava il cardine di tutto? Non lo sapeva, ma allo stato delle cose ora doveva riemergere dall'incoscenza e scegliere cosa fare.

“Mi… chiru.”

Cercando di aprire le palpebre, Haruka si rese conto di averne una bloccata da qualcosa e portandosi pesantemente la mano al viso, avvertì sotto i polpastrelli la morbidezza di una garza.

“Amore…” Kaioh le fu subito accanto.

La sua dea le apparve bellissima come sempre, anche se con gli occhi segnati dalla stanchezza e dal pianto. Questo la spaventò. “Michi… Sei tu?”

“Si anima mia.”

“Ti hanno presa?!”

Scuotendo energicamente la testa l’altra si affrettò a negare rassicurandola prontamente sul fatto che fossero al sicuro.

“Baciami…”

“Hai le labbra tutte spaccate… Ti farò male.”

“Non importa. Ti prego. - Il suo sapore, il calore di quella morbidezza, l'era mancato così tanto. - Credevo di essere diretta alla casa della giustizia… Credevo che sarei morta, che non ti avrei piu' rivista.“

L’altra eseguì lievissima, procurandole in effetti dolore, ma anche pace e la consapevolezza che quelle sensazioni non fossero un altro dei suoi deliri.

“Lo so, ma grazie al cielo e ad una cosa più spicciola come il denaro, mio padre è riuscito a corrompere parecchi funzionari della polizia, sia segreta che tributaria. Mi dispiace che non sia riuscito a strapparti alle loro mani prima che ti facessero questo.” Aggiunse sfiorandole la benda con infinita dolcezza.

“Tuo… padre?” Perché!

“Ascoltami, adesso devi solo pensare a rimetterti. Hai parecchie ossa rotte. Le dita, le costole. Cerca di non muoverti, intesi?!”

Ingoiando a vuoto, Haruka avvertì la bocca più arsa dell’Averno. Non ci stava capendo più niente. Era passata dal cercare di farsi inseguire dai due poliziotti a presidio di un posto di blocco nei pressi dell’abitazione di Michiru, all’essere tradita proprio dalla neve che tanto amava, incatenatasi alle gambe per impedirle di seminare uomini che essendo in macchina, in un paio d’isolati l’erano stati addosso. Poi gli interrogatori e le botte, tante, gli insulti, le prese in giro che lei aveva superato solo grazie alla sua tenace resistenza e ad un mantra dagli occhi blu mare. Amore, tornerò da te, aspettami, si diceva. Sempre, ad ogni schiaffo, calcio, imprecazione, urlo. Ma nulla era stato equiparabile a quel cazzotto dritto nell’anima datole dall’agente Thöryn, squalo vagabondo che neanche aveva capito quanto in realtà le avesse fatto male. Neanche la paura di entrare nella prigione dov’era morto suo padre e dove con molta probabilità sarebbe morta anche lei, aveva potuto più del sentirsi dire che Michiru era una Kaioh, che aveva nelle vene il sangue dell’uomo che doveva uccidere.

Ed ora era li quella ragazza meravigliosa che tra il sudore ed il sole, l’odore del mosto, la corsa e le incitazioni di gente eccitata, aveva amato subito e la guardava con un tale affetto, una tale comprensione, che quasi provò l’impulso di urlare al cielo quanto provasse vergogna per il suo proposito di vendetta.

“Sei stata tu a chiedergli di pagare per il mio rilascio?”

L’altra si sedette più comodamente negando. Lei non sapeva neanche che fosse stata arrestata nuovamente.

“Non mi ha dato spiegazioni, ma glielo chiederai tu non appena ne sentirai il bisogno. Hai appetito? Vuoi che ti porti qualcosa come un bel brodo? Il dottore ne sarebbe contento.”

La bionda stirò impercettibilmente le labbra. Quell’uomo aveva fatto scomodare anche un medico. “Dimmi Michiru, tuo padre sa che sono la figlia di Jànos Tenoh?”

“Si Haruka, ed è proprio per questo che siete qui, ora.”

Da dietro la porta che si aprì lentamente, Alexander comparve alle due scuro in volto. Nelle mani il berretto di Jànos. Nella bocca spiegazioni che sapeva di dover dare.

 

 

 

NOTE: Ciau.

Ritardo colossale e capitolo terminato come sempre a cavolo. Non so proprio come sia venuto, ho i minuti contati e so che avrei dovuto scrivere di più per finire presto questa storia, ma di meglio ora proprio non posso fare.

Scusatemi. Prometto che ci siamo quasi. Un altro paio di capitoli e concludiamo il tutto.

Un abbraccione e a presto 

 

   
 
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