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Autore: Miryel    27/10/2018    16 recensioni
Sei sparito e sei riapparso, in un mondo dove la gente è vestita come zia May nelle foto di quando era giovane. Dove gli Avengers non esistono, ancora; dove tu non sei nato e dove Tony, per uno scherzo del destino, ha la tua età o forse poco più.
Buffo, ridicolo.
Uno schiocco di dita ti ha separato da lui, ed ora ce l’hai di fronte ringiovanito di una vita.
[ Young!Tony x Peter | Tony x Peter | SPOILER INFINITY WAR | What If? ]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ironguy and SpiderKid into the Canonverse'
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[ Starker/Young!Starker | Young!Tony x Peter | Tony x Peter | SPOILER INFINITY WAR | What If? | Word Count: 4112]
 
 

Born To Be Yours

A story about a time traveler
•••

 
«Am I out of touch? Am I out of my place? When I keep saying that I'm looking for an empty space
Oh, I'm wishing you're here But I'm wishing you're gone, I can't have you and I'm only gonna do you wrong
Oh, I'm going to mess this up Oh, this is just my luck, Over and over and over again»






Epilogo – I'm Sorry for Everything I've Done

 

  Sentì il baratro sconfinato della morte sotto ai piedi; come una botola aperta, come un buco improvviso spuntato nel terreno. Si dimenò per non lasciarsi inghiottire, mentre altre persone intorno a lui si frantumavano in piccoli pezzi, troppo piccoli per essere riassemblati. La sensazione di morire, l’aveva immaginata diversa. Soprattutto, non avrebbe mai creduto di percepirla minuti prima. Alzò solo lo sguardo, dopo aver osservato a lungo le sue mani tremanti, e poi si era rivolto a Tony. Tony, dannazione, voltato di spalle a veder sparire Strange e poi gli si era rivolto.

  «Non mi sento molto bene.»

  I suoi occhi spalancati lo trafissero peggio di una lama conficcata nella carne e la paura di morire si trasformò in quella di lasciarlo solo, quell’uomo forte, ma fragile nei sentimenti.

  «Peter…», lo chiamò Tony, e fu solo l’ennesimo motivo per sbilanciarsi goffamente verso di lui, perché le gambe gli tremavano troppo per farlo in modo stabile, e dritto. Si lasciò cadere tra le sue braccia, piangendo tutte le lacrime possibili, forse le uniche rimaste in quel debole corpo.

  «Non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire… per favore!», gli supplicò, e Tony riuscì solo ad alzare le mani per prendergli la testa e carezzarla, convinto forse che quel gesto potesse essere in grado di evitare quella inesorabile separazione, anche con lui. Tremante come una foglia, finito come un morto.

  «Starai bene, non… starai bene», rispose l’uomo, e Peter non ci credeva nemmeno un po’, ma fu quasi rassicurante, in qualche modo, sebbene glielo avesse detto con la voce che tremava di una supplica più forte della sua. Sentì il corpo perdere consistenza; si sentì frammentare in tanti, piccoli pezzi di carne e anima; poi strascicò qualche parole dalla bocca, riuscendo a dire solo una cosa che davvero contava, in quel momento come in nessun altro.

  «Mi dispiace», di doverti lasciare solo.

 

 

  È il giardino dello S.H.I.E.L.D. a farvi da culla; uno sconfinato contenitore di foglie marroni e gialle e di alberi quasi spogli, ma contiene anche voi. Il suo profumo ti avvolge ad ogni abbraccio, e Tony è andato oltre ogni limite di affetto, in quel pomeriggio arancione di quella giornata di fine autunno. Il suo sentimento per te è cresciuto ancora, in quelle due settimane passate – dopo aver fatto l’amore per la prima volta – per te l’ennesima volta, con un lui diverso ma comunque lo stesso – ed è sempre più simile a ciò che ti infila nel cuore il Tony del tuo presente, ogni volta che il cielo vi vuole insieme. C’è un leggero e rassicurante venticello caldo, a cullarvi. Qualcosa che ricorda troppo il giorno del tuo arrivo, e forse non è nemmeno un caso che vi sia questa similitudine proprio oggi. Malinconia, tristezza e un senso di vuoto quasi incolmabile, nel cuore, ma non vuoi che sappia. Ci hai pensato tanto, e per quanto sia giusto che ne sia a conoscenza, di quel tuo male nero, infine hai deciso di fingere che sia solo un giorno come un altro.


   «Cosa vuoi che non faccia, nel tuo presente, per non ferirti?», ti ha chiesto ieri, prima di fare l’amore ancora una volta; dopo aver sciolto i nodi tra i vostri sguardi e averli legati tra le vostre dita, incapaci di dividersi persino quando siete lontani. Hai richiesto altre labbra, prima di rispondere. Hai preso tempo, hai cercato di pensare, senza dare a vedere che lo stavi facendo – che ne avevi bisogno, poi hai arricciato il labbro inferiore, te lo sei morso e hai detto quella frase scontata.

  «Voglio che tu sia te stesso e basta. Non cambierei niente di ciò che è successo tra noi…», e invece non è vero; ci sono tante di quelle cose che vorresti non avergli sentito dire da quella bocca a volte velenosa, a volte incapace di capirti. Vorresti dirgli di non trattarti come un ragazzino, quando gli conviene farlo. Vorresti dirgli che non ami vederlo scivolare via dalle tue mani, quando c’è altra gente e deve fingere che tu non sei nessuno. Gli riesce troppo bene; così bene che fa troppo male.

  «Sono sicuro che non sia così», ti ha detto. Lo sa, si conosce. Sa esattamente quali errori commetterà, e nella sua ingenuità non li conosce ancora tutti. Non deve, non è giusto.

  «Non ha importanza, per me… e sbagliare fa parte del gioco», e parlavi anche di te. Soprattutto di te, specie ora che hai preso la decisione più ingiusta della tua intera esistenza, sebbene contro il tuo volere.

 

  «Perché ti imbamboli a pensare a chissà cosa senza rendermi partecipe?», ti chiede e sei tornato alla realtà, nel giardino dello S.H.I.E.L.D.; con lui seduto con la schiena contro un albero e tu davanti a lui, le scapole contro il suo petto, cullato da un abbraccio che circonda le tue spalle.

  «Perché sono stupidaggini», gli dici, e sorridi leggermente, perché sai che non ti crede, perché ormai ti conosce abbastanza… così tanto che lascia correre, e finge di non aver capito niente.

  «Hai paura del mio giudizio?», ti chiede, e sai che ha alzato il suo solito, prevedibile sopracciglio disincantato.

  Sbuffi divertito. «Ho paura del mio.»

  «Oggi sei strano. Più del solito, intendo», puntualizza, incapace di parlare sul serio, quando farlo significa esporsi e a lui non piace mai, che debba farlo. Non piace nemmeno a te.

  «È colpa dell’autunno… mi spompa di tutte le energie, certe volte. Mi sento debole, forse ho la febbre», menti.

  Tony alza una mano per posarla con delicatezza sulla tua fronte; un gesto premuroso e quasi meccanico, che persino tu avresti compiuto, se i ruoli fossero stati invertiti.

  «Nah, sei solo strano. Non ce l’hai la febbre. Ho detto qualcosa che ti ha ferito, Peter?» ti chiede e ti lascia un bacio leggero tra i capelli; forse due, forse tre, forse cinquanta. Sei troppo concentrato a non perderti, per farci caso, seppure quella premura significhi il mondo per te.

  «No, no. Sul serio… non hai detto niente!»

  «Senti, non mi piace insistere ma… con me puoi parlare, lo sai! Non avrò il carattere più dolce e comprensivo della terra, ma con te… accidenti, quanto è difficile», sbuffa, e lo senti reclinare la testa contro il tronco dell’albero e ammutolirsi. Lo sai. Lo sai che è difficile, per lui, far crollare quel muro costruito da un finto menefreghismo e distacco da ogni cosa che ti permette di oltrepassare come se tu fossi un fantasma. Solo tu, puoi. Sempre e solo tu. Ti giri e lo fronteggi. Incroci le gambe a terra, allunghi le maniche della felpa rossa, la sua, per nascondere le mani che tremano. Sorridi, per celare un segreto e poi avvicini il viso verso il suo per baciargli le labbra, con un fugace e doloroso tocco.

  «Non serve, sto bene. Non hai fatto niente, sono solo io che a volte mi ricordo di non appartenere a questo tempo e… mi sento diviso a metà.»

  «Dove ci sono io, tu non sei mai fuori luogo, Peter», cerca di rassicurarti, corrugando la fronte, come se quella tua confidenza, vera in parte, abbia del ridicolo alle sue orecchie.

  Ridacchi malinconico, poi abbassi la testa. «È facile a dirsi, anche da credere ma non è sempre così… a volte non si ha la forza di crederlo sul serio.» Tony tace per secondi, forse minuti interi. Il suo sguardo sul tuo, a bucarti la carne, ti uccide. Non sa che dire, e lo sai. Non ha una delle sue frasi ad effetto da sbottare come se, dopotutto, nulla avesse poi così importanza come pensi tu.

  «Lo capisco...  scusa se ho insistito», ti dice, e sono così rare le volte in cui lo hai sentito dire quella parola – scusa, che torni a guardarlo; sorridi, con tenerezza, e scuoti la testa.

  «Non chiedermi scusa, però…», esordisci, e ti mordi un labbro, e ti fa male il petto e la testa e le mani e le dita, soprattutto ti fa male il cuore. Batte forte, fortissimo, e non è amore stavolta, nemmeno felicità… è paura, è consapevolezza e l’incapacità di cambiare le cose, di cui sei pregno nel punto più orrido della tua anima. «Tony, non mi sento molto bene

  È un tono strozzato, spezzato, quello che hai usato. Un tono diverso, un tono esposto, che lascia crollare il tuo tentativo di fingere che non ci sia davvero nulla di cui preoccuparsi.

  Non voglio andare, non voglio andare, non voglio andare!, ti rimbomba nella testa e vorresti coprirti le orecchie con le mani, se solo non sapessi quanto sia inutile fermare un flusso di pensieri solo con un gesto tanto stupido. Lui non sembra capire, ma forse ha capito. Deglutisce; il suo pomo d’adamo si muove con lentezza, nel solo intento di non lasciarti capire che desidera solo che non sia quello che pensa.

  «Vuoi riposare? Andiamo a riposare! Potevi dirlo, non ti avrei di certo detto di no!»

  «No, Tony… lo so, ma,» esordisci e ti alzi in piedi. Con un gesto secco delle mani ti togli i frammenti di terra e foglie secche attaccati alle ginocchia, nel puro e inutile tentativo di prendere tempo. «Non ti arrabbiare ma… vorrei dormire un po’, e vorrei farlo da solo.»

  Tony si alza in piedi, allora. Ti fronteggia, ti prende per le spalle. La mascella indurita che blocca tante, troppe domande. Domande scomode per entrambi; domande che vi lascerebbero impattare troppo contro la realtà dei fatti.

  «Non… sta succedendo ora, vero? Sei troppo strano», ti dice, e quel quesito non è riuscito proprio a tenerlo fermo tra i denti.

  «No. No, no, no!», esclami, e cerchi di rassicurarlo, di convincerlo a credere all’ennesima bugia. «Voglio solo riposare.»

  Lui annuisce; esita, ti prende le guance con le mani, poi esita ancora e infine ti bacia. Un’immensa passione, racchiusa in una bolla di terrore pronta a dissiparsi nel vento, e nella tua bocca, che dice troppo ma anche troppo poco. Che ti dice, in un urlo devastante, non sono pronto a tutto questo. Non lo sei nemmeno tu, non lo sei mai stato e non hai mai avuto la pretesa di esserlo. Ti avvinghi alla sua schiena, con le dita a chiudersi nel tessuto spesso del suo bomber blu a righe bianche. Lasci scivolare saliva e labbra tra le sue, in un disperato tentativo di dirgli che stai per lasciarlo solo ancora una volta.

  «Ci vediamo più tardi», dici, quando vi staccate; dopo aver passato minuti infiniti a studiarvi l’anima dagli occhi; persi in un tempo che non fa parte né del presente, né del passato. È statico, e vorresti che fosse infinito, ma infinito non è.

  «Sì», ti dice semplicemente, e tu lo sorpassi, lo superi e vai via. I suoi occhi sulla schiena e non ti volti solo perché vorresti un altro bacio, forse altri cento, ma è troppo tardi. Non faresti mai in tempo.

Il tempo, che sia maledetto.

  Corri verso la tua stanza; apri la porta con una difficoltà che non ti è mai appartenuta, solo perché i tuoi occhi sono troppo sfocati dal panico per poter vedere quel che fai. Ti chiudi la porta alle spalle e vi poggi la schiena. Il respiro si mozza, tra il palato e i denti. Ti guardi le mani e piccoli pezzi di te si perdono nell’aria, nel silenzio della tua stanza, con un calore nel cuore che non ha nulla di bello ma nemmeno di così terribile. Stai svanendo, di nuovo. I tuoi sensi lo hanno predetto ancora una volta, e tu non puoi farci un cazzo di niente. Li odi, li odi con tutto te stesso e fa rabbia, troppa. E, sebbene il tuo desiderio di tornare a casa si stia finalmente avverando, ne sei meno entusiasta di quanto dovresti e non sei pronto.

  Non sei mai stato pronto.

  Non vuoi morire di nuovo.



 

...

 

  C’è il buio totale, dietro ai tuoi occhi chiusi, eppure non ti ferma dal percepire intorno alla tua mano, altre dita che la stringono, con delicatezza, ma tremano. Serri le palpebre, cercando di vincere quel sonno immenso in cui sei barricato, perché se sei sparito da una parte, non è detto che tu sia tornato esattamente dove desideri.

  «Peter?»

  Quel richiamo è come una bomba, un cannone che spara all’improvviso a due centimetri dal tuo orecchio e, d’istinto, spalanchi gli occhi e annaspi aria. I polmoni si riempiono di nuovo, ma rimani in apnea per qualche secondo, prima di realizzare e scoppiare in lacrime, per così tanti motivi che ora ti sfuggono. Tutti legittimi, tutti dolorosi.

  Tony è lì; fermo, immobile, seduto sul materasso accanto a te, e non ti stringe più la mano, improvvisamente. I capelli brizzolati sono tirati su con la gelatina, ma non sembrano curati al suo solito modo. Deve essere tardi, tardissimo, perché il suo viso stanco ti comunica questo, perché dietro gli occhiali da vista il suo bisogno di riposo è palpabile, ma non necessario. Non ora. Il viso segnato dal tempo ti conferma il tuo ritorno, ma sei immobile a fissarlo mentre lui fa lo stesso. Non allo stesso modo, non con la stessa intenzione. Dietro quello sguardo, non c'è niente. Niente di niente.

  Né amore, né tristezza, né rabbia, né felicità. Niente.

  Un muro alto due metri, che vi divide come se tu, dopotutto, non fossi nessuno. Improvvisamente, forse, non lo sei più. Lo sei stato, certo. Sei stato importante, forse gli sei addirittura mancato fino a due secondi fa, ma ora? Che c’è di diverso, nei suoi occhi, che ora ha spostato da un’altra parte, con la sola intenzione di non incontrare i tuoi? Come se pretendesse di non averti davanti, ma sa che purtroppo è così. Fa tanto male. Fa male come se morire due volte non fosse bastato nemmeno. Fa male a tal punto che cominci a tremare, e l’unico desiderio, stupido quanto te, è quello di tornare indietro ancora e rimettere le cose al loro posto.

  Ormai inutilmente.

  Hai davanti la stessa persona, di nuovo trent’anni più grande, che sfugge nel modo infantile con cui lo avrebbe fatto il lui diciottenne. Un miscuglio di personalità, tenute incollate tra di loro dal tuo stracazzo di menefreghismo per le regole. Regole ferree, che se le infrangi ti metti contro il mondo intero e tu, ora, ce l’hai davanti, il tuo mondo. Girato dall’altra parte, che trova molto più interessante guardare l’orologio appeso al muro che scandisce il suo tempo, piuttosto che il tuo viso corroso e spaccato dai sensi di colpa e dal dolore. Apri la bocca, perché vuoi dire qualcosa. Vuoi farlo, devi farlo o lo perderai sotto ogni fronte e non vuoi tornare ad essere nessuno, per lui. Non lo accetti, ne va di quello che per te è il concetto di vivere la vita. Cosa dire, dopotutto? Qualsiasi cosa è solo la fiamma che accende una miccia pronta ad esplodere e vedere il suo profilo, indurito dalla mascella serrata, ti costringe a fare lo stesso con la tua. Crolli, abbassi gli occhi. Incontri il candido colore celeste delle lenzuola che ti coprono solo le gambe. Non sai nemmeno come ci sei arrivato, lì. Ti ha portato lui? Che domande… è ovvio che sia così. Lo ha fatto prima di rendersi conto che sei solo l’ennesima persona che lo ha deluso. Proprio tu, Peter…

  «Forse sarebbe stato meglio se fossi rimasto lì… ho combinato solo un gran casino e forse avevi più bisogno di me, a quel tempo», dici e ti senti dannatamente stupido; sembra una frase così pregna di vittimismo, ma non lo è. È solo una mera consapevolezza, di cui non sei nemmeno così certo. Tony sospira. Non si volta a guardarti ma abbassa lo sguardo sui propri mocassini. Alza una mano e se la passa tra i capelli, poi tace e il nulla torna a riempire l’aria.

  «Io ho sempre bisogno di te, Peter. In ogni tempo», dice, dopo aver taciuto per troppo.

  «Allora perché non mi guardi?», chiedi. Le sopracciglia aggrottare, la voglia di stringerlo e chiedergli scusa per gli errori che hai commesso, anche se sai di aver creato solo uno spacco tra di voi. Uno spacco destinato a ingrandirsi, ad ogni scossone.

  Tony sospira ancora; poggia i gomiti sulle ginocchia e incrocia le mani tra loro. Arriccia le labbra, stringe gli occhi. Gli manca il coraggio, quando fa così. Gli mancano le palle di dire che trent’anni hanno smorzato tutto, lentamente, perché aspettare così tanto significa perdere poi la voglia di farlo e l'amore svanisce, inesorabilmente.

  «Perché quel giorno del passato avevo capito, e non ho fatto niente per cambiare le cose», ti dice. «Perché quando sei sparito, poi nel futuro, sapevo che sarebbe successo, e non sono riuscito ad evitarlo comunque.»

  No.

  Hai sbagliato tutto. Hai sbagliato ad interpretare perché lo hai fatto con l’arroganza di credere che hai sbagliato solo tu; di aver rovinato qualcosa perché tu avevi deciso di non darti un freno.

  No.

  Avete sbagliato in due, come sempre, come si fa in amore. Non si sbaglia mai da soli. Mai.

  «In quel passato sono io a non averti detto che stavo sparendo… perché non avrei saputo cosa dirti, perché non ne avevo il coraggio. Come avrei potuto dirti che ci saremmo rivisti dopo trent’anni…?», ti blocchi. Ti alzi sulle ginocchia sul materasso e ti pieghi su di lui. Abbracci la sua schiena, con le braccia strette intorno al suo collo, il mento poggiato alla sua testa. Il profumo della sua gelatina ti inebria per qualche secondo, «Nel nostro presente… solo i sensi mi hanno anticipato di qualche minuto quello che stava succedendo ma… come avresti potuto evitarlo, se nemmeno io ho potuto farlo?»

  «Non avrei potuto, lo so. Lo sapevo da trent’anni, anche se non ero a conoscenza di come e quando sarebbe successo. Mi ero ripromesso che avrei semplicemente lasciato che il tempo facesse il suo corso, perché sapevo già troppo, ma pensavo di essere pronto. Non lo ero. Non lo ero per niente, Peter e se dovesse accadere di nuovo, non lo sarei nemmeno ora. Non lo sarei mai.»  

  Sospira. Alza le braccia e ti prende le mani. Le stringe tra le sue e tremano troppo.

  «Sono qui con te. Mi hai aspettato, no?», gli dici, con un sorriso che allarghi contro i suoi capelli, che cancella le lacrime, finalmente, e pure quel senso di abbandono che per un attimo ti ha quasi lacerato. Diviso in due. Spezzato.

  «Ti ho riportato indietro», ti corregge, e la consapevolezza di quell’amore ti inonda. Non ha solo aspettato, ha anche agito. Ad aspettare sei stato solo tu; quell’uomo, invece, pur di riaverti con sé ha fatto tutto il possibile, così tanto che non sei certo avresti potuto fare lo stesso anche tu, nello stesso caso. Ruota il busto verso di te, e ti stacchi da quell’abbraccio per riceverne uno totale da parte sua, che ti ingloba, ti tocca l’anima, ti stringe il cuore e lo risana. Poggia il suo al tuo, e battono insieme, di nuovo. Diventano un tutt’uno.

  «La mia felpa rossa», mormora, mentre ti sfiora il collo con lentezza, prima di infilare la mano sotto al buco della maglia per carezzarti una spalla. Un gesto che ti fa rabbrividire fino alla punta dei capelli. Chiudi gli occhi e inarchi un po’ la schiena, inebriato da quel tocco, specie quando le sue labbra si posano su un tuo zigomo e ne tracciano la durezza con qualche debole bacio.

  «L'ho portata più di quanto avrei dovuto», rispondi, la bocca attraversata da un guizzo divertito. Tony sposta il viso di fronte al tuo. I vostri occhi si incontrano, finalmente, e ti perdi con una semplicità che disarma.

  «Ho sempre pensato stesse meglio a te, che a me, Spider-Man.» Ti prende il mento tra pollice e indice, lo alza verso di lui, e non aspetta altro tempo. Ti bacia. Ti bacia con premura. Nessuno slancio dato dalla passione o dalla foga di averti lì, solo una quieta dimostrazione che il tempo lo avete sfidato, ma avete vinto e quella calma che vi state concedendo è il vostro premio. Gli accarezzi una guancia, incontrando la ruvida superficie della barba sempre ben curata sotto i polpastrelli; i buchi di qualche cicatrice causata dal rasoio, in quelle mattine in cui era meno attento del solito. Ti lasci fasciare completamente da quell’amore che speravi presto di poter sentire addosso come una coperta rassicurante in una fredda giornata d’autunno.

  «È stato così doloroso aspettarmi per così tanto tempo?»

  «Un'agonia», risponde lui, lapidario. Ti lascia un bacio sotto al mento. Tu deglutisci, e sospiri tra i denti, dopo un brivido. «Tanto quanto l’averti atteso dopo la tua sparizione, sapendo che eri con un altro me… di cui sono stupidamente geloso marcio.»

  Sbuffi divertito, mentre lui continua a studiare la tua pelle a colpi di labbra. «Geloso di te?»

  «Dannatamente», mormora piano, in un sussurro che sbatte come le ali di una farfalla nel tuo orecchio.

  «Non ti farò più aspettare, Tony. Lo prometto, con tutto me stesso, non lo farò più. Non lo permetterò», dici, e per un attimo sei di nuovo Spider-Man. Risoluto, sicuro di te, persino convinto che avrai la forza necessaria per non permettere che quella separazione si ripeta. Tony ride leggermente, a quel tuo tono quasi autoritario ma non si sta prendendo gioco di te. Sembra più una sfida e, quando ti getta di peso sul materasso e ti sovrasta stringendoti i polsi per non farti scappare via – in un deja-vu già visto con il lui più giovane – hai la conferma che, l’intenzione, è proprio quella.

  «Non importa, Peter. Puoi sparire quanto vuoi, io ti riporterò sempre indietro», dice, con quel tono arrogante che un po’ ti è mancato, prima di baciarti e lasciar scivolare via tutto il resto, in un angolo. Solo per un po’. Sai che quella calma non durerà per sempre. Però sei a casa, per ora conta questo. Sei con lui, ed è come se non te ne fossi mai andato. Hai il cuore ferito, in attesa di lasciare che il tempo – ancora lui – spenga lentamente ogni cosa che brucia, fino a risanarla totalmente. Ti piace pensare che sia così, anche se fa male.

  No.

  Non importa, sei con lui, conta solo questo e sei suo.

  Sei nato per essere suo.

 

•••

 

  In un tempo diverso, scandito da altre lancette, Tony Stark si era fermato in mezzo ad un parco colorato d'autunno, mentre la porta a vetri si chiudeva dopo aver lasciato scappare via un Peter Parker che lo aveva ubriacato di bugie. Si sentì un idiota a non averlo fermato; si sentì un imbecille perché lo aveva capito eccome, quello che stava succedendo, ma era stato troppo codardo per ammetterlo, perché forse in cuor suo avrebbe preferito non sapere. Si morse le labbra, lasciando uscire tra i denti un suono frustrato, stanco di se stesso e dei suoi modi scostanti e arroganti, persino in certi momenti delicati, la cui decisione finale pesa troppo nel cuore.

  Prese un grosso respiro, alzando le spalle come in un infinito rallenty, poi si mosse. Raggiunse a grandi passi la porta a vetri e la spalancò, senza alcuna premura nel richiuderla alle proprie spalle. Corse, corse, corse, più che poteva. Forse era ancora in tempo, forse poteva ancora dirgli tutte quelle cose che avrebbe voluto in quei giorni che aveva sperato potessero diventare infiniti. Più di una volta, egoisticamente, aveva sperato addirittura che Peter potesse rimanere lì per sempre, con lui. Fronteggiò la porta della stanza di Peter, esitando un attimo prima di iniziare a bussare come se, lì dietro, ci fosse l’unica cosa che valeva più di ogni altra cosa; e forse era così. Bussò per tanto, forse troppo. Le nocche rosse, le mani bollenti. Poi spalancò la porta, e vi trovò il vuoto.

  Lo sapeva. Lo sapeva e sperava non fosse così. Lo sapeva e non aveva fatto niente, né tantomeno detto qualcosa in proposito.

  Si chiuse la porta alle spalle, quando entrò definitivamente e si accasciò a terra, dando d’istinto un pugno al suolo e non gli importava un accidenti del dolore. Non aveva alcuna importanza. Quello sarebbe passato. Sospirò, infine, piegandosi e appoggiando la fronte al pavimento gelato, i pugni stretti intorno al nulla.

  L’orologio che dava inizio alla sua infinita attesa che li avrebbe uniti di nuovo, scoccò il suo primo secondo; il primo di molti, moltissimi altri. Lo avrebbe aspettato, sì. Lo avrebbe fatto. Era quasi una vita intera, ma ne sarebbe valsa la pena.

  Per Peter ne valeva sempre la pena.


 

Fine

 

«Am I out of luck? Am I waiting to break? When I keep saying that I'm looking for a way to escape
Oh, I'm wishing I had what I'd taken for granted I can't help you when I'm only gonna do you wrong
Oh, I'm going to mess this up Oh, this is just my luck Over and over and over again».
Shots - Imagine Dragons
 
 


______________________________
 
Angolo delle angolate angolose di Miryel:
Posso dire una cosa? No? E io la dico lo stesso ahahahah *risata doppia satanica*
Questa storia mi ha spompato di tutte le dannate energie che avevo. Giuro. Lo ha fatto. Seguire il filo di una trama del genere è stato per me un dolcissimo supplizio; ho dovuto intrecciare trame legate al passato, ho dovuto rimodellare Tony e renderlo adolescente, immaginando come poteva essere grazie a quel piccolissimo estratto che Civil War ci ha donato (che la CGI sia benedetta, poi); ho dovuto ripercorrere ciò che è successo in Infinity War (siccome non mi aveva già fatto abbastanza male, no?) e ho dovuto trovare il modo di dividerli e farli tornare insieme... cercando di non snaturare quella che è la loro natura.
Un Tony fragile, che non accetta l'ennesima delusione ma che non è deluso. Che avrebbe fatto lo stesso.
Un Peter costretto a combattere gli istinti, perché l'amore che prova trascende tempo, spazio, e concezione di persona. Non importa quale Tony ha davanti, lo ama lo stesso. Non importa.
La parte finale, quella con Tony giovane consapevole della perdita e del doversi rassegnare all'attesa di incontrarlo di nuovo, è stata una scelta ardua... non volevo inserirla, avevo paura di caricare troppo di angst questo finale che sembrava lieto e invece, per l'unica vittima di tutta questa storia, non lo è. Il Tony giovane è una vittima, un ragazzino che è già costretto a crescere per non dare di matto per colpa dell'attesa.
Il mio pensiero finale, perciò, andava per forza a lui.
Volevo scrivere una Young Starker da troppo tempo, e ci sono riuscita. Non so se ho davvero racchiuso i due personaggi nella solita bolla confidenziale che cerco sempre di non perdere nelle altre storie. È una storia diversa, una storia che è stata difficile da concepire, studiare, realizzare e, infine, concludere.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Grazie a chiunque leggerà, in futuro. Grazie Grazie Grazie.
E infine grazie a Tony e Peter, agli Imagine Dragons per aver scritto la canzone che ha ispirato questo capitolo, alla mia mamma che mi ha fatto emotiva e a Ritorno al Futuro che mi ha insegnato a gestire i viaggi spazio-temporali! Grazie Doc.
Grazie ancora a tutti (ho detto la parola grazie un'infinità di volte, non odiatemi... ma DEVO essere riconoscente. Potessi vi preparerei una lasagna a tutte quante, pulcinelle).
Alla prossima avventura,
Miryel
 
   
 
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