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Autore: Diana LaFenice    08/11/2018    1 recensioni
«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche con il telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui, davanti a me, le sento sulla punta delle dita».
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il lato oscuro di un guerriero

 

 

Lady Isabel
Lo scettro d’oro che avevi fatto forgiare a sostituzione di quello di Nike lanciava brillii nel tramonto. Non era identico all’originale non ti era stato possibile forgiarlo di nuovo. In esso infondevi parte del tuo Cosmo tutti i giorni, per avere una difesa in più, nell’attesa e nella speranza che i tuoi Saint riuscissero a ripararlo. Ma questo ti costringeva anche a rinforzare la barriera del Santuario giornalmente e a scomparire sempre più spesso dalla tua dimora in Giappone.  
Sospirasti e volgesti lo sguardo al crepuscolo che arrossava i marmi di Villa Thule. Il Gold Saint dei Pesci non era riuscito a portare a termine la sua missione e la Dama degli Smeraldi si stava avvicinando. Tu non sapevi chi fosse, ma se persino Aphrodite non riusciva a catturarla allora era necessaria la tua presenza. Sapevi di non poter fare molto per loro ma dovevi affrontarla. Non avresti mai permesso a nessuno dei tuoi Saint di spirare. Soprattutto al tuo figliolo adottivo. L’avevi visto crescere, non avresti mai permesso che se ne andasse. Cosa avresti fatto senza di lui? E Seiya? E Ryuho, che sperava tanto nella sua guarigione? No, dovevi fare il possibile per salvarlo.
Rientrasti nella villa e andasti a cambiarti, dopo aver rimandato il falso scettro al Santuario tramite Ikki.
Andasti a trovare Kouga in camera sua. Il respiratore lo teneva in vita. Le sue ferite non erano ancora guarite e la cassa contenente la Cloth di Pegasus giaceva accanto al suo letto. Non era la prima volta che ti trovavi di fronte a una scena del genere. Già una volta i tuoi Saint più fedeli erano caduti in coma a causa delle numerose ferite riportate. Anche allora un elettrocardiogramma e un elettroencefalogramma scandivano il tempo come un orologio.
La mente ti riportò al Millenovecentoottantasei, in una clinica e al capezzale di un altro Pegasus.
Battesti le palpebre e tornasti al presente. Prendesti la mano di tuo figlio tra le tue. «Ti prego, svegliati». Lo implorasti. Ma ormai Kouga non si svegliava e il suo Cosmo era sempre più flebile. Sentisti gli occhi riempirsi di lacrime. In quanto Dea neanche avresti dovuto affezionarti ed essere veramente la madre che avresti voluto per lui. Il tuo ruolo te lo impediva. Era una delle leggi Divine, dovevate per forza abbandonare tutti i figli semidivini avuti o adottati. Non che non ti fossi mai innamorata in passato, ma non t’era mai interessato avere una famiglia vera e propria. Non era nel tuo destino e nelle tue corde. Il caso di Pallas te lo ricordava costantemente.
Avresti potuto avere miriadi di amanti, in fondo eri una bellissima donna. Ci fu un tempo in cui meditasti di legarti sentimentalmente a qualcuno, ma per qualche oscuro motivo, di quel periodo, ricordavi soltanto il dolore. Perché? Perché quando ci pensavi provavi questo? Era questo che non ricordavi. Perché provavi dolore? Eppure in quel periodo avevi guadagnato un Gold Saint. Perché nello stesso momento avevi perso qualcuno. E adesso quel qualcuno era tornato come un nemico. Lo stesso che stava massacrando i tuoi Saint? Non era possibile. Se era chi pensavi perché ce l’aveva con loro? Che cosa le avevano fatto? Perché si ribellava?
Tornasti con la mente a quel periodo e vedesti una persona controluce. Era una donna. Ricordavi di averla chiamata e lei si era girata a guardarti. Ti sorrideva, un sorriso triste e spaventato e poi spirava. Da lì ti eri sentita come se il cuore ti fosse andato in pezzi.  E poi ricordavi una figura bianca, femminile e assisa su un trono. E poi la prima Guerra Sacra nelle vesti di un’umana.
Era sempre stata accanto a te, ma se fosse occorso saresti scesa in campo e l’avresti affrontata di persona, come con Eris. Le inviasti quel messaggio con il Cosmo: “Ti aspetto”.  Non aveva bisogno di aggiungere altro. Sapeva che l’avrebbe trovata.

Il sole calò in fretta e presto il cielo si tinse di blu. Il momento dello scontro era vicino. “Che buffo ritrovarsi di nuovo in una situazione simile”, ti dicesti. Anche se il tempo passava, alcune cose continuavano a essere le stesse. Soprattutto tra i Saint. Per esempio anche questo Cavaliere di Scorpio ti stava accanto, nonostante la barriera di formalità. Tu, che avevi conosciuto Cardia, ravvisavi in questo Scorpio somiglianze, non solo fisiche. Avevano il vizio di sorridere quando il combattimento li prendeva. Ma il sorriso di Milo era più affilato, più arrogante, perfido di quello di Cardia; che pure fu esaltato. Viveva la vita al massimo, sapendo di morire a neanche diciannove anni per via della malattia. La vostra fu una bella amicizia. Avresti voluto che anche con questo Scorpio si ripetesse. Ma questa era la vita, andava avanti, a volte riproponendo echi dal passato, come una donna che a volte mette un foulard che non indossa da anni.
Era pericoloso risvegliare le anime, restituire i loro ricordi. Il loro ritorno aveva del miracoloso. E adesso qualcuno stava attentando alle loro vite. Non potevi fermare le Creature ma potevi ancora sconfiggere questa Dama degli Smeraldi. A questo punto era palese che fosse necessario il tuo intervento. Solo dopo percepisti lo sguardo insistente alle tue spalle. Il tuo cuore balzò in petto e ti girasti di scatto imbracciando lo scettro. Non avevi neanche percepito il suo Cosmo. “Chi sei?” Domandasti diffidente, percependo una piccolissima scintilla di Cosmo e per un momento vacillasti riconoscendo quella sensazione di mancanza. “Nostalgia?” Pensasti riconoscendola. Perché? Che tecnica era mai questa?
“Come, chi sono? Dovreste saperlo dal momento che mi avete aiutato a crescere”. Ti rispose parlando alla tua mente in greco antico ma con un’inflessione indiana. Aiutato a crescere? Da quando avevi aiutato a crescere un mostro? Era forse un’orfana di una di quegli orfanotrofi che avevi finanziato con le tue opere di beneficenza? Una giovane che aveva vissuto in una casa famiglia della Fondazione? Un’amica di Kiki?
«Fatti vedere». Ordinasti.
«Non ho cattive intenzioni». Ribatté la giovane uscendo dall’ombra della colonna alla tua destra e ti guardò esitante. Trasalisti nel ritrovarti di fronte te stessa. Solo gli smeraldi che adornavano il collo, la fronte e le orecchie ti dissero che quella era la Dama che cercavi. Solo dopo notasti le differenze: l’altezza, il colore brunito della sua carnagione, le labbra carnose, i boccoli castani prematuramente striati d’argento e i seri occhi scuri. Occhi dallo sguardo di chi porta una maledizione tra capo e collo. Poi la camicia verde e scollata e la collana argentea con pendente che si tuffava nel decolleté. La mantella nera allacciata lateralmente e i pantaloni e gli stivali neri. La spada verde appesa al suo fianco. L’ avambraccio scoperto appoggiato alla colonna. «Come potrei? Siamo pur sempre parenti». Continuò.
«Come sei riuscita a entrare? Neppure le mie Saintia sono…» La visitatrice t’interruppe alzando le spalle: «Lo sapete che per me non è un problema eludere la sorveglianza, lo facevo sull’Olimpo, qui, Lassù, non fa differenza». Tendesti lo scettro verso di lei ma ti fermò con un cenno della mano e uno sguardo mesto. Non usò il Cosmo, non fece niente, furono proprio quegli occhi delusi a fermarti. «Capisco che non ci vediamo da millenni, però quando mi avete chiamato pensavo che vi foste ricordata di me».
«Cosa?»
Sussultasti e trattenesti il fiato rumorosamente. Quelle parole ruppero un sigillo che avevi dimenticato e nuovi ricordi fiorirono nella tua psiche. Cadesti in ginocchio e lei ti fu subito accanto per sorreggerti, spaventata: «Che vi succede? State bene?» Ti portasti una mano alla faccia mentre i ricordi fluivano in te. Non era un incantesimo, nessuno ti aveva scagliato un Fantasma Diabolico. Erano tuoi e solo tuoi, solo che la tua psiche umana non poteva contenerli tutti. Immersi nel bianco della tua vera dimora sull’Olimpo. Dove una bambina ti supplicava di lasciarla partire e dove una giovane adulta, una Dea, tornava a te sul campo di battaglia. La stessa che poi ti supplicava di accettarla come tua Ala. Tu che le dicevi di no, che non era giusto e lei che ti convinceva, determinata. E poi lei stessa, i capelli striati dell’oro del crepuscolo, che ti guardava da sopra una spalla e ti salutava sorridendo speranzosa, nonostante la paura e le lacrime: «Questo è il mio tramonto, madre. Ma non vi preoccupate, dopo il tramonto torna sempre l’alba».
Tornasti al presente e guardasti la ragazza incredula mentre la mano scivolava dalla tua faccia. La giovane dagli occhi scuri ricambiava con occhi angosciati. Un nome affiorò nella tua testa mentre la nostalgia e il dolore si trasformavano in stupore: «Asia». La tua Azona. La tua bambina. Allora era lei la Dama degli Smeraldi. Poi altri, più terreni, legati a quei sentimenti che come Dea non ti era concesso vivere.  Era questo il nemico che avevi chiamato? C’era uno sbaglio, era tutto un malinteso. Lei non poteva esserlo. Lasciasti cadere lo Scettro che tintinnò sul terreno.
«Madre?» Tentò lei, incerta, quasi che avesse paura.
Sorridesti piangendo di gioia: «Asia!» Il tuo sorriso e la tua gioia la contagiarono e fu come se la maschera si fosse dissolta rivelando la vera Asia. Per un momento ti parve di vederla tornare bambina mentre vi abbracciavate.
Voi le Bianche Fanciulle, altrimenti dette le Incantate, quanti miracoli avevate compiuto, sconfiggendo i vostri parenti. Il Celeste Tonante, L’Insidioso Inesplorato, Il Sotterraneo Oscuro, il Crudele Misericordioso e il Generoso Ristoratore, Il Luminoso Profeta, La Vergine Cacciatrice, Il Furioso Guerriero e La Selvaggia Sanguinaria. Non ultimi Il Rinnegato e L’Immortale. Questi erano i nomi con cui gli Dèi erano conosciuti nel Mondo Celeste.
Ma lei era La Vergine Disincantata. Neanche Bianca: aveva sempre odiato i significati di quel colore che non le erano mai stati concessi di vivere. La tua ombra.
Piangesti e alzasti il volto verso il soffitto come se tu avessi potuto vedere il cielo stellato. «Per l’Olimpo, sei tu? Credevo che non ti avrei rivisto mai più». Lei Ricambiò la stretta con calore singhiozzando tra le sue braccia.
Ti discostasti quel tanto che bastò per guardarla e le prendesti il volto tra le mani per osservarla meglio. La tua bambina era tornata da te, con un corpo e un’etnia diversa ma c’era riuscita, era viva.
Sorrise e trattenne la tua mano sulla guancia bagnata e rispose: «Sì, sono proprio io». Ma non si scusò per non riuscire a smettere di piangere. Ma cosa sarebbe importato? Neanche tu ci riuscivi.
«Credevo… credevo che fosse un nemico e invece eri tu. Oh bambina mia». L’ ultima volta che la vedesti, fu nell’Anno Mille, a ridosso della Guerra Santa contro Hades. Le altre volte neanche immaginavi che lei avesse continuato a vegliare su di te.
«Madre». Sembrava che fosse diventata incapace di dire altro. «Come avete fatto? Come vi siete salvati? Credevamo…» Uno strano odore ti arrivò alle narici «Ma tu sai come l’Oltretomba? Che è successo? É lì che avete trovato rifugio?»
Lei si deterse la faccia con la mano e tirò su col naso: «É una lunga storia».
«Raccontamela, per favore, raccontami tutto». L’aiutasti a rialzarsi e la portasti nella sala da pranzo.
Proprio in quel momento la porta si spalancò di soprassalto ed entrò Mii tutta trafelata. «Signora».
«Oh, Mii». Sorridesti lacrimosa. La Saintia del Delfino vi guardò senza capire. Soprattutto quando le chiedesti di portarvi del tè e della torta. Ti tamponasti gli occhi con il fazzoletto. Lei obbedì, non prima di averti chiesto se andasse tutto bene. «Sì, va tutto bene». E poi ti chiese chi fosse Asia e tu rispondesti, dopo averla guardata un istante, dopo averla presa per mano. Asia ricambiò la stretta: «Una persona a me molto cara e un’ospite molto gradito».
La cara Mii la guardò guardinga ma obbedì. Vi accomodaste sul divano e Asia si guardò attorno meravigliata per la magnificenza della magione. La facesti accomodare sul divano accanto a te. Non sopportavi che ci fosse qualcosa a separarvi, anche se era solo un tavolino da tè. E lì Asia ti raccontò tutto quello che era successo dall’Anno dell’Apocalisse a ora. Tu ascoltasti sbalordita dalle sue gesta e dalle sue prodezze, ma anche dalle sue gioie e dai suoi dolori. Si fermò solo quando Mii fece ritorno e vi portò tutto e per sbocconcellare e bere. «Sono contenta che tu abbia trovato qualcosa che valga la pena di amare e di proteggere». Le facesti commossa. Avevi bevuto e mangiato qualcosa anche tu, anche se non avevi sete e fame. La tua gioia aveva annullato tutti i tuoi affanni. E poi ti raccontò anche che cosa era successo nel Millenovecentoottantasei: «Non posso dirti molte cose, ma posso farti il sunto». E così tu apprendesti che cosa c’entrassero le nuove morti con Hades e il suo trapasso. Quando avevi scagliato lo scettro non pensavi che avresti causato tutto questo. Lei però continuò in tono lugubre: «Ma qualcosa è andato storto. Qualcuno ha impedito a mio fratello di prenderlo». Capisti che si riferiva all’Azone di Hades. Cosa? Dov’era in quel momento? Come aveva fatto?
«Qualcuno? Chi?»
«Non posso dirtelo, ma è una persona che conosco. Abbiamo già aggiustato ogni cosa, ma non è questa la cosa che più mi preme.» Mise giù la tazza e ti prese le mani tra le sue e ti guardò dritto negli occhi. «Devo raccontarvi la verità a proposito delle Creature e di quello che ho scoperto due anni fa». Dichiarò. E ti disse tutto ciò che sapeva. Ascoltasti tutto con sgomento crescente. Alla fine sfilasti le mani dalle sue e te le ponesti in grembo. Questo cambiava molte cose: «Questo è» iniziasti ma le parole ti morirono in gola. La guardasti di nuovo: «Perché? Come è possibile? Non doveva essere stato scongiurato?»
«No. Ed è per questo che sto cancellando tutte le cose che si sono aggiunte in questo tempo e che sto cercando Loro».
«Loro?» Ripetesti confusa senza capire. Lei ti guardò come a dire: “Cercate di ricordarvelo, lo sapete di chi parlo”. «Loro». Ripeté calcando l’accento su quella parola. Avesti un flash di nove figure controluce. No, andiamo, non poteva essere che Li stesse cercando. Loro. Proprio Loro. No. Ti portasti le mani alla bocca. In che cosa si era cacciata? Asia ti osservò impassibile: «Sapevo che avreste reagito così».
Togliesti le mani dalla tua bocca e ti sporgesti verso di lei, affondando le dita nelle sue braccia come se tu avessi voluto scuoterla. «Come pretendi che possa reagire? Hai idea di cosa tu stia combinando? Sono pericolosi e tu sei solo una Dea. Anche se sei un’Azona non puoi fare niente, non ti presteranno mai ascolto! Siete stati proprio voi Azoni a scagliare il colpo finale. Non aspettano altro che di uccidervi».
«Sai che non è vero. Uno di loro mi ascolta». 
«E continuo anche a pensare che non possa che essere per via di un secondo fine! Probabilmente sta cercando di infinocchiarti per portarti dal Drago Nero! Te l’ho già detto, te l’ho sempre detto, con gente di quella risma non ti puoi mescolare, non hanno niente a che spartire con noi». Ti sembrò indecisa prima che aprisse bocca e sparasse: «Io sono sua figlia». Quelle parole ebbero lo stesso effetto di un rintocco di campana a distanza ravvicinata. Tacesti guardandola sbalordita. Battesti le palpebre per lo shock. Forse era colpa della stanchezza e non avevi capito bene: «Potresti ripetere, scusa?»
Lei fece spallucce e rispose, guardando altrove e si liberò dolcemente dalla tua presa: «É così». Avevi capito bene, proprio come temevi. E, improvvisamente, superate le fasi dello sconcerto, del dubbio, ti ritrovasti in faccia l’amara verità. Adesso tutto ti parve avere senso. Dall’Olimpo fino a ora, compreso il suo rapporto con il Drago Rosso. Ti portasti le mani alla bocca. Non poteva essere vero. Cercasti in quegli occhi traccia di menzogna ma non ce ne erano. Lasciasti scivolare le mani dalla bocca per mormorare: «Non è possibile».
«Eppure lo è. Questo complica di parecchio le cose e al tempo stesso le rende assai più semplici per quello che sto facendo». Aggiunse giocherellando con una ciocca dei suoi capelli argentei. E, per una volta tu Atena, la Dea della Guerra, fosti a corto di parole. Distogliesti lo sguardo, disgustata e in preda ai dubbi. Avevi aiutato a crescere la Progenie Proibita? Non era possibile. Ma era sempre la tua bambina non poteva essere che... Ti tornò in mente la prima volta che ti regalò un disegno e la sua voce squillante che rimbombava per il tuo Santuario quando rideva. No, non importava da dove saltava fuori, lei era pur sempre tua figlia e tu l’avresti difesa a spada tratta. Ma l’idea che si gettasse da sola in battaglia a questo modo e con loro. No, non lo sopportavi. Avresti voluto impedirglielo ma ormai era adulta non era più affar tuo: «Madre?» Ti chiamò, incerta.
La guardasti: «Non so che dirti. Sinceramente mi trovi spiazzata. Posso solo augurarti che il tuo cuore sappia quale sia la strada giusta». Vedesti lottare le varie domande prima che capisse la tua decisione. Solo allora ti sorrise, lieta che non fosse cambiato nulla. «Grazie, madre». Vi abbracciaste un’altra volta, poi lei si discostò e tornò seria: «C’è anche un’altra cosa».
«Che cosa?»
«Un avvertimento da parte del Cosmo». Disse indicando il soffitto sebbene nella posa ti ricordasse molto Death Mask e la sua tecnica. «Ma se vogliamo che la Formula di Dio abbia successo, non dovrai dire nulla a nessuno. Solo quando le cose si faranno gravi».
«La Formula di Dio? É per questo che stai cercando i Guardiani delle Case degli Astri?»
Avrebbe messo in moto un meccanismo che se si fosse guastato vi avrebbe condannati tutti a morte. La Formula di Dio era la vostra unica speranza solo se integrata con questo meccanismo, ma meno veniva utilizzata meglio era. Non volevi condannare nessuno a portare sulle spalle un simile fardello. Non eravate pronti. La tua parente ti guardò perplessa. «Perché no?» Domandò. Come faceva a non capire? Avresti voluto urlarglielo in faccia. Tu la vedevi ancora come la bambina che giocava nei Santuari sull’Olimpo. Ancora sentivi il bisogno di proteggerla. Anche dopo quello che ti aveva rivelato. Non basta così poco per cancellare l’amore di un parente. Benché meno il tuo, che anticamente lottasti per salvare tuo fratello terreno dall’influsso di Hades, salvo poi scoprire che era più lui a manovrare Hades che il contrario. Per questo te ne uscisti con un banale ma ricco di sottintesi pericolosi: «Perché sono stati esiliati».
«Non ho mai detto che voglio che siano riammessi nel Mondo Celeste, ma che presiedano le loro Case, sai bene quanto me che la Corsa non potrà cominciare se loro non ci saranno. Non abbiamo altra scelta; dobbiamo richiamarli al loro sacro dovere».
«É una follia».
«Non sta a noi decidere, qui si parla di una volontà ancora più grande. Basta smettere di giocare a fingere che non stia succedendo niente, basta! Se la nave affonda o si ripara la falla e si butta fuori l’acqua o ci si mette in salvo, non si resta a morire nello scafo che si riempie!» Esclamò a sua volta perdendo il controllo sul suo Cosmo per un momento, bianco come il lampo dei suoi occhi. «Non prenderti libertà di parole che non hai! Sei pur sempre al cospetto di una Dea del Pantheon!» Le ricordasti pacata. Lei parve essersi resa conto di ciò che aveva fatto e ritrasse il suo Cosmo e si scusò: «Perdonami, non volevo essere scortese».
Le sorridesti prima di rassicurarla: «Lo so sei spaventata anche tu, lo capisco».
«Mi sorprende che anche gli altri non lo siano. Pensavo che almeno voi non foste trincerata dietro le vostre illusioni». Troppo diretta come sempre. Quasi come un adolescente, ma si sapeva che la vostra crescita era molto lenta. E lei, non aveva ancora ammorbidito gli spigoli del suo carattere. Però, la conoscevi abbastanza per dire che se lo era, era perché voleva delle risposte. Risposte che altrove non aveva trovato. Che voleva ricordarvi di combattere. Che non sarebbe servito a nulla fare finta di niente, quando anche il resto della famiglia aveva lavorato per salvarvi. Avreste dovuto aspettarvelo che sarebbe stato assai più complicato di quanto vi aspettaste. Neppure tuo padre, il Gran Dio Zeus sapeva cosa sarebbe successo. Gli unici che avrebbero potuto saperlo erano i Titani, ma nessuno si sarebbe mai avventurato nel Tartaro a interrogarli. Mentre i Guardiani degli Astri, Ossignori, quelli erano pure peggio. E lasciare che lei si avventurasse alla loro ricerca era come mandare un agnellino al macello. Ma era anche vero che era la vostra unica speranza. Essendo quest’agnello diverso dagli altri, forse avrebbe avuto una chance e non sareste stati a lutto.      
«E tu credi che risponderanno?» Domandasti.
«Forse alla chiamata di una Dea del Pantheon no, ma può darsi che alla figlia di un altro Guardiano degli Astri sì».
La fissasti per qualche istante prima di sospirare: «Oh, sei sempre stata un’inguaribile ottimista». Poi l’abbracciasti un’altra volta, come se avessi potuto fermarla. Lei ricambiò la stretta: «Sai com’è, mi piace tentare l’impossibile».
Solo allora chiedesti con un sorriso nervoso: «Dunque è questo ciò che mi chiedi. Dovrò restare a guardare mentre i miei Saint si massacrano tra loro un’altra volta. Come farò a capirlo?»
«Lo capirai». Rispose enigmatica, poi sciolse la stretta.
«Allora buona fortuna, Lady Asia degli Azoni». La salutasti, orgogliosa della splendida Dea che era diventata.  
Chinò il capo sorridendo e poi ti guardò come a dire: “Non ti deluderò”. Poi ti strinse la mano come a sottolineare questa promessa: «Anche a voi». Poi si alzò e si avviò verso l’angolo più in ombra e si fermò. Poi ti guardò da sopra una spalla e ti sorrise, ma di un sorriso vero che sembrava dire che ce l’avrebbe fatta. Si girò e avanzò fino a tornare a essere un tutt’uno con le ombre.
Sospirasti.
Qualcuno bussò alla porta e tu sobbalzasti. Poi la voce concitata di Xiao ti raggiunse: «Mia Signora! Mia Signora!» Ti chiamò dall’altra parte. Ti portasti una mano al cuore ed espirasti. Poi ti alzasti e andasti ad aprire mentre il cuore tornava a pompare regolarmente.
Mentre rassicuravi Xiao la mente ti volò ad Astrid. Ti eri sentita molto offesa da quasi tutti loro. Non solo perché non le avevano dato la possibilità di difendersi. Ma non potevi punirli come ai tempi delle Crociate. Asia era stata più che chiara su questo punto.  
Dovevi aspettare il momento giusto. Sempre che ne avessi avuto il tempo, anche perché, adesso che si era rivelata come una Progenie Proibita doveva morire. C’era un incantesimo atti a rivelarli qualora il frutto proibito si riveli a un parente o un amico. Adesso Asia era entrata nel mirino degli Dèi e non eri sicura che sarebbe riuscita a cavarsela anche contro di loro. E tu, in quanto protettrice della Terra, non potevi tirarti indietro. Dovevi fare qualcosa per impedire agli altri Dèi di ostacolarla. “Sbrigati, Vergine Disincantata”.

Solo dopo scopristi che Kouga di Pegasus era spirato.

Kanon
La notizia della morte del primo Saint della Dea era giunta come un fulmine a ciel sereno. La Dama degli Smeraldi aveva colpito. La Dea non l’aveva esplicitamente detto ma era evidente che non fosse riuscita a proteggerlo. Questo era un guaio e ormai la Bronze Cloth di Pegasus non apparteneva più a Seiya. I funerali si sarebbero celebrati presto, ti aveva solo detto la Dea dopo aver accettato le tue condoglianze. I Cavalieri erano riusciti a occultare i morti. Li avrebbero seppelliti i servi quella sera stessa. Quel giorno erano morti altri Saint e la cosa più grave era che Astrid non era riuscita a riportarli in vita. Stando a lei erano già morti prima di essere polverizzati. E così avevate scoperto un limite inquietante del suo potere. Da un lato era stato rassicurante, dall’altro no. Significava solo che era un’arma contro le Creature.
Avevi vincolato i servi al silenzio: se i Marine avessero saputo che non eravate al completo sarebbe stato un disastro. Senza contare le varie spie che stavate tenendo d’occhio tu e Zenais. Sarebbe stato come mostrare il fianco a un nemico a cui un tempo appartenevi.
Ti sedesti alla tua scrivania e apristi un libro sul leggio, senza tuttavia leggere veramente. Adesso il tuo passato era tornato a tormentarti. Odiavi nascondere le cose anche se per il bene comune. Nascondere e ombra erano le parole ricorrenti nella tua vita. Nato sotto una cattiva stella, nascosto sotto le stelle al Santuario e sotto le onde a tramare vendetta. Nell’ombra per la Dea che ti restituì la vita e che non smise mai di credere in te. Creatura forgiata nell’ombra. Come quella di Defteros di Gemini. Il vecchio Shion ti disse, dopo averlo sentito da Dohko di Libra anni prima, che tu gli somigliavi moltissimo. Tu non eri sicuro perché si sa che la memoria a una certa età diventa vaga come il tempo. Ti eri documentato e sì c’erano parecchie somiglianze. Solo che Defteros non cospirò mai contro la Dea. E che non riuscì mai a perdonarsi per non essere riuscito a salvare Aspros. E che si sacrificò per diventare una persona sola con lui, ridargli la vita e la stabilità mentale. Perché spesso i nostri peggiori demoni vivono nella nostra psiche. Si nutrono delle nostre paure e fioriscono come rovi attorno al cervello. Divorando, maturando e distruggendo finché non resta più niente. Anche tu avevi fatto qualcosa di simile, solo che in cuor tuo non riuscivi a trovare la forza di perdonarti.
Passasti una mano sulla pagina del libro. Un’abitudine che avevi preso da Shion per osmosi di carica. No, avevi indugiato in questi discorsi anche troppo. Dovevi capire i limiti di Astrid al più presto. Anche se per la prima volta ti parve di scorgerla sotto un’altra luce e in lei ravvisasti un tuo simile. Forse era questo l’altro motivo per cui la volevi studiare. Lei era quanto di più simile potesse esserci a te, almeno per il fatto che, in un certo senso eravate stati scelti dalle stelle. Tu per interpretarle e servire il Santuario, lei per conoscerle e portare tra voi tutta la loro magia. E in fondo l’ammiravi.
Mandasti a chiamare l’arpista nella speranza che la musica ti distraesse un po’. Ma neanche la musica riuscì a staccarti dai tuoi pensieri. E, a quel punto, mentre sfogliavi il libro, la fermasti e mandasti a chiamare Astrid con la scusa di farti portare un infuso rilassante.
Quando arrivò ti chiamò: «Sommo Kanon, eccovi l’infuso che avete richiesto». Richiudesti il libro e le indicasti il tavolinetto dicendo di metterlo lì. Lei obbedì, poi ti chiese se avesse potuto fare altro per te. Ti alzasti e all’infuso pensasti tu. La giovane si era scostata per lasciarti lo spazio necessario e attese. Soffiasti per raffreddarla e la guardasti. Stavi per dirle che poteva ritirarsi quando ti venne un’altra idea e le chiedesti di cantare per te. L’avevi sentita cantare qualche volta mentre faceva le pulizie o cucinava. Avevi sentito spesso dire da Cocteau quanto amasse cantare e ascoltare musica di tutti i tipi.
«Cantare, signore?» Ripeté perplessa arrossendo. In effetti non era una richiesta che facevi spesso. «Ovviamente se vuoi».
«Non sono molto brava». Ti avvisò cauta e imbarazzata.
«Non ti preoccupare, neppure io sono questo granché». La rassicurasti sedendoti in poltrona con la tua tazza, lasciandole così campo libero. Poi che sarebbe potuto accadere? Al massimo sarebbe piovuto o tu saresti andato in bagno più volte. «Cosa volete che vi canti?» Ti chiese sempre poco convinta. In quanto ancella era tenuta a obbedirti. E le conveniva impegnarsi per non deluderti; anche se tra voi non correva buon sangue.
«Quello che ti va, non me ne intendo moltissimo di musica». Non che ne avessi ascoltata poi tantissima nella tua vita. Ad ora era uno dei piaceri di più difficile realizzazione. Di musica greca, non sapevi neppure che band c’erano, figuriamoci musica estera.
La giovane prese fiato e cominciò a intonare una melodia. La canzone che decise di cantare per te non la conoscevi. Riconoscesti la lingua, ma non le sensazioni che il suo canto ti trasmise. Era qualcosa di sottile, di tangibile, ma forte e delicato al tempo stesso. Come un’essenza, quasi una magia. Cosa diametralmente opposta al Cosmo che, bruciando, usavate.  «Darksome nights and silver moon…»
Più la canzone andò avanti più il sorriso si delineò sul tuo volto. C’era un altro motivo per cui l’avevi chiesto proprio a lei. Ti piaceva vedere i movimenti delle sue braccia e delle sue mani in quella danza appena accennata. Mani che se non stava attenta rilucevano e parevano disegnare il suono. Quando cantava era come se le stelle cantassero con lei. Quasi percepivi le loro voci farle da contro canto. E il modo in cui si illuminava quando lo faceva, come se potesse entrare in una dimensione tutta sua. Era grazie a lei che ti stavi facendo una playlist musicale.  
La giovane smise di cantare. La ringraziasti, dopodiché aggiungesti: «Mi piace, come si chiama?»
Lei glielo disse e alla domanda: «L’hai composta tu?» Si schernì negando: non sapeva comporre musica. «Eppure ho sentito dire che anche quella sia matematica».
«Sì, lo è, ma non ho mai appreso quest’arte, in realtà sono una dilettante». Ammise.
«Però ci metti molta passione».
«É l’unico modo che conosco per impegnarmi e poi che figura ci farei se facessi qualcosa tanto per fare?» Disse. Un’ottima risposta. Curvasti la bocca in un sorriso e le chiedesti di cantarti altro. Così passasti la serata ad ascoltarla. Alla fine, quando fosti soddisfatto la ringraziasti per la compagnia e le desti il permesso di ritirarsi. Lei fece una riverenza e poi ti augurò un buon riposo prima di uscire.  
Mescolasti l’infuso prima di berlo. Domani sarebbe stata una lunga giornata.       

Cocteau
Il corteo dei Marine arrivò verso mezzogiorno. Ad aprire la fila c’era il Marine di Sea Dragon. Si sarebbero fermati per qualche giorno, che queste cose non sono mai immediate. E servono soprattutto per ostentare l’opulenza e la ricchezza (come fossero sinonimo di forza) di una Divinità. Ergo avreste dovuto indossare l’Armatura e presenziare a banchetti e ricevimenti.
Quanti trattati avevi stipulato durante gli anni dell’usurpazione di Arles. E voi dovevate stare molto attenti a continuare a nascondere la polvere sotto al tappeto e gli scheletri nell’armadio.
Soprattutto Astrid. Se Artemide ed Eris avevano montato tutta quella baraonda per trovarla, non osavi immaginare cosa avrebbe fatto Poseidone. Perché se loro stesse erano mosse dalla disperazione allora neanche per i Marine era molto diverso. Avevi sentito dire che c’avevano messo decadi a ricostruire il loro Santuario dalla battaglia dell’Ottantasei. In più, sempre stando ai Saint che avevate mandato in ricognizione, sembrava che neanche i Templi delle Dee della Caccia e della Discordia fossero in piedi.
Quella mattina Rodorio stessa si colorò di festoni e si fece festa per accogliere i nuovi arrivati. Era stata un’idea di Aphrodite. Voi tutti l’avevate trovata un po’pacchiana ma non era malvagia: dopotutto i meeting sono tristi. E tra tutti avevate un disperato bisogno di dimenticare un po’ quanto finora accaduto. Magari sareste riusciti a mettere i vostri ospiti abbastanza di buonumore per i prossimi decenni. Ogni Saint presedette alla propria Casa per accogliere il corteo che avanzò a passo solenne fino alla Casa di Atena. Quando i Marine infilati nelle Scale arrivarono ti ricordarono molto i luccichii delle onde del mare. Voi Gold Saint li anticipaste passandogli ai fianchi e raggiungeste Kanon. Quando anche l’ultimo di voi si fu disposto, il Marine di Poseidone chiamò tuo fratello: «Sommo Kanon». Poi tese una mano verso di lui. Kanon sfoderò il suo sorriso migliore e avanzò incontro all’uomo. Tu e Shura subito dietro a lui. «Canopo Marine di Sea Dragon». Stringendo quella mano.
E la folla che si era radunata sulle scale e la montagna per assistere all’evento scoppiò in grida di giubilo e lanciò coriandoli.   
Ancora non vi era chiaro che cosa fosse questa Luce Ombrosa, ma era enormemente preziosa. Qualcosa che probabilmente neanche tu dovevi avere, ma che avrebbe potuto distruggere Arles. La belva che adesso, dai recessi della tua mente, ti guardava e sogghignava: “Non ci provare neanche”. Poi il tuo riflesso passava dallo specchio alla tua ombra che si stagliava contro i muri, grazie alla luce che filtrava alle tue spalle. E che rispondeva, innalzandosi più inquietante delle Creature: “Perché no? Magari potrei essere io ad annientare quella fastidiosa principessina viziata e, magari fare di quella piccola serva la mia regina”. Che ormai regnava sovrana nelle sue fantasie più sfrenate, accese e fomentate dal ricordo di quando ti ritrovasti stretto al suo petto e dagli sberleffi di Shura. Quella belva ormai si domandava sempre più spesso che sapore avessero la sua bocca e la sua carne, come avrebbe potuto piegarsi al suo tocco e assecondarlo. Troppo, per te. Decisamente troppo. Perché l’unico motivo per cui la desiderava era il potere. Non volevi ferire nessuno e non era giusto che Astrid diventasse una pedina nelle vostre mani. Quasi ti venne da sperare che vi ammazzasse entrambi. Che il rapace che avevi ravvisato uscisse da lei e facesse strage delle tue membra come l’aquila di Prometeo.   
Non è così, mio buon (Bella - Copia - di -) Frollo di noialtri? Tu non eri sacerdote di alcun tipo, di problemi con la castità non ce ne erano. Voti simili a quelli del sacerdozio non ne stringesti. Nessuno di voi li strinse. Potevi avere tutte le donne e gli uomini che desideravi appena oltre Rodorio. In molti facevano la fila per te e tu quel piacere lo coglievi, eccome, se lo coglievi. Quando non eri con Astrid, non avevi da amministrare i tuoi sottoposti e la bestia non ti tormentava, di solito eri a spassartela ad Atene.    
“Anche no”. Ma come sempre, il pensiero di averla nel letto fece muovere qualcosa nei tuoi calzoni. Meno male che avevi l’Armatura indosso, altrimenti sarebbe stato ancora più tremendo. “Te l’ho detto, non potrai bloccarmi per sempre”.
«Saga, tutto bene?» Ti domandò Shura, affiancandoti.  
«Sì. Va tutto bene». Rispondesti simulando tranquillità. Avevi percepito il suo Cosmo.
«Sei sicuro? Ti vedo molto provato».
«Sì, ho solo caldo».
«Sicuro di non avere la febbre?» Ti domandò, deciso a non mollare l’osso. Era normale che si preoccupasse per te. Praticamente l’avevi cresciuto tu insieme ad Aiolos. Anzi, forse più tu che Aiolos, visto che fosti tu ad andare a prenderlo in Giappone, quando ricevette la sua investitura a soli nove anni. Per lui eri una sorta di fratello maggiore. Ricordavi ancora di come si sforzasse di essere forte, di mostrarsi degno del titolo e dell’Armatura conquistata. Senza sapere che tu eri pronto a prendergli la mano e trasmettergli la tua forza. Dirgli che, se avesse voluto, lo avresti riparato sotto al tuo mantello.
Invece, non accadde. Lo capisti e fosti colpito dalla serietà con cui ti rispose, quando ti presentasti a lui. E di ciò che disse quando tornaste dalla battaglia contro Aiolos. “Lui non è un animale è un compagno e un caro amico”. Non pensavi che, dopo tutto il male che gli avevi fatto ti considerasse così. E sapevi che, pur essendo ferito, in quel momento era sincero, mentre tu, posato sull’avambraccio di Seiya, nella tua forma animale, lo guardavi rialzarsi, nell’attesa dell’ambulanza. Proprio come un vero Saint. Due poveri disgraziati che cercavano sostegno l’uno nell’altro. Tu con il rischio di venire sopraffatto dal tuo demone e lui che rischiava di trasformarcisi veramente. Ti domandavi come riuscisse a restare così tranquillo. Anche per lui avresti combattuto. «Sicuro, è aprile, ultimamente fa più caldo». Un lampo di dubbio passò nel suo sguardo, prima che decidesse di risponderti: «A me sembra sempre uguale. Sei sicuro di stare bene?»      
«Sì, te l’ho detto, è solo il caldo. Niente che non si possa risolvere con un bel bagno». Ti maledisti appena lo dicesti. Quando iniziavi fare bagni a ripetizione significava che Arles stava lentamente riprendendo possesso. E avevi imparato a conoscere e riconoscere i segnali che dava l’Altro, in quei tredici anni forzati di convivenza.   
«Sarà, per sicurezza passa da Shun. Io devo tornare da Kanon, ci vediamo dopo». Si raccomandò, poi, prima di girarsi e tornare al suo posto. «A dopo». Lo salutasti. Appena fosti sicuro di essere solo ti nascondesti in una stanza e ti spogliasti. Infine, ti trasformasti nell’Oracolo di Atena. Il tuo corpo si illuminò di luce aurea e rimpicciolisti. Le tue sopracciglia scomparvero, i tuoi occhi s’ingrandirono, la bocca e il naso diventare un tutt’uno fino ad allungarsi e assumere la forma di un piccolo becco. I tuoi capelli rientrarono nel cranio come le orecchie, e, dalla tua testa nacquero i tre topolini grigio blu, mentre dal tuo capino, ormai arrotondato spuntavano le piume e le creste che facevano da orecchie. Il tuo lungo collo si accorciò e i muscoli umani rientrarono nella carne lasciando il posto alla muscolatura di uccello. Le tue braccia si sollevarono in alto e le tue dita si fusero in un unico osso, mentre la carne che la rivestiva si aprì come una membrana di muscoli, grasso e vene e nervi e si coprì di piume, come il resto di te. A parte sulla zona che una volta fu dei polpacci. Le rotule si piegarono all’indietro e tu vacillasti, mantenendoti in equilibrio arruffando le penne e sbattendo le ali. Poi i tuoi polpacci assunsero una colorazione scura e la tua pelle si coprì di collinette, mentre le ossa dei tuoi piedi si separavano e si univano fino a formare le dita da rapace e, il tallone si allungava verso l’esterno per darti più sostegno e, le unghie si tramutavano in artigli. Gli ultimi dettagli furono rifiniti, abbandonando completamente la tua forma umana. Non era una trasformazione indolore. Ma tu, che nella vita avevi sopportato di peggio, non ti diceva niente. Avresti anche pianto, non fosse stato che ti erano scomparsi i dotti lacrimali. In questa forma andasti a cercare Astrid. Se non altro non avevi paura di ferirla ulteriormente. Tanto lei aveva rigenerato le ferite che gli avevi inferto.     
La trovasti appollaiata a una finestra a guardare il mare. Solo dopo ti accorgesti del filo degli auricolari bianco che si mescolava con il colore della sua divisa.   
Cantò immersa in un mondo tutto suo. Forse quello dove lei poteva sgattaiolare via e andare al mare. Ma ora con i Marine non era il caso. Lei doveva fingere di essere una serva come tutte le altre.
Spostò lo sguardo e fissò il soffitto. L’avevi soprannominata strega dopo l’ultima sveglia a sorpresa. Era ufficiale, ormai te lo faceva apposta. Se ti eri salvato era solo per via del fatto che dovevi ricoprire la tua missione di Gold Saint. Parlare con tuo fratello le faceva sempre quest’effetto. La faceva riflettere, nel bene o nel male. Spesso, togliendole l’allegria per intere giornate. Oh, Kanon era un abile manipolatore, ma era ancor più bravo a sbattere in faccia la verità o insinuare il tarlo del dubbio. Quello che aveva detto a Kanon era vero: non sapeva comporre niente. E tu nemmeno immaginavi che la sua conoscenza musicale si limitasse a un più striminzito karaoke che a vera musica. Per fortuna che Elisa, la musicista della Tredicesima aveva avuto la brillante idea di aiutarla a perfezionare il suo canto. Non che fosse pessima, aveva l’intonazione, una bella voce, ma le mancava pochissimo per essere davvero bravissima. Forse i suoi professori avevano ragione quando dicevano che non sapeva scrivere. Si era illusa che bastasse saper parlare come un libro stampato per sapere scrivere. Ma non aveva mai fatto molta pratica. Le persone sanno veramente essere ingannevoli. Si era illusa che i suoi follower sui siti di scrittura le dicessero la verità. Ma non era vero neanche questo. I loro complimenti trasudavano falsità a ogni sillaba. E lei avrebbe voluto accorgersene prima, almeno non avrebbe abbandonato l’università. “Che stupida sono stata”. E dire che voleva solo scrivere. Ma cosa voleva scrivere? Non ne aveva idea nemmeno lei stessa. Perché (adesso era consapevole) sapeva esprimersi ma non mettere su carta tutto quello che riusciva a dire. Non era come quando cercava di seguire il consiglio del suo psicologo e allora passava ore a scrivere su quel quadernino nero (che avresti dato oro pur di sfogliare). Si trattava proprio di creare storie e lei non sapeva neppure da che parte cominciare. E, se ce la faceva, le parole erano banali e prive di significato. Potevi dirlo con cognizione di causa visto che un paio le avevi lette di nascosto.
Poteva impegnarsi quanto le pareva, ma non riusciva davvero a fare granché. La letteratura non l’amava, al contrario di tutte le discipline scientifiche. Solo con le cifre la sua mente si librava, viaggiava all’infinito e raggiungeva vette dello scibile umano che neppure sospettavi esistessero. Per questo era così brutto vederla abbacchiata.
Che i suoi avessero avuto ragione quando dicevano che la sua strada era tra le stelle? Le stesse che aveva tanto cercato di evitare prima di incontrare voi. Peccato che preferisse ancora osservare degli ammassi luminosi distanti anni luce. Che sulla Terra reputasse che non ci fosse niente per lei.  
Unica delle sue convinzioni a non essersi capovolte nel giro di un anno. Almeno non faceva più l’eremita. O quasi. Ti dispiaceva veramente vederla giù di corda, solo che non sapevi come tirarla su. Non potevi aprire becco, altrimenti ti saresti scoperto. Non potevi neppure rivolgerle delle parole di conforto. Tutto quello che potevi fare era restare a guardarla mentre si girava e ti domandava: «Bel casino, vero?» Come se avesse capito che tu le stavi leggendo nel pensiero. «Ho ventun anni e tutto quello in cui mi credevo brava è andato a farsi benedire». Balzò a sedere e tu la guardasti senza dire niente, poi raggiunse la scrivania.
«Se solo avessi già le mie carte finite». Fece sfiorando i fogli sul banchino. Tu osservasti gli scheletri delle carte che quel povero diavolo di Death Mask (unico artista del gruppo) si era offerto di rifinire. Prima che arrivasse Death, il massimo che Astrid poteva fare era uno Skandiski. E questo non l’avevi mai sentito, fortuna che Death tradusse per te con un roco sussurro: «Come Picasso». Eravate guerrieri ma anche voi conoscevate Picasso e il cubismo, se non altro per sentito dire. 
Ne mancavano ancora una decina. A proposito di Death Mask, chissà come stava andando con la missione nell’Oltretomba. Da quando era partito non aveva più dato notizie. Di solito non ci metteva molto ma questo ritardo aveva qualcosa di preoccupante. Volendo avresti potuto raggiungerlo ma non era il caso.
L’ultima volta che lo avevi visto aveva giocato a carte con Astrid nel corridoio delle stanze della servitù. Era stato uno degli ultimi giorni che era venuto a tracciare le carte. Ti eri sentito leggermente escluso, che sembravano conoscere queste carte. Come se parlassero in codice. Persino Death ammise di aver conosciuto una chiromante quando si addestrava in Sicilia. Diceva che la chiamavano Nonna Zilla. Aveva assistito a qualche sua prodezza e, così per scherzare aveva lanciato una sfida alla sua protetta. «Scommettiamo che con le carte me la cavo meglio di te?»
«Vuoi scherzare?» Rispose lei.
«Leggere i tarocchi non è sinonimo di bravura». La provocò. Risultato: eccoli lì che si sfidavano per l’iPod di Death Mask. L’oggetto che avevano deciso, di comune accordo, di mettere in palio. La fama di Death come giocatore era tale che il Grande Tempio quasi si bloccò per intero per assistere. 
Ammettesti a te stesso che fu una partita emozionante. A partire dal rubamazzo, dove Death mise Astrid in seria difficoltà. Quella la vinse Death, ma si sentì magnanimo e le concesse la rivincita. Grosso sbaglio. «Queste non sono le carte dei tarocchi, su queste sono io che ho potere». Disse tronfio mentre le mescolava di nuovo. Lei si aprì in un sorriso furbo: «Allora scommetto che la prima carta che metterai sul tavolo sarà un cinque di fiori». Death sorrise e distribuì le carte coperte. Ma quando mise sul tavolo la prima delle quattro carte il suo sorriso si afflosciò e tutti voi la guardaste stupiti. La carta che aveva rivelato era esattamente un cinque di fiori. «É un colpo di fortuna». Esclamò. «É solo un colpo di fortuna, te lo dico io». Aveva ripetuto il suo connazionale alla seconda volta che lei indovinò, anzi, che chiamò le carte. Perché era proprio questo quello che sembrava facesse. Poi la partita cominciò e Death Mask si ritrovò in seria difficoltà. Astrid perse il mazzo qualche volta, ma somigliò più a una studiata strategia, piuttosto che a una perdita vera e propria. Era come se stesse cercando di spostare la partita a un altro livello e le carte stessero rispondendo. Ipotesi che poi divenne certezza quando ti parve di scorgere un Cosmo? Ma si poteva definire così quell’alone color miele e oro e pulviscolo? Ma fu solo per un istante che credesti di essertelo immaginato. Improvvisamente Death Mask non era più il beniamino delle carte. All’ennesima carta chiamata balzò in piedi. «Non è possibile, è solo un colpo di fortuna». Decretò già alla terza sigaretta mentre l’altra lo invitava a un’altra partita con nonchalance. L’altro le chiese perché volesse giocare ancora. Death Mask avrebbe dovuto essere quello più maturo tra i due, ma il suo spirito da giocatore di poker si era appena ridestato. Perciò risedette dicendo: «D’accordo. A cosa vuoi giocare?»
«Scopa».  Il Cavaliere di Cancer sogghignò: «Come desideri». Ma lei non abboccò né gli diede corda. Già dai primi momenti fu chiaro che Death aveva trovato un degno avversario. Ma la cosa non fece altro che ringalluzzirlo. «Niente male, sei brava». Si complimentò, mentre si giocavano l’ultima manche. Alla fine aveva collezionato rispettivamente sei scale contro le sei di lei. La partita sarebbe stata decisa da quest’ultimo tiro. Lei sorrise: «Grazie, anche tu sei bravo. Ma… sei sicuro che sia solo bravura, la mia?»
«Sì, non può essere che tu…» Non fece in tempo a completare la frase che Astrid completò la scala e a Death non restò che prendere la carta gemella della sua. Alla conta risultò che Astrid aveva totalizzato il punteggio più alto. «Eh, no, adesso mi concedi la rivincita».
«Come desideri». Gliela concesse e Death Mask vinse. Parità. Due giochi di carte dove entrambi avevano sia vinto che perso. A proporre un altro gioco fu sempre lei. E l’orgoglioso Saint non si tirò indietro. Sorrise di rimando e posò un pugno sotto al mento, il fumo della sua decima sigaretta che gli aleggiava intorno come una puzzolente nuvola biancastra. Le chiese quale gioco e lei propose scala quaranta, il poker se lo sarebbero tenuto per ultimo. «Ci sto». Sogghignò Death Mask ringalluzzito. «Ah, Death, la prossima che girerai sarà un quattro di picche». Lo avvisò di nuovo mentre il tuo collega mescolava. Lui fece un verso prima di borbottare qualcosa scontento e ripetere che la sua era solo fortuna, ma non ci credeva più tanto come prima. Le fece tagliare il mazzo e la ragazza eseguì. Riprese a mescolare. «Sei sicuro?» Domandò lei guardandolo di sottecchi, quand’ebbe ritratto la mano. Poi aveva cercato il sostegno degli spettatori che si erano raccolti attorno al tavolo, cioè tu, Kiki, Lancelot, Yoshino, Nachi del Lupo, Shura, Ichi dell’Hydra, la Silver Saint della Gru. Death Mask la canzonò divertito, ottenendo però un sorriso sornione di risposta. Solo a te non sfuggì che aveva assunto la stessa posa di quando leggeva la mano. Fu come un campanello d’allarme, peccato che non potesti avvisarlo.
Il quattro di picche non saltò fuori quando distribuì. Poi per sfidarla le disse che non avrebbe neppure guardato le carte del mazzo. Astrid gli fece cenno di procedere. E lui girò la carta.
Le risate che finora c’erano state si spensero di colpo. Alla fine lei aprì bocca e disse: «Io non ho mai detto che fosse la carta del mazzo che avevi in mano». Da lì comprendeste che la partita sarebbe stata ancora lunga. «Te l’ho mai detto, che anche le carte da gioco possono essere usate come tarocchi?» Domandò leziosa lei. Poi cominciarono la partita, che finì con la vincita di Death e la conseguente rivincita con gli interessi di Astrid. Anche se lei non gli andava giù, infatti si offrì di ripetere il trucco. Anche se l’altro era ostinato e le ripeté la litania in tono sbrigativo e la sfidò a fargli cambiare idea indovinando le prossime sei carte. Neanche l’intervento in extremis di Kiki sortì qualche effetto. Le carte che lei chiamò risposero tutte. E alla fine però la vittoria andò comunque a Death Mask. Che raccolse il mazzo e l’iPod e se li rimise in tasca. Ebbe pure la sfrontatezza di sfotterla. «Sei brava, ma non abbastanza, riproveremo la prossima volta».
Lei sorrise: «Come desideri». Ma solo tu sapevi quanta fatica avesse fatto anche solo per recitare. La verità era che era rimasto scioccato. L’Incantatrice aspettò che Death fosse uscito prima di smettere di sorridere e alzarsi.
Riemergesti dal ricordo e sperasti che andasse tutto bene.

Lancelot
Il tuo compito l’avevi assolto. Quella peste di Neera adesso era una Saint ufficiale e festa finita. Adesso niente ti tratteneva più qui. Eccetto Shura di Capricorn. Che cosa gliene importava anche del corpo della ragazza? Te lo chiedevi ancora adesso il senso di quella partaccia. In fondo non era mica una nobildonna e il nobile Ionia non era interessato al lato fisico della cosa.
Sarebbe servito un miracolo come minimo, per ripagare il tuo debito nei confronti del tuo Signore. Era vero che ti eri rivelato da tempo come Gold Saint. Volevi tornare a casa anche tu. L’altra dimensione ti chiamava. Sentivi il bisogno di tornare da Miss Tomoe e inginocchiarti di nuovo dinanzi a lei. «Cosa ascolti?» Chiese Kiki alla sua amica accomodandosi accanto a lei sulla spiaggia. Eri quasi sicuro di trovarla qui, tanto quanto lo era il Cavaliere di Aries di questa dimensione. Al di là della lettura del pensiero, semplice amore, che lo aveva reso più Canis che Aries. Per dirla in termini astronomici.
Ad Astrid piaceva il mare, anche se a te metteva addosso una sensazione di malinconia. Nella tua vita precedente non lo avevi mai attraversato. Le uniche acque che conoscevi, erano quelle di Glastonbury, prima che le nebbie inghiottissero l’isola di Avalon, la tua terra natia. Non è vero, Lancelot del Lago? Già, quanto tempo era che non chiamavi te stesso così? Non eri un tipo sentimentale, ma la bella Ginevra te la ricordavi ancora. Il profumo e la nebbia di quelle lande le ricordavi quanto le bionde chiome di lei.
Astrid non le somigliava per niente. Il suo profumo era quello di un’altra terra, di un altro lago, di un’altra epoca. E, questo, neanche la salsedine marina l’avrebbe mai occultato definitivamente. Il mare era solo un lago più grande, salato, ma anche più bello. Odiavi ammetterlo.
E Astrid, da quando aveva trovato questa spiaggia, questa macchia mediterranea, la si vedeva spesso qui, a officiare i suoi riti, che spesso erano solo un saluto al sole. Alzava entrambe le braccia in aria e poi, abbassava prima una e poi l’altra, tenendole all’altezza dell’ombelico. Come se sostenesse dell’energia. Poi, le lasciava ricadere e, l’energia cadeva a terra con la stessa dolcezza delle piume. 
Ma a volte, invece, ci veniva solo per leggere un grosso mattone con il muso di un leone dagli occhi azzurri e la scritta in rosso. Non l’avevi mai visto e non t’interessava. Ci avevi messo un po’ per capire che si trattava di un libro.
«Davvero non hai provato niente quando…» Chiese
«Quando?»
«Quando ho cercato di distrarti».
«Ah, quello, avrebbe funzionato di più in altre circostanze».
«Tipo?»
«Tipo che non amo essere presa in giro e, Kiki, lo sai che ti voglio bene, ma avresti dovuto pensarci due volte prima di approcciarti a quel modo. Io ho cominciato a leggere le carte Le Mole di Narni tra mille distrazioni, di approcci così ne ho avuti una marea».   
«Ma le persone non ti temevano per questo?»
«Alcuni no, sono abbastanza coraggiosi da soprassedere. Almeno finché non si accorgono che non è un gioco e ci riesco davvero, fino ad allora, un po’ mi diverto anch’io. Almeno, quando andavo ancora là facevo così».
«Oh, mi dispiace, noi non…»
«Tranquillo, non mi riferivo a voi, i miei nonni materni vivono in Umbria, d’estate le persone vanno a fare il bagno a Le Mole di Narni».
«Oh, non lo sapevo e com’è?»
Lei alzò lo sguardo dal libro e guardò il cielo come se avesse potuto visualizzare l’immagine. Poi cominciò a descrivere. Ma tu, le leggesti nella mente e potesti vedere chiaramente i suoi ricordi. Non avresti mai immaginato che esistesse un posto più bello dell’Isola delle Mele. Era un luogo totalmente immerso nella Natura. A parte un solarium di legno e il sentiero per il trekking, il porto romano con tanto di cantiere, non c’era niente che rassomigliasse a traccia umana.
Il laghetto riluceva delle più belle sfumature del verde mare, dell’azzurro e aveva persino un tocco di giallo. Sembrava uscito da un sogno, così incastonato nel verde della vegetazione. Una gemma nascosta di cui ignoravi l’esistenza. La piscina, lago, quello che era, era talmente meraviglioso da far sfigurare le moderne piscine, comprese quelle del Santuario, adibite a vasca da bagno.
Ma era un lago artificiale che conservava i resti di quello che riconoscesti essere un antico porto romano. Tu non avesti alcuna difficoltà a immaginarti le barche lì attraccate.
Vedesti anche la strada per arrivarci.
Sentisti il profumo dei fiori d’estate, il luccichio dell’erba, la magnificenza del ponte. E anche il gelo dell’acqua del lago, che ti fece intirizzire gli arti, istintivamente ti portasti le braccia al petto per scaldarti. Eri un Saint, di solito dieci o quindici gradi in meno non facevano alcuna differenza per te. Ma era stata più la sorpresa che il freddo a farti rabbrividire. Avesti persino la visuale di un’Astrid decisamente più giovane, in costume da bagno, che si tuffava nel lago, a sprezzo del freddo. E che, a un tratto, cresceva. Il suo corpo si allungò, le sue fattezze si fecero decisamente più femminili e anche il suo costume da bagno si uniformò alla crescita.
Ora l’Astrid che stavi guardando aveva diciannove anni e si muoveva come una sirena sott’acqua.
Poi riemerse e guardò il panorama che tanto amava con occhi sognanti.
Allora anche lei aveva un luogo cui desiderava far ritorno. «Allora lo vedi che anche tu hai qualcosa di bello, qui, sulla Terra?»
«Mh, sarà, ma niente sarà mai come lo Spazio e le stelle». Concluse la giovane.  

Shaka
Quando avevi percepito quel Cosmo muoversi e combattere non ci avevi creduto. Ti eri allontanato dai tuoi domini soltanto per poco. Il tempo per vedere il tuo commilitone mettersi in azione a fianco degli Specter e seguire Lady Pandora come un cagnolino. E adesso non aveva più niente e non aveva altra scelta che seguire la Somma Sacerdotessa di Hades. E ancora non capivi (sii onesto, non t’interessava) perché.
La Viverna era stata liberata dalla sua prigione e lo Stige era stato riconquistato. Don Avido stava perdendo terreno e tu non potevi che esserne indifferente. D’altronde gli Imperi sorgono e cadono tutti i giorni. Ma era ovvio che non sarebbe finita lì, quale guerra finisce così, con la conquista di un fiume?
«Non dovresti impicciarti degli affari degli Specter, Camus». Mormorasti osservando il tuo compagno. Tu ti trovavi qui da più tempo di lui e, comunicando da sempre con questi regni, tu sapevi della condizione in cui vertevano gli Specter e quello che stava accadendo. Avevi ricordato appena qualcosa di questo mondo, in cuor tuo sentivi di appartenere ancora alla dimensione di Miss Tomoe. Però se il patto voleva questo, neanche tu potevi opporti. Perciò eri andato in superficie a chiedere spiegazioni ad Aquarius. «E tu perché non sei qui a combattere con noi?» Ti domandò il tuo collega mentre aiutava un gruppo di celti a montare una tenda nel parco di Villa Heinstein.
«Non è nel mio dharma agire, lo sai». Rispondesti.  
Camus finì di dare disposizioni al celta più vicino che aveva sbagliato per l’ennesima volta il nodo e poi tornò a prestarti attenzione: «Dì piuttosto che non è la tua battaglia e non ti vuoi muovere da lì!»
Non rispondesti, colpito dalla sua veemenza. Aveva preso molto sul serio questa storia. Perché? A te sembrava solo una grossa ipocrisia. Tutto, sia il Patto sia la vostra alleanza.  
«Il mio compito è prendermi cura delle anime dei morti». Gli ricordasti. Non per niente eri la reincarnazione di Buddha e l’uomo più vicino agli Dèi. Camus non disse niente ma percepisti tutto lo sdegno di cui era capace.
Appena facesti ritorno alla tua dimora fosti accolto da Atavaka, lo Specter dell’Oppressione affrontato da Asmita di Virgo. La prova vivente che non tutti gli illuminati raggiungevano il Nirvana e si lasciavano contaminare dalla malvagità. Di solito non si allontanava quasi mai dalla cascata di sangue. Quindi cosa ci faceva qui? Oltretutto con indosso la sua surplice a otto braccia? Avevate deciso di comune accordo, dopo un iniziale scontro, di spartirvi il dominio tra la Sesta e la Settima Prigione. «Ti sei approfittato della mia assenza?» Chiedesti.
«No, sono solo venuto a informarti che qualcuno ha violato i nostri confini».
«Uno di don Avido?»
«Ancora non lo so».
«Molto gentile da parte tua, perché non hai mandato uno Skeleton?»
«Sono troppo lenti, io sono più veloce».
«Capisco. Si sa nulla di questo nemico?»
«Ancora no, mobiliterò gli Skeleton: se passerà dalle nostre parti ci informeranno».
«Ottimo». Poi lo Specter se ne andò.  Non dovesti neanche attendere tantissimo che gli Skeleton ti avevano chiamato per un’emergenza: avevano scovato l’intruso ma non riuscivano a cacciarlo. Perché avevano chiamato te? Ah, non importava. Qualunque cosa fosse non poteva restare lì. Per questo corresti immediatamente a vedere. I sottoposti di Hades ti guidarono subito nel luogo dell’avvistamento. Una volta lì, effettivamente fosti attaccato ma lo evitasti. Lo guardasti: era un cadavere putrefatto, la carne marrone e la pelle dello stesso colore delle canne morte. Era come se indossasse un velo o fosse fatto di veli e fango, in quanto non riuscivi a vederne gli occhi. Eri abituato ad avere a che fare con altro genere di creature. “Aiutami, ti prego”. La sentisti mormorare con voce roca. “Non so dove sono, ti prego”. Eppure nel supplicarti continuava ad attaccarti. 
«Dunque sei solo un’anima che brama di tornare a casa, eh? D’accordo, ti concederò la sorte che desideri». Le accordasti. Concentrasti il tuo Cosmo, ma non facesti in tempo ad aprire le Sei Vie della Trasmigrazione che fosti spintonato da parte. Barcollasti e apristi gli occhi. Fu allora che vedesti la chioma bruna dalle punte acconciate in boccoli. Il mostro si arrestò. Avresti voluto affrontarla ma lei non ti calcolò neanche. Nonostante l’offesa qualcosa ti fermò e restasti a guardare. Cosa diavolo stava facendo?
«Va tutto bene». Disse dopo qualche secondo. L’anima ripeté la sua litania e conficcò le unghie nel terreno. Delle spine altissime e affilatissime sorsero nel punto dov’era prima. Se tu balzasti indietro per evitare di essere infilzato, la giovane non si lasciò intimidire. Anzi, avanzò verso la cosa. I colpi non la sfioravano neanche. Com’era possibile? Ti ci volle un po’per capire che li stava scansando tutti. Come ci riusciva? Non sentivi neanche il suo Cosmo.
Sarebbe stato sciocco affrontare le due cose entrambe, perciò lasciasti che si distruggessero a vicenda. Proprio come sull’Isola della Regina Nera quando Ikki ricevette la sua investitura. Avresti pensato al vincitore dopo. E non eri per nulla certo che sarebbe stato la ragazza.
«Poverina, che cosa ti hanno fatto; ti hanno sottratto alla tua dimora e al tuo riposo eterno e costretta a una fame insaziabile». Da dove ti trovasti non potesti vedere cosa fece ma la sentisti dire: «Ecco, così non avrai più fame e non sarai più costretta a nutrirti di cadaveri. Torna a casa, ora sei libera». Improvvisamente, dalla cosa si levò una luce bianca, purissima. Improvvisamente la pelle della creatura tornò rosea e fresca, i suoi muscoli e le sue viscere regredirono fino a uno stadio giovanile. Una zazzera di lunghissimi capelli biondi si allungò sulla testa di lei, bellissima. Sembrava poco più che una ragazza che, piangendo di gioia, si abbassò i veli dal volto, candidi come la neve e spalancò due bellissime ali candide. La sua salvatrice disse con voce sorridente: «Torna a casa». E l’angelo scomparve mandando una luce splendente. Per un momento ti sembrò di essere in un posto meraviglioso.
Quando la luce si spense tutto era tornato brullo e secco come prima. Ma la giovane era ancora davanti a te e si stava volgendo verso la tua persona e sfoderando una lama verde dal suo fodero. Non avesti affatto paura, eri abituato alle lotte, avresti persino potuto sconfiggerla con un colpo solo. Invece lei disse: «Spero che tu ti renda conto di ciò che stavi per fare». Stavolta in tono più secco e freddo. Nella tua testa era chiaro che quel mostro fosse solo un’esca e che la vera intrusa fosse costei. Eppure ti si rivolgeva come se tu avessi distrutto qualcosa cui aveva lavorato con molta cura.
«Io so sempre cosa faccio». Ribattesti e, come in una sorta di dejà-vu, ti parve di tornare ragazzo, in India, con Aiolia a farti da guardia del corpo. Che poi eri stato più te che lui a salvarlo. «Ti renderai conto allora, che se l’avessi uccisa avresti soltanto fatto il gioco dei tuoi avversari? Uccidere un angelo è peccato, se i rapporti con il loro Signore e voi sono così tesi. Già il fatto che ne fosse stato rapito uno è di per sé un reato gravissimo punibile con la morte».
«E tu sei qui per darmela?» Domandasti.
«Non spetta a me, anche perché l’angelo non è morto». Questa rivelazione ti fece aggrottare impercettibilmente le sopracciglia. «Io non lo sapevo, non sapevo che fossimo in Guerra anche contro il Dio dei Cristiani».
«Non ancora, ma se andremo avanti di questo passo probabilmente lo saremo. Per fortuna che passavo da queste parti».    
«Allora sembra che io debba esserti grato, giusto?» Chiedesti sarcastico e con voce piena di sottintesi. Non era da te Buddha incarnato, trovarti con un debito di riconoscenza per le mani. Che fosse nel tuo Karma? Che le forze cosmiche stessero cospirando contro di te per farti scendere da un qualche piedistallo? Impossibile. L’unico debito degno di nota fu con Aiolia e sempre sarebbe rimasto quello. «Anche se non so chi sei». Completasti.
«Non ti preoccupare per me io sono solo di passaggio, non turberò oltre la tua vita». Ti promise. Non ti fidasti affatto di questa dichiarazione. Lei ti osservò a lungo, prima di uscirsene con un: «Ok» Pieno di disagio. Come se implicitamente stesse dicendo che tu non ci stavi completamente a posto con la testa. In realtà eri persino più a posto di lei, che si sentì in dovere di darti un consiglio: «Impara questo, Cavaliere d’Oro, negli Inferi niente è mai come appare». Mentre rinfoderava la lama verde. Una giovane che osava dare un consiglio a te, l’Illuminato? Anche se indispettito rispondesti con la cortesia dovuta a una signora. «Grazie, lo terrò a mente».
Lei annuì: «Bene». Poi risalì la china e se ne andò. Tu facesti lo stesso, decidendo di soprassedere. Al tuo tempio trovasti ancora una volta Atavaka. Ti accigliasti: che cosa ci faceva qui? La prima cosa che «Allora, l’hai presa?»
«Preso cosa?» Rispondesti al tuo compagno guardiano, perplesso.
«Ma l’intrusa, no?»
L’intrusa? Quale intrusa? Perché parlava al singolare quando erano due? Aspetta, non era che c’avevi visto giusto? «No, mi è sfuggita». Ti scusasti.
«Ah, se solo il mio corpo non fosse messo tanto male avrei potuto affrontarla io e sconfiggerla. Come hai fatto a lasciartela scappare?»
«Non sono affari che ti competono». Atavaka rilassò le spalle. «Capisco, ti ha sconfitto».
Non replicasti anche se le tue parole ti ferirono nell’orgoglio. Non ti erano sfuggiti i gesti della ragazza. Niente di lei ti aveva suggerito il brigantaggio e l’invasione. Se poi avesse voluto attaccarti con quella spada verde allora l’avrebbe fatto e sicuramente non ti avrebbe avvisato. La risposta era una sola: ti aveva salvato da quell’angelo. Era diverso da quello che avevi affrontato, non era un guerriero. Qualunque cosa fosse se eri qui lo dovevi a lei. Anche nei suoi gesti e nella sua voce avevi letto solo la difesa e la paura. Per questo non l’avevi attaccata, non solo perché era priva di Cosmo e pensavi che tanto sarebbe morta da sé. Nessun vivo sopravvive agli Inferi. Il suo comportamento non ti convinse. Perché ci teneva tanto a sconfiggerla? Con questi pensieri lo lasciasti andare. Ma era solo un momento, poi saresti andato a chiedere spiegazioni. Perché non eri così stupido come sembravi. Già una volta eri stato menato per il naso, non lo saresti stato una seconda volta. Finché non avresti avuto la conferma dell’effettiva innocenza di Atavaka non avresti smesso di tenerlo d’occhio.
La prima cosa che facesti fu di meditare per scrutare i mondi. Non potevi guardare indietro nel tempo, tuttavia potevi guardare quello che faceva chi era all’interno dei mondi e così cercasti la ragazza. La vedesti al centro della Sesta Prigione che stava fronteggiando Atavaka. Lui sembrava dirle qualcosa e la ragazza lo osservava impassibile. «Dammi la tua vita». Poi usò su di lei una tecnica che aveva preso da te ma lei lo evitò e fu così che cadde nella sua trappola.
«La mia vita è solo mia». Ribatté lei.
Lottarono. Restasti sbalordito nel vederla tenere testa e sopraffare lo Specter, poi però con una trappola la sopraffece e le prese il suo tesoro che tu non riuscisti a vedere. La ragazza si rialzò da terra e cercò di riacchiapparlo: «Aspetta, ridammelo!»    
«Se lo vuoi vieni a prenderlo!» E se ne andò. Ma non poté che compiere pochi passi prima che il bottino cominciasse a bruciargli le mani e riaprire le sue vecchie ferite. Atavaka ululò di dolore e 
tu riapristi gli occhi tornando alla realtà. Questo era il piano di Atavaka? Nella tua mente cominciasti a mettere insieme i pezzi. Effettivamente aveva un senso e ora aveva rubato quella cosa alla ragazza. Che in ogni caso non era neanche un invasore. La dovevi aiutare prima che fosse troppo tardi. Ma dov’era? 

Dopo aver consumato il pasto che ti portarono gli Skeleton (direttamente dal Mondo dei Vivi come secondo i patti), ti mettesti a meditare. Quando raggiungesti la giusta concentrazione cominciasti a scrutare i mondi alla ricerca di informazioni. Lo Specter viveva nei pressi della cascata di sangue che delimitava i confini della Sesta. Si era fatto edificare un piccolo tempio di quelli che si potevano trovare in India. Stando a quello che sapevi Asmita di Virgo lo costrinse di nuovo nel ciclo della vita e della morte. E quando era tornato negli Inferi, ai tempi della Guerra Sacra, era rimasto gravemente ustionato. Adesso più della metà del suo corpo era coperta di bende che spuntavano da sotto la Surplice con le otto braccia. Ferite che probabilmente si era riaperto nel sottrarre quella luce alla ragazza. Eppure anche così restava uno Specter temibile per i violenti del Lago di Sangue, della Foresta dei Suicidi e per gli edonisti imprigionati nel Deserto di Fuoco. Gli stessi che ti avevano fermato accerchiandoti. E tu ti eri girato su te stesso. Avevi percepito il loro turbamento. Era come se gridassero, o meglio, cantassero di una caduta che veniva sparsa dai fuochi fatui che si aggiravano per queste terre come un banco di pesci. Perché i fuochi fatui erano qui? Non era mai successo che fossero così tanti. «Che cosa sta succedendo?» Solitamente cercavano di arretrare al tuo passaggio, riconoscendo la tua autorità. «Sta arrivando, non andate, non risalite la china». Ti rispose un fuoco fatuo. «Arrivando chi?»
«Azona». Disse e questa parola rimbalzò di bocca in bocca in tutta l’area circostante, saturando ancor di più l’atmosfera di timore e terrore. Ripetuta come un’inquietante eco, uno scongiuro e al tempo stesso un’invocazione sul grido melodioso di sottofondo. Volgesti la testa a destra e a sinistra mentre i morti si aggrappavano a te. «Lasciatemi». Comandasti.
«Non possiamo, per noi di Questa Parte è pericoloso». Ti rispose qualcuno e tu percepisti il loro terrore. «Che cosa vi ha fatto quell’uomo?» Domandasti.
«Ci sta mangiando vivi, salvaci, ti prego, salvaci». Rispose uno prima di riprendere con la litania. Anche se dannati era compito tuo proteggere degli innocenti e se Atavaka li stava usando come fonte di energia dovevi fermarlo. Quello che avevi ravvisato osservando la battaglia alla Palude Nera allora era vero: i morti potevano veramente fungere come scudo per i Vivi e le persone dotate di Cosmo. E potevano trasmettere energia. Ti liberasti con dolcezza dalla loro presa e risalisti, risoluto la scalinata del Tempio. Il mantello candido che svolazzava alle tue spalle a ogni tuo movimento. Accompagnato dalle voci e dai lamenti dei morti come un coro accompagna una processione. «Vi prego, vi prego». Continuavano a chiamare invece le anime. Ma neanche le tue promesse servirono a tranquillizzarle.    
Dovevi agire prima dell’Azona e dovevi salvare quella ragazza. Potevi solo immaginare come si sentisse, dato che non riuscivi che a percepire una scintilla di Cosmo. Mentre quello di Atavaka era pieno di compiacimento, brama e aspettativa.
In breve fosti all’ingresso e lo varcasti. Il rumore metallico del tuo tacco sembrò quasi spezzare l’atmosfera del Tempio. Ogni suono rimbalzava sulle pareti come monete tintinnati e vita rompendo la silenziosa oscurità. Non era normale, sembrava viva e sembrava cercare di avvicinarsi a te a ogni tuo movimento. Ma non arrivava mai a toccarti che si dissolveva prima. 
Atavaka nella posizione del loto smise di sorridere. Non sapevi come ci riuscisse data la gravità delle sue ustioni. Poi capisti: le anime, aveva attinto la sua forza da delle anime. La situazione era persino più grave del previsto. «Oh, sei tu, non esattamente chi aspettavo».
«Chi stai aspettando?» Chiedesti decidendo di fare lo gnorri.
«Nessuno in particolare». Ma le anime vaganti continuavano a tradirlo ripetendo “Azona” all’infinito. Rivolgesti immediatamente il tuo rimprovero con tutta l’autorità di Gold Saint e Guardiano di Anime di cui eri investito. «Ho saputo quello che sta succedendo e quello che hai fatto, adesso dovrai risponderne al Divino Hades».
«Questa è la mia zona e faccio come voglio. Il Divino Hades non vive più da tempo in queste terre, io sono libero». Ribatté immediatamente.
«Nella tua lotta le anime non c’entrano niente. Se vuoi battere l’Azona allora fallo con le tue sole forze. Ricorda il tuo compito». Se sperasti che capitolasse in fretta ti eri sbagliato.
«Io non ho nessun compito nei e anzi ne faccio ciò che voglio».
«Dunque ti stai preparando per ricevere l’Azona? Per questo stai usando i morti a questo modo invece di scendere in campo?» Dejà - vu, vero, Shaka? Già qualcun altro ti disse così, solo che lì per lì non ricordavi chi fosse. Come poteva essere che allo Specter non importasse niente di questi defunti? A te importava. Improvvisamente ti ricordò molto Baldr, il cavaliere di Asgard che si credeva un Dio. Possibile che questo Specter, un discepolo del tuo stesso credo fosse così arido e menefreghista? Stavolta non avresti atteso spiegazioni e agisti immediatamente come con Ikki di Phoenix decadi fa. «Cosa ti ha promesso Don Avido per questo evidente tradimento?» Chiedesti, accigliandoti.
«Cosa ti fa credere che Don Avido mi abbia promesso qualcosa?» Chiese a sua volta mentre scioglieva la posizione e cominciava a muoversi. Lo imitasti muovendoti dalla parte opposta.
«Quindi non stai dalla parte di Don Avido, ma neanche sostieni Pandora». Deducesti.
«Esatto; io non mi impiccio delle loro beghe intestine; le mie intenzioni sono ancora più nobili e pure».
«Ma stai cercando di attirare un nemico pericoloso». Cominciaste a camminare in cerchio, come poli dello stesso globo, studiandovi come due leoni che stanno per sbranarsi.
«Non c’è nessuno di così pericoloso che io non possa sopraffare». Ribatté la tua controparte infera.
«L’intrusa». La stessa persona che si stava avvicinando.
«Hai provato a considerare che potrebbe trattarsi di una delle Erinni». Si sarebbe spiegato perché se ne andava a giro così tranquillamente per gli Inferi, ma questa scusa ti puzzava. L’unica era lasciarlo parlare mentre accumulavi il tuo Cosmo.
«Credevi che solo gli Dèi gemelli fossero al servizio di Hades?» Domandò Atavaka con l’aria di chi la sa lunga. «Non m’interessa».
Lo Specter fece un sorriso storto dietro le bende. «Ora che ti guardo bene sembri un bel ragazzo forte e in salute. Hai ragione, non dovrei perdere tempo coi morti». Disse improvvisamente e tu aggrottasti le sopracciglia. Le anime dei morti si materializzarono attorno a voi, addensandosi come fumo. Mentre ai tuoi piedi si estese un lago di sangue ribollente. «Credi che questo trucco possa funzionare con me?»
«Oh, ma io non voglio mostrarti la via dell’Eternità, con te non funzionerebbe, voglio invece farti un regalo». Una maniera dolce, di morire. Farti vedere una persona cara e poi catturarti tra le sue grinfie come un ragno famelico. Che facesse pure, tanto non avevi nessuno che potesse essere sfruttato.
E invece, davanti a te, comparve lo spettro di una donna: «Cavaliere di Virgo non dovevate essere qui». Riconoscesti immediatamente quella voce: la leader delle Saintia Olivia.  
La donna ti chiamò ancora: «Nobile Shaka, scappate, andate via».
«Nobile Olivia!» Esclamasti preoccupato, pur tuttavia senza avvicinarti. Lo spirito della donna urlò di dolore e fu riassorbito dallo Specter. «Olivia!» Esclamasti cercando di afferrarla ma la Saintia ti fu strappata prima che tu ci riuscisti. «Scappate!» Urlò e Atavaka, sorrise alle sue spalle: «Se la vuoi rivedere sana e salva dammi il tuo corpo».
«La mia risposta non cambia. La nobile Olivia è una Saintia per lei sarebbe un disonore se sacrificassi la mia vita a questo modo» Ribattesti con calma, ma dentro di te stavi già escogitando un piano per salvarlo. Se solo avresti avuto con te il tuo mala il problema non si sarebbe neanche posto. Neanche riuscivi a richiamarlo. Perciò decidesti di ricorrere al caro vecchio scontro. «Credi?»
«Preparati, Atavaka, non sarò clemente come colui che mi precedette». Ma neanche il Tenkū Haja Chimi Mōryō servì a qualcosa. Gli spiriti da te evocati non riuscirono neanche a scalfirlo.   
«La mia forza deriva dalle anime, sciocco, già il tuo predecessore fece questo errore e non mi lascerò catturare una seconda volta. Maten Muhōrin». Ma tu non eri una persona normale, tu eri la reincarnazione del Buddha. Non avresti mai permesso che il tuo corpo diventasse ricettacolo per quel mostro. Per questo ti teletrasportasti via. Lo Specter, dall’alto della sua superbia, ti mostrò come andava lanciato il tuo colpo che ti investì in pieno e ti ritrovasti bocconi e affumicato. Era forte, ma non abbastanza. Sapevi cosa fare anche se ciò sarebbe equivalso all’evocazione delle Creature. E poi com’era possibile che costui non ti portasse il rispetto che ti meritavi? Eri pur sempre una persona importante. Improvvisamente dalla bocca di Atavaka uscì una voce femminile. Sollevasti la testa di scatto verso di lui e lo vedesti a occhi sgranati e portarsi le mani dinanzi alla bocca. Ma quella continuava a muoversi da sola. Non era un trucco. “Nobile Olivia?” Pensasti sorpreso. Spinte dalla sua preghiera le anime iniziarono a recitare il sutra del Buddha Shakyamuni. «No, che cosa sta succedendo? Non di nuovo, no!»
Olivia, continuando a recitare il sutra si liberò almeno in parte e tese la mano verso di te. La prendesti. «Non te lo permetterò!» E lo Specter ti attaccò di nuovo, ma non poteva immaginare che per voi redivivi questi colpi fossero come carezze di vento. 
«Sei ancora vivo? Com’è possibile? Io ti ho preso in pieno!» Tu chiudesti le mani sulla piccola luce che era diventata l’anima della madre di Shoko e di Kyoko, come per proteggerla. Poi mentre le anime di Atavaka cominciarono a emettere lamenti e implorarti recitando i sutra del Buddha guidati dalla voce della Saintia. Allora ricorresti al Rikudō Rinne: «Tu stai commettendo un grosso errore, credi che io sia tuo pari ma ti sbagli. Io non sono Asmita di Virgo e sono qui per darti una lezione; quella che non hai imparato nella tua vita precedente. E io ci riuscirò, perché io non sono un comune essere umano, sono la reincarnazione di Buddha».  
Lo Specter lottò contro il tuo Cosmo e ululò: «Io non mi lascerò rinchiudere di nuovo nel circolo delle reincarnazioni!» Tu non ti lasciasti impressionare e urlasti, gonfiando ancor più il tuo Cosmo: «Risuona mio Cosmo, fino ai limiti estremi dell’Universo». La tua piena potenza fu talmente forti da frantumare in minuscoli pezzi le sue otto braccia e ridiedero speranza alle anime che alzarono la voce. Il tuo Cosmo si elevò al punto che Atavaka non riuscì più a contenerlo e dovette lasciarti andare, di nuovo ferito gravemente, ricondotto allo stato originario.
«Io non sono il mio predecessore, hai ragione però troverò sempre il modo di proteggere le anime che sono affidate alla mia custodia». Dichiarasti convinto. Poi apristi gli occhi e gli lanciasti addosso un’ondata di Cosmo. Quando li chiudesti di nuovo, la sala del Tempio era piena di crepe e rovinata. Parte della pavimentazione era saltata via, alcune colonne si erano spezzate ed erano cadute al suolo, facendolo tremare persino il suo piedistallo. Parte del tetto era venuta giù e la statua della Surplice erano distrutte. Ma Atavaka era ancora lì, solo perché avevi richiuso gli occhi in tempo. Altrimenti l’avresti ucciso. Allo stremo delle forze lo Specter curvò la bocca in un sorriso e scoppiò a ridere: «Hai fatto male i conti, non sono io quello che ti sconfiggerà, ma lei».
«Lei?» Ripetesti aggrottando la fronte.
«La persona che sto aspettando, presto sarà qui.» sogghignò mentre si rialzava a fatica, dolorante. Tu non capisti di cosa stesse parlando, né t’interessò. Ma il Cosmo intruso stava affrettandosi.   
«Allora non ti dispiacerà se l’aspetto io al posto tuo». Dicesti. Dopodiché comandasti agli Skeleton (seminascosti) di portarlo via e di medicarlo. Liberasti l’anima della Nobile Olivia e ti mettesti nella posizione del loto. Presto levitasti a mezz’aria. A un certo punto sentisti dei rumori di passi in corsa risalire la scalinata e poi il suo trattenere il fiato rumorosamente. Anche se l’avevi incontrata solo poco prima, riconoscesti immediatamente quel timbro vocale. «Non immaginavo che ti avrei rincontrata così presto». La salutasti in tono calmo. Non sembrava che tu avessi combattuto.
«Neppure io. Allora è vero ciò che i Gold Saint si muovono veramente alla velocità della luce». Tergiversò. In un certo senso ti ricordò Ikki, solo che lei non ti aggredì con le piume della coda della sua Cloth, lanciandotele a mo di shuriken. Vi studiaste. Perché non si era difesa prima? Se era tanto potente perché non aveva combattuto contro Atavaka? Che fosse stanca? Percepisti il fiato grosso che cercava di controllare respirando dal naso. Il petto che si alzava e abbassava, quasi in bella vista per via dei bottoni lasciati aperti fino allo spazio tra i seni. Il sudore che permeava la sua pelle. La forza che pervadeva quelle membra, l’espressione corrucciata e la mano che corse all’elsa della spada verde. «Non la sfodererei fossi in te». La bloccasti.  
«Chiamalo istinto di sopravvivenza». Si giustificò inclinando la testa di lato. La sua voce tradiva tutta la sua diffidenza, era ovvio che si aspettasse un attacco da parte tua. Ma ancora ti domandavi che cosa le avesse sottratto Atavaka da costringerla a giungere fino a qui. «E il tuo istinto di sopravvivenza ti suggerisce questo. Non lo fare, non sei una Saint. Non porti neanche l’Armatura».
«Le trovo un po’ troppo ingombranti per i miei gusti». Ti accigliasti. Perché avrebbe dovuto trovare d’impiccio un’Armatura? Che non ne avesse bisogno? «Quindi che cosa ci fai qui?»
«Potrei rifarti la stessa domanda, ma preferisco risponderti: sono qui perché lo Specter di Atavaka ti ha aggredito e ti ha costretto a venire nella sua trappola».
«Lo so».
«Se lo sai allora perché sei venuta?»
«Se avessi potuto chiedere aiuto l’avrei fatto. Tu piuttosto, come lo sai che Atavaka mi ha aggredito?» Chiese guardinga.
«Non sono suo complice, stavo semplicemente tenendo d’occhio i mondi quando ho visto quello che ti ha fatto. Mi dispiace davvero, avrei dovuto correre da te e aiutarti».
«Grazie ma ormai è tardi. Potresti dirmi dove sta quel maledetto?»
«Che cosa vorresti fargli?»
«Purtroppo per lui nulla che preveda l’uso del Cosmo. Dov’è?» Chiese la giovane.
«L’ho sconfitto pochi minuti prima del tuo arrivo».
«L’hai ucciso?»
«No, ovviamente, forse non conoscerò le dinamiche tra i regni dell’Oltretomba, ma conosco il patto che mi vincola qui. Non posso uccidere gli Specter». “Ma agli Specter questo evidentemente non importa”. «Invece tu perché sei qui?» Le chiedesti. Detta da te questa domanda era come una rosa: poteva assumere decine di significati e sfaccettature e, al contempo, perderli tutti. Perché come li ponevi tu, gli interrogativi, nessuno ci riusciva. «Mi prendi in giro? Ti ho detto tre secondi fa che mi ha rubato una cosa importantissima e sono giunta qui per riprendermela!»
«Che cosa ti ha rubato?»
«Non te lo posso dire, è personale».
«E dunque sei qui perché vorresti riaverla indietro?»
«Mi pare ovvio, no?» Tu non eri attaccato alle cose materiali, il tuo credo te lo proibiva. E poi, tu non ne sentivi il bisogno, ma lei? Qualunque cosa fosse quell’oggetto, doveva essere una cosa importantissima se era disposta ad attraversare gli Inferi armata di una sola spada e tanto coraggio, al punto da minacciare persino tu. Non avresti saputo dire se fosse dotata di un Cosmo o no. Quello che sapevi era che non era una ragazza come le altre. Anche per i toni decisamente arrabbiati e frettolosi che usava. In un certo senso ti ricordò Ikki di Phoenix. «Per favore, ridammi quello che lo Specter mi ha rubato».  
«Come faccio a ridartelo se non so nemmeno io cosa sia?»
«É un album da disegno».
“Tutto qui?” Pensasti: «Non ho visto nessun album da disegno».
«Non può avermi ingannata sento che mi chiama che è qui, per favore, fammelo cercare». T’implorò con urgenza nella voce. Perché implorava? E perché le anime erano tanto spaventate? «Non posso, hai calpestato anche troppo a lungo questo suolo. É da quando sei arrivata che sono cominciati i disordini. Gli spiriti sono turbati, non vogliono che tu stia qui. Mi dispiace ma debbo rimandarti indietro». E poi non credevi che fosse davvero un album da disegno. A quel punto la ragazza sfoderò la lama e te la puntò addosso. Nonostante i cinque metri di distanza ti parve di sentirne la punta sul pomo d’Adamo. «Tu non mi mandi proprio da nessuna parte. Mi è stata rubata una cosa molto importante e non me ne andrò finché non me la sarò ripresa».  
«Ridicolo». Commentasti. Non aveva neanche rilasciato il suo Cosmo, come pensava di combattere contro di te?
«Scusa?»
«Non avrai mai il rispetto delle persone e dunque le risposte che cerchi, se tu per prima non sarai rispettosa nei loro confronti».
«Abbassa la cresta, galletto. Credi di essere il primo che cerca di darmi lezioni? Quando invece sei tu il primo che non conosce il significato di questa parola? Qui c’è una guerra, non so se l’hai notato, non c’è tempo per la cortesia, mi hanno rubato una cosa preziosissima e se perdo ancora tempo, non riuscirò mai a svolgere il mio compito». Ribatté piccata.
«Il mio è sorvegliare questa zona degli Inferi, il tuo qual è?»
«Non te lo posso dire. Non voglio combattere con te». Ti pregò ancora, dopo qualche secondo di silenzio, come se avesse scelto le parole con cura per formulare questa richiesta. «Neanch’io ma se non mi rispondi mi vedrò costretto».
«Per favore, lasciami passare, fammi recuperare quello che mi appartiene». Ti supplicò di nuovo, con voce angosciata. Non potevi fidarti, se avesse ucciso lo Specter la colpa sarebbe ricaduta su di te e saresti stato ingiustamente incolpato dello scoppio di una nuova Guerra Sacra. Ribadisti la tua ferma volontà: «Mi dispiace, non posso permettertelo».
«Ti prego!» Urlò spaventata ma tu non ti lasciasti intenerire. La legge di Murphy comanda che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, oppure il nulla. Ma cosa succede se a scontrarsi sono due forze inamovibili? Guerra. E tu eri un guerriero. «La tua mancanza di rispetto non conosce limite alcuno, vero? Bene, allora sarà il caso di ricordarti qual è il tuo posto. Inginocchiati davanti a me». Dichiarasti perentorio (in realtà non te ne facevi niente per il tuo ego ma volevi vedere fin dove si sarebbe spinta). «Scusami?» Domandò allibita.
«Hai sentito, inginocchiati e rendimi rispetto, nel nome dell’autorità che rivesto».
«Non posso, scusami ma non posso». Poi, ti passò accanto, la spada ancora sfoderata. Quando si era mossa? Non l’avevi neanche sentita arrivare, né avevi sentito il suo Cosmo. La riacchiappasti per la vita con la telecinesi e la riportasti al suo posto. Non vi ricorrevi spesso, a dir la verità eri piuttosto arrugginito. «In ginocchio, ho detto». Ribattesti in tono autorevole.     
«Neanche per scherzo». Perché rispondevano sempre tutti così, mio rassegnato e inflessibile Saint? Perché sempre tu sentivi di dover ricondurli sulla retta via? Il Buddha ti aveva consigliato di essere paziente ma tu lo eri. Il tuo animo non era minimamente turbato. Neanche quando lei si lanciò all’attacco. L’attacco di chi però ha perso la testa e non si fermerà, un po’ come Aiolia. O almeno era quello che ti aspettavi e invece no. Poi cominciasti a sentire la vibrazione. Avanti e indietro, avanti e indietro, sempre più veloce. E poi, senza che te ne accorgesti, qualcosa ti colpì alla mano, proprio sul guanto d’arme e perforò la tua corazza. Apristi gli occhi di scatto trattenendo il fiato rumorosamente. Ti prendesti la mano nell’altra e te la stringesti al corpo sibilando di dolore. La guardasti incredulo: un lungo taglio diagonale attraversava il guanto e ti arrossava il dorso della mano, che andava coprendosi di sangue. Ma cosa, quando? La guardasti e ci restasti di stucco. Muoveva il braccio talmente velocemente che la spada oscillava avanti e indietro come una letale onda verde. Persino ai tuoi occhi che pure distinguevano le cose alla velocità della luce, sembrò davvero un’onda. I movimenti della spada producevano quel rumore. «Ti avviso, Virgo, non costringermi». Disse minacciosa, ma c’era qualcosa che non andava nella sua voce. Perché continuava a suonare come un: “Ti prego non farmelo fare”? Perché esitava? Era forse colpa della cosa che Atavaka le aveva rubato?
Nonostante il dolore avesti pietà di lei mentre scioglievi la posizione e facevi attenzione a schivare i suoi colpi. Decidesti di restare con gli occhi aperti, non si sapeva mai. Era dotata di eccellenti riflessi e una discreta abilità tecnica, in quanto riuscì a colpirti più di una dozzina di volte non solo dalle parti scoperte. Eppure non si spinse mai oltre le ferite superficiali. Ormai era chiaro che non voleva attaccarti davvero, ma solo indurti a retrocedere. Il suo stile non era quello cui eri abituato, questo stile era diverso, aveva un sapore diverso. Perché come ogni arte, come ogni senso potenziato, avevi scoperto che persino gli stili di lotta degli avversari avevano un gusto al tuo palato. Quando le afferrasti l’avambraccio, tuttavia ne sentisti la forza e la resistenza. I suoi erano muscoli allenati. La tua avversaria era un’atleta che sapeva cogliere i tempi intesi come momenti propizi per colpire. Forse potevi scavare più a fondo (anche se con malavoglia) se avessi ascoltato i suoi. No, questo non era uno stile orientale. Ma tu eri un Cavaliere d’Oro, non c’era gioco, sicché in poche mosse l’allontanasti. E lei continuando mulinare la spada come una frusta tagliò e dissolse il tuo Kān. “Cosa?” Sgranasti gli occhi: era impossibile, come c’era riuscita?
Concentrasti tra le tue mani il tuo stesso Cosmo che assunse la forma di una sfera luminosa. «Tenma Kōfuku». E la facesti esplodere in un bagliore dorato. Quando la luce scomparve lei non c’era più. Non facesti neanche in tempo a sorriderne che ti ritrovasti invece il filo della lama proprio all’altezza del pomo d’Adamo. Anche se decisamente separato grazie alla Cloth.
Il corpo della giovane allacciato dietro al tuo. Quella scintilla del suo Cosmo era piena di paura. La sua guancia premuta contro la tua spalla destra. “Per favore”, t’implorò addolorata, “non voglio combattere contro di te, lasciami passare”. Perché era addolorata? Che cos’era quel calore emanato dal suo Cosmo? No, doveva essere una trappola. La sua destra sulla tua destra e riconoscesti quel tocco. Il tuo cuore dette un colpo più profondo e raddrizzasti la testa di colpo. Ti scostasti, ti girasti di scatto e le lanciasti il «Rikudō Rinne!» E le mostrasti le Sei Vie della Trasmigrazione di cui eri custode, spiegandole ciò che sarebbe accaduto. Lei non poté fare niente, costretta alla tua volontà e a quella del Buddha: «Sei ancora in tempo per ammettere i tuoi errori». Le dicesti, cercando di nascondere il tuo turbamento mentre lei era alle prese con le illusioni date dal Sacro Virgo.
Ti tenesti la mano nell’altra.
A questo punto o si capitolava o si sceglieva la fuga. La giovane fuggì e si ritrovò sul palmo del Buddha. Se però non le dicesti che era solo una misera scimmia al cospetto del Buddha, fu solo per gentilezza. Non si trattavano male le donne e lei stava già stancandosi molto a causa tua. Probabilmente era anche rimasta ferita nello scontro con Atavaka. Ma a differenza degli altri ribatté, piccata: «Inginocchiati tu». Ti sorprendesti che avesse ancora fegato per sfidarti. La compatisti e la rimbeccasti dall’alto della tua illuminazione. Per tutta risposta ti lanciò uno sguardo di fuoco. Lo prendesti come un no. «Allora, cosa scegli?»
L’espressione della giovane si contrasse in una smorfia di pianto e alla fine urlò: «Smettila, Shaka!» Improvvisamente tutto fu avvolto da una candida luce calda. Che aveva fatto? Ti aspettasti chissà che e invece davanti a te comparve una ragazza. Ti correva incontro, le braccia protese e la faccia rigata dalle lacrime: «Shaka!» Aveva quindici anni. I lunghi capelli dalle punte arricciate in boccoli. Portava una collana d’oro a maglia piatta. Sulle spalle due spalline che, partendo dalla gemma bianca poco sopra lo sterno, si ramificavano a coppie sotto le clavicole. Il seno era fasciato da dei triangolini di stoffa allacciati appena più su della pietra preziosa. Dalla punta partivano due cadenti, sottili, spalline laterali, di stoffa semi trasparente, che cingevano dolcemente le braccia e scendevano in code dietro le braccia. Dalla pietra preziosa bianca sullo sterno si diramava una linea d’oro culminante in un’altra gemma candida. Da lì si diramavano elaborati ghirigori dorati che le cingevano l’addome flessuoso. La pancia scoperta era adorna di un candido brillante e di un piercing all’ombelico dello stesso materiale e colore. I fianchi erano cinti da una gonna lunga che aderiva perfettamente alle cosce che si allargava oltre le ginocchia. Uno spacco laterale scopriva la gamba destra. All’avambraccio sinistro un braccialetto tempestato di gemme bianche e uno più sottile a forma di ramoscello di alloro. Sul braccio due sottilissimi, complicati, tatuaggi come quelli che si facevano con l’henne. Lo stesso motivo si poteva ritrovare poco oltre il gomito destro, sull’avambraccio, cinto da quattro bracciali sottili, più semplici. Il tatuaggio le faceva da giarrettiera alla gamba destra, mentre la sinistra era decorata con un’intricata cavigliera con la stessa gemma che avevi visto sul bracciale, la collana e la cintura. Quasi che fosse uno schiniere si arrampicava sullo stinco tramite un piccolo sole con i raggi a spirale. Sotto al ginocchio scendeva in diagonale, il tatuaggio che le correva su tutto il corpo, avvitandosi immediatamente attorno alla parte superiore del polpaccio.
Un profumo di gardenie ti avvolse. Niente Cosmo, niente magia, eppure fu sufficiente per sciogliere la tua tecnica e lasciarti stremato sul pavimento. Che cos’era quella visione? Vi ritrovaste nel Tempio. Tu avevi il cuore battente e il respiro affannoso come durante una corsa e la tua avversaria distesa a qualche metro che, tossendo, cercava di rialzarsi. La lama verde a terra poco distante dalla sua mano. «Shaka…» Ti implorò di nuovo.
«Che cos’era quella visione? Chi era quella ragazza?» Le raccontasti in poche parole quello che avevi visto. Lei si zittì un momento prima di domandare con voce tremante: «Tu ti ricordi?»
«Ricordo? Era un ricordo?»
«Sì». La voce rotta e non solo per il dolore. Stava piangendo? Perché? Tuttavia non ebbe il tempo di dire altro che emise un verso di dolore. Il suo mantello si disgregò e si trasformò in piume bianche che si allargarono sulla sua schiena come ali. Sulle braccia cominciarono a comparire quei gioielli. Il dubbio e lo sconcerto prese ancora più piede dentro di te, mentre il suo Cosmo, che finora aveva trattenuto, si innalzava, grandioso e sublime. Si alzò in piedi a fatica mentre anche la camicia seguiva lo stesso destino del manto e si trasformava nella parte superiore della visione. Si cinse il busto con le braccia e poi si alzò. E mentre le ali sfioravano il suo corpo cancellando il resto degli abiti, si trasformarono nella gonna bianca e i gioielli restanti.
Si girò titubante verso di te. Trasalisti mentre ti trovavi davanti quella creatura circonfusa di luce. Ti guardava dispiaciuta. Tu conoscevi quel volto, quella persona, tu la conoscevi! Le avevi dato un soprannome e tutto ciò che ti era rimasto di lei era solo un profumo. Avevi un nome sulla punta della lingua ma non riuscisti a dirlo. 
Ecco cos’era la grande preda dello Specter di Atavaka. Se persino lui aveva progettato di divorare la sua anima attirandola con quell’album. E quale preda migliore poteva sperare di un’Azona? Lui che aveva sempre cercato di accumulare la potenza degli Dèi per spodestarli?
Non ti saresti mai aspettato che invece di toglierle la vista le avresti tolto una maschera. Qualcosa dentro di te si smosse e ti gettasti in ginocchio al suo capezzale. La Dea era stesa in un lago di Ichor color oro bianco. No. La girasti supina; aveva perso i sensi. Ma i guai non erano finiti qui. Un refolo gelido fu presto sostituito da uno caldo. Girasti la testa più e più volte, inseguendo le figure nere che vi volteggiavano attorno. La prendesti in braccio, non t’importava di imbrattarti, ora l’importante era portarla al sicuro, ma come? E dovevi anche fare in fretta, il suo Cosmo andava scomparendo.
Ti abbassasti su di lei, facendole scudo con il tuo corpo. Immediatamente azzerasti il tuo Cosmo e le Creature sciamarono via.
Proprio allora lei rinvenne e sibilò di dolore, la guardasti e la vedesti sofferente. La deponesti a terra e trattenne il fiato rumorosamente. «Cosa è successo?» Ti chiese tamponandosi la ferita con la mano e tu glielo dicesti. Poi le dicesti di non muoversi che andavi a cercare qualcosa per medicarla. «No, no, lascia, faccio da me, mettimi seduta».  
Obbedisti e la tenesti ferma. Lei si portò entrambe le mani alla ferita e una luce color oro bianco si allargò dalle sue mani. S’irrigidì e soffiò tra i denti, però non smise. Ti ci volle un po’per capire che stava usando la magia. Vedesti il suo sangue regredire e scomparire a gocce sotto le mani. Un rivolo di fumo si levò dalle sue dita e poi la luce si spense. Quando la tolse la sua pelle era intatta e lei respirava profondamente. Il corpo madido di sudore, poi si rilassò definitivamente e riprese a respirare normalmente. Le sue sembianze divine si disgregarono con la scomparsa del suo Cosmo.
Sentivi il suo sudore e il suo respiro all’orecchio. «Grazie». Mormorò chiudendo gli occhi, di nuovo umani. Annuisti incapace di formulare una frase diversa. Poi si separò da te, quasi usando la tua Sacra Vestigia come appoggio per darsi la spinta; più che spintonarti via. «Ce la fai a camminare?» Dicesti, sentendo quanto queste parole fossero estranee alla tua natura e alla tua bocca. Quasi si incastrarono tra i denti come una foglia d’insalata. “Eppure la compassione e la preoccupazione non dovrebbero essermi estranee”. Pensasti, ma in realtà era proprio così. Abituato com’eri a ricoprire una posizione soprelevata sembrava che tu avessi perso qualcosa. E stavolta non sarebbero stati dei pellegrinaggi sulle rive del Gange, o una lunga meditazione a restituirtelo. «Grazie ancora». Rispose lei, raddrizzandosi la tiara poi raccolse la sua spada, si alzò e la rinfoderò.
«Dove vai?» Le chiedesti.
«É evidente che fosse una trappola e io ho già perso troppo tempo, riprendo il mio cammino».
«Almeno aspetta che se ne siano andate le Creature». Le consigliasti. Erano appena oltre le colonne dell’ingresso. Lei si girò e ti fece un triste sorriso. «Non posso, mi dispiace. Potresti farmi un favore? Se trovi il mio album da disegno, per favore, riportamelo. É stato bello rivederti». Poi ti salutò commossa S’inchinò congiungendo le mani nel Namastè e i suoi capelli mossi scivolarono oltre le sue spalle, coprendole il volto come una tenda. Sentisti un groppo in gola: alla fine lo desideravi davvero che lei ti si inchinasse? «Ma tu chi sei?»
Lei ti sorrise malinconica: «Lo sai. Per favore, non aprire gli occhi». Sussurrò poi e il tuo stomaco fece una capriola, riconoscendo quelle parole.
 
Avresti voluto farle una miriade domande, sull’Aldilà e l’Aldiquà, sul Mondo Celeste, ma soprattutto su quello che era successo. E l’unico modo per avere delle risposte era trovare il suo album. In realtà c’erano altri modi e provasti a usarli, ma non trovasti nulla. Neanche guardare attraverso i mondi t’aiutò. Il Buddha dopo averti detto che in realtà le risposte erano dentro di te, fece lo sciopero del silenzio. Bussasti agli appartamenti privati del Tempio, non ottenendo risposta entrasti, mentre le Velate si facevano da parte, inchinandosi. Lo specter dell’Uomo più vicino agli Dèi negli Inferi giaceva su un sontuoso letto di seta e altre stoffe preziose e gemeva di dolore a ogni respiro. Le Velate si fermarono un momento per inchinartisi. Una voce stentorea giunse dal letto. «L’ hai incontrata». Lo Specter ti sentì e volse il capo fasciato verso di te. L’unico occhio che riuscivi a vedere brillava di gioia maligna, compiacimento e di una vaga accusa. Sorrise sotto le bende e poi gemette di nuovo di dolore.
«Un’Azona». Dicesti tu, caricando le parole del tuo biasimo.
«Esatto». Sogghignò l’allettato e le bende si arrossarono di sangue. Fino a quel momento non pensavi che anche loro sanguinassero. Le Velate si affrettarono a comprimere le ferite e a spalmarci sopra altri unguenti. «Dove hai nascosto il suo album?»
«Perché dovrei dirtelo? Vuoi restituirglielo? Fa pure, ma troverò un altro modo oh, sì, lo troverò».
«Tu non troverai proprio niente. Finché ci sarò io non te lo permetterò mai». Non avresti mai permesso che la toccasse.
«Oh, vuoi forse minacciarmi, uomo più vicino agli Dèi sulla Terra? Non puoi, ricordati il patto». Ritraesti la mano che non ti eri accorto di aver sollevato come a carpirgli i sensi. Non avevi neppure sentito il rumore prodotto dalla tua Armatura. «Che c’è, adesso hai paura? Non mi togli più i sensi? Non mi riduci a un vegetale?»
«No, non farò niente, tu meriti di soffrire e pagare su ciò che resta della tua pelle, per tutto il dolore che hai causato. Se vuoi smettere di soffrire allora fallo da solo». Decretasti, implacabile. Poi gli voltasti le spalle e ordinasti agli Skeleton di cercare l’album incriminato. I soldati inferi obbedirono e si misero a frugare nella magione in lungo e in largo. Incuranti delle fiacche proteste del loro padrone.
Non dovesti attendere moltissimo che tornarono con l’oggetto incriminato. Era nero, con la copertina rigida e molti fogli. Te lo porsero inchinandosi. Senza dire niente lo prendesti, li ringraziasti e, stringendolo l’oggetto al petto lo portasti alla tua dimora.  
Una volta lì ti facesti preparare un bagno e, solo quando ti fosti ripulito, asciugato e rivestito lo sfogliasti. Se c’erano degli oscuri segreti allora dovevi saperlo. Invece fu come se ti si fosse aperto un mondo. Restasti colpito dalla magnificenza dei disegni. Era pieno di splendidi disegni naturalistici realizzati a metà tra uno stile capace di catturare il suono e uno che non avevi mai visto prima, neppure al Santuario. Ma era lo stesso che immaginavi avessero le fiabe.
Fu principalmente grazie a quell’album che chiarì ogni dubbio sulla sua natura. Lo Specter non poteva saper disegnare o dipingere a questo modo. Lo stile era completamente diverso per essere uno di quelli della vostra terra d’origine. 
E, poi le poesie. Oh, sì, la tua avversaria era una poetessa che scriveva in hindi. Quindi era una tua connazionale. Leggesti la prima poesia: Le tre rose.

Ogni volta che mi passi accanto
sembro terra che calpestata si spezza.
Stanotte ho sognato che mi portavi tre rose.
Una bianca, una rosa e una fucsia.
Dicevi «Mi sei venuta in mente».
Ma sappiamo tutti e due
che non lo farai mai nella realtà. 

Melense, un po’ stucchevoli, forse, ma forse era così che era una diciassettenne. Non eri bravo a decifrare le persone dalla loro scrittura. Ancor meno le donne. Ti sentisti a disagio: stavi entrando nel mondo di una ragazza. A giudicare dalla data doveva essere al liceo, giusto? Oh, che mal di testa che ti veniva, tu tra un po’ avevi a malapena la licenza elementare. Tuttavia il tuo compito era difendere la Terra non costruire astronavi, per cui non importava. Almeno non troppo, non ti era ancora capitato di incontrare una tua connazionale istruita. Chissà cosa si provava a sapere tante cose? Non ti sorprese più di tanto sapere che lei aveva intrapreso un percorso di studi: era incarnata, sarebbe stato strano il contrario. In fondo c’erano cose che solo gli Dèi conoscevano.
Andasti avanti e scopristi la vita dei civili e i suoi colori: dall’arancio dorato del miele nel caffellatte ai colori della cucina e della strada. Qualcosa dentro di te si smosse; erano invidia e curiosità. Nel tuo vecchio monastero ti avrebbero obbligato a disfartene. Lo sentivi che così facendo stavi andando contro le “Quattro nobili verità” sull’aspetto pratico della condotta e della pratica spirituale nell’Ottuplice sentiero. Qui avevi a che fare con un io che stava risvegliando il tuo, andando contro la tua ricerca del Nirvana. Sfogliasti altre pagine e ti soffermasti su un’altra. Dove una giovane, sempre lei, guardava dal basso, uno stormo di rondini e sollevava una mano verso di loro come se avesse potuto raggiungerle. Ma i colori, pur essendo caldi, avevano una nota di malinconia e abbandono. In questi disegni, dipinti, aveva impresso i suoi sentimenti. Soprattutto nella perdita delle rondini d’oro che costituivano il suo tatuaggio. In un’altra immagine lei stessa si ritraeva con uno scettro strano mentre faceva quelli che sembravano esercizi marziali su un tetto. Dietro di lei quasi come uno spettro, la sé stessa divina.  
Una domanda ancora ti portò a domandarti che cosa le fosse successo. Gli aforismi e le strofe non sembravano un esercizio stilistico. Davano la stessa impressione di una scala che si dissolve alle tue spalle mentre la percorri e sai che un giorno o l’altro ti ritroverai a precipitare nel vuoto. Un abisso completamente diverso dal Nirvana: quello silenzioso della morte. Ne avesti paura mentre osservavi la figura di sé stessa camminare su questa scala che si dissolveva. E poi passasti agli aforismi di cui soprattutto uno catturò la tua attenzione. Voglio proteggere tutto il Creato.
Poi trovasti un disegno che ti fece sgranare gli occhi per lo stupore. Richiudesti l’album con il cuore palpitante e lo stomaco in subbuglio. Quelle piacevoli fitte al tuo corpo, che scendevano giù fino all’inguine e le immagini e le parole ancora impresse nelle retine. Piacevoli sì, se tu avessi scoperto le gioie della carne, sarebbero state il ricordo di un bacio e di un corpo che si muoveva nel tuo abbraccio. Ma tu non le potevi sapere, dal momento che saresti uscito dal sentiero e saresti caduto vittima dei sensi. Non dopo tutta la fatica che avevi fatto per rientrarci.
Rientrarci? Davvero ho detto così? Che strano. Non guardarmi così, Shaka, io non ne so nulla.  
Comunque ecco cosa si provava a entrare in contatto con il cuore di una Divinità. In un certo senso aveva intrapreso il percorso opposto al tuo. Tu che cercavi il Nirvana distaccandoti dal Tutto e lei attaccandovisi disperatamente, vivendo più intensamente che poteva. Se voi foste pronti al sacrificio e alla morte, qualcosa ti disse che lei era mossa da una forza contraria ma ugualmente potente.
Lo avevi visto dalla cura dei disegni, dalla sua poesia. C’era dell’altro, ma questa Divinità ti aveva smosso qualcosa dentro. Non sapevi dire se avesse attivato un meccanismo insito nella natura umana. Sapevi solo che non poteva finire così con una semplice riconsegna. La cosa peggiore era che non sapevi davvero dove trovarla. Ecco cosa ti portò a fare ritorno a Villa Heinstein.
Quando uscisti dagli Inferi, passando per una delle strade laterali che ti indicarono gli Skeleton, ti ritrovasti nel soleggiato parco della Villa. Ti schermasti il volto con le mani per via del Sole. Anche i tuoi sensi furono immediatamente colpiti. Dal tatto all’olfatto, che ti giunsero chiari e vividi il suono dell’erba verde e fresca sotto i tuoi stivali dorati e il profumo dei fiori, dei tigli, dei falò e del cibo. Persino le tue orecchie furono disorientate nell’udire i rumori della vita, delle voci, anche se parlavano una lingua scomparsa da millenni. “Oh, come ho fatto a non accorgermene prima? É primavera”. Pensasti, mentre il tuo corpo si riabituava al Mondo dei Vivi. Solo dopo facesti caso anche alla marea di gente che ti osservava. Uno Specter in Armatura scura commentò sprezzante, all’ombra di un albero: «Guarda un po’chi si rivede». Un altro si accodò, schernendoti: «Toh, il Santone».
«Shaka!» Esclamò la voce profonda e stupita di Camus. Volgesti il volto verso di lui, che si faceva largo. Si era tolto la Sacra Aquarius. «Camus». Lo chiamasti, contento di vederlo. Avevi deciso di tenere gli occhi aperti. Avresti potuto usare comunque il tuo Cosmo in caso di necessità. Il rosso ti venne incontro e ti salutò: «Cosa ci fai qui? Avevo capito che ti saresti astenuto».
«Ho cambiato idea».
«Sono contento che tu l’abbia fatto. Vieni, hai fatto un lungo viaggio». Disse prima di guidarti alla sua tenda. Parole che sicuramente aveva mutuato da queste tribù. Come pure le pitture blu sui suoi bicipiti. Decisamente stonati con il colore violetto della sua maglietta.
La sua tenda era un tepee nativo americano, con tanto di veranda ricavata legando una grossa tela cerata, (dello stesso materiale del tessuto che rivestiva le stecche) a quattro pali addossati alla medesima. Inarcasti un sopracciglio e il custode dell’Undicesima si sentì in dovere di spiegare: «So che non è granché ma è quanto di meglio potessi fare con ciò che mi hanno dato». Ti invitò ad accomodarti sotto alla veranda assieme a lui e ti mettesti seduto senza problemi.
«Allora di chi era la tenda che stavi aiutando a montare l’altro giorno?» Chiedesti.
«Era l’ospedale da campo, ci sono altre tre tende così in tutto il giardino e in un’ala della casa». Spiegò, mettendosi a sua volta a gambe incrociate. «Ospedale da campo?»
«Sì, ci sono dei feriti e dei rifugiati assieme a noi. Fortunatamente che il parco è abbastanza grande per ospitarci tutti. I Celti, i Britanni e i Galli sono molto più efficienti di quanto pensassimo».
«Le forze di Pandora sono così estese?» Chiedesti sorpreso guardandoti intorno, socchiudendo gli occhi per il sole. In effetti il chiacchiericcio che animava questo posto e le persone che vi sfilavano accanto erano difficili da ignorare. Persino per te, che mai fosti un compagnone. Non eri ancora abituato all’idea che anche le anime continuassero a perseguire le attività di quando erano vive. Infatti c’erano anche dei bambini che giocavano a rincorrersi e riempivano l’area con i loro gridolini e le risate. C’era chi suonava e anche chi cantava. «Ora che abbiamo di nuovo il Giudice Infernale della Viverna sì, ma la battaglia ci è costata molti feriti e qualche morto. Ci stiamo organizzando in vista del prossimo assedio». Ti rivelò.
«Assedio? Don Avido e i suoi stanno progettando di attaccarci?» Domandasti.
«Sì, da quando ha capito che Lady Pandora fa sul serio ha cominciato a rispondere seriamente alle nostre offensive. I druidi sono sicuri che il prossimo attacco avverrà proprio qui tra i Vivi, ma ancora non sappiamo quando. Shaka». Ti guardò dritto in faccia e tu ricambiasti, attento, «so che non è la nostra battaglia, ma se diamo il nostro contributo forse riusciremo a scoprire che cosa sta succedendo e come contrastare le Creature. Il tuo aiuto sarà prezioso». Soprattutto ora che Atavaka sarebbe stato fuori gioco per un po’. Ma non glielo dicesti.
«Ancora a farneticare con questa storia?» Domandò una voce maschile annoiata e impastata dall’interno del tepee. Entrambi volgeste la faccia verso l’ingresso. Poi anche la testa rosea di Valentine dell’Arpia fece capolino. Aveva l’aria di chi è stato disturbato nel bel mezzo di una bella dormita. Sul suo torso nudo spiccava una fasciatura. «Torna a dormire, Valentine». Ribatté esasperato il francese.
«Non sei il mio generale».
«No, ma ci terrei che l’altro guardiano del Cocito restasse vivo, grazie». Non avevi mai sentito parlare così Camus. Che di solito era gentile con tutti. Si vede che stare a stretto contatto con gli Inferi lo aveva imbarbarito. Lo Specter sbadigliò sonoramente poi, borbottando un’imprecazione al suo indirizzo, obbedì. «Ti prendi cura di lui?» Chiedesti stupito.
«É il minimo che possa fare per salvaguardare il Patto. I Pitti mi danno solo una mano a mantenerlo vivo, ma a comandare veramente sono la Somma Pandora e Lady Niniane, la Somma Sacerdotessa dei Celti, colei che manteneva vivo il Cocito». Spiegò alzando le spalle.
«Perché i Celti erano nel Cocito?» Chiedesti confuso. 
«Sono come noi». Spiegò laconico e imbarazzato. Solo dopo qualche secondo comprendesti e lo guardasti stupefatto: erano dei Deicidi. «Come è possibile?» Domandasti confuso. Non ti era arrivata notizia di questo. «A quanto pare non esiste solo il metodo di Seiya per uccidere le Divinità. É una lunga storia, mi hanno fatto promettere di tenermela per me; ancora se ne vergognano». Rivelò.
«Capisco, c’è posto anche per me?»
«In questo accampamento c’è posto per tutti». Ribatté Camus.
«Io non ce lo voglio, un Gold Saint basta e avanza, non riuscirei a sopportarne un altro». Esclamò la voce di Valentine dall’interno della tenda.
«D’accordo, chiederò in giro». Decidesti, onde evitare di sollevare diverbi. Il Saint delle Energie Fredde ti lasciò fare.
E rifugio lo trovasti, assieme ai druidi che, in un certo senso, ti riconobbero come uno di loro. Non l’avresti mai detto che un Pandora-Box aprisse tutte queste porte. Letteralmente e non per avidità e che i Celti ti accogliessero immediatamente.
Passò qualche giorno e anche tu facesti amicizia con questi spiriti. O meglio, cominciaste a scambiarvi informazioni e restasti di stucco nello scoprire quanti punti in comune aveste. Per esempio anche loro meditavano. La differenza più grande fu vedere come trattarono una Sacerdotessa che venne a cambiare gli incensi. Ti sorprendesti del rispetto e della cortesia reciproca che mostravano. Ma questo non solo con lei, come avevi poi temuto e fosti smentito girovagando per l’accampamento. Le donne combattevano e preparavano armi, addestravano, ricoprivano ruoli di rilievo. Le più rispettate erano le Sacerdotesse con la mezzaluna sulla fronte e i polsi tatuati di serpi azzurri. Se non sbagliavi c’erano delle donne in India che praticavano la kalaripayattu. L’arte marziale più antica del mondo. Chissà se anche costoro praticavano qualcosa di simile.  
E anche che nonostante tutto, si sapessero divertire. Sapessero vivere e amassero le arti come la poesia. Come appurasti quando un arpista vi deliziò durante una cena. Il pensiero ti corse al Pandora-Box dove tenevi l’album della Dea. Lady Pandora ti ricevette quella sera stessa, dopo cena, in un salotto lussuosamente arredato in stile occidentale, con mobili moderni dallo stile elegante. In una preponderanza di toni bianchi, argentei e neri ed elaborate cornici.
Non l’avevi mai incontrata prima. Non ti aspettavi che fosse così scettica. Ti eri inginocchiato e lei non ti aveva fatto alzare o niente. Si era limitata ad ascoltare la tua richiesta e a soppesarla. In compenso si teneva lontano da te, come se temesse (non a torto) che tu potessi riprenderti il mala che ti apparteneva. Un giorno, forse, ma non quel giorno. Anche quando gli rivelasti dei piani di Atavaka ti rispose di averli sempre conosciuti dalla sua resurrezione e di non temerlo. Purtuttavia ti chiese dove fosse e tu le dicesti anche questo. Senza accorgetene poi ti guidò alla trappola: ossia che cosa ci facessi tu nella sua dimora. E rispondesti con una mezza verità; cioè che c’era stata un’invasione di mostri di un regno limitrofo e volevi ragguagli. Per tutto il tempo ti sforzasti di mantenere un’espressione solenne e neutra, ma in cuor tuo avevi paura che ti scoprisse. Non sapevi se Pandora fosse capace di percepire i Cosmi altrui. Questa sarebbe stata la prova decisiva. Lei ti domandò se ci fosse stato qualcun altro e tu gli dicesti di no e che l’avevi rimandato via da solo. Un Cosmo tanto piccolo non poteva averlo percepito. Poi concludesti dicendo: «Il mio dovere è difendere la giustizia e la pace sulla Terra, abbiamo già visto la scomparsa degli Inferi una volta, non possiamo permetterci che accada una seconda. Se ritenete che io sia nel torto allora mandatemi via, io tornerò a sorvegliare per conto di Hades e della Dea Atena la Sesta Prigione. Se invece volete impiegarmi in qualche modo in questa guerra, così sia. Vi darò tutto l’appoggio necessario anche per sopperire alla mi controparte infera». 
Lei ti guardò a lungo, accomodata sulla sua poltrona prima di dirti che: «Negli Inferi non esistono né il cameratismo né la fratellanza, pertanto voglio chiedervi se è per questo che insistete tanto».
«No, assolutamente, sono qui per uno scopo più alto».
«Un ordine di Atena?» Domandò lei, cercando di indovinare.
«Sì, l’ho ricevuto poche ore fa». Nessuno aveva mai detto che tu non potessi mentire, Buddha incarnato o no. E poi la Somma Sacerdotessa degli Inferi recava con sé il tuo mala. Un motivo in più per entrare al suo servizio. Almeno fin quando sarebbe stato necessario. «Ho sentito cose mirabolanti sulla vostra forza, Cavaliere di Virgo». Disse a un tratto. Tu farfugliasti una risposta sull’umiltà che non ascoltasti neppure. Eri troppo impegnato a sperare che non recepisse le tue reali intenzioni. «La vostra forza potrebbe esserci molto utile».
«Consideratemi un alleato».
Pandora ti osservò a lungo assottigliando gli occhi violacei, prima di dichiarare: «E sia, benvenuto nella resistenza, Gold Saint di Virgo».  
Dopo questo colloquio fosti rimandato in campo sotto l’egida dello Specter della Viverna, l’unico Giudice che avevano finora. Il quale, felicissimo all’idea, ti mandò nelle retrovie insieme a Camus. Con le tue tecniche avreste sbaragliato il nemico. Ma prima che sarebbe arrivato quel giorno sarebbe passato molto tempo. Avevi cercato di occupare il tempo tra meditazioni e passeggiate e giornate passate con Camus.
In ogni caso avevi capito come eravate organizzati. A proteggere le Anime Vive e i Vivi dalle Creature, ci avrebbero pensato gli spiriti stessi. Ognuno era affiancato da un guerriero o uno spirito. Anche Camus ne aveva uno appresso: era una bambina Pitta che gli stava insegnando il celtico. Probabilmente doveva ricordargli i suoi allievi. Non lo avevi mai visto all’opera con i bambini né ti era mai interessato ma ammettevi che aveva davvero la stoffa dell’insegnante. Era quasi un piacere assistere a quelle lezioni. L’unica cosa era che si teneva alla larga dallo Specter dell’Arpia. Il quale si era preso un’infezione a causa delle ferite. Il tuo commilitone gli abbassava la febbre mentre la bambina lo interrogava o osservava in silenzio, accovacciata accanto alla testa dello Specter. Il quale metà delle volte la scacciava, ma quando si addormentava gli cambiava le fasciature. Altre pregava per lui e completava i riti dipingendo sulla sua fronte il simbolo della guarigione. Così ti aveva spiegato Camus. Che cominciava a capire qualcosina di celtico soprattutto a gesti e disegnini sulla terra. Non potevate sostenere conversazioni con loro, ma qualcosa riuscivate a fare.
A parte questo non eravate per niente integrati nell’esercito, anzi eravate palesemente isolati. Gli Specter vi ridevano alle spalle e facevano di tutto per escludervi. Se non fosse stato per i Celti neanche avreste saputo che esistevano i turni al bagno, le ronde e molte altre cose.
Era strano per voi ricoprire una posizione più marginale rispetto a quella originaria. Come era strano per te vedere Camus tartassato da Aiacos di Garuda. Il quale alludendo una ricompensa, tutti i giorni veniva a riscuotere e ingaggiava battaglia con il Signore delle Energie Fredde. 
L’attesa si sarebbe fatta più lunga del previsto. Se avessi voluto ritrovarLa avresti dovuto fare qualcosa. Ma cosa? Neanche guardare tra i mondi funzionava. Chiedere aiuto agli Specter e agli spiriti era impensabile. E allora non avesti altra scelta che riprendere la lettura. Quando eri stato convocato avevi vestito la Cloth e tolto dal Pandora-Box e nascosto sotto al cuscino del tuo giaciglio.  
Leggesti qualcosa sulle stagioni, il mare, le cotte estive. Poi la prima poesia sul primo giorno di scuola. Così andava avanti raccontando di sogni e giornate, finché non arrivasti al suo primo amore. La bellezza che ne derivò. Tu che neanche sapevi cosa significasse. Che leggevi il diario di un’adolescente. Poi, improvvisamente, il tono cambiò. Lo capisti dal disegno di lei e di un’altra ragazza in spiaggia che venivano attaccate e dietro la schiena della giovane si innalzava il suo simbolo Divino. E quello, fu l’inizio di un sogno, anzi no, un incubo. Ritraeva lei stessa che veniva cinta da dietro da delle mani munite di artigli. Mentre alle sue spalle la sua versione Divina. Il successivo ritraeva lei stessa a testa in giù, che precipitava in una spirale di luce e pulviscolo resi attraverso pennarelli, matite e acquerelli. Finora non pensavi che un grido potesse essere espresso anche attraverso la pittura. La sensazione era quella di precipitare, si vedeva, ci aveva messo tutta sé stessa, mentre ti accorgesti, nei vari filamenti che costellavano gli anelli, che c’erano delle persone. Che la spirale in realtà erano dei gradini e che lei era caduta da questi. 

Vederti sprofondare nel tuo banco
è come sprofondare nell’ Oceano Artico.
Io mi chiedo cosa tu abbia.
Prego che migliori ma
ogni foglio del calendario
è giorno a te rubato.
La gioventù sfuma
e la malattia avanza.
Presto non ti vedrò più,
temo e tremo come foglia.
É colpa dell’amore?
É legge del contrappasso 
ho qualcosa di diverso.
Nel sangue, pelle, ossa.
Qualcosa in me sta cambiando.
Asia, ancora posso rispondere a questo nome?

“Asia”. Pensasti. Doveva essere stato il momento in cui la Dea in lei si era destata. Doveva essere coinciso con l’ammalarsi di qualcuno a lei caro. Probabilmente un suo compagno di scuola che le piaceva. Altrimenti non avresti visto il bisogno di dedicargli una poesia. Forse era lo stesso del sogno delle tre rose. Ma il disegno seguente ti dimostrò che ti sbagliavi.
Il ragazzo era attaccato a un respiratore e l’elettrocardiogramma era piatto. Poco sopra oltre il corpo la sua anima si staccava e guardava altrove, lontano dalla giovane innamorata.
Nel disegno accanto lei in basso al centro impugnava la spada, su cui leggesti la parola Tamerlane. Da quel poco che si vedeva del suo volto, sembrava che, piangendo, avesse accettato il suo destino con la disperazione nel cuore. Sembrava chiedere “perché a me?” Poco sopra la sua chioma le anime urlanti si sollevavano dietro di lei come una nube temporalesca. Due grandi occhi si rivolgevano verso lo spettatore, come gli occhi di Dio. A dirla tutta, la sua vera essenza celeste sembrava uscire da lei, ma invece di sorridere piangeva disperata, mentre il mondo alle sue spalle finiva e un minaccioso, spaventoso drago rosso occidentale distruggeva tutto quanto. E, attorno a lei, quasi come una meridiana, le Dodici Armature d’Oro a illuminarla alle spalle.  Maledetta ti fece capire quanto le cose fossero cambiate.

Sedici anni, forse diciassette
quando qualcosa si destò.
«Nonna, non capisco.» dissi.
Mentre nel ticchettio
ero, sono e sarò.
«Asia lo senti l’orologio?
Le senti le voci degli spiriti?»
«Ricordi? Ricordati di me».
Disse la mia immagine riflessa,
dopo i veli, la Dea, me.  
No, non sei lei.
Guardami, tu sei me.
Asia?
No, oppure sì.
Io sono il presente, tu sei il passato.
E nel futuro ci riuniremo
per tornare Io.

Nel disegno successivo vedesti Lady Isabel con alle spalle la statua di Atena. Restasti di stucco perché era identica all’ultima volta che l’avevi vista nell’Ottantasei. Come faceva a conoscerla? Lady Asia era nata dopo! E perché la vostra Dea cingeva le sue spalle e indicava l’osservatore? Un dolce, vago sorriso delineato sulla sua bocca.
Nel successivo era la giovane, nella sua forma umana attuale, abbigliata come Lady Isabel a sedere sul trono e brandire lo scettro di Nike e voi eravate inginocchiati ai suoi piedi. Mentre la vostra Dea attuale ascendeva al cielo al posto suo, sorridendo, verso l’Olimpo e nella pagina accanto, il Drago Rosso di prima, libero da catene che cercava di inghiottirla, mentre in primo piano, anche se in basso, su un prato verde chiaro illuminato, c’era una Pitonessa.  
Volgesti la pagina e le poesie divennero più rapide e tormentate. Mentre piangendo si chiedeva cosa fare e cominciava a combattere come in realtà faceva quando non era incarnata.

Credevo di essere al sicuro.
Accadono cose strane
e non posso tirarmi indietro.
Devo essere io.  
L’addestramento va ripreso
Addio mia vecchia vita.
Addio padri miei, non disperate,
vi porterò sempre in fondo al cuore;
sicché non vi abbandonerò mai.
Aveva solo diciannove anni. Leggesti La caducità della vita, che risaliva a molti anni dopo, all’incirca alla battaglia contro il Gran Dio Zeus. 

Amore è una rosa che fiorisce a maggio
I miei petali non sono ancora sbocciati.
Verdi e contratti, bagnati di rugiada.
Per sempre serrati.
Non avvicinerai mai le tue labbra
Non mi sussurrerai mai, caloroso: “è aprile”.
Temo perché prima che tu possa
le lame si avvicinano ticchettando fatali.    
Che io sia dannata come Morgana la Fata?

Questa era forse la poesia più intima ed erotica che avessi mai letto. Mai avevi letto qualcosa di tanto intimo e caldo. Il calore del sussurro del ragazzo lo sentivi. Il sottile timore della rosa verde anche. Ti sentisti a disagio mentre piacevoli fitte al costato e all’addome ti prendevano. Eppure quel disagio presto fu sostituito dalla curiosità. Non credevi che le parole avessero quest’effetto. 
Con un grosso sforzo guardasti il disegno alla pagina a fianco. E vedesti quella rosa verde da cui nasceva una lei che, avvitandosi su sé stessa guardava spaventata le lame delle cesoie avvicinarsi.  Mentre delle mani a coppa cingevano il bocciolo. Degli orologi degli ingranaggi facevano da cornice.

Siamo maledetti entrambi, quando le nostre lame s’incroceranno, sarà la fine di Tutto.
Non voglio. Non ho lavorato tutte queste vite per nulla. Voglio ancora essere una ragazza normale.
Perché ho scritto queste parole? Perché sto scrivendo queste frasi?  


Quella notte sognasti di trovarti davanti a una serie di fanciulle dalle vesti nere che venivano come strappate via da te. Che urlavano e imploravano di salvarle. Quando facevi per tendere la mano, però, due enormi porte scure si sprangavano con dei talismani. Ti urlasti con le loro voci spaventate ancora nelle orecchie.

L’Azona sembrava essere scomparsa.
Nelle ore che passasti sotto quel tiglio a cercare di individuarla percepisti soltanto gli Inferi, come se vi fosse diventata un tutt’uno. Ma se fossi rimasto con loro, probabilmente avresti avuto qualche chance in più di ritrovarla e compiere il tuo dovere. Per quel giorno smettesti di cercarla a malincuore. Giusto in tempo per il pranzo, che ti portò il tuo compagno d’arme. Una profumata e cremosa zuppa d’orzo. Lo ringraziasti con un cenno del capo, chiudesti il block notes e cominciasti a mangiare, mettendolo sull’erba come se tu facessi un baratto. Io ti do questo block notes e in cambio io mi dedico a te, realtà. Camus si accomodò sull’erba accanto a te e ti tenne compagnia. «Che cosa leggi?» Ti domandò Camus sedendosi accanto a te, passandoti un’altra ciotola di zuppa d’orzo, la cena. Lo ringraziasti con un cenno del capo e la mettesti da parte per lasciarla raffreddare un po’. Anche se in realtà non avevi fame.
Il maestro di Hyoga si accomodò sull’erba accanto a te. Tu richiudesti l’album. «Niente di particolare, una cosa che ho trovato».
«Posso vedere?» Chiese incuriosito.
«No, è personale». E, tu, ovvio che ti sentivi a disagio, ma lo saresti stato ancor di più se l’avessi condiviso con lui. Avevi tra le mani la vita di una Dea. Una Dea molto sfortunata, che però lottava con tutte le sue forze per scongiurare un destino avverso. Non sapevi se provare pietà o se ammirarla. Non solo per aver deciso di riempire la sua vita di bellezza e luce, in contrapposizione a tutte le tenebre e le disgrazie che le erano capitate. La vedevi talmente delicata e fragile che facevi fatica a pensarla da sola chissà dove negli Inferi. Il francese annuì e si appoggiò al tronco d’albero a sua volta dicendo: «Capisco».
Una cosa buona del Gold Saint di Aquarius: rispettava la privacy altrui, vero, Shaka? Stringesti la bocca e tornasti a osservare l’album. Poi lo chiudesti e prendesti la ciotola. Quando finisti Camus portò via le ciotole e tu riprendesti la letta. Arrivasti all’ultima pagina.

Una volta superata l’ultima frontiera
non ci saranno né un buco nero
Né un uomo dietro la mensola.
Mondi da scoprire. 
il sangue scorrerà a fiumi
come le mie lacrime
copiose come i morti.
Per quanto io mi fortifichi
non so come scappare.
Tutti vivono,
Tranne me.
Li devo proteggere, almeno loro
Io che posso.
Io sono la Fine.
Io sono maledetta.
Eppure voglio vivere.
Volevo essere la Fanciulla e
Invece sono la Vergine Disincantata.

Ancora una volta sfogliasti le pagine della spirale nera, di quelle che, (avevi sentito), si vendevano ovunque. L’unico indizio per comprendere con cosa avevi a che fare era sfogliarlo e decifrarlo. Avevi intavolato una conversazione con Camus e avevi cercato di farti spiegare i messaggi che gli artisti nascondevano nelle opere. Ma Camus era stato piuttosto manchevole d’informazioni.
Passasti le dita sulla carta ruvida, meravigliandoti di come il tatto ti restituisse infinite sensazioni. Di come gli acquarelli le dessero un tocco più polveroso ma anche più delicato.    
Se non altro avevi persino un nome da cui partire. Asia. Il nome terreno della Azona. «Asia». Mormorasti, per sentire come suonava. Aveva un suono buono, sapeva di verde, un po’ come la camicia e gli smeraldi che indossava. Era la prima volta che per te una parola acquisiva anche un colore oltre che famigliarità. Tu la conoscevi con un altro nome, diverso dal continente che ti aveva dato i natali. Oh, sì che lo conoscevi, che aspetti? Dillo. “No!”
«Shaka?» Ti chiamò una voce e tu ti girasti. Era Camus, che ti disse che volevano parlare anche con te. «Hanno deciso di stilare un piano d’attacco e hanno bisogno di noi, vieni?»
«Sì, arrivo». Infilasti l’album in una sacca che ti eri fatto dare e lo seguisti alla tenda dove si sarebbe svolta la riunione.
 alla Bocca dell’Ade con una milizia tutta particolare. Non ci credevi, erano riusciti a reclutare perfino il malvagio custode della Quarta Casa. Lui, che viveva solo per il gusto di sentirsi onnipotente e addobbare la sua Casa.
Stando ai piani, il Cavaliere di Cancer avrebbe dovuto cominciare l’avanzata nel regno dei morti partendo dall’Acheronte e venendovi incontro, di modo che Don Avido si sarebbe ritrovato stretto in una morsa e, a quel punto, lo avreste annientato e avreste riconquistato gli Inferi.
Il quando lo sapeva solo Pandora, ma la donna non sembrava intenzionata a condividere queste informazioni con voi. A te andava bene così, in fin dei conti eri un soldato e, la tua azione nella Sesta Prigione aveva persuaso la donna del tradimento e della colpevolezza di Atavaka. Ti era debitrice, ma non sapeva che farsene di un debito simile. Dopotutto governava gli Specter, reggeva gli Inferi in assenza di Hades. Se i suoi sottoposti non conoscevano il significato della parola riconoscenza, figurati se lo conosceva lei. 

La speranza, che ironia, voi che vi professaste suoi Cavalieri in onore di Atena. Per non essere da meno ai Bronze Saint. Ebbene adesso era affiancata da altre tre parole, la speranza di ritrovare Asia. Di ritrovare lei. Dì quel nome. “Ma io non me lo ricordo”. Non mentire, tu lo sai. So che è il tuo più grande segreto. 
Ma tu preferivi rileggere e ammirare quell’album alla ricerca di nuovi dettagli. Se non ti conoscessi avrei detto che era una nuova forma di meditazione, visto che ti lanciava verso nuovi orizzonti. Relativi nel senso sofistico del termine, in quanto di nuovo non avevano neanche le date. Però per te lo erano, in quanto fino a ora ne ignoravi l’esistenza e, non avevi mai pensato che anche una Dea potesse essere, prima di tutto, una donna. E dire che ti avevano insegnato a vedere la Dea prima della Fanciulla, a venerarla prima ancora di rispettarla. Ma quanto oro avresti dato per conoscerla? In realtà non ti era mai importato. Ma ora che conoscevi il segreto della Dea incarnata, non ti sentivi tranquillo. Il tuo animo era turbato.
In quanto generali la vostra esperienza bellica era utile. Fortunatamente che sapevi scindere la tua vita privata dal tuo dovere. Il prossimo territorio da riconquistare sarebbe stata la Quinta Prigione. La conoscevi, era una tra le più spaventose e occupava un territorio più o meno rettangolare. Era sita più a valle, rispetto alle colline rocciose e sullo stesso livello della Palude Nera. Ma era diversa ancora. La mappa che avevate davanti era diversa da quella che conoscevate. Riconoscesti immediatamente la mano che l’aveva disegnata e il cuore ti batté più veloce. «Dove l’avete avuta?» Chiedesti sfiorandola con le dita. Ciò che sapevate degli Inferi era solo una parte infinitesimale. Che quel luogo non era la Terra, che in confronto il Regno dei Vivi era un Paradiso. Era proprio il caso di dire: “Benvenuto all’Inferno”. Che Hades avesse cercato di ingannarvi facendovi apparire così i suoi domini? Che solo adesso vi fossero apparsi nella loro interezza grazie alle leggende e alla vostra permanenza? Come avevate potuto essere così stolti da affidarvi ai vostri sensi?
La Viverna ti squadrò sospettoso e Pandora rispose che vi era stata mandata dal vostro collega di Cancer. Lo Specter della Viverna fece per chiederti spiegazioni quando suonò l’allarme. «In posizione, tutti». Ruggì scattando in piedi e corse via.
Le grida si elevano dal parco mentre Lady Pandora scattava in piedi a sua volta impugnando il tridente: «Com’è possibile? L’attacco non doveva essere oggi». Eravate ancora impreparati, buona parte delle truppe non si era ancora ripresa. Ma stavolta c’eravate anche voi. Guardasti il tuo compagno Saint e lui ricambiò il tuo sguardo. In quel momento eravate davvero sulla stessa lunghezza d’onda.

Shura
Qualcosa che non andava. Qualcuno aveva frugato nella tua stanza. E come te ne eri accorto, dal momento che era tutto in ordine? Dall’odore. Non avevi un naso particolarmente sopraffino (eri un uomo, mica un segugio) ma i profumi li sapevi riconoscere e questo non era tuo. La scia era talmente intensa che potevi fiutarla alla stregua di un cane da tartufi. Quello che ti preoccupava di più era che nonostante che il cassetto del registro personale delle missioni fosse intatto ti sentivi scoperto? Era opera di Ionia, forse? Giacché aveva dimostrato questa tendenza alla maniacalità, avevi deciso di sorvegliarlo e di investigare sulla Palaestra. Non avresti mai permesso che abusasse del suo ruolo per seviziare quei ragazzini. Avevi sempre saputo che avesse qualche rotella fuori posto, ma così tanto no. La notte del mancato soggiogamento di Astrid ancora infestava i tuoi pensieri. Come un’edera rampicante i cui viticci si allontanavano a tratti per poi tornare ad avvitarsi al tronco principale. “E se non fosse stata l’unica?” Se Ionia avesse tentato di plagiare altri Saint? Mentre in cuor tuo avevi sperato che non avesse fatto anche di peggio. Forse non era nelle corde di quel vecchio, ma non potevi sapere.
Il fatto che fosse sopravvissuto all’ecatombe delle truppe che combatterono Mars e Pallas aveva del miracoloso. Neanche il Primo Saint della Dea ce l’aveva fatta. Adesso chi restava? Paradox, Integra, Ryuho, Yuna, Sirrah. Di così tanti solo in cinque. 

Avere i Marine per il Santuario era una fregatura ma dovevi fare qualcosa, perciò decidesti di parlarne con Yuna. Perciò quella mattina chiedesti congedo momentaneo a Kanon e ti recasti personalmente alla Palaestra, interrompendo la lezione di Geki dell’Orsa. L’omone con i capelli purpurei stava spiegando una proiezione quando percepì il tuo Cosmo: «E allora… Nobile Shura!» Esclamò sorpreso girandosi per guardarti con tanto d’occhi, prima di inginocchiarsi rispettoso. Gli studenti lo imitarono seduta stante, anche se si scambiarono delle occhiate perplesse e qualche mormorio. Qualcun altro invece zittì tutti.
«Riposo, Geki alzati pure». Sorridesti affabile. L’ex Bronze Saint dell’Orsa Maggiore si rialzò in tutta la sua considerevole altezza: «Continuate gli esercizi, voi». Ordinò alla classe che riprese da dove si erano interrotti, sotto la guida del vice allenatore.
«Ti trovo bene», dicesti, tanto per rompere il ghiaccio.
«Si fa quel che si può, in cosa posso esservi utile?» Domandò cortese.
«Sono venuto per visionare i vostri allievi, ultimamente ho sentito il bisogno di prendere qualcuno e candidarlo a una Cloth». Inventasti ma fosti così convincente che Geki non ebbe alcuna difficoltà a crederti. «Veramente? Sarebbe un grande onore, nobile Shura!» Esclamò elettrizzato. «Scegliete pure il giovane che ritenete idoneo e fatemelo sapere, ve lo manderò presto per un colloquio».
E il candidato ideale l’avevi già scelto. Che decidesti d’incontrare proprio quella mattina, in un bar di Rodorio. A Kanon avresti pensato poi, tanto con lei c’era Shiryu, l’altro fiero possessore della Sacra Excalibur, al fianco di Atena. Immaginavi alla perfezione quanto fosse irritato dietro la maschera di calma che stava sicuramente indossando.  
«Buongiorno, nobile Shura, volevate vedermi?» Ti salutò la ragazza, ricambiasti. Ti accorgesti che la tonalità della sua chioma era più sull’ocra che sul biondo platino, che, ormai, ti eri abituato dei capelli di Astrid. Era pure più lunga. Ma anche che ti sembrava più malaticcia e scheletrica. Non avevi più visto gli altri ma avevi visto le vittime delle Creature durante la fase di essiccazione. Lei sembrava avviarsi sulla stessa via.
«Sì, suppongo che il tuo maestro ti abbia già avvisato o, quantomeno, che ti abbia accennato quello che voglio riferirti».
«Ha detto che cercate un allievo da candidare per una Cloth, ma io non so se avete fatto bene». Rispose lei. Poverina, non poteva immaginare che, in realtà, la stavi per reclutare per una faccenda completamente diversa: «Sì, vieni, ti offro un caffè e ne discutiamo tranquillamente». Poggiandole una mano tra le scapole la sospingesti verso un bar. Vi sedeste a un tavolino esterno, approfittando della bella giornata e dei caldi raggi del sole. Ordinaste due caffè. Fortuna che tu passavi più inosservato, anche se Yoshino era pronta a dirti che non era vero.  
Adesso la giovane era leggermente in imbarazzo. Forse stavi un po’ esagerando, perciò gli spiegasti i veri motivi della tua chiamata.
Il barista arrivò con le vostre ordinazioni e, dopo avervi serviti, si dileguò.
«Scusatemi, credo di non aver capito, mi era stato detto che cercavate…»
«No, mi dispiace è una bugia che ho dovuto dire a esclusivo beneficio del tuo istruttore, altrimenti non mi avrebbe neppure permesso di avvicinarmi; ripeto, non sono maldisposto nei tuoi confronti e non ho richiesto la tua compagnia oggi, per fini lascivi». Ci tenesti a ribadire onde evitare fraintendimenti.
«Allora per cosa mi avete chiamato?» Chiese lei, trattenendo il fulmine che stava per scoccarti con lo sguardo. E fu così che le chiedesti aiuto. Cosa inusuale ma non impossibile. Tutti prima o poi chiedono aiuto, no? Soprattutto quando i tuoi compagni cominciano a morire così, assieme alle costellazioni. «Il mio aiuto? Per cosa?» Domandò la giovane, battendo le palpebre, stupita. E tu le dicesti che avevi bisogno di una persona fidata all’interno della Palaestra, che fosse i miei occhi e le sue orecchie per sorvegliare Ionia. Ti sporgesti verso di lei, intrecciando le mani sul tavolo e le confidasti il motivo che ti aveva spinto a prendere questa decisione. «Perché mai il signor Ionia avrebbe dovuto farlo? Lui ha giurato fedeltà ad Atena», obiettò non convinta.
«Perché trama ancora di spodestarla e rimandarla sull’Olimpo per preservarla dalle sofferenze terrene». Rispondesti tu, che avevi fatto i compiti, quindi avevi compreso con che razza di uomo avevi a che fare.
«Sì, disse proprio questo quando io e Kouga di Pegasus l’affrontammo». Confermò la tua interlocutrice, le sue iridi brillarono di interessamento e timore. E qui le confessasti il tuo timore più grande, ossia che sospettavi che stesse studiando i poteri di Astrid. L’amica di Pegasus trasalì. «Com’è possibile? Eppure si era redento».
«Le persone non cambiano mai veramente». Ribattesti in tono lugubre quanto il cipiglio che percepivi di aver assunto. «E ho potuto vedere di persona, più di una volta Ionia cercare di piegare a sé Astrid av Stjernene tramite il Domination Language». La giovane sussultò portandosi una mano alla bocca. «Ma da solo non ce la posso fare a incastrarlo. Ho bisogno di prove concrete e di una mano per proteggere Astrid e voialtri della Palaestra, ho bisogno che tu mi racconti tutto quello che sai di lui».
«D’accordo, signore, ma è una lunga storia e, dovrò partire dal Silver Cloth dell’Aquila».
«Ho tutto il tempo». E lei ti accontentò. Finì dicendo che aveva restituito il Cloth alla sua legittima proprietaria che era tornata assieme alla vecchia guardia sopravvissuta. «Ionia di Capricorn è famoso per la sua distorta concezione di pietà. Temo che stia cercando di organizzare gli studenti della Palaestra, quelli più spietati e forti, per il suo tornaconto personale. Non dimenticate che lui gestiva una scuola di soldati, prima di essere chiamato come insegnante. Mentre di voi credo che mi possa fidare, sanno tutti che siete il suo oppositore più accanito. Perciò, se c’è qualcosa che possiamo fare saremo lieti di aiutarvi».   
«Per il momento ho solo bisogno che lo teniate d’occhio, ogni quattro giorni salirai alla Decima Casa e mi farai rapporto con la scusa di questi allenamenti».
«D’accordo, nobile Shura, contate su di me».    
Appena finito la riaccompagnasti alla Palaestra e ti fermasti a osservare quei giovani che stavano giocando appena fuori dell’edificio. Li riconoscevi perfettamente dalla divisa che indossavano. 
Il pensiero ti corse inevitabilmente a Ionia. Stringesti la mano destra in pugno, affondata in tasca. Già una volta si era dimostrato capace di questo e altro. L’avevi visto come avesse cercato di soggiogare Astrid, ma chi poteva garantirti che non avesse cominciato a fare esperimenti sui bambini e i ragazzi che istruiva? Per questo passeggiavi tanto spesso vicino alla Palaestra. A un certo punto, a ricreazione, ti arrivò una pallonata in faccia. Che parasti afferrandola con una mano. «Scusate!» Esclamò una ragazzina che corse da te a recuperare il pallone seguita a ruota da un altro bambino. Tu sorridesti loro e dicesti di fare più attenzione, in tono gentile.
«Voi non siete il Gold Saint del Capricorno?» Domandò un ragazzino.
«Sì, sono proprio io». Il bimbo sgranò gli occhi, si volse e gridò a tutti che eri lì. Perfetto, adesso mancava solo Ionia ed eri a posto. Ma l’uomo non si fece vedere. Se solo non avessi avuto quella fastidiosa barriera sul tuo Cosmo avresti potuto intercettarlo. No che non te la saresti mai data a gambe. Non era un’azione onorevole. E poi davanti a te comparvero anche delle bambine che riconoscesti come le ragazzine che ti trassero in salvo. Ti inginocchiasti alla loro altezza, lieto di rivederle, mentre queste due sorelline ti domandavano se stessi bene e ti ringraziavano per aver preso a lavorare con te il loro fratelli maggiori Makis e Makarios. Quelle erano le nipoti di Mino? 
I bambini presero a canzonare la più piccola dicendo che non faceva altro che parlare di te e della tua generosità. Facendo avvampare la piccina. Intanto anche i bambini
«Se vedete qualcosa che non va correte a dirmelo». Ti eri raccomandato con una delle bambine che indossava la maschera inespressiva delle Sacerdotesse. Un volto di donna incongruo su un corpicino così giovane, da sembrare quasi grottesco. Le ponesti una mano sulla testa. Forse, uno dei pochi gesti d’affetto che avrebbe mai ricevuto all’interno del Santuario.  
«Come facciamo a saperlo?»
Bella domanda. E ora ne avevi un’altra ancora più complessa: come facevi a spiegare a dei bambini che cosa era un abuso? Cercasti le parole giuste per farglielo capire: «Se cerca di usare la propria tecnica su di voi o vi conduce contro il Santuario, se vi fa del male al di là degli allenamenti e dell’insegnamento, se cerca di farvi del male e voi non volete correte da me». Spiegasti in soldoni.   
«Abbiamo capito noi». Dissero più grandicelli che si erano assiepati assieme ai più piccoli.
«Bene, allora posso contare su di voi per proteggere gli altri?»
«Sì». Promisero i giovani Saint.
Fortunatamente non dovevate far altro che presenziare ai banchetti e seguire la Dea, assistendo anche alle trattative. L’Ambasciatore, o meglio il giovane Sea Dragon sembrava conoscere Astrid. I servitori sfilavano attorno a voi servendo vino e portate. Tra loro c’era anche Astrid, la quale trasalì quando r il Marine di Sea Dragon la salutò affabile e intrattenne una breve conversazione con lei. La tavolata si spaccò a metà tra sguardi preoccupati e divertiti.
«Da quando si conoscono?» Chiedesti ad Aiolia, che era seduto vicino a te.
«Non ne ho idea». Rispose confuso il tuo protetto. Colui che, stando al principio del Chugi che ti imponeva immensa lealtà verso colui di cui ti prendevi cura, quasi come ad Atena. Saresti rimasto fieramente fedele a lui e alla Dea. Per loro eri riuscito a farli tornare tutti indietro, a casa e a concedere una nuova vita ai tuoi compagni e a te stesso.  
Il giovane ospite lasciò andare Astrid, che si rifugiò in cucina assieme agli altri.
«Conoscete la nostra Astrid?» Domandò Kanon con falsa nonchalance.
«Oh, ci siamo incontrati pochi giorni fa, mi sembrava che leggesse la mano a chi lo desiderava. Io le ho detto che era impossibile e lei per provarmelo ha letto la mano di uno dei miei sottoposti». Ribatté il giovane sfoderando un sorriso a trentadue denti. «É forte, non mi aspettavo che fosse un’ancella, lì per lì avevo pensato che fosse una Saintia, si chiamano così, no?»
«Sì». Confermò Kanon, mentre Lady Isabel continuava a mangiare come se niente fosse, ma a nessuno di voi sfuggì l’irrigidimento delle sue spalle. «Ma a causa di un incidente è stata congedata dal servizio».    
Il Marine si accigliò: «Un incidente?»
«Sì, qualcosa alla testa, non ha ancora recuperato tutta la memoria e il suo Cosmo». Continuò Kanon con naturalezza. Ti portasti un calice alla bocca. Beh, in fondo, questa era una mezza verità, ed era pure credibile, considerando il posto dove vi trovavate.
«Mi dispiace». Fece, sinceramente contrito, «A che Armatura era destinata?»
«All’Armatura di Andromeda». Chiosò il Gran Sacerdote.
«Quindi una Bronze Saint».
«Esatto».
«Beh, lasciatevelo dire ma quella è comunque un genio, non ho mai visto una tecnica simile, tanto coraggio e caparbietà anche per tenere testa al mio sottoposto quando si è infuriato. Io fossi in voi l’avrei destinata a una Silver, magari una Gold Cloth».
«La Cloth di Andromeda non ha niente da invidiare a quelle d’Oro». Ribatté Aiolia a quel punto, prendendo parola e guadagnandosi gli occhi di tutti. Pregaste che non facesse una gaffe. «Alcuni dei nostri compagni d’arme qui presente in origine erano Bronze Saint e tutti noi, abbiamo visto compiere miracoli a questa schiera. Non possiamo che essere fieri di averli come confratelli. Noi crediamo nell’uguaglianza tra i soldati, troppo a lungo ci siamo inorgogliti e abbiamo avuto torto, adesso ammettiamo tranquillamente che anche il meno potente di noi può fare la differenza. Persino le Saintia hanno dimostrato di possedere uguale forza di volontà e Cosmo». Gli deste ragione chi più chi meno platealmente. Mentre i cinque ex Bronze sorrisero alle parole del Cavaliere di Leo. Inoltre, sapevate perfettamente che lui fu il primo a credere nei Bronze, già ai tempi della Titanomachia, quando fu mandato da Retsu della Lince. Addirittura sfiorando appena l’argomento “distruzione di Atlantide per opera dei Bronze presenti”. «Parole molto lodevoli, Gold Saint di Leo». Concesse il Marine sorridendo affilato. Il resto della cena proseguì tranquillamente e Astrid non fu più interpellata.
Avevi già abbastanza cui pensare. Non ultimo a Saga. Eri preoccupato per lui, si vedeva che non stava bene.
Stavi tornando alla tua Casa quando vedesti Astrid appollaiata sul davanzale di una finestra a guardarsi le mani luminescenti e a sospirare.
«Astrid.» la giovane si immobilizzò di colpo. «Shura!» Esclamò, spegnendo la luce delle mani e, precipitando il luogo nella penombra originale. Battesti le palpebre per abituarti, poi, le domandasti: «Tutto bene?» Domandasti.
«Sì, io… non volevo mettervi in imbarazzo, davvero, non immaginavo che quello fosse lo stesso ragazzo che ci ha aiutati al cimitero».
«Non preoccuparti, va tutto bene. Vieni un attimo con me, ti devo parlare». Le dicesti, sperando di essere risultato meno inquietante di quello che temevi. Sapevi che non era la frase migliore da dire per ingraziarsi una persona spaventata, ma non ne conoscevi altre. Lei obbedì mantenendosi a un metro di distanza da te, pronta a fuggire in caso di attacco (che non sarebbe mai giunto). 
La portasti in un angolino appartato e la guardasti. Lei ricambiò stringendo i pugni, che, stavolta, s’illuminarono di una luce dorata. «Non voglio farti nulla». Mormorasti allo stesso tono di come si mormora a un animale spaventato. «É tutto a posto, voglio solo essere sicuro che vada tutto bene».
«E allora che senso ha avuto portarmi qui?» Ribatté, guardinga, alzando le mani in una posizione di difesa. «Di garantirti la mia parola d’onore di Gold Saint che non ti torcerò un capello e che non ho alcuna intenzione di macchiarmi di un omicidio, non della persona che voglio proteggere. Puoi considerarlo una sorta di giuramento». Spiegasti.
«Proteggermi?» Domandò sbalordita abbassando le mani; «Perché?» Tu glielo dicesti. «La Luce Ombrosa?» Domandò.
«Temo di sì, quello che ti chiedo è di mantenere segreto quanto tu possa aver visto e sentito e di stare alla larga dal Marine di Sea Dragon e da Ionia di Capricorn».
«L’insegnante della Palaestra?»
«Lo conosci?» Chiedesti sorpreso inarcando le sopracciglia. Che si ricordasse del viaggio astrale che l’aveva portata a dormire tra le braccia di Lancelot? «Di vista, anche se lo sento nominare spesso dai ragazzini cui do ripetizione di fisica e algebra».
«Bene, stagli lontano».
«Non che avessi intenzione di avvicinarmi ma, posso sapere perché?»
«É pericoloso».
Lei si accigliò: «Non parlarmi come se fossi una bambina».
«Lo so che sei una donna, lo vedo, ma se non te lo dico è perché non voglio impensierirti ancor di più, che a causa nostra ne hai già dovute sopportare tante». Ti scusasti un po’ per tutto, anche per quello che era accaduto solo l’altro ieri. Lei ti guardò meravigliata, prima di cominciare: «Apprezzo il gesto…»
«Ma devi lasciarmi fare, solo io so come fermare Ionia, per favore, fidati di me, Astrid».
Lei restò zitta a lungo, meditabonda. Poi ti guardò negli occhi con sguardo risoluto e parlò: «Yoshino si fida di te, Aldebaran si fida di te, Aiolia si fida di te, mi fiderò anch’io». Decise, cercando di trasmettere determinazione con lo sguardo. Annuisti. Stavi per farle promettere di non farne parola con nessuno quando ti venne un’idea migliore, dopotutto era una chiromante, magari dove non potevano arrivare Yuna e gli altri arrivava lei. Però era anche vero che era soltanto una civile e, che il principale obiettivo di Ionia era proprio lei. No, non potevi chiederle di unirsi alle vostre indagini. A richiamarti fu proprio lei. «Shura?»
«Farò in modo che tu sia al sicuro». Promettesti. E, quando un samurai promette, non c’è bisogno di avere la sua parola, la sua parola è azione.
«Per quanto riguarda il Marine, dipenderà da Kanon o da Zenais, non da me». Ti ricordò.
«Lo so, fai comunque attenzione. Buonanotte».
«Anche a te». Astrid era una ragazza molto assennata, eri certo che avesse compreso. E, se era sufficientemente intelligente, sperasti che non si ficcasse ulteriormente nei guai. 

Astrid
Tornai in cucina e mi sedetti alla tavolata, ormai semi deserta. «Spegni tu la luce?» Mi domandò Roni, una delle cuoche pulendosi le mani a uno straccio che poi abbandonò sul lavandino. 
Mi ricomposi e le sorrisi con un cenno d’assenso alla greca. «Tutto a posto?» Le dissi di sì ma lei insistette e mi chiese se fosse per via del Marine di Sea Dragon. Ormai la voce sul fatto che io e lui ci conoscevamo si era sparsa. Notando la mia espressione angosciata mi domandò anche in tono mite se mi avesse fatto qualcosa. «No». Mi portai la mano alla bocca e mi accartocciai la parte inferiore della faccia, pensierosa. Roni avanzò preoccupata verso di me. «Stai bene?» Glielo potevo anche dire, lei era una delle poche persone che non faceva caso alle chiacchiere che si dicevano in giro. Era quel tipo di persona che preferiva farsele entrare da un orecchio e uscire dall’altro. Ma non era quella che poteva aiutarmi. Probabilmente l’avrei solo messa in pericolo. «Sì».
«É per via del Sommo Kanon?» Appena lo tirò in ballo la guardai confusa. E adesso che c’entrava? Lei farfugliò qualcosa ma io non capivo di che parlasse. «Tra noi?» La imboccai riprendendo le uniche parole che avevo recepito con chiarezza. Lei non ce la fece più e lo disse chiaro e tondo dopo aver allargato le braccia un momento e mosso la testa di lato: «Oh andiamo, lo sanno tutti che vi amate».
«Cosa? Ma noi non… Sì, è vero, è vero, hai ragione». Mentii dopo un lampo di genio. Le voci sulla mia tresca con lui ancora persistevano. Tanto valeva sfruttarle un po’ anche se non mi piacevano granché. Lei s’illuminò tutta e congiunse le mani come in preghiera, gli occhi brillanti: «Quindi è vero che siete amanti!»
«Sì, è vero», mi sforzai di sorridere e simulai imbarazzo. Meno male che avevo avuto questo colpo di genio, altrimenti non sapevo proprio come mi sarei svicolata. Abbassai il capo sorridendo nervosamente: «Ma lui è abbastanza geloso e non vorrei, beh, non vorrei che le trattative andassero male per colpa mia. D’altronde per una donna una volta scomparve la città».
«Ah, non preoccuparti per questo, il Sommo Kanon è un uomo molto assennato. Quindi da quanto è che va avanti? Raccontami tutto, è bravo?» Mi pettinai una ciocca con le dita, cercando di simulare imbarazzo e guardai in alto a destra fingendo di ricordarmelo. In realtà stavo cercando di ricordare alcuni hentai yaoi che avevo letto. Manga erotici che a volte sfociavano nel porno. Quelli het non mi dicevano nulla, ero stufa di vedere sempre le donne in primo piano. Sperai di essere arrossita abbastanza da essere convincente. Però non mi dette neanche il tempo di parlare che lei disse: «Oh, ma il Sommo non si arrabbierà se parli di lui?»
«Oh, mia cara, credo proprio di no». Con la reputazione che stavo per dargli da lì in poi non si sarebbe arrabbiato neanche per scherzo. Il mio maestro nell’angolo che ascoltava allibito, credo. Solo quando Kanon divenne il Rocco Siffredi del Santuario, Roni fu soddisfatta e se ne andò.
Solo allora il mio maestro parlò: “A parte le tue conoscenze amatorie, invero piuttosto nutrite, per cosa sei davvero preoccupata?”
“Lui mi ha vista, quel Marine deve avermi vista al cimitero monumentale”. Se non avessi avuto quell’imput avrei finito per dirlo alla persona sbagliata. Abbattei il palmo sul tavolo che produsse un rumore che si propagò per tutta la stanza. Poi lo ritrassi. Dèi, detta così suonava male, sembravo una Sacerdotessa-Guerriero disonorata. Invece era molto peggio. Quella sottile inquietudine stava andando ad alimentare la paura e a minare il mio già fragile equilibrio emotivo. Non immaginavo che fossimo spiati. Quando mi aveva rivolto la parola mi ero sentita scoperta, come se qualcuno avesse strappato via un travestimento. In effetti ero un’ancella della Tredicesima. Ma ero anche la Luce Ombrosa e quello lo sapeva. “Sei sicura?” Chiese improvvisamente attento.
“Sì”. Non era vero che mi aveva visto in giro e avevo letto la mano a uno dei suoi sottoposti. Io non li avevo neanche incontrati. Doveva avermi visto per forza durante quello scontro. Avrei dovuto dirlo ad Aiolia o a Kanon. Mi portai le mani giunte sotto al mento e continuai a tenere lo sguardo basso, come se parlassi al tavolo. Le parole di Shura avevano gettato un’ulteriore ombra sul mio umore. Già temevo di essere in pericolo. Il mio maestro mi aiutò a farmi ragionare e mi impedì di andare alla deriva. Poi mi consigliò di dormirci su. “Vorrei, ma con questa ansia non so come fare”. E poi anche se avessi spento la luce e avessi dormito non sarebbe cambiato nulla. Lui mi consigliò di farmi un decotto di malva, passiflora, melissa, camomilla e finocchio. Mi spiegò come farlo e disse che mi avrebbe aiutato a dormire. Meno male che avevamo tutte le erbe necessarie.
Il sapore non era granché neanche col miele ma lo buttai giù. Quella notte crollai come un sasso. 

Kanon ritenne più opportuno nascondermi. Non potevamo sapere cosa avesse detto ai suoi colleghi.
Forse avrei dovuto parlarne con Aiolia ma non potevo osare tanto adesso. O forse avrei dovuto parlarne con Shura. Ero ancora sorpresa dalle sue parole e avrei anche potuto fidarmi di lui: le mie tecniche facevano altamente schifo. Doveva aver percepito il mio stato d’animo perché avevo ancora la sua energia. Lo scoprii il giorno stesso che parlai a Kiki delle Mole di Narni. Con una meditazione riuscii a richiamarla tutta nel palmo delle mani. Quell’energia dorata che a volte mi corrompeva e che, spesso, mi aveva portato a uscire per cercare di incontrarlo. Non mi stavo innamorando di lui, al solo pensiero di baciarlo mi veniva da urlare e gettare via qualunque cosa avessi in mano. Era stata mia madre, al telefono, a dirmi che l’energia voleva tornare da lui. «Le carte dicono che gliel’hai presa per restare in vita».
«Ah, dev’essere successo prima del processo». Lo avevo raccontato alla mamma prima che mi chiamassero per cercare di salvare i morti. Mia madre non poteva immaginare quanto fossi sollevata dalla notizia. Lode allo psicologo e ai miei amici, erano riusciti a farmi smettere di parlare al niente. L’idea di innamorarmene mi atterriva. Checché ne dicesse Yoshino, che cercava di mettere una buona parola per lui. Avrei preferito l’energia di chiunque altro, ma d’accordo, prima o poi avrei trovato il modo e il coraggio di restituirgliela. Bello sì, ma troppo inquietante.       
Ancora di più mi preoccupavano i miei poteri e i miei ricordi. Persino il mio maestro mi guardava preoccupato. Più volte lo sentii domandarmi “Cosa c’è?” Ma io non rispondevo, se non stringendo i pugni e distogliendo lo sguardo da dove, sicuramente era. Se i miei poteri avessero avuto degli effetti collaterali sulle altre persone? Dopotutto stavamo parlando di luce, ombre e stelle. Soprattutto stelle, se per caso, quelle stelle avessero anche rilasciato delle radiazioni? No, non poteva essere, se no sarei morta anch’io. Feci qualche respiro profondo per cercare di calmarmi.
Gli effetti delle radiazioni li conoscevo, avevo visto anch’io dei documentari su Hiroshima e la bomba atomica. Sapevo cosa succedeva. E non essendo io atta a contenere queste radiazioni sarei stata condannata anch’io fin da subito. Che senso avrebbe avuto avere un potere che uccide prima di tutto il suo possessore solo perché ce l’ha? Nessuno, anzi, sarebbe stato addirittura ridicolo. E, sì che io ero abbastanza ironica, ma non ci avrei trovato niente da ridere neanch’io in quel caso.  
In Natura tutto ha un senso, noi come esseri viventi eravamo parte di Lei. Quindi, no, non aveva senso che io mi autodistruggessi per questo potere. La spiegazione doveva essere per forza un’altra.   
Se quei Saint non fossero stati uccisi dalle Creature? Ma se fosse stata la loro stessa costellazione a ucciderli, risucchiando loro l’energia vitale? Se ciò stesse succedendo anche a Death Mask e Aphrodite e tutte le persone che avevo resuscitato? Avevo sentito bene ciò che mi aveva detto Shura, ma questo non cambiava la mia opinione. Dopo tutto non sapevo neppure io che potere avessi davvero, al di là di tutto quello che stavo ricordando e riscoprendo, come la naginata.  
“Astrid”, mi chiamò il mio maestro, preoccupato, per la seconda volta.
Scesi dal davanzale della finestra portandomi le mani alle tempie e, cercando di riportare un po’d’ordine nella mia mente. Sentivo che stava arrivandomi una crisi e dubitavo veramente che sarebbe bastato così poco per fermarla. Anche se il mio povero maestro mi aveva già posato le mani sulle spalle e le stringeva come se avesse potuto ancorarmi alla realtà, così facendo. “Astrid, che hai?” Disse e io sentii la sua voce arrivarmi davanti, mentre cercavo di focalizzare la mia attenzione su qualcos’altro. Accidenti, non ero ancora capace di controllarmi. “Ho paura”.
“Lo vedo, ma perché?” Chiese premuroso.
“Perché quel ragazzo…” E gli raccontai tutto quello che era successo quando ero tornata in Italia e, il modo in cui avevo fatto ritorno al Santuario. Il maestro ascoltò tutto senza interrompere. Pensai addirittura che se ne fosse andato, visto che non sentii più la sua mano. Ma poi disse “Quindi tu temi che a causa tua siano morti?”
“Anche”. Avevo preso il vizio di disseminare le informazioni a giro. Avevo detto la verità a Roni, ma anche al mio maestro. Che, poverino, non ci capiva niente. Non che mi fidassi troppo di lui. Il sospetto permaneva ancora, ma in questo momento era il male minore. Inoltre, avevo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Sarebbe stato sciocco non farlo. Non ero così fuori di testa da pensare a me come persona, mi andava bene essere protetta anche in nome del potere che custodivo. Qualunque esso fosse. Era il massimo che potevo chiedere in un ambiente come questo.
“Maestro, per favore”. Se non l’avessi fatto, probabilmente avrei condannato inutilmente altri Saint “Non farmici pensare e non fare niente, per favore”.
“D’accordo, però non credo che fossero morti per mano tua”.
“Sì, forse avete ragione” Percepii il suo sguardo stupito su di me e gli spiegai tutta la faccenda delle radiazioni. Lui convenne con me. “Ma se è così chi li ha ammazzati?” Dissi allora.
“Credi ancora che ci sia lo zampino di Neera?” Che ormai si stava sciroppando ipotesi su ipotesi da parte mia. Io davvero non avevo idea di dove trovasse tutta quella pazienza per ascoltarmi e per non lanciarmi che so un anatema, qualcosa. O forse a metà si appisolava, ma ne dubitavo, lo sentivo troppo attento e io dovevo stare attenta a non pensare cose che non stavano né in cielo né in terra. Tipo il mio innamoramento per lui. Anche se, almeno da una parte continuavo a mascherarlo, se avessi smesso di mangiare per l’inappetenza mi avrebbe convinta a farmi visitare da Shun, come minimo. “Ne sono sicura”, dichiarai, stringendo la mano in un pugno, “ma non so come dimostrarlo”.
“Non dovresti immischiarti in questi affari, sono pericolosi”.
“E io no? Guardami, maestro, guardami, sono un luccio, uno squalo ficcato a viva forza in mezzo a un laghetto di trote, una lampreda un... Mi stava venendo fame solo a nominare il pesce”. Feci quando il mio stomaco rumoreggiò sonoramente. Lo sentii ridacchiare sommessamente, divertito per questa variazione sul tema. Mi alzai e mi preparai uno spuntino dopo aver frugato nella cambusa. Spuntino che consumai anche abbastanza velocemente. “Se non altro, adesso non hai più l’ansia”. Commentò mentre mangiavo. Poi presi il decotto.       
Sognai di trovarmi in un borgo medievale, di quelli che si vedevano ne Le fiabe sonore. In questo caso era come essere finita in una di queste storie, no, non era una di quelle. Questa era la favola crudele di Kaori Yuki, L’angelo e le fate. Nella favola un angelo cadde dal cielo e, s’innamorò di una fanciulla. Vidi me stessa con indosso un abito con il corsetto rosso, la gonna lunga da contadina color arancione e una camiciola con le maniche a palloncino in perfetto stile tirolese (o quasi) con tanto di cuffia. Io rappresentavo la fanciulla? Oh, no. Nel sogno alzavo gli occhi al cielo e vedevo precipitare qualcosa nel bosco che non riuscivo a capire cosa fosse. Quello doveva essere l’angelo? Ossignore.
A un tratto la scena cambiava e mia madre mi mandava a fare legna nella foresta. Improvvisamente mi ritrovai invischiata in un cerchio di silfidi che mi trascinarono nelle loro danze eterne. Cercai di liberarmi ma la presa era sempre più forte. No! No, non doveva finire così! No! «No. No!» Cominciai a divincolarmi e mi accorsi che il mio corpo faceva tutt’altro. Continuai a urlare e divincolarmi, ma il mio corpo non mi obbediva. Camminava contro la mia volontà. Sgranai gli occhi nel sogno. Le silfidi si trasformarono in mostri di un verde sporco con crudeli occhi rossi, radici contorte per capelli e corpo di legno e fango. La favola finiva che l’angelo, per salvare la giovane che amava, incoccò la freccia dell’amore e la uccise. Sicché lei potesse ascendere al Paradiso. Sentii il rumore dell’arco.
Urlai con tutta la forza che avevo e stavolta riuscii a coinvolgere anche il mio corpo, svegliandomi. Solo per ritrovarmi nello spazio, con numerosi pulviscoli fluttuanti e rocce di varia grandezza che volteggiavano tutto attorno a me. Capitai l’odore di morte e decomposizione. Sussultai e mi portai una mano a tappare le narici e la bocca, arretrando e guardandomi attorno, mentre sotto di me sembrava di camminare su sabbia o qualcosa che si disfaceva con uno shish shish inquietante. Abbassai lo sguardo e urlai terrorizzata: erano resti umani. E il ventaccio li sollevava, rischiando che io li respirassi.      
Non l’avevo mai visto prima, sembrava quasi di essere entrati in un’altra dimensione. E non era quello che cercavo. «Che posto è questo?» Chiesi spaurita, guardandomi attorno, senza purtroppo avere idea di dove fossi, ma avendo anche troppo chiaro che fossi sveglia. «Non era meglio se tu avessi continuato a dormire e fare un bel sogno? Almeno ti saresti risparmiata questa desolazione. Io non mi muoverei fossi in te». Disse una voce, sovrastando il vento impetuoso che mi scompigliava i capelli, facendomi rabbrividire e smuovendomi la camicia da notte. «Questo è una sorta di Terra di Mezzo, diciamo così. Se vai avanti entrerai nel Regno dei Morti. Poiché sei viva il tuo cuore cesserà di battere e morirai. Invece se tornerai indietro, ti salverai». Ribatté la voce maschile. Dal pulviscolo avanzò un uomo con un lungo telo bianco in vita che ondeggiava assecondando la corrente. La faccia coperta da un turbante dello stesso colore. A spaventarmi fu l’enorme spada gialla e fucsia che trascinava. Non ne avevo mai vista una lunga cinque metri con il guardiamano di due. Solo dopo mi accorsi che non era materiale. “Ossignori, aiutatemi voi.” pensai spaventata.
Quando fu più vicino se lo sciolse un po’, pensando che mi sarei tranquillizzata nel vederlo in faccia. Era un giovane dal volto rotondo e pieno, forse sui diciotto; incorniciato da un imbarazzante caschetto di ondulati capelli e rosa (almeno credo che lo fosse). Gli occhi dal taglio tondo, le iridi di un colore tra l’arancione e il giallo, quasi cangiante. Il naso a patata e le labbra carnose che non gli donavano. E fu quella bocca ad aprirsi in un sorriso inquietante e folle, peggio di quelli di Lancelot: «Ma ovviamente, tu non salverai solo te stessa, dovrai riportare indietro anche me, Incantatrice. Per questo ti ho chiamato». Nonostante tutto a spaventarmi era ancora la sua spada d’energia, che illuminava l’ambiente circostante. «Riportarti indietro? Perché? Chi sei? Che cosa vuoi? Perché io? Perché mi chiami Incantatrice?» Domandai.
«Perché sei l’unica persona che può aiutarmi a uscire da queste lande. Noi morti dobbiamo aggrapparci a qualcosa di reale, di vivo, per uscire e mi è giunta voce che l’unica capace di tanto sia proprio tu». 
«No, non farò niente di tutto questo, i morti devono restare sotto terra».
«Immaginavo che mi avresti detto di no, per questo ho portato con me la Spada Maledetta Clarent». Accennò alla lama gigantesca. «Perciò sarò più chiaro: non potrai uscire da qui finché non avrai accettato».
«Se mi ammazzi non uscirai mai da qui». Riuscii a dire meravigliandomi di come le nostre voci fossero naturalmente amplificate nonostante il vento.
«Giusta osservazione, per questo vorrei evitare un inutile spargimento di sangue. Ma questo, ovviamente dipende da te».
Arretrai istintivamente e lui avanzò. Non mi servivano le mie capacità per capire di essere finita nei guai. La mia mente mi riportò un passo di una leggenda trentina: Piano con la volta che il morto ha poca forza. Nella leggenda i morti non potevano abbandonare il luogo della loro morte, pertanto invitavano delle fanciulle a danzare con loro invitandole a una festa. Sembrava di essere finita nella versione pericolosa della favola.
«Tu non puoi uscire dal tracciato delle mie orme, non è così?» Indagai cercando di prendere tempo. Più io arretravo più lui acquistava terreno verso la vita. Ma lui non si scompose, anzi, mi guardò infastidito. Ma non capivo se fosse per il rumore assordante dei resti sotto di noi. «Uh, che maniera scontrosa di rivolgersi al Re dei Gladiatori!»
«Re di cosa?» Chiesi perplessa. Mi guardò deluso. Perciò si affrettò a rimediare, con stizza. «Io sono Mordred, principe di Camelot, figlio di quell’inetto di Re Artù e di sua sorella Morgause».
A quelle parole sgranai gli occhi, arretrai di tre passi e mi portai le mani alla bocca. «Colui che nacque per abbattere il Re Cervo». Esalai impaurita lasciandole scivolare giù. Conoscevo quasi a menadito i miti e le leggende del ciclo bretone e arturiano. 
«Mi conosci allora; molto bene, non necessito di altre presentazioni. Sì, io sono il portatore della spada maledetta Clarent che un tempo appartenne al mio caro padre Artù». Mosse la spada tutto soddisfatto. Non immaginavo che avessero anche un nome: «La spada con cui liberò le genti dall’invasione del popolo sassone e voglio che tu mi porti da colui che brandisce la Sacra Spada Excalibur». Tutti conoscevano questa storia, anche grazie a Marion Zimmer Bradley.
«Perché dovrei?» A quel punto non riuscì più a celare l’impazienza. Fece molta fatica a controllare la voce, per evitare di darle la parvenza di un ruggito di rabbia. «Perché voglio vendicarmi, per avermi trafitto senza pietà. So che adesso prova dei sentimenti, quindi voglio vederlo soffrire in tutti i modi possibili e immaginabili.» s’avvicinò e io arretrai di un altro passo. Accidenti. Lui sorrise di nuovo: «E così reagisci alla paura? Molto bene». Fece per spostare la lama ma tesi le mani verso di lui esclamando: «Aspetta!» Si fermò. «Non c’è bisogno di usare la violenza!»
Mi guardò dritta negli occhi e sussurrò, in tono più dolce e vellutato: «Mi aiuterai, non è così? Pensaci bene, potrei decidere di risparmiarti la vita, se mi darai la risposta giusta». Stavo per dire no. Era ovvio che mi avrebbe ammazzata lo stesso anche se avessi accettato, dopotutto, le regole erano chiare. I morti non potevano restare tra i vivi e, se così era, allora, qualcun altro doveva scendere negli Inferi a prenderne il posto. Il mito di Alceste era un esempio lampante. “Maestro! Maestro? Dove sei? Rispondi!” Lo chiamai ma non mi arrivò niente. Lui non era qui, era rimasto indietro, verso il Regno dei Vivi. Mi balenò in mente un’idea. Lui era armato di spada, mentre io ero disarmata. Non percepivo in lui nessuna costellazione. Neppure un Cosmo (mi ero ricordata come si faceva, ma non riuscivo ancora a percepirli bene) e i miei poteri erano inutili. Ma forse, se fossi riuscita a portarlo al Santuario, ci avrebbero pensato gli altri a farlo fuori. Vero che c’erano anche i Marine, ma forse sarebbero riusciti a insabbiare la questione. Soprattutto il mio maestro, che doveva essere a cercarmi preoccupato. Forse se fossi stata abbastanza veloce, se fossi riuscita a contattarlo… «Farò anche di meglio».
«Ossia?»
«Ti condurrò da lui. Però non so come uscire da qui».
«Non c’è problema, per quello basterà tornare da dove sei venuta». Eravamo appena tornati nella nostra dimensione quando avvertii di nuovo la melodia. Se fossi riuscita a seguirla forse avrei potuto fare qualcosa in concreto. Stavo facendogli fare il giro lungo apposta. Ormai conoscevo abbastanza queste montagne per capire dove ci trovassimo, quali sentieri prendere e quali, invece, non prendere. Lo stavo portando verso il Santuario, sì, ma per la strada più lunga, invece che per la scorciatoia. E questo mi seguiva mentre io, in cuor mio cercavo di risentire quella voce, di sintonizzarmi di nuovo con la grotta e percepire le membra alleggerirsi. “Maestro?” Riprovai.
“Astrid!”
“Maestro!”
“Dove sei?”
“Sulle montagne, chiama aiuto, manda i Gold Saint!”
“Che sta succedendo? Di chi è quel Cosmo ostile che sento?”
“Un morto si è aggrappato a me! Non so come sia successo, mi sono svegliata ed ero in un posto ventoso e spaventoso, camminavo su resti umani!”
“Il portale che collega il Regno dei Morti a questo!”
“Lo conosci?”
“Sì. Dove sei? Che ti ha fatto?”
“Mi sta costringendo a condurlo al Santuario da Shura di Capricorn, lo vuole uccidere e ucciderà anche me!”
“Cerca di rallentarlo più che puoi.” Mi istruì. “Stiamo arrivando, lo sentiamo appena ma stiamo raggiungendovi”. Mi avvisò. “Non so se ho tutto questo tempo se tiene il Cosmo azzerato!” Digrignai i denti. “Non ho altra scelta”.  Forse potevo sfruttare quella sensazione che stavo sperimentando. Accelerai il passo fendendo il vento che aveva iniziato a soffiare, costringendo Mordred ad accelerare il passo mentre quasi i miei non toccavano terra. Quando fui sicura che fosse abbastanza concentrato su di me per non destare sospetti, accelerai ancora e, improvvisamente mi girai quasi con un volteggio e mi ritrovai il filo della lama di Clarent puntata alla gola. Dissolvendo l’incantesimo. «Credevi di prendermi per i fondelli? Non sono nato ieri». A causa della conformazione del paesaggio era obbligato a tenerla così. Forse potevo sfruttarla a mio vantaggio. 
«Vero, ma sei accecato oggi». Replicai e gli premetti repentinamente le mie mani sugli occhi, facendo aumentare la loro luminosità al punto che emulai l’Ipernova ASASSN. La luce che si sprigionò dalle mie mani fu così accecante che illuminò tutta la zona come se fosse pieno giorno. Ma non fui sufficientemente veloce che Mordred, muovendosi, mi tagliò la gola, togliendomi il fiato. Il taglio bruciava mentre l’aria entrava dalla ferita che grondava abbondantemente sangue. Mi afferrai la gola mentre quello arretrava urlando: «I miei occhi! I miei occhi!»
Cercando di tamponare la ferita provai a rialzarmi ma non ce la feci. Ricaddi a terra e tentai di strisciare via, intanto che facevo leva sulla mia tecnica di rigenerazione per risanare la ferita. Sentii le cellule risanarsi sotto la pelle della mia mano e richiudere la ferita che, nell’arco di mezzo minuto, non c’era più. Ormai in iperventilazione ripresi ad arretrare. Mi aggrappai alle rocce per rimettermi in piedi e poi mi alzai e, dopo un momento di stordimento, cominciai la mia fuga. Più simile alla camminata veloce e barcollante di un ubriaco che ad altro, per dirla tutta. Nella mia mente rimbalzava un unico pensiero, neanche fosse un mantra: “Mi ha tagliato la gola. Mi ha tagliato la gola”. Anche se la ferita non c’era più, non riuscivo a togliermi il dolore del momento dalla testa. Dovevo anche scappare, non si sarebbe certo fermato lì e dubitavo che sarebbe rimasto accecato per delle ore. Proprio allora la paura ebbe la meglio e mi alzai definitivamente in piedi e cominciai a correre via, senza neppure sapere dove andavo. Credo di essere andata a sbattere almeno due volte contro dei massi e di essere inciampata altrettante prima che delle braccia d’oscurità mi afferrassero e mi sollevassero in aria di una dozzina di metri. Cominciai a scalciare e divincolarmi e, qualcosa nella mia mente si ribellò. “Non finirà così!” Esclamai e, in quelle parole, tutta la mia voglia di vivere e la mia determinazione eruppero dentro di me, dandomi una forza che non avevo ancora conosciuto. E, le luci fosforescenti comparvero attorno a me. «No! No! Lasciami andare!» Urlai a squarciagola e conficcai una mano nella morsa che mi stringeva. Le luci ci si catapultarono dentro e, l’arto che mi sorreggeva andò distrutto sicché io, con un altro grido, piombai a terra. Due durissime braccia di metallo mi presero al volo, anche se finì per inginocchiarsi sul sentiero. «Presa». Affermò una voce che conoscevo bene al mio orecchio e mi ritrovai a guardare due sorridenti, folli, occhi rossi.
«Lancelot!» Esclamai sorpresa.
«Per servirvi, milady». Scherzò il Cavaliere in Armatura. Così si spiegò il mio atterraggio doloroso.  
Non ebbi il tempo di dire niente che una mano di oscurità si abbatté addosso a noi. Ma Lancelot, continuando a stringermi, saltò via, evitandola. Mi aggrappai istintivamente a lui per non cadere, ma non potei fare niente per impedirmi di non urlare. Atterrammo su un picco, lontano dal polverone che sollevò e, mentre le Creature cominciavano a sciamarci intorno, lui cercò di calmarmi, tenendomi stretta a sé. Ero talmente terrorizzata che non m’importava di ferirmi battendo le mani sulla sua corazza. Non so dove trovò la pazienza di sopportare i colpi da batteria che gli rifilavo. Io non so come feci a non percepire il dolore. Finché non si stufò e me li acchiappò entrambi con una mano sola. Avendo i polsi sottili non fu così difficile: «Calma, fermati, smettila per favore, smettila di piangere, va tutto bene, adesso ci sono io. Respira, ti prego, respira, non costringermi a tramortirti, respira, ecco, brava, così, più piano, così...» Difficile non dargli retta quando un tizio s’insinua nella tua testa e prende il comando del tuo corpo con la telecinesi. Fatto sta che mi calmò davvero. «Lancelot io... Io...»
«Va bene, non preoccuparti, ne parliamo dopo, adesso, potresti allontanare le Creature o è di troppo disturbo?» Domandò, con una vena di ironia che mi lasciò interdetta. Giusto, le Creature ci stavano ancora svolazzando intorno. Feci come mi aveva chiesto. Poi gli domandai: «Perché non siete venuti subito, appena lo avete sentito?»
«Pensavamo fossi capace di stenderlo da te, tanto controlli le Creature, ma non pensavamo che potesse essere Mordred. Quando ho riconosciuto il suo Cosmo sono accorso immediatamente».
«Già, le Creature, i miei poteri, neanche loro, non hanno effetto su di lui, è perché è così potente?» Riuscii ad articolare. Avrei preferito non scoprirlo a questo modo. Il mio salvatore schioccò la lingua contro il palato e una smorfia stizzita comparve sul suo volto: «Temo che sia perché non appartiene a questa dimensione neanche lui e che è morto». Non dissi niente. E lui: «Lo sapevi?»
«Come se non sapessi che non si possono uccidere gli spiriti ma che loro se vogliono, possono uccidere noi? Sì, lo sapevo». Speravo che, in quanto neo risorto, la situazione fosse diversa.  
«Sei fortunata che ti abbia trovato io: gli spiriti sono il mio pane quotidiano. Ti lascio qui, a lui ci penso io». Disse deponendomi a terra, guardandomi negli occhi con intenzione. Ricambiai il suo sguardo, annuii e corsi via. I colpi che si scambiavano i due erano talmente forti che facevano vibrare le rocce come se ci fosse il terremoto e, a un tratto, persi l’equilibrio e caddi in un crepaccio.
Sprigionai un urlo di tale potenza che credetti di essermi lacerata i polmoni, però non raggiunsi mai il suolo perché fui acchiappata al volo da un paio di braccia avvolte in un’Armatura.  Mi ritrovai a guardare il volto di «Shura!» Atterrammo su un sentiero più a valle e si rialzò, continuando a tenermi in braccio. Riuscii appena a percepire la sua mano sulla schiena quando si accorse che ero coperta di sangue. Mi discostò e mi guardò dapprima orripilato e poi furioso. «Guarda chi si rivede, Shura di Capricorn». Salutò in tono arrogante.      
«Mordred!» Ricambiò asciutto e mi strinse automaticamente a sé come se bastasse a proteggermi.
«Oh, l’avete presa, pensavo che Mani di Luce sarebbe continuata a sfuggirmi in eterno».
«Anche tu a quanto pare». Ribatté Lancelot comparendo alle sue spalle, senza elmo, sanguinante, ma parecchio inferocito. «Lancelot! Cosa ci fai qui?»
«Mio re, consideratelo un modo per aiutarvi a ripagare il debito che ho nei vostri confronti». Sorrise il Cavaliere di Cancer dell’altra dimensione. «Fuggite, mi occupo io di questo bellimbusto».   
«Voi non andrete da nessuna parte! Torre di Spade!» Ma Lancelot gli contrappose la «Spada dello Tsei She Ke!» Se Death Mask con un attacco simile si limitava a strappare l’anima dal corpo, l’onda infernale di Lancelot assunse la forma di un nugolo di spade che non solo spazzarono via le sue, ma si conficcarono nel corpo appena risorto di Mordred, strappandogli degli ululati di dolore. «Scappa, io lo fermo!» Urlò il Lost Saint. Non me lo feci ripetere due volte.
«Torna qui, Incantatrice!» Ruggì Mordred mentre correvo a gambe levate tra rocce e sassi. Sussultai e girai la testa per controllare se mi fosse alle calcagna. Quando girai di nuovo la testa non vidi il masso e ci andai a sbattere. Rimbalzai sul medesimo e crollai a terra di schiena. Buttando fuori tutto il fiato che avevo e battei la testa, perdendo i sensi. L’ultima cosa che ricordo di quegli attimi fu il dolore. Quando ripresi conoscenza, sentii dei passi avvicinarsi e la voce irritata e ferita di Mordred. Sussultai e me ne restai immobile, sperando che non passasse di qui. Fui ascoltata, perché mi passò accanto, appena oltre le rocce dove mi ero accasciata. Si guardò attorno senza scorgermi e poi se ne andò lasciando dietro di sé una scia di sangue. Meno male che le mie mani avevano smesso di luccicare da un po’. «Lancelot». Mormorai con un filo di voce, rialzandomi, la testa dolorante. Sibilai piano, facendo attenzione a non fare rumore mentre lasciavo che la Dark Resurrection facesse il suo lavoro. “Maestro?”
“Sono con il Lost Saint, non ti preoccupare, a lui ci penso io, tu pensa a tornare al Santuario, gli altri hanno avvertito la lotta e stanno arrivando. Non preoccuparti per noi, ho usato la tecnica dell’inavvertibilità sui Marine, loro non dovrebbero accorgersi di niente, invece tutti gli altri lo sanno”.
“Cosa è successo a Lancelot?”
“Ha combattuto, ma Mordred è forte, anche troppo e lo ha sconfitto. Fa come ti ho detto, torna al Santuario, ora!” Ordinò perentorio e io scattai. Però c’era qualcosa di strano, perché non riuscivo a tornare al Santuario? Perché gli altri ci stavano mettendo tanto? “Maestro?”
“Che c’è?”
“Perché non riesco a tornare al Santuario?”
“Cosa vuoi dire?” Mi fermai e mi guardai intorno. Perché continuavo a passare e ripassare nel posto in cui stavo costruendomi un osservatorio astronomico? Voglio dire, non ero scema, li vedevo anch’io i miei attrezzi. In un certo senso era come essere nell’arena di Hunger Games e temevo che Mordred sarebbe saltato fuori da un momento all’altro. “Mi sembra di girare in tondo”. Ammisi guardandomi intorno. Respirai dal naso e ne sentii l’odore dolciastro, diverso da quello pulito che si respirava di solito a queste altitudini. “L’ aria è strana”. Lui mi fece eco. “Sì, mi sento, come se stessi vagando in un corridoio pieno di specchi o di vetri, non so spiegarlo”. Alzai una mano davanti a me e, appena toccai l’aria, davanti a me si materializzò un muro di cristallo. «Il Crystal Wall!» Esclamai sgranando gli occhi. “Astrid?” Mi chiamò la voce di Kiki. “Kiki!”
“Cosa ci fai qui?” Esclamò allarmato.
“Sto cercando di scappare ma la barriera me lo impedisce!”
“Io ho eretto quel campo di forza per imprigionarlo. No, vuol dire che tu sei lì dentro con lui?” Esclamò sconvolto. “Sì!” Cominciai a battere le mani sul muro di cristallo per spaccarlo ma inutilmente. “Abbassa la barriera, Kiki! Kiki!” Ma lui non risponde più.
“Maestro!” Chiamai.
«Eccoti qui!» Esclamò la voce di Mordred facendomi sobbalzare. Mi girai di scatto, le mani schiacciate alla barriera. Lo vidi zoppicare sulle rocce e avvicinarsi. Mi guardai intorno alla ricerca di un’arma. Adocchiai un trincetto sul tavolino pieghevole che mi ero portata qui qualche giorno prima e mi avvicinai al tavolo senza staccargli gli occhi di dosso. Lui me lo lasciò fare, sebbene non impugnasse già più Clarent. Lancelot doveva essere riuscito a distruggergliela. Era rischioso, ma forse poteva funzionare. Se era cresciuto secondo i dettami della stregoneria allora forse c’era qualcosa che potevo fare! Afferrai il taglierino e glielo puntai contro. La mia energia fluì dal palmo della mano nel manico. L’altro fece un sorriso che gli deformò i lineamenti già coperti di sangue: «Cosa credi di fare?» Disegnai un cerchio magico attorno a me e strinsi la presa sul manico sperando di non doverglielo piantare nella gola scoperta.
«Guarda che non ti salverà, ora te lo dimostro». La sua arroganza s’infranse contro la protezione spirituale e fu sbalzato indietro da una barriera invisibile. Superato il primo momento di sconcerto rise divertito, si avvicinò più che poté e disse: «Allora è vero che sei veramente un’Incantatrice, Mani di Luce.» e mi arrivò una zaffata di fiato fetido in faccia. Purtroppo i cerchi magici non bloccavano le parole e gli odori.  
Cercai di allontanarlo il più possibile. «Lasciami, animale!» Il suo tocco mi faceva orrore e ribrezzo. Però così facendo commisi la stronzata di uscire dal cerchio magico, sicché, con un movimento fulmineo mi afferrò e mi strinse a sé: «Animale? Io?» Mi schernì divertito, bloccando sul nascere ogni tentativo di liberarmi. Mi strappò il taglierino e lo gettò via. Per essere ferito gravemente era ancora in forze.
Improvvisamente il Crystal Wall andò in frantumi come vetro. Mi separai da lui mentre il rumore assordante trapassava le mie orecchie, strappandomi un gemito. «Allontanati da lei, Mordred!» Esordì allora una voce maschile, la stessa che aveva gridato, svegliandomi, qualche notte prima. Cercai il suo proprietario con gli occhi e la sua figura entrò nel mio campo visivo, posandosi ai miei piedi in tutti i suoi quattordici centimetri d’altezza. «Cocteau?» Domandai incredula. 
Invece Mordred sorrise e si deterse il sangue che gli era colato sugli occhi con una mano, la stessa che tornò a tamponare una delle sue ferite. «Ero sicuro che voi Cavalieri non potevate aver lasciato da sola una fanciulla indifesa come questa. Avanti, mostrati, Santo Dorato!»
«Allontanati da lei, Mordred». Ripeté lentamente la civetta. Ok, adesso ero sicura di essere impazzita. «Oh, dunque siete voi a proferire parola, siete forse giunto in soccorso di questa Sacerdotessa?» Domandò ironico, schernendolo.
«Per l’ultima volta, maledetto maniaco, io non sono una Sacerdotessa dei tuoi tempi! Non ti porterò mai al Santuario!» Sbottai. Improvvisamente fui sollevata per aria, catturata dai fuochi fatui che, grazie al portale sull’Aldilà, infestavano questo posto. Mi trascinarono al portale, eludendo ogni mio tentativo di fuga e che furono spazzati via quando una mano si serrò attorno al mio polso.
Con uno strattone mi riportò nel mondo reale e mi ritrovai dietro la schiena dell’uomo dai lunghissimi capelli bianchi, completamente nudo. A quel punto strillai di terrore. Purtroppo la sua fluente chioma mossa non era sufficientemente coprente e non c’era nebbia. «Mi state dicendo che il simpatico gufettino era… No, no, no, no, no. No! Non voglio crederci! Ho lasciato che un tizio del genere diventasse il mio confidente, quasi il mio animaletto da compagnia? Oddio!» E, ripresi a strillare isterica. Mi guardò da sopra una spalla. «Ehi, stai bene?»  Un momento, ma questo lo avevo visto al banchetto con i Marine, nella Cloth di Gemini e c’ero rimasta pure di stucco nel vedere quanto fosse marcata la somiglianza tra lui e Kanon. «Ma tu sei, sei…!» Esclamai senza riuscire a completare la frase. Il custode della Terza Casa mi redarguì con un secco: «Non è il momento». 
«Sei nudo!» Mi uscì soltanto tra lo spaventato e lo scandalizzato. Facendo ridere a crepapelle il figlio di Artù e irrigidire le spalle e la schiena di Saga. «Pensa a scappare, piuttosto!» Mi urlò invece l’imbarazzante amico di Shura guardandomi da sopra una spalla. Peccato che non mi mossi, tanto ero pietrificata. Suscitando le risate convulse di Mordred.
«Saggia la ragazza, anche se per un altro motivo», commentò Mordred prima di urlare: «Holy sword embodiment!» E diventare un tutt’uno con la sua spada (recuperata chissà come e da chissà dove). L’impressione generale che mi suscitò fu di trovarmi davanti a un grosso ragno con le antenne simili al cappello di un giullare medievale. A posteriori potrei dire di averne colto tutta l’amara ironia: noi guerrieri, giullari e pupazzi nelle mani dei potenti e degli Dèi. Ma in quel momento l’unica cosa sensata che mi venne in mente fu continuare a strillare nella speranza che le Creature ci raggiungessero. «É inutile, qui siamo in un’altra dimensione, anche volendo non possiamo fare niente». Cercò di zittirmi Saga.
«Mettiti qualcosa addosso, per l’amor del Cielo!» Urlai isterica.
«Ma l’hai capito che siamo in pericolo sì o no?» Mi gridò di rimando.
«Sì! Sono circondata da un assassino e uno stupratore!» Strillai a mia volta arretrando.
Mordred ormai si stava spanciando dalle risate, mentre Saga faceva del suo meglio per non mostrarmi le sue grazie. «E non guardare!» Sbottò a disagio, quel poco che vedevo della sua faccia, completamente rosso come un peperone. «Mi stai davanti! Come faccio a non vederti?» A interrompere l’imbarazzante teatrino ci pensò Mordred: «Questa è la situazione più assurda in cui mi sia mai trovato, Oddea, sei divertente ragazzina». Sghignazzò sguaiato battendosi una mano sul ginocchio. «Buon per te che ci ridi». Ribatté la chiamata in causa.
«Quasi quasi non ti uccido, ti tengo come buffona di corte, guarda». Propose l’altro tra un’ultima risata e l’altra.
«Prima devi comunque passare sul mio cadavere!» Dichiarò il gemello di Kanon.
 «Sicuro, non c’è certezza alcuna che tu possa evocare la tua Armatura d’Oro». 
«Può invece». Interruppe la voce di Kanon aprendosi un varco sopra di noi, dal quale calò il Pandora-Box dei Gemelli che si aprì e l’Armatura rivestì il suo proprietario. Ma questo non bastò sicuramente a tranquillizzarmi. Ero completamente indifesa e con la mente in panne. Improvvisamente Saga gemette come se fosse stato colpito: «Saga?» Lo chiamai spaventata. Si inginocchiò portandosi entrambe le mani al costato: «Saga?» Dissi di nuovo, avvicinandomi. Gli posai le mani sulle spalle e lo sentii mormorare; i lunghi capelli che sfioravano il terreno: «No! Non adesso! No!»
«Saga? Che ti succede, Saga? Saga, stai bene?» Mi accorsi che i suoi capelli stavano scurendo. «Vattene via!» Urlò e io mi ritrassi.
«Saga!» Sentimmo chiamare da un’altra voce maschile. Il Gold Saint di Capricorn ci raggiunse.  «Shura! Portala via! Svelto!»
«Saga, che ti succede?» Domandò Shura spaventato dalla prima volta che lo conoscevo. Poi sussultò: «No, non dirmi che è…»
«Svelto!»
Io mi opposi. «No! Non possiamo lasciarlo qui!» Shura mi guardò spaventato. Mi interruppe di nuovo, posandomi una mano sulla spalla per ottenere la mia attenzione. «Ascolta, se Saga dice che dobbiamo scappare allora dobbiamo farlo e anche alla svelta! Non c’è tempo per spiegare, fidati di noi». Poi mi trascinò via. Mentre scappavamo mi accorsi che qualcosa ci stava rincorrendo. Mi girai nella corsa e vidi la sagoma maschile avvolta in un pareo saltare di roccia in roccia. Mentre altre, che arrivavano dal Santuario, stavano dirigendosi in direzione del morto. “Maestro?” Pensai.
La sagoma scomparve. Mordred sferrò la sua Torre di Spade. Shura ingaggiò una feroce battaglia con il figlio di Artù. «Alla fine quella ragazza si è rivelata utile!» Fece il morto mentre combattevano, scambiandosi colpi a volontà. «Mi ha davvero portato da te, reincarnazione di Artù».
«Io non sono il tuo Re!» Ribatté lo spagnolo. Ma fu l’unica delle sue provocazioni cui rispose. Molto spesso, invece, lo vidi cadere trafitto e ferito, ma sempre si rialzò al punto che cominciai a provare ammirazione per la sua tenacia, mentre Mordred fastidio. Questo finché non successe qualcosa e anche Shura, ferito cadde. «Shura!» Urlai gettandomi al suo capezzale.
«Il Re Cervo è morto, lunga vita al Re». Mormorò beffardo il risorto, osservando il cadavere dell’uomo che aveva cercato di proteggermi. Io stessa crollai in ginocchio, fissandolo atterrita con le lacrime agli occhi. «Shura!» Chiamai più piano. Non si mosse. I lucciconi debordarono.
Non c’era più. Era caduto negli Inferi in vece sua. Era tutta colpa mia, se solo non avessi tergiversato sarebbe stato ancora vivo. Una fitta nebbia bianca si sollevò dalla roccia. Erano le nuvole. Mordred avanzò nel mare di nebbia e nuvole e mi si avvicinò. «Hai onorato il tuo compito, Sacerdotessa, non credere che mi sia dimenticato di te». Il maestro non mi rispondeva, ero sola. Adesso restavo solo io come ultimo baluardo di difesa per il Santuario. Appena lo pensai tutte le mie emozioni si spensero di colpo, annichilite dalla sete di vendetta come con Eris. Ma stavolta non avrei aspettato dieci anni per vendicarmi.
Fece per sorpassarmi quando mi alzai e chiamai a me i bagliori che illuminarono la zona. Quando incrociai le braccia gli sbarrarono la strada come una muraglia. Non staccai gli occhi dal corpo neanche un attimo, che la nebbia che s’infittiva nascondeva sempre più. «Ehi! Che scherzo è questo? Cosa sono questi bagliori?» Gemette di dolore quando si azzardò a toccarli.
«Quelle sono le stelle che vivono dentro il mio Cosmo». Ribattei con una punta di rabbia nella voce mentre si espandeva e si materializzava come lingue di fuoco nere, grigie, argentee e bianche.
Rilasciai la stretta e mi avvicinai al defunto Capricorn. M’inginocchiai e intinsi un dito nel suo sangue e mi disegnai una mezzaluna rossa sulla fronte. Parte dell’energia si concentrò nel simbolo. Infine, mi volsi verso il mio avversario tenendo i pugni contratti. Lui m’imitò mentre le luci ci volteggiavano attorno. «Io ti ho resuscitato, io ti rimetterò nella tomba da dove sei uscito». Dichiarai malevola. Sgranò gli occhi.
Per la prima volta utilizzai il vero Potere del Tarocco della Morte. Appena lo usai sentii che lo spirito delle vecchie carte era sopravvissuto e non mi aveva mai abbandonato. Forte di questa rassicurazione cominciai a tornare indietro, diretta al portale che aveva dato via a tutto. Lui fu costretto a seguirmi per non finire scottato. Neanche Clarent poté niente contro i bagliori. Se solo mi fossi svegliata prima. «Da dove arriva questo potere? Supera persino il mio, quello del Re Cervo!»
«Questa è una magia che pochi conoscono e che ai tuoi tempi non era ancora stata creata, ma a quanto pare risulta abbastanza efficace». Soggiunsi perfida. Presi a correre facendomi trasportare dalla sensazione di essere leggera come il vento. In breve tempo fummo di nuovo davanti al portale. Perché Death Mask non c’era? Perché nessuno si occupava di richiuderlo? Ma in quel momento andava bene così. Lo attraversai. Non m’importò del vento sferzante e di dove stavo camminando.
Mordred fu costretto a seguirmi urlando tutta la sua disapprovazione e il suo terrore.         
Shura ci si scagliò addosso con occhi fiammeggianti. Evitai i suoi colpi e fendenti, respingendolo grazie ai bagliori. Poi, sempre con lo stesso sistema lo imprigionai e liberai Mordred, sul tappeto di resti umani, che adesso non sentivo più. «Ho preso chi volevo. Adesso torna nell’Oltretomba dove devi stare». Sibilai, mentre mi portavo dietro il Cavaliere di Capricorn. Dopo qualche secondo Mordred ululò: «Giammai!» E mi si scagliò addosso. Allora urlai con quanto fiato avevo in gola e il mio Cosmo lo spazzò via fino a fargli raggiungere l’Oltretomba per direttissima.
Quando fummo di nuovo fuori al sicuro sciolsi la presa. Percepii il freddo. Qualcosa di freddo puntato alla schiena, come una lama. Uno sguardo affilato come una spada. Mi volsi lentamente verso Shura e sgranai gli occhi. Adesso esibiva due lunghe corna nere, la sua Cloth stava annerendosi progressivamente. I suoi occhi fiammeggianti erano rossi come il sangue, come se le sue iridi fossero una fornace. Cosa diavolo gli stava succedendo? «Shura?» Chiamai esitante. 
«Shura! Fermati! Torna indietro!» Cominciò a urlare Saga? Era quello Cocteau, giusto?
Non si era neanche mosso. Ma fermarsi di cosa? Shura alzò il braccio destro e partì all’attacco, verso di me. Saga cercò di bloccarlo frapponendosi tra noi ma lo Specter riuscì a sbarazzarsene. Io crollai a terra e da lì cercai di rialzarmi ma finii soltanto per ritrovarmi con la schiena appiccicata a una colonna diroccata e urlare: «Shura! Fermati!» Ma non mi udì. Non ebbi altra scelta che cercare di scappare. Mi morsi il labbro per non gridare più volte, mentre mi tagliava la strada con i fendenti di Excalibur. Adesso eravamo di nuovo nella nostra dimensione, se avessi urlato le Creature sarebbero giunte in mio soccorso e avrebbero fatto un’ecatombe. Ma neanche potevo usare di nuovo il Potere dei Tarocchi per fermarlo. Cascai a terra ferendomi le ginocchia e gli stinchi. Mi protessi la testa con le mani per ripararmi dai pezzi di roccia e polvere volanti. Le rocce più grandi facevano vibrare il suolo come una mandria di buoi in corsa. Gemetti di dolore.
Sentii i suoi passi avvicinarsi e alzai gli occhi, che andavano riempiendosi di lacrime. Arretrai mentre con una mano cercavo di liberarli dalle lacrime. Riuscii a rialzarmi in piedi appoggiandomi alla roccia dietro le mie spalle. Preparò il braccio destro. Lo calò con uno slancio che gli sollevò il mantello nero. Sgranai gli occhi ancor più terrorizzata. Avvertii solo lo spostamento d’aria e il lato destro della roccia cadde di lato, sollevando un gran polverone. Sembrò che ogni suono fosse stato cancellato, a parte il battito profondo e impazzito del mio cuore a causa del terrore e dell’adrenalina.
Non ero morta benché davanti a me si dilatasse una distesa di rosso che in un secondo momento riconobbi come i suoi occhi demoniaci. Occhi da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo e che, spalancò ancor di più, mentre i nostri nasi quasi si toccavano. I nostri respiri si rubavano l’aria a vicenda e il suo braccio, ancora teso accanto alla mia spalla sinistra si abbassava.
Non so neanch’io come avessi fatto: ero riuscita a strappargli una stella. L’adrenalina era finalmente entrata in circolo. Vidi i suoi occhi rivoltarsi e le palpebre chiudersi, poi mi crollò addosso, svenuto. «Ehi!» Esclamai per la sorpresa e lo spavento mentre cadevo sotto di lui, non aspettandomi un simile peso. Battei la schiena e la nuca contro la roccia, accasciandomi a terra. Ma quanto pesava questo? Non solo nella caduta mi aveva dato una testata ma mi aveva pure fatto battere la testa.
Che dolore! Un lungo lamento uscì dalla mia bocca. Cercai di mettermi seduta alla bell’e meglio, un po’ dolorante in mezzo alla polvere.
Lui quasi scivolò giù dal mio corpo. Sarebbe scivolato del tutto oltre il consentito, (per non parlare dell’elmo dalle corna affilate) se non lo avessi bloccato. Poi mi accorsi della sua costellazione. L’ “infezione” somigliava a una necrosi: anneriva le stelle come quelle degli Specter.
Mi guardai la mano sinistra, che avevo usato per togliergli l’α che riluceva pigramente a pochi centimetri dal mio palmo. Con la destra, stando attenta a non far cadere a terra quel peso piuma, spolverai via il nero. Riportai alla luce l’oro di ν, β, ρ, ψ e ω. L’operazione richiedeva troppo tempo, così, provai a pizzicare il nero con la punta delle dita.
Trovai il lembo e lo sollevai rivelando la lucentezza delle stelle che aveva celato come una coperta. Cercai di buttarla via ma non si volle staccare da δ, γ, κ, ε e ζ. Perciò non ebbi altra scelta che lasciarla lì, come una sorta di ombra di Peter Pan della costellazione. Infine, rimisi Algedi (questo era il nome della stella α che gli avevo sottratto) al suo posto. Il ragazzo si svegliò e aprì gli occhi. Lo so perché sentii lo sfarfallio delle sue ciglia sul mio braccio nudo. Lo chiamai ma la mia parve più una domanda che un’affermazione. Lui si puntellò sui palmi per staccarsi immediatamente, a disagio. Lasciai cadere le mie e potei finalmente vederlo tornare in sé. Il viola e il nero scomparvero in favore dei suoi colori originali e i suoi occhi tornarono scuri come la notte. «Shura!» Esclamai detergendomi il fiume di lacrime che mi rigava il viso con un palmo sporco. Non ero mai stata più felice di rivederlo. Sembrò sul punto di dirmi qualcosa. Per la prima volta, la sua faccia non era più indecifrabile, il suo sguardo non era più tagliente. Era solo un ragazzo parecchio a disagio che cercava di fare mente locale e articolare le parole per scusarsi. 
Proprio in quel momento una voce maschile scoppiò a ridere, malvagia: «Così, Shura, pensi davvero di poter sfuggire al mio controllo? Allora sei proprio ingenuo come ho sempre sostenuto».
«Arles!» Esclamò e girò la testa per guardarlo e fronteggiarlo. Ma non l’aveva ucciso?
«Credevi davvero che bastasse così poco per mettermi KO? Non per niente sono il più potente tra tutti di voi per un motivo: io sono un Dio! Io sono Ares, il Dio della Battaglia!»
Sgranai gli occhi con rinnovato terrore. Ma questo era fuori come un terrazzo anche nella sua pazzia! «Scomparite!» Così dicendo, s’irrigidì, buttò la testa indietro e la sua persona s’illuminò di un alone dorato: «Galaxian» una galassia si materializzò attorno a lui e, i pianeti che la componevano s’incendiarono «Explosion!» Urlò e ce la scagliò contro a gran velocità, facendomi sgranare gli occhi. Shura mi afferrò e saltò via raggiungendo un’altezza che non credevo possibile mentre la tecnica di Saga faceva scomparire parte del paesaggio roccioso. Mi aggrappai istintivamente al Cavaliere e serrai ancor più la presa quando raggiungemmo quell’altezza vertiginosa. Peccato che non andò molto lontano perché lo sentii trasalire. Qualcosa ci afferrò e ci lanciò con violenza dentro al vortice. Le braccia del Gold di Capricorn si serrarono attorno al mio corpo mentre urlavamo. Come se non bastasse Arles, Saga, chi diavolo fosse, ci seguì. E io, riuscii, non so come a tendere la mano e comandare alla sua Armatura di lasciarlo. I pezzi che componevano il Cloth di Gemini abbandonarono le sue membra e furono risucchiate indietro, verso l’entrata del tunnel. Lo stesso Gemini perse posizione e fu quasi risucchiato indietro. Ma lo stesso non si poté dire di noi. Shura mi strinse lateralmente dopo aver seguito con lo sguardo il commilitone e disse: «Vieni, vediamo dove conduce questo portale». Insieme uscimmo per approdare in una delle Dodici Case vuota e al buio.
«Dove siamo?» Chiesi. Shura non rispose e, per sicurezza, non mi lasciò. A riportare un po’ di luce provvidi io, sollevando i palmi, che si misero a rilucere d’oro. La risposta al quesito che gli avevo chiesto, però, mi giunse dalle mie stesse corde vocali. «Ma questa è la Terza Casa».
«La Terza Casa? Come fai a dirlo?»
«Riconosco il soffitto a cassettoni». Risposi indicando in alto. «Solo la Terza casa ne ha uno, un ricordo del Millesettecento». Alzò il naso all’alto soffitto del corridoio di passaggio e rispose: «Non ci avevo mai fatto caso».
«Tutte le Case hanno qualcosa di simile, me l’ha» mi bloccai. “Detto il mio maestro”. Pensai. Shura mi guardò in attesa che completassi la frase: «detto Kiki». Inventai, ma lui non mi credette. «Non è vero; Kiki non può averti detto niente del genere. Perché menti?»
«Ma è vero». Mi posò una mano sulla spalla e inchiodò gli occhi nei miei. «Non mentire, chi te l’ha detto?» “Il mio maestro e chissà dov’è adesso”. Pensai in difficoltà, stringendo le labbra.
A proposito del maestro, la sua voce mi arrivò chiara e nitida alle orecchie: “Attenti alle spalle!” Urlò. Shura non fece in tempo ad accorgersene che lo acchiappai per la nuca e lo costrinsi a chinarsi, di modo che il colpo di Gemini andasse a vuoto e si scagliasse contro le scale parecchi metri più avanti, distruggendole con un rumore tipo dinamite che esplode.
Lasciai andare il collo di Shura che sollevò la testa a sua volta, gli occhi fuori dalle orbite.
«Sei rapida, persino per evitare il Fantasma Diabolico». Si complimentò il Cavaliere dagli occhi rossi e il Cosmo in espansione che avanzava dritto verso di noi. Ci girammo e lo vedemmo.
Accidenti, credevo che privandolo dell’Armatura avrei ottenuto qualcosa e invece non avevo ottenuto nulla. Il mantello di Gemini allacciato in vita come un lungo fluente pareo che si sollevava e ondeggiava dolcemente, come i suoi capelli, grazie al suo Cosmo.
Shura si frappose di nuovo tra noi. «Credevo di avere a che fare con una stupida serva ma a quanto pare sei più potente e più coraggiosa di quanto pensassi. Sei persino riuscita a separarmi dal mio Cloth. Ad ora solo un’altra persona c’è riuscita, anche se non in un tempo così breve».
Cloth che stava cercando di chiamare tramite il Cosmo, ma l’Armatura non ne volle sapere. Accordandosi al mio volere. Invece risposero i bagliori fosforescenti che presero a volteggiarci intorno. Shura e Arles si guardarono attorno. “L’unico motivo per cui non ti attacca è che ti vuole viva, sei troppo preziosa”.
“Tu lo sapevi?” Gli chiesi mentre mi mettevo in posizione, sebbene non avessi il bastone da naginata e nessun’altra arma a disposizione. Ma i bagliori risposero lo stesso al mio volere addensandosi addosso alla mia persona. “No, non pensavo che l’Oracolo di Atena fosse un Cavaliere di Gemini se no ti avrei avvisato. Accidenti, avrei dovuto essere più attento”.
“Non puoi fare nulla?”
“No, lui non corrisponde ai parametri della mia teoria, questo non so come batterlo senza farmi scoprire e cancellare la memoria”.
«E tu, vorresti combattere contro di me?» Mi schernì l’altro. Non risposi. Anzi, stavo già cercando qualcosa con cui controbattere. Tutto quello che mi venne in mente fu: “Blazar”. Cosa che, grazie all’analogia dei Serpenti non misi assolutamente niente per fare mio e utilizzare. Dal momento che quello che conoscevo bene erano le stelle, allora tanto valeva che le usassi in ogni loro sfaccettatura.
I bagliori si accumularono nello spazio tra le mani. Un blazar (dall'inglese: blazing quasi-stellar object) è una sorgente altamente energetica, variabile e molto compatta associata a un buco nero supermassiccio che si trova al centro di una galassia ospitante. Per dirla in parole povere, somigliava a una trottola come quella d’Inception. Noi, adesso, eravamo al centro della Casa di Gemini, la Galassia. I Blazar sono tra i più violenti fenomeni nell'universo e sono un importante argomento di studio dell'astronomia extragalattica.
Strinsi l’ammasso di bagliori altamente energetici tra le mani. Nello stesso momento in cui Gemini riunì i piedi e discostò le mani dal corpo e fece comparire attorno a sé una seconda Galassia. «Galaxian…» Non fece in tempo a gridarlo che gli schiantai il blazar nel petto. Facendolo bloccare di colpo ed esplodere. Arles si fermò di colpo e strabuzzò gli occhi, mentre io rotolavo oltre la sua testa con un ponte all’indietro, appoggiata a lui. «Saga!» Urlò Shura mentre mi rialzavo.
«Indietro, stai indietro!» Lo bloccai sollevando una mano verso di lui. Poi, chiamai ad alta voce il nome del fenomeno. «Blazar!» Una colonna d’energia si innalzò da Saga. Poi, prese a roteare su sé stessa, mentre il corpo del nemico rimase immutato. “Merda, ho dimenticato che sanno come tenersi saldi atomicamente parlando”. Fa niente, mi sarei arrangiata in un altro modo.
Provò lo stesso a lanciarci contro il suo attacco ma, a un mio cenno, il blazar prese a roteare, risucchiando all’interno del vortice i pianeti in fiamme, spegnendoli e riducendoli in polvere.  
«Che cosa mi hai fatto?» Non risposi ma, la velocità di rotazione attorno al getto aumentò concentrando attorno al medesimo tutta la gravità. Mi feci coraggio e mi lanciai nel nucleo galattico attivo. Ora restava solo da vedere se lui fosse un quasar o un oggetto del tipo BL Lacertae. Meglio sarebbe stato se fosse un blazar intermedio.
I miei pensieri furono cancellati dal decollo immediato che mi strappò uno strilletto.
«Astrid!» Urlò Shura ancorandosi a terra con una mano, ossia spaccando il pavimento. Mentre Arles scoppiò a ridere, indeciso se prendermi per i fondelli o se salvarmi. Ma io non ero un effetto del blazar, benché lo potessi sfruttare a mio vantaggio. Per esempio, con l’effetto Doppler. Una variazione di frequenza di un fenomeno ondulatorio come la luce e il suono quando la sorgente e l’osservatore risultano in moto l’uno rispetto all’altro. E Arles stava cercando di seguirmi attraverso il blazar, mentre io, una volta capito come sfruttare le correnti, potei attaccare. I blazar sono interpretati come galassie attive osservate in direzione del getto relativistico. Questa peculiarità permette di spiegare le caratteristiche fisiche dei blazar: elevata luminosità osservata, variazione molto rapida, alta polarizzazione, e moto apparentemente superluminale osservato nei primi parsec del getto nella maggior parte dei blazar, probabilmente connesso a effetti relativistici del fronte d'onda. Tradotto, grazie a queste caratteristiche da me conosciute e che lui mi trasferiva, potevo colpirlo e disorientarlo, sia sfruttando i grandi anelli opachi, sia la galassia stessa di gas, polveri e stelle, le stesse del suo Galaxian Explosion, che aveva cercato di tirarci addosso.
«Ho trasformato la tua Galassia in un blazar!» Gli urlai, riuscendo a fermarmi davanti a lui, riprendendo in me la proprietà gravitazionale del getto del Blazar quel tanto che bastò per potermi muovere a mio piacimento. Poi, mi scagliai addosso a lui tuffandomi attraverso gli anelli. Perpendicolarmente al disco di accrescimento, un paio di getti relativistici portano via dall'AGN plasma altamente energetico. Il getto è orientato grazie a una combinazione di intensi campi magnetici a potenti venti che arrivano dal disco di accrescimento e gli anelli. Dentro il getto, fotoni ad alta energia e particelle interagiscono tra di loro e con il forte campo magnetico. Questi getti relativistici possono estendersi fino a dieci kiloparsec di distanza dal buco nero centrale.
«Credi forse d’impressionarmi?» Mi schernì e colpì l’immagine residua nata dall’alta velocità. Appena fui vicina gli sferrai un violento pugno in faccia. Cui seguì una raffica intera.  
«Ma tu mi stai quasi tenendo testa!» Esclamò mentre saltavo fuori dalla galassia di polveri per colpirlo, scavalcarlo di nuovo e ritornare dentro il blazar. E aveva ragione, la velocità della massa di plasma che costituisce il getto del blazar può arrivare al novantacinque novantanove per cento della velocità della luce. La stessa velocità dei Cavalieri d’Oro. La differenza era che non era di un generico elettrone o protone nel getto: le singole particelle si muovono in direzioni differenti con il risultato che la velocità netta del plasma si trova in questo intervallo. Ogni volta che gli arrivavo addosso dal getto, in pratica, mi dissolvevo laddove lui provava a colpirmi. Ovviamente si spostava, ma mi tenevo sempre in un modo che lui restasse comunque al centro.
E i blazar avevano anche effetti relativistici che il Cavaliere di Gemini stava scoprendo. Tipo l’effetto Doppler. Ogni volta che mi avvicinavo al getto, gli apparivo più luminosa e spostata verso il blu mentre quello opposto ero più fioca, ossia più vulnerabile, ma tendente al rosso. Inoltre, a seconda dell’angolazione con cui mi spostavo, potevo fargli credere di avere a che fare con un duplicato di me stessa o di sè. Gli infersi delle ferite, ma mi accorsi troppo tardi della trappola di Arles. Il quale, a un tratto, mi afferrò per il collo esclamando: «Presa!» Bloccando tutto il blazar e dissolvendo così la tecnica. «Credevi che mi sarei lasciato infinocchiare da questa tecnica patetica? Tu attacchi sempre a destra, sciocca o con la destra. Sei prevedibile e le tue tecniche sono patetiche. Non penserai che basti raggiungere la velocità della luce e disorientarmi con così poco per sconfiggermi». Proprio allora però un brillio di luce verde sul suo volto lo persuase a lasciarmi andare. Caddi a terra e un fendete d’energia di Shura passò sopra la mia testa. «Ora basta, Arles! Non ti permetterò di torcerle un capello. Lei non si aggiungerà mai alla tua lista di peccati». Decretò. Il Saint con i capelli scuri lunghi fino alla vita e il mantello allacciato sui fianchi a coprirne le vergogne. “Astrid!” Esclamò il mio maestro e lo sentii vicino a me. “Maestro”.
“Perché non hai dato retta al Gold Saint di Capricorn?” Mi sgridò mentre usava il suo Cosmo per curarmi. “Perché non ti sei fatta da parte? Non sei ancora in grado di creare una tecnica veramente funzionante!”   
“Sono l’unica che può fermarlo”.
“Lui non è un Bronze Saint, non fare idiozie, lascia che se la vedano da soli! Non sai ancora controllare questo potere!” Beh, allora avrei imparato. Adesso la gola mi stava già meglio e respiravo decisamente meglio. Capii che era ancora tutto in piedi grazie al mio maestro, doveva essere riuscito a trovare il modo di limitare il nostro raggio d’azione. “Non montarti la testa!” Credo che se avesse potuto mi avrebbe schiaffeggiato come accadde a Kaiser di Leo, dopo il trapianto del cuore del leone. “Piuttosto, perché non è ancora giunto nessuno a bloccarli?”
“Ho limitato i loro Cosmo e sto facendo credere a tutti che non ci sia una battaglia in corso, non possiamo permetterci che il Santuario sia compromesso con gli ambasciatori di Poseidone”. Spiegò. “É tutta colpa mia, non mi sarei dovuta allontanare dalla Tredicesima Casa”.
“Eri stata ipnotizzata, ti saresti allontanata comunque”. Mi giustificò, cercando di alleviare la mia colpa. A un tratto un fendente ci arrivò addosso ma il mio maestro mi protesse usando il suo mantello come scudo. Per un momento riuscii a vedere il braccio avvolto nell’Armatura Dorata sollevare il mantello sbrindellato e bucherellato in più punti per proteggermi. Mi rannicchiai istintivamente contro di lui e percepii il freddo del metallo sotto le mie dita. Indossava una corazza, anche se non potevo più vederlo. Diversa da quella degli altri. In un certo senso somigliava alla Gold Cloth di Gemini, nella forma che percepivo a contatto con la mia pelle.  
I due Saint che si davano battaglia e Shura stava avendo la peggio. Io però, mi ritrovai a essere, non so come, dietro a Saga che rideva a squarciagola come il folle qual era. Dovevo aiutare Shura, ma come? Mi venne un’idea e pregai che funzionasse. “Ti prego, ti prego, fatti vedere, fatti vedere” pregai tra me e me mentre fissavo la schiena di Saga. Chiusi gli occhi. “Andiamo, devo vederti, mi servi”, implorai. Ma ancora niente. “Che stai cercando di fare?” Mi chiese il mio maestro, preoccupato. Lo ignorai. Chiusi gli occhi un’altra volta, con un verso di frustrazione e chinai il capo. Prima c’ero riuscita, perché adesso non ce la facevo? Che ci riuscissi solo quando avevo paura o quando c’erano le Creature? No. Non poteva essere così! Al diavolo il terrore e il panico, se non mi fossi mossa l’avrebbe ucciso! E stavolta non avrei potuto riportarlo indietro.
Sigillai un’altra volta gli occhi, mentre l’ennesimo rimbombo della battaglia si propagava attorno a me. “Devo salvare Shura, avanti! Avanti! Avanti!” E, a questo pensiero anche i miei sentimenti esplosero dentro di me, con la stessa potenza di un vulcano e spazzarono via l’incertezza e la paura, schiarendomi la mente. Finalmente compresi. Era questo il segreto: se volevo vederle, dovevo volerli salvare. Perciò fui in grado di vedere le stelle della costellazione dei Gemelli anche senza l’intervento delle Creature.
Mi alzai in piedi e mi avvicinai. Il mio maestro cercò di richiamarmi: “Cosa vuoi fare? Astrid, fermati! Fermati!” Le costellazioni non erano fisse, nel corso del tempo avevano subito un’evoluzione. Allora se il mio potere aveva a che fare con le stelle, perché, se le potevo rigenerare non le potevo anche cambiare? Sperai che la mia teoria fosse giusta, intanto che lo scintillio sulla punta delle mie dita aveva cominciato a brillare dello stesso alone d’oro dei Cosmi dei due combattenti. Arrivata a meno di un metro toccai la prima stella della costellazione di Saga. L’uomo trasalì come se gli avessi posato una mano gelida sulla spalla. Si girò e mi vide. «Cosa?» Anche Shura si fermò e ne approfittò per balzare via, allontanandosi.
Ora o mai più. “Cosa stai facendo?” Mi ripeté il mio maestro e risposi. “Ora vedrai”.
Eseguii rapidamente la stessa operazione che avevo fatto per rigenerare le altre in precedenza, evidenziando anche le stelle minori. Ottenendo ancora più stelle di quante già non ne conoscessero. Il Saint dai capelli lunghi fino alla vita mi guardò stupefatto. «Che incredibile sensazione di potere! Non ne ho mai percepito sì tanto in vita mia!» Esclamò Arles sollevando le braccia come se avesse potuto costatare la forza del suo Cosmo e strinse i pugni. «Mi sento traboccare di energia!»
«Astrid!» Mi chiamò Shura. Peccato che non avessi ancora finito. Mi chinai e afferrai η con una mano, mentre con l’altra tenevo ben salda κ. Anche se ero spaventata a morte, il cuore batteva così forte da darmi l’impressione che stesse cercando di sfondarmi la gabbia toracica per scappare, ero determinata ad andare fino in fondo. Lui smise di sorridermi e riassunse la sua espressione dura e furiosa. Si era accorto anche lui che potevo muovere a mio piacimento le stelle della sua costellazione, grazie al filo che ero riuscita a creare per unirle.
«Cosa credi di fare? Non penserai sul serio di poter competere con me! Un’altra stronzata non ti salverà, lo sai!» Esclamò il corvino posando su di me i suoi occhi sanguigni. Shura invece aveva sgranato i suoi e si teneva il braccio destro ferito con la mano sinistra. «Astrid!» Esclamò di nuovo. Io lo ignorai. «Questo!» Esclamai a mia volta. Gli passai rapidamente accanto alzando κ fin sopra la sua testa alzando il braccio. La stella cadde dall’altra parte e io la riunii a η e ζ.  Risultato: il Cavaliere dei Gemelli finì impacchettato nella sua stessa Costellazione. Affiancai rapidamente Shura, girandomi per non dare le spalle al pazzo che rideva e mi canzonava a squarciagola. Ma quando provò a muoversi scoprì di non riuscirci: «Ehi! Che scherzo è questo?»
Mi inginocchiai, appigliandomi alla sua gamba. Raccolsi i resti del blazar nella mano e mi rialzai. E, sempre aggrappandomi a lui, che mi aiutò con la mano sana, mi rialzai. La mano stretta a pugno prese a brillare di nuovo di energia dorata. Arles capì il mio intento e rise: «Quanto sei patetica! Erompi mio Cosmo, fino ai limiti estremi dell’Universo!»
Shura scattò per proteggermi ma non accadde niente. Le stelle della sua costellazione non si erano neppure allargate sotto la furia del suo Cosmo Doppio in espansione. Anzi, avevano serrato ancor di più la loro stretta irrigidendosi e, assorbendo l’energia del Cavaliere.
Quando il Cavaliere di Capricorn lo capì si ritrasse e guardò sconvolto il compagno. Il quale provò un’altra volta: «Erompi, mio Cosmo!» Ma, ancora una volta, non successe niente. Persino il mio maestro era sconcertato, lo sentivo, mentre osservava il fenomeno. «Erompi! Erompi!» Urlò di nuovo ma non cambiò niente. Guardò le stelle che lo circondavano prima perplesso e poi infuriato, quando si accorse di non poter essere neanche più in grado di muovere un muscolo. Emise un verso di frustrazione molto simile a un ringhio.
«Saga», mormorò stupito il Cavaliere al mio fianco.
«Che cosa mi hai fatto?» Urlò di nuovo e i suoi occhi rossi mi trapassarono da parte a parte, come se avessero tentato di sostituirsi al suo letale arsenale di tecniche. Facendomi accapponare la pelle. Però, con uno sforzo sovrumano mi imposi di non mostrargli il mio spavento. Le labbra mi si aprirono da sole per rispondere, con una voce calma che sorprese anche me: «É il tuo stesso Cosmo racchiuso nei limiti della tua costellazione a non volerlo».
«Che significa? Liberami, strega, liberami!»
Mi avvicinai a lui che si dimenava invano, intanto che la mia bocca si apriva di nuovo da sola per correggerlo con una frase a effetto: «No, io non sono una strega, sono un’Incantatrice».
Si fermò e mi guardò stupito. Poi vide la mia mano e cominciò a urlare di nuovo le sue minacce. Gli balzai addosso unendo le mani durante il salto, per schiantargliele proprio sulla testa, potenziate dai resti gravitazionali del blazar, facendogli perdere conoscenza. La botta rimbalzò nel mio braccio e per poco non riaprii le dita urlando per il dolore. 
L’uomo cadde a terra su un fianco, svenuto mentre le sue stelle continuavano a legarlo a quel modo. Io, a causa del colpo gli caddi addosso ma rotolai via rapidamente, mentre i resti del blazar si dissolvevano completamente. “Astrid!” Esclamò il mio maestro mentre gemevo di dolore per la botta. Mi presi il polso con l’altra e provai a piegare e flettere le dita. Ma un dolore bruciante mi fece immediatamente desistere. Dovevo essermela rotta.
Mi prese le mani tra le sue dicendo: “Fa vedere”. Poi confermò ciò che avevo già capito. “Sono rotte”. Mi sfuggì un’imprecazione mentre soffiavo tra i denti per il dolore. “Tutte e due?” 
“Sì”. Intanto che Shura si gettò in ginocchio dal suo compagno e lo chiamò. La voce del mio maestro mi riportò a spostare di nuovo l’attenzione: “Aspetta che te le curo”. Mi avvisò, poi usò il suo Cosmo per curarmi le ferite. Nel giro di due secondi il dolore era scomparso e sentivo le mani esattamente come prima. “Fatto”. Mossi le dita senza problemi, anche i polsi erano a posto.    
Lo ringraziai. E lui mi redarguì in tono paterno. “Sei stata incosciente, non avresti dovuto farlo”.
Mi sentii delusa. Non che mi aspettassi una rassicurazione o qualcosa di simile. Credo che i sentimenti che provavo per lui mi stessero già spingendo a fare queste e altre sciocchezze. Volevo che mi notasse, che capisse quanto ero migliorata con i miei poteri, ma ero riuscita solo a fare una figuraccia. Se non altro, avevamo scongiurato il ritorno di un mostro all’interno del Santuario. “O così o saremmo morti tutti. Quanto tempo di recupero ho?”
“Fisicamente parlando sei a posto, non ne avrai bisogno, ma per un po’ evita di prendere a mazzate qualcuno con la gravità”. Rispose, suo malgrado strappandomi un sorriso. Poi mi dette un buffetto scherzoso sotto al mento, come quando ero ancora una bambina. La sua versione addolcita dello schiaffo, immagino, ma che mi aveva sempre strappato un sorriso. “D’accordo”.
“Ah… Se mi fosse stato concesso di restare con te a quest’ora non avresti avuto questi problemi”.
“Ci sarà tutto il tempo che vogliamo”. Gli promisi.
Percepii il suo sorriso, poi glissò su un altro argomento: “Ora vediamo se possiamo fare qualcosa per aiutare anche quel poveraccio”. Così dicendo, volse lo sguardo su di lui. Lo capii perché non sentii più i suoi occhi su di me. E io guardai i due Gold Saint, smettendo di piegare e flettere le dita e aprire e chiudere i pugni. “No, va bene così, per stasera”. Dissi alzandomi e mi spolverai la gonna.
“Sei sicura?”
“Sì, se ho bisogno di una mano ti chiamo.” promisi.
“Va bene, vado ad allertare gli altri, saranno sicuramente preoccupati, poi resto qui fuori se hai bisogno”. Poi si alzò.   
Mi accostai a lui, stando bene attenta a eventuali agguati, anche se il massimo che avrebbe potuto farmi in quel momento, sarebbe stato darmi un morso. Strinsi la mano, che si illuminò di nuovo d’oro. Ero pronta a minacciarlo di nuovo se si fosse svegliato, cercando di mettere a tacere l’istinto che mi diceva di continuare ad accanirmi su di lui. Gli posò due dita sul collo: «È ancora vivo». Decretò sollevato. Dopodiché prese a tastargli la testa, alla ricerca di eventuali ferite.
Si fermò quasi immediatamente, girò la sua verso di me e mi ordinò di andare a bagnare un panno, che tanto conoscevo a memoria le stanze di tutte le Case. Eseguii immediatamente. Quando tornai con il cencio umido, lo usò per tamponargli la ferita in attesa dell’arrivo di Aiolia. 
«Si riprenderà?» Domandai preoccupata. La mia preoccupazione si mutò in stupore, quando i suoi capelli schiarirono progressivamente, fino a tornare bianchi come la neve. «Sì, non preoccuparti, noi Saint siamo molto resistenti». Mi garantì. Lui stesso, avevo saputo, si era ripreso da ferite ben peggiori di quella.
«Bene».
E mentre lo curava, Saga si illuminò di una luce dorata che ci costrinse a chiudere gli occhi e a schermarceli con un braccio. Gemetti di dolore per il bagliore improvviso. Quando scomparve, mi ci volle un po’per rimettere a fuoco i dettagli e vedere nuovamente. Ora, al posto di un uomo, c’era un piccolo gufo con tre topini in testa e un cravattino sotto al piccolo becco, sdraiato su un fianco, all’interno di una piccola gabbietta di ferro battuto fatto con la sua stessa costellazione, che si era rimpicciolita per contenerlo. Le sbarre erano fatte con i fili che avevo creato tra una stella e l’altra e che avevo lasciato si avvolgessero completamente attorno a lui con quello slancio. Creando così sia un fondo che una cupola per la gabbietta, molto simile a un misto tra una cupola geometrica e un pallone da calcio, mentre le stelle erano diventate degli esagoni appuntiti, pallida imitazione della rosa dei venti, che facevano da anello di congiunzione tra un filo e l’altro, assottigliando così le vie di fuga e creando pure un trespolo per il Saint. Sfilai il manto di Gemini dalla gabbia, facendo attenzione a non ferirlo.  Poi, sciolsi il nodo per adagiarmi il manto sulle spalle. Sia per lo shock per le condizioni pietose in cui era ridotta la mia camicia da notte. «Come hai fatto?» Mi domandò Shura, guardandomi strabiliato, ma riuscii a scorgere soltanto il riflesso sui suoi capelli scuri.
«Le costellazioni, sono raggruppamenti apparenti di stelle, io… io, credo di avere il potere delle stelle. Ah, ma che sto dicendo?» Scossi il capo portandomi una mano sulla testa, che non mi doleva più grazie alla Dark Resurrection. “Rinvieniti Astrid, rinvieniti”, mi sgridai mentalmente, prima che qualcuno prendesse sul serio le mie parole e succedesse il macello. “No, non hai pensato male, è effettivamente quello il tuo potere”. Mi confermò la voce del maestro nella testa, di nuovo serio.
“Tu lo sapevi?”
“Lo sospettavo”. Ammise. E mi seppe tanto di cautela nel modo in cui lo disse. Come se non volesse scoprire tutte le carte in tavola. Ancora. Perché? “Ma non eri uscito?” Pensai confusa mentre il cuore mi martellava ancora rapidamente in petto, stavolta anche per lo spavento che mi aveva fatto prendere. “Sì, ma questo non significa che non possa comunicare mentalmente con te, lo sai”.  «Ma quella era…» Mi costrinsi a riportare la mia attenzione su Shura. Mi tolsi la mano dalla fronte: «È ancora la sua costellazione». Lo corressi.
«Tornerà normale?»
«Non saprei». Lui volse il viso verso di me e domandò, preoccupato: «Non lo sai?» Ma il tono tagliente che gli uscì non lo fece affatto sembrare in pensiero.
«Cioè, è la prima volta che faccio una cosa del genere. Sì, credo di sì, anche se non so ancora come». Decisi risoluta. Poi mi accorsi della vicinanza delle Creature alla barriera e le mandai via dal Santuario, muovendo le mani. 

Shura
Se tu non fossi stato presente non ci avresti mai creduto; nemmeno se te lo avessero raccontato.
Avevi visto una ragazzina appena ventunenne, incosciente come non sapevi chi, che si era gettata nella mischia per salvarti. Ad ora avevi sentito soltanto di un’altra ragazzina che fece altrettanto per un altro Cavaliere e quella, era la sorella minore di Aiolia.
Non eri morto davvero, ci voleva ben altro per stenderti. Guardasti la giovane attendente appoggiata a te, che la sorreggevi. Non solo ti aveva esorcizzato ma aveva anche sconfitto Arles e Mordred. Si vedeva che non era abituata a combattere. Forse Kanon c’aveva azzeccato quando si era inventato quella balla.
Nella salita non le avevi posto domande. Non perché non t’importasse, ma perché non era il caso. Eppure, stavolta non sembrava sotto shock come le altre. Sembrava invece piuttosto determinata e sollevata. Invece, dal canto tuo non immaginavi che celasse in sé tutto quel potere. L’avevate sottovalutata e, pure di molto. Non sapevi se provare gratitudine oppure no, dopotutto era molto ambigua e lei stessa non sapeva chi fosse davvero. Per quel che ne sapevate, poteva davvero appartenere a un’altra fazione guerriera.
I tuoi compagni della Quarta e della Quinta vi raggiunsero tempestandovi di domande, improperi e di rimproveri.  Death Mask non vi seguì.
In breve tempo approdaste alla Sesta. Sperasti che Kanon avesse già insabbiato tutto. Sicuramente qualcosa stava già facendo. La tua mente vagliò i possibili candidati atti all’insabbiamento, tra cui Fudo, Shun e persino Ionia. Finalmente qualcosa di utile lo poteva combinare quel vecchiaccio. Appena varcaste la soglia della Sesta, Shun e i medici vi vennero incontro e si attivarono immediatamente per delle medicazioni emergenza. Foste separati da Astrid, che fu portata altrove. Fosti messo seduto su una sedia e ti aiutarono a toglierti la tua Gold Cloth. Aeson ti dette da bere l’acqua sacra e Aiola ti infuse parte del suo Cosmo taumaturgico.
«Lo sanno?» Fu la prima cosa che gli domandasti dopo aver bevuto. Gli ci volle un po’per capire a cosa si riferisse mentre i dottori si raccomandavano di non fare sforzi. Avevi rimediato delle brutte ferite. E il dolore cominciavi a sentirlo tutto anche se sopportavi. «No, non ancora, non ci sono arrivati ordini».
«Ma nessuno ha fatto nulla per insabbiare la cosa?»
«No, non che io sappia».  
«É un bel guaio».
«Sì, ma ce la caveremo». 
Ancora una volta ti ritrovasti a pensare che non poteva aver fatto tutto da sola. Quell’informazione sui soffitti, poi. Come sospettavi, l’infiltrato era in contatto con lei. E se no era molto probabile che stesse cercando di contattarla. Come compiere una scelta diversa? Anche costui poteva averla eletta a vettore. Considerando tutto aveva senso. “Quindi il nemico è un morto?” Pensasti, andando al di là del dolore, forzando il tuo cervello a mettere insieme le informazioni. Informazioni che rigirasti repentinamente ad Aiolia, mentre ti curava le ferite e contribuiva alla formazione dei coaguli.
«Non avrei dovuto riportarla al Santuario». Borbottò quest’ultimo.
«Invece hai fatto bene.» replicò Shun, mentre trafficava con la cassetta del pronto soccorso. Voialtri lo guardaste. «Se no forse avremmo saputo in ritardo di Mordred». Lui non l’aveva mai visto ma gliene avevate parlato. Ambiguità a parte, Astrid aveva fatto molte cose per il Santuario. Per non parlare di come si era prodigata per salvarti la vita. Ricordavi di essere caduto nell’Inframondo, di esserti trasformato in Baphomet, e anche del salvataggio. Ripensasti a tutto e due domande sorsero spontanee: era questo il potere dei Tarocchi? E soltanto espandendo il suo Cosmo era riuscita a rispedirlo nell’Oltretomba. Se fosse stata una di voi (ti accorgesti), non sarebbe affatto stata ai livelli di un Bronze, neanche a quelli di un Silver, ma tranquillamente al vostro livello. Se non fosse stato per la mezzaluna di sangue sulla fronte sarebbe anche stata meno inquietante. Qualcuno le porse un panno per ripulirsi. «Che mi dici di Saga?» Domandasti preoccupato.
«É svenuto ma non è in pericolo di vita». Decretò il medico dei Gold ritraendo le dita dalle fessure della gabbia. Continuò: «Ora lo tiro fuori, datemi un momento». Ma non ci riuscì. Neppure Excalibur e neanche l’acqua sacra sortirono effetti.  Shun ti guardò stralunato, smettendo un attimo di esaminarla: «Di che materiale è? Dove l’avete trovata?»
Quando glielo dicesti lanciasti un’occhiata in direzione del corridoio di passaggio, dove era stata condotta Astrid. Shun ricambiò incredulo, sgranando gli occhi azzurri come laghi: «È uno scherzo?» Anche se tra tutti eravate abituati ad avere a che fare con un bel campionario di stranezze questa le batteva tutte. «No. Se non fosse stato per lei Arles ci avrebbe uccisi entrambi.» spiegasti. 
Potevi dirlo tranquillamente, tanto sapevate quanto fosse potente Saga. L’attuale Gold Saint di Virgo era di poco meno potente del sopraccitato e, poi, non era tipo da commentare, non avevi niente da temere.
Guardasti di nuovo verso la porta del bagno dove si era rifugiata e stringesti le labbra. Se fosse andata avanti così non osavi immaginare cosa sarebbe potuto accadere alle sue gambe. Ricordavi ancora bene il suo campionario di ferite. Non per reale interesse e preoccupazione, quanto piuttosto per pietà. A essere onesto ti sentivi attratto da lei ma in un modo che non ti sapevi spiegare. Non era attrazione fisica e neanche sentimentale. Solo pena. Il Santuario non era luogo per lei. Forse sarebbe rimasta zoppa a vita o sfigurata. Fortuna che potevate contare sulle sue tecniche di rigenerazione. Ti sentisti in colpa per averla messa in pericolo.
Quando tornò da voi, perfettamente risanata, ripulita e con una camicia da notte nuova, ti alzasti dalla sedia e le domandasti: «C’è modo di aprirla?»
«Non lo so, ma se esiste lo troverò». Promise con occhi pieni di coraggio e risoluzione, proprio come se fosse una di voi. 
Quella notte la passaste nella Sesta Casa. Foste sistemati in due camere diverse e la notte la passaste lì. Fortuna che la Sesta non sapeva come di ospedale. Nonostante ciò non riuscivi a dormire. E dire che di solito crollavi come un sasso. Non erano solo gli interrogativi a tenerti sveglio ma anche il dolore fisico. O il potere dell’acqua sacra era affievolito ancora, oppure la sua azione era più lenta di quanto immaginavi. Non ti restava che sperare negli antidolorifici. Ti girasti sulla pancia ma non ci fu niente da fare.  
Improvvisamente una luce fosforescente si allargò nella tua stanza. Scattasti a sedere girandoti verso la porta - il braccio destro alzato. Con tua grande sorpresa ti ritrovasti a guardare - più vicino di quanto credessi - un volto femminile con due occhi fuori dalle orbite. La giovane, infatti, era ferma ai piedi del letto. «Astrid!» Esclamasti rilassandoti. Abbassasti il braccio e accendesti la lampada accanto al tuo letto, sicché lei spense le proprie dita. «Mi hai spaventato». L’accusasti, coprendoti istintivamente il torso fasciato con la coperta.
«Anche tu». Ribatté rilassandosi un po’, ma non era un’accusa. Le chiedesti cosa ci facesse. «Scusa, credevo che dormissi. Non riuscivo a dormire sapendoti ferito». Spiegò in tono di scuse e poi ti chiese se poteva restare a farti compagnia. Le dicesti che forse sarebbe stato meglio se se ne tornasse a letto, ma poi cambiasti idea. Alla luce della lampada ti parve arrossita mentre prendeva una sedia e si sistemava accanto al tuo capezzale. Ti saresti anche ridisteso non fosse per il dolore. Affondasti nel cuscino. «Non ti preoccupare, ci sono abituato». Poi ti sdraiasti di nuovo e chiudesti gli occhi. Stavi per borbottarle di spegnere la luce quando se ne sarebbe andata ma lei ti prevenne: «Sì però volevo provare a rimediare, almeno a questo».
Apristi uno spiraglio tra le palpebre per guardarla di sottecchi, mentre ti giravi sulla pancia, per stare più comodo.  A causa del dolore non potevi muoverti bene abbastanza per coprirti le scapole e il torso fasciati. Lei non si mosse e tu la scacciasti un’altra volta. «É molto gentile da parte tua ma non dovresti essere qui». “E poi è sconveniente”. Pensasti ma lo tenesti per te. Lei si scusò. «Te l’ho detto, non ci riesco».
Capisti che ti avrebbe dato il tormento finché non l’avresti, quantomeno, ascoltata. Sospirasti e decidesti di accontentarla: «Sentiamo, allora, cosa vorresti fare?» Domandasti, girandoti sul fianco verso di lei. «Lasciami provare ad aiutarti». Dichiarò guardandoti a lungo negli occhi, praticamente supplicandoti con lo sguardo. Alla fine non ce la facesti più: «Va bene».
La ragazza curvò la bocca in un sorriso grato, si rialzò e posò le mani sul braccio fasciato più vicino. Con l’altro ti cingevi il busto, passandolo sotto l’ascella.  
Osservasti i suoi movimenti mentre ti tastava i muscoli del braccio, alla ricerca della ferita. Così spiegò lei quando inarcasti il sopracciglio, perplesso. E sì, avevi pensato male, non mentire.
Appena la trovò scattasti leggermente, sibilando per il dolore. Lei serrò la presa ed esercitò una leggera pressione. Ma quello che ti sorprese di più fu che sentisti dell’energia filtrare attraverso la pelle e non sentisti più nulla. Ripeté la stessa operazione con la testa, le spalle, il torso, la schiena e la gamba sinistra, che scoprì apposta. Girasti il capo per seguire ogni suo movimento. Come ci riusciva? «Non so ancora usare le tecniche di rigenerazione su altre persone però so come spegnere i recettori del dolore». Spiegò senza sollevare gli occhi mentre lasciava scivolare un dito sul tuo piede destro fasciato, immettendo energia quando trovò la ferita. «E per questo non c’è bisogno del Cosmo».
«Stai usando la magia?» Domandasti riconoscendo l’energia che ti aveva sottratto molto tempo prima rifluire dentro di te sospinta dalla sua. Non avresti mai creduto una cosa possibile.
«Sì». Dopodiché passò alle altre parti. Per facilitarla cambiasti spesso posizione. Quando finì lasciò che ti ricopristi da solo. Eppure, in alcuni punti, continuavi ancora a sentire dolore. «Ho circoscritto le ferite più gravi, nell’arco della notte il dolore dovrebbe attenuarsi fino a scomparire». Spiegò in risposta alla tua espressione interrogativa, tornando a sedere. Adesso eri di nuovo girato sul fianco, come prima.  
«Grazie».
«Di niente». Poi notò qualcosa sulla tua faccia e si avvicinò di più. Tu ricambiasti la sua occhiata penetrante con una perplessa, ritraendoti un po’. Che, voleva baciarti? Ma lei si fermò assai prima e non ti bloccò. Non distolse lo sguardo e, fu così che ti accorgesti (arrossendo), che stava fissando le tue iridi. «Oh». Commentò senza spezzare il contatto visivo. Ti accigliasti ma la tua bocca si curvò in un sorrisetto involontario: «Cosa?»
«Hai gli occhi viola scuro, non me ne ero accorta». Sorrise come se adesso non avesse più paura di te. Anche tu sapevi di averli di quel colore e che di giorno sembravano neri a una prima occhiata. Mica avevi gli specchi di legno. Però il modo in cui lo disse suonò come un complimento.
Ti portasti la mano alla bocca per nascondere lo sbadiglio in cui ti profondesti. «E i tuoi non sono solo gialli». Te ne uscisti poi quando togliesti la mano. Da lontano sembravano gli occhi di Paracelsius ma da vicino si notava tutta la differenza. Queste erano decine di volte più affascinanti e dettagliate. Era come essere osservati dal Cosmo. Lei chiuse la bocca senza smettere di sorridere, poi si rialzò. Ma le palpebre a mezz’asta le notasti chiaramente, come pure lo sbadiglio in cui si profuse lei stessa. «Ora ti lascio dormire, buonanotte». Ti salutò con un ultimo sorriso, prima di rimettere a posto la sedia e imboccare la via della porta. Ricambiasti e spegnesti la luce.

L’indomani, quando ti svegliasti dal tuo sonno profondo e ristoratore, sentisti lo scrosciare della pioggia fuori della Sesta. Qualcuno bussò alla porta. Dei medici fecero il loro ingresso e, ti aiutarono a indossare degli abiti presi dalla Decima dopo aver controllato le ferite e aver cambiato le bende. Ormai eri abituato a tutti questi controlli. Dopo Shun eri forse il Gold che passava più tempo incerottato e ferito. Persino più di Seiya, che ti venne a trovare. Però fu Shun ad accorgersi della tua ritrovata vitalità. Non ti eri sentito più in forze a questo modo da molto tempo. Ti sentivi traboccante di energia, nonostante il dolore.
«É successo qualcosa, ieri sera?» Ti domandò il secondo padre di Natasha (che la piccola peste chiamava affettuosamente mamma) a colazione.
«Niente di rilevante». Mentisti. Poi ti guardasti attorno e chiedesti di Astrid.
«Non si è ancora svegliata». Rispose il fratello di Seiya mentre ti sedevi e cominciavi a servirti.
«Meglio per noi, cibo in più». Ribatté Seiya. Se non altro non aveva tirato in ballo una delle sue solite opinioni su di lei. Eravate tutti a conoscenza della sua diffidenza nei confronti di Astrid, diffidenza che lo portava a comportarsi come se avesse avuto davanti un nemico, più che una persona. Sotto quest’aspetto era molto simile ad Aiolia. Però lui si limitava a voltare le spalle con un mezzo ringhio e fare orecchie da mercante. Tenendosi per sé tutto l’odio e l’ira. «Non essere così ingordo, Seiya. Cerca di capire quella poverina, ieri sera ha sprecato un mucchio di energia». Rispose Shun. A proposito, lo guardasti: «Hai capito come è riuscita a sconfiggere Mordred?»
«Ho potuto vederlo di persona». In quanto Saint di Virgo era capace di scrutare oltre le dimensioni. E vi raccontò come c’era riuscita, comprese l’origine della mezzaluna rossa.
«Quindi ho ragione, non è una persona normale. Ma allora se ha un Cosmo così potente, perché non l’abbiamo sentito?» Ribatté Seiya.
«Ancora non lo so. A dirla tutta comincio a pensare che la balla di Kanon non corrisponda alla verità. A volte può darsi che nel dire una cosa s’incappi accidentalmente nella verità».
«Cioè che lei abbia davvero perso parte della sua memoria e che fosse effettivamente un’apprendista Bronze Saint dai poteri molto sviluppati?» Tradusse Seiya. Suo fratello confermò con un cenno del capo.
«Ma se così fosse a quale Armatura era designata? Non ho mai sentito di un Bronze con tecniche così». Disse poi il Santo di Sagitter. «Tu che ne pensi, Shun?» Fece poi, guardandolo.
«Milady sa leggere nel cuore delle persone e si fida di lei, altrimenti non le avrebbe mai concesso di restare. Io ho avuto modo di conoscere Astrid e non ho visto malvagità di nessun tipo nel suo animo».
«Non puoi negare che sia pura d’intenti come Atena».
«Non ho mai detto che lo sia. La definizione corretta sarebbe, passatemi il termine, stronza». Rivelò Shun. A te tornarono in mente Death Mask, Sirrah, Kanon, Aphrodite e un po’ anche Milo. «Però non si può negare che abbia fegato e un gran senso di giustizia».
«Oh, finalmente qualcuno che l’ha capito». Ribatté la voce impastata della chiamata in causa, a mo’ di buongiorno, facendovi trasalire. Poi sbadigliò. Vi giraste e la vedeste richiudere la bocca e calare la mano che la nascondeva. Prima di raggiungervi al tavolo ancora assonnata. «Mi fischiavano le orecchie». Scherzò mentre si accomodava e si serviva a sua volta, scoccando un’occhiataccia a Seiya, per la serie: “Te lo sogni che finisci anche la mia parte”. Occhiata cui il Cavaliere di Sagitter rispose con una fulminante. Ma, non si alzò, come invece avrebbe fatto durante l’adolescenza. «In che senso ti fischiavano le orecchie?» E lei gli spiegò che in Italia usavano dire che fischiano le orecchie quando qualcuno parla di loro. Si avvicinò una tazza di caffellatte. «Invece, in Giappone, se non sbaglio, starnutite.» Un lieve sogghigno le incurvò la bocca: «Non oso immaginare cosa succede se avete il raffreddore». Poi bevve. Seiya la guardò esterrefatto. Shun ribatté, sorridendo divertito: «Bè, io non oso immaginare voi con l’otite».
«Touché». Concesse poi fece un cenno del capo, abbassando la tazza. A quel punto prendesti parola anche te e ti rivolgesti a Seiya e Shun: «Come ha gestito la faccenda Kanon?»
«Non l’ha gestita, ha detto che ve ne siete occupati voi e i Marine si sono complimentati per la vostra forza. Nessuno sa che cosa è successo veramente».
«La Terza ha retto agli effetti del blazar?» Domandò preoccupata Astrid spalmandosi la marmellata di pesche su una fetta di pane e burro. «L’energia che ho usato per bloccare il Galaxian Explosion di Arles». Spiegò di fronte alle occhiate perplesse dei due.
«Sì. Poi, Kanon ha provveduto a ristrutturarla con il suo Cosmo».
«Non potevate farlo anche mesi fa?» Domandò la vostra ospite, ragionevole. «Sì, ma con i tempi che corrono preferiamo ricorrere al Cosmo solo in casi di emergenza». Spiegasti tu e la ventunenne si fece bastare questa spiegazione. Poi mangiò.
«Intanto voi due restate qui a riprendervi. Penseremo noi a coprirvi. Per quanto riguarda i Marine, non credo che faranno domande sulla tua assenza, Astrid. Ma sulla tua sì. Pertanto, ti suggerisco di tenere il Cosmo azzerato e di restare qui finché non starai meglio». Ribatté Shun.
«Siete sicuri di farcela?» Chiedesti.
«Sì, non preoccuparti».
«Lo sai che devo continuamente bruciare il Cosmo, altrimenti verrò rigettato via da questo mondo, metti caso succeda qualcosa potrebbe accadere l’irreparabile». Gli facesti notare. Che a volte questo scherzetto te lo faceva ancora, più a te che agli altri. Ma non avevi mai compreso il perché.
«A tenerti ancorato qui ci penso io». Promise Astrid, intromettendosi, dopo aver inghiottito. Poi alzò una mano e materializzò uno dei bagliori fosforescenti a pochi centimetri dal palmo. Che ti porse. Tu ponesti esitante il tuo palmo ancora fasciato e lei fece scivolare il piccolo globo lucente a pochi centimetri dalla tua carne. Stranamente, la sentisti scaldarti la mano come un sole in miniatura. «Che cos’è?» Chiedesti in coro con Seiya e Shun, osservandola.
«É una delle stelle del mio Cosmo. Finché il portale resta aperto hai bisogno di una fonte di gravità più alta di quella terrestre. Non c’è niente di meglio di una stella e il potere della Carta della Morte farà il resto».
«La Carta della Morte?» Ripeté Seiya. Poi: «Tu hai un Cosmo?» Shun glielo confermò.
«La ringraziasti stupito dalla sua sincerità e dalla sua devozione.
«Ma non dovrebbe essere un buco nero, la fonte di gravità più alta esistente?» Rilevò Shun, perplesso. Lei confermò e disse che non poteva crearne uno. Gli effetti sarebbero stati catastrofici. “Giusto”.
«Mi spiegate cos’è questo discorso delle carte? E cos’è un blazar?» Domandò Seiya ma ancora una volta lo ignoraste e tu le domandasti se fosse il potere dei Tarocchi. Intanto il globo di luce si posizionò poco sopra la tua destra come un bizzarro asterisco. Lei annuì e vi spiegò di cosa avesse fatto quella notte quando eri stato scagliato nell’Aldilà. Non sapesti se sentirti a disagio o lusingato. «Ma io non ero morto». Rilevasti. Lei s’immobilizzò un secondo, poi disse: «Neppure sei davvero uno Specter». Da lì in poi ti parve sollevata.      

Shun aveva insistito affinché vi fermaste anche per questa notte, ma tu te ne eri voluto tornare alla Decima. Erano già due giorni che vi trovavate qui. In questi due giorni erano venuti a trovarvi i vostri colleghi, e i tuoi sottoposti. Death aveva scambiato qualche parola con Astrid. Non ci avevi capito molto ma il succo era che adesso sapeva come dare alle carte quel qualcosa in più. Magari un giorno te la saresti fatta spiegare.
La visita meno gradita fu quella dei Black Saints, che erano venuti a trovare la loro regina. Così almeno la consideravano. L’avevano informata su tutto ciò che accadeva nel Santuario e le avevano rinnovato il loro giuramento di fedeltà. Che lei, puntualmente, non aveva accettato concedendogli il beneficio del dubbio. Anche l’ex sottoposto di re Artù venne a trovarvi.
«Hai onorato il tuo debito, adesso?» Gli domandasti.
«Quasi, devo ancora fare qualcosa». Aveva ribattuto enigmatico. Voi due non ribatteste: alle sue stranezze ci avevate fatto l’abitudine.
Anche i lemuriani vennero a salutarvi. Kiki, soprattutto. Tu sogghignasti sotto ai baffi per tutto il tempo che lui rimase in vostra compagnia. Anche quando Astrid fece il tè e ve lo servì a mo’ di spuntino, tanto Shun aveva detto che potevate usufruire della cucina come volevate, a patto che poi rimetteste in ordine. Gliel’avevate lasciato fare perché era l’unica a ricordarsi con precisione dove Shun tenesse l’occorrente per preparare un tè. Memore di quei mesi di servizio come collaboratrice domestica generale.
Non si notava chi fosse venuto veramente a salutare, no, no. Eri indeciso se scoppiargli a ridere in faccia o provare compassione per lui: si notava lontano un miglio che era cotto dell’altra infortunata della Casa della Vergine. Lo avresti tartassato al momento opportuno, come facesti a suo tempo con Saga e con Yoshino.
Per il resto avevate passato il tempo a poltrire. Tu non ricordavi neanche più quando fu l’ultima volta che passasti senza fare niente. O quasi, visto che stavate rispettivamente a vegliare Saga, e tentare di liberarlo. Non si era ancora svegliato. Per avere i poteri delle stelle erano un po’ scarsi, o forse si stava accollando troppe responsabilità e non ce la faceva. Forse non avrebbe dovuto accanircisi così.  Gliel’avevi suggerito ma lei ti aveva guardato poco convinta.   
Death Mask aveva richiuso il portale sull’Oltretomba e tu avevi restituito ad Astrid la sua stella. Le avevi detto che se si stancava poteva anche smetterla di sostenerti ma lei aveva scosso il capo e aveva continuato finché non c’era più stato bisogno. Ma adesso t’interessava di più scoprire come andassero le trattative. I Marine non avevano voluto sapere altro oltre la balla, si erano solo profusi in complimenti sulla comodità di letti e stanze nella Tredicesima. La stesura del patto stava procedendo a gonfie vele. Il Generale di Sea Dragon ti mandò i suoi auguri di pronta guarigione quando seppe che eri rimasto ferito.  
Però, tu e Saga non ve ne eravate andati da soli. «Posso restare da te, stanotte? Dell’ospitalità di Shun ho abusato anche troppo e beh alla Tredicesima, credo che ormai lo sappiano. Però voglio provare a vedere se riesco a fare qualcosa, se non altro, per svegliare Saga. Non ti preoccupare che toglierò il disturbo subito». Promise Astrid guardandoti piena di paura che neanche quel vago tentativo di ironia riuscì a cancellare. Non c’era niente di sensuale nella sua domanda, era solo una ragazza che sperava di restare a casa di un amico per sfuggire un po’all’inferno della sua. Almeno questo eri abbastanza intelligente per capirlo. Perché riconoscevi quegli occhi: erano gli stessi di Aiolia quando tutti lo schifavano per il “tradimento” di Aiolos. Solo che lui non aveva potuto trovare rifugio alcuno. Aveva cominciato a guardarvi con occhi diversi quando lo andaste a recuperare nel Tartaro. 
Stavi per negare quando ti ricordasti di Ionia e allora acconsentisti. «Va bene».
«Sei sicura, Astrid? Lo sai che non c’è problema se resti un altro po’». Le disse Shun.
«Ti ringrazio, ma non c’è bisogno». Disse la ragazza mettendo su Natasha. Anche lei vi aveva fatto compagnia in questi due giorni. «Come vuoi allora ci si vede domani».
Salutaste entrambi il vostro amico e vi avviaste portando con voi Cocteau, che adesso ronfava beatamente nella sua gabbietta. Ti faceva strano trasportarlo così, invece che sentire i suoi artigli sulla spalla e la sua voce all’orecchio. Ancora adesso ti aspettavi di sentirlo parlare, 
ma non fu la sua voce quella che sentisti. Bensì quella di Astrid: «Allora è vero». La guardasti e aspettassi che continuasse. Lei sollevò i suoi occhi su di te: «Quello che ho sentito su di te al Santuario è vero». Specificò.
«Ti riferisci al demone dentro di me che prende il sopravvento ogni volta che perdo il controllo? Sì, è vero. Solo che a differenza di Saga, il mio è un mostro a sé stante che non si sconfigge così facilmente. Mi dispiace che tu lo abbia affrontato». Questa situazione ti dette un senso di dejà-vu. Solo che se allora Yoshino ti disse che non importava, la sua amica invece, sconvolta: «Io… non so cosa dire, davvero». A causa della frangia a tendina non potesti scorgere il suo sguardo. Tanto non l’avresti vista comunque, guardava gli scalini davanti a voi. 
Cacciasti la mano libera in tasca e ribattesti: «Non c’è niente da dire, non potevi saperlo». E ti rendesti conto di aver scoperto un’inconcepibile verità su di lei: non ti conosceva. Non solo perché non ti eri mai molto aperto con lei, ma perché non ti aveva mai letto la mano. Lei conosceva vita, morte e miracoli di una persona solo se leggeva la sua mano, ma soltanto di quella persona. Quel poco che sapeva di te lo dovevi alla lettura che esercitò su Death. La verità era che le mancavano il tuo punto di vista e le tue esperienze, il tuo pensiero, il tuo stesso addestramento. In parole povere, non aveva avuto accesso ai ricordi di nessuno di voi, solo a quelli di Death. Altrimenti avrebbe riconosciuto immediatamente Saga nelle sembianze di Cocteau. Come avevi fatto a non arrivarci prima? 
La guardasti di sghimbescio mentre salivate le scale, passando la Casa di Milo. Il quale, appena vide Saga ancora in quello stato strabuzzò gli occhi e ti tempestò di domande. Cui rispondesti durante il tragitto che vi separava dalla Decima. Solo una volta lì vi lasciò andare, lanciando rispettivamente un’occhiata preoccupata al vostro compagno e un’occhiataccia ad Astrid, che, essendo voltata di spalle, non ricambiò. Una volta superata la casa di Seiya, pronunciasti: «Vieni, vedrò di fare qualcosa per te». La guidasti nel salotto dei tuoi appartamenti privati.
Non che fosse molto diverso dalle altre Case, forse c’erano solo più elementi estremo orientaleggianti. Mancavano i tatami, forse, ma le stampe giapponesi di samurai e di battaglie, tra cui una katana ornamentale e un bonsai sul tavolo da pranzo, c’erano. Con la scusa della ristrutturazione avevi anche fatto sostituire le porte con quelle scorrevoli. Decisamente più facili e più comode da aprire. Ti domandò dove fosse il bagno. Per pura cortesia, chiaro, lei aveva sicuramente fatto le pulizie anche qui.
Glielo indicasti comunque e lei si avviò. Le preparasti il divano meglio che potesti. Le avresti aperto la camera degli ospiti ma l’avevi riconvertita a magazzino da diversi anni. Inoltre nessuno si fermava mai a dormire da te. Non eri quel genere di uomo che si avventa addosso alla fanciulla che passa la notte in casa sua. Come se non bastasse eravate nel Santuario. Non potevate profanare le Dodici Case con un atto che andava contro la verginità della Dea. Ovvio che anche voialtri avevate avuto (più o meno) le vostre esperienze. Anche se non molto approfonditamente (soprattutto considerando le giovani età in cui la vita vi era stata tolta) e un po’incomplete in alcuni casi. Dopotutto eravate solo dei ragazzi. Se volevate passare una serata diversa in compagnia, vi bastava scendere a Rodorio e risalire la mattina dopo. In questo senso ti domandasti come facessero Aldebaran e Shaina. Che c’era di sorprendente? Niente, eri un uomo anche tu, nonostante il ruolo da te rivestito.     
Scacciasti questi pensieri. Non era il caso che la tua ospite percepisse qualcosa di inopportuno da te. 
Le desti qualche coperta e un paio di cuscini per farla stare comoda. «Ecco, spero che ti vada bene». Le dicesti una volta finito e lei ebbe fatto la sua ricomparsa in salotto.
«Andrà benissimo.» rispose abbozzando un sorriso. Si sedette sul divano, si tolse i sandali e s’infilò sotto le coperte. Poi rimaneste a guardarvi, impacciati. Non sapevi cosa dire e cercasti di cavarti dall’impiccio con un: «C’è altro che posso fare per te?»
«No, stai tranquillo». Chiuse gli occhi e si girò sul fianco.
Era la seconda volta che qualcuno ti scagliava una tecnica che portava alla luce il tuo lato oscuro. Già non te l’eri perdonato una volta per le conseguenze, figuriamoci adesso. E, ancora una volta, eri stato salvato. Non sopportavi l’idea che un innocente ci potesse rimettere per quello che eri e per il demone dentro di te. Ma lei scosse il capo, continuando a tenere gli occhi chiusi e la voce che cominciava già a impastarsi: «No, tu non hai nessuna colpa».
Restasti interdetto, nessuno ti aveva mai detto quelle parole, né tu ti saresti mai aspettato di sentirle. «Buonanotte». Dicesti. Lei ricambiò il saluto e non disse altro. Poi ti avviasti alla tua stanza.
Ti coricasti ancora preoccupato ma anche sollevato.

Ti svegliasti a metà della notte per via della sete e andasti in cucina a bere qualcosa. Una volta bevuto mettesti il bicchiere nell’acquaio e te ne tornasti alla tua stanza. Proprio allora Astrid si svegliò di soprassalto.  «Tutto a posto?» Le domandasti.
Lei sussultò, poi si rilassò e la sentisti sospirare: «Sì, credo un brutto sogno». Non ti ricordavi se Yoshino ne avesse mai fatti. Si giustificò in tono sommesso, come se ti stesse chiedendo scusa. «Soffro di incubi da quando è cominciata tutta questa storia. Sogno spesso che qualcuno mi ammazza. In quei sogni muoio sempre per colpa degli Specter, dei Dryad o dell’Albero del Conflitto o per colpa di…» deglutì, «vorrei riuscire a smettere di fare questi sogni, ma non ci riesco». Disse con rabbia e frustrazione. Tu non dicesti niente, non eri la persona migliore per elargire consolazioni. Né quando Lancelot ti affrontò raccontandoti la sua storia e, neanche Mordred. A dir la verità sapevi chiedere scusa ma non sapevi consolare. Tu che ti eri macchiato a tua volta di un peccato gravissimo, per poco non la uccidevi, posseduto nuovamente a causa del tuo demone Ancora una volta avevi perso il controllo. Per questo non ti spiegavi perché avesse deciso di dormire da te. Forse per cominciare subito l’indomani mattina il lavoro di liberazione. Oppure semplicemente voleva la tua compagnia o, con la sua presenza, voleva ricordarti che non eri solo. Tutto era possibile.   
Andasti in cucina e le riempisti un bicchier d’acqua e che poi le porgesti dicendo: «Tieni».
Lo prese un po’stupita e ringraziò sottovoce. Restò a fissarlo per un po’, persa nei suoi pensieri e tu, allora proponesti di cominciare ad allenarsi? Ti guardò un po’stranita: «Allenarmi? Per fare cosa?»
«Per imparare a difenderti. Non dico che devi sottoporti a un nostro addestramento, anche se sarebbe la cosa migliore…»
Lei t’interruppe: «Il vostro addestramento no, non credo che riuscirei a sopportarlo. Non sono una guerriera, non voglio un’Armatura. Combattere non è nella mia indole, non come fate voi». Poi chinò il capo. Davvero, forse era il sonno, forse era che eri stanco, però non la capivi. Soprattutto la sua contraddizione. Ma non era lei che conosceva la naginata?
Ti sedesti sulla poltrona accanto al divano. Mai come ora i suoi occhi ti parvero fatti d’oro liquido. «Neanche in quella di Shun, però combatte lo stesso». Le facesti notare.
«Il suo caso è ancora diverso. Capisci quello che voglio dire? Io non sopporterei di fare del male a qualcuno, figuriamoci di combattere».
«Però per aiutarci sei scesa in campo». E aveva sconfitto Eris. Te lo ricordavi bene come era finita, per poco non ti moriva tra le braccia. E per poco non prendeva Aiolia a bastonate. «Non pensi che potrebbe tornarti utile saper almeno sferrare un pugno? Non dico che devi diventare un Saint ma almeno poterti difendere, pensi che sarebbe così sbagliato? Non tutti sono accondiscendenti come noi, che siamo facilmente minacciabili con un mocio vileda o uno sturacessi» dicesti con un sorrisetto divertito. Sì, anche tu avevi sentito questa storiella, «o una padella. Almeno noialtri abbiamo il senso dell’onore e del dovere, ma non posso garantirti lo stesso per altri guerrieri. In più hai questi poteri che servono per custodire questa Luce Ombrosa, a me sembra una ragione in più per imparare a combattere, non pensi?» Lei bevve un altro sorso e fece un sorrisetto ironico, poi domandò chi avrebbe voluto perdere tempo ad allenarla. Come se fosse feccia. Alzasti le spalle, cercando di ponderare la questione. Intuisti che questa conversazione poteva prendere una piega spiacevole, perciò dicesti: «Non so, prova a chiedere in giro, vedrai che qualcuno lo trovi».
Si passò una mano tra i capelli e ti guardò. Poi sorrise amara: «Perché a voialtri Gold fa schifo allenare un’ancella? Come darvi torto, dev’essere davvero degradante». Ignorasti la frecciatina. Adesso era tornata a considerarsi un’ancella del Tredicesimo Tempio. Prima si considerava un’Incantatrice, adesso di nuovo un’ancella. Bah, non l’avresti mai capita. «Non ho detto questo».
«Lo so». Mormorò in tono sommesso, poi tracannò ciò che restava dell’acqua.
«Perché vuoi proprio un Gold come insegnante?» Domandasti incuriosito. Ti corresse senza guardarti che in realtà preferirebbe che fosse uno di voi dodici. Le ginocchia sollevate fino a toccare il proprio mento. Riformulasti la frase. «Forse perché siete i più forti e forse anche per dimostrarvi che non sono una nemica e che non voglio farvi niente?» La voce le uscì sarcastica.
«Ce l’hai già dimostrato non c’è bisogno di ribadirlo». Rilevasti, parlando più per te stesso che per gli altri. E lei lo comprese, lasciandoti basito, anche se non lo desti a vedere. Era veramente sveglia come sosteneva Death: «Forse a te, ma a Milo, Aiolia o il gemello di Saga, no. Potessi lo chiederei a loro, anche se non ne sarebbero molto entusiasti e come dargli torto! E pensare che lì per lì pensavo che ti stessi offrendo te». Sorrise poi, divertita e scosse il capo. «Eh mi dispiace, io non sono un insegnante.» confermasti. Ciò però non ti impedì di continuare a cercare una soluzione per lei: «Shiryu però sì e anche Castalia e Shaina. Potresti farti allenare da loro. Sono sicuro che non si rifiuterebbero se glielo chiedi. Vuoi che lo faccia io?» Domandasti cogliendo la piega d’incertezza della sua bocca. Non ci sarebbero stati problemi per te scendere tre Case e andare da Shiryu.
«Magari un’altra volta, adesso abbiamo un problema più urgente», disse accennando a Saga.
«Non si è ancora svegliato?» Domandasti impensierito, guardandolo a tua volta.
«Neanche una volta». Affermò lei stropicciandosi un occhio con il palmo.
«Va bene. C’è altro che posso fare per te?» Lei ti guardò, tuffando i suoi occhi luminosi nei tuoi e ti sorrise con gratitudine; «No, va bene così, grazie».
Ti alzasti: «Allora me ne torno a dormire, buonanotte». Ricambiò con una dolcezza e una delicatezza che ti fece palpitare il cuore. Per poco non incespicasti, ma fu un istante così breve che lei non ci fece caso. Una volta in camera tua ti stendesti sotto le coperte e ti addormentasti cercando di non pensare alla tua reazione.
                                                                        
 
Shaka
Ripensasti alla battaglia mentre pregavi per i defunti. Adesso stavate contribuendo a soccorrere i feriti, fare qualcosa per i morti - perlomeno elevare una preghiera. Quando le anime morivano si dissolvevano. Questa guerra non avrebbe neanche dovuto scoppiare. Eravate subito corsi alle mura ben misere rispetto ai bastioni del Santuario e del palazzo di Hades. Quella cancellata di metallo non avrebbe resistito a lungo. Rhadamantys vi aveva mandati qui perché era la fascia più debole. E a giudicare dai pochi Skeleton presenti era anche ovvio che volesse vedervi morti. Lo compatisti: avrebbe avuto una bella sorpresa.
Ti mettesti in posizione e ti ci volle poco per concentrare il Cosmo e levitare. Quando arrivarono i primi colpi sferrasti il tuo Khān e li distruggesti. Se gli avversari erano tutti così sarebbe stata una passeggiata. Camus eresse una barriera di ghiaccio davanti al cancello. Ma c’era qualcosa di strano. Improvvisamente, oltre la lastra vedeste brillare qualcosa. Non faceste neanche in tempo a capire
Una Diamond dust? Chi poteva essere stato? Soltanto i Gold Saint di Aquarius e il Bronze del Cigno conoscevano quel colpo. «No, questa non è la Diamond Dust…»
«Come?»
«É l’Aurora Borealis. Ho aiutato io a perfezionarla». Camus accanto a te tremava e fissava il cancello. L’elmo gli era volato via ma non era caduto. Non avresti saputo dirlo neanche te con certezza, ma era spaventato. «Cosa significa?»
«Ma il suo esecutore dovrebbe…» La polvere si assestò e voi abbassaste le braccia. Non era stato un colpo di inferiore forza, era qualcuno che aveva un Cosmo pari al vostro. Non lo percepivate, probabilmente era un defunto. Una sagoma emerse dalla polvere, le macerie e i fiocchi di neve «Isaak!» Esclamò Camus. Chi?
«Perché ti sei fermato? Colpiscilo!» Lo esortasti. Ma Camus esitò. Non l’avevi mai visto così combattuto. Che diavolo gli prendeva? L’avversario monocolo sferrò un colpo. «Vi trovo bene, nobile maestro». Lo salutò il Generale degli Abissi. La sua scale riluceva.
Gli Skeleton dietro di voi brandivano le falci e attendevano.
Tu credevi che Camus avesse avuto sempre un solo allievo, cioè Hyoga, questo qui chi diavolo era? Ah, probabilmente non doveva essere sopravvissuto all’addestramento. Anche Fianna accanto a lui era spaventata. Eppure non si mosse. Le Creature si tenevano a distanza. Com’era possibile? Ah, già, anche il Marine di Poseidone era uno spirito. «Fianna, vai». Disse soltanto Camus, dandosi un contegno. La bambina lo guardò e obbedì, anche se a malincuore. A giudicare dallo sguardo che gli lanciò prima di uscire dal vostro campo visivo capisti che non sarebbe andata lontano. 
Camus e il suo allievo si fronteggiarono: «Dunque maestro ci ritroviamo dopo tutti questi anni. Mi fa piacere vedere che lei non è più sotto il controllo del nemico».
«Ma in compenso adesso ci sei tu, come è possibile?» Chiese stringendo i pugni. Anche tu arretrasti. Qualcosa ti diceva che eri di troppo. Saltasti sul ramo di un albero e da lì restasti a osservare la situazione. Fianna levitava accanto a te e pregava nella sua lingua natale. Il vento vi portò le parole che si scambiarono. «Non abbiamo avuto scelta, mi dovete perdonare, ma se non vi sconfiggeremo saremo noi quelli che moriremo». Si scusò il monocolo e cominciò a concentrare il suo Cosmo. Poi scagliò l’Aurora Borealis. Fianna si protesse il viso con le mani, mentre tu eressi la tua barriera e la tranquillizzasti. «Stai tranquilla, Camus è più forte di quanto sembra, non si farà sconfiggere facilmente, guarda». La bambina guardò e vide anche lei: Camus era illeso, soltanto un po’più scarmigliato. Avevi avuto ragione, la disparità di forza tra voi Redivivi e i morti era ancora notevole. Camus alzò le braccia nella posa dell’Aurora Execution e tu curvasti la bocca in un sorriso. Anche se non diceva nulla tu percepivi il suo Cosmo e lo sentivi traboccante di dispiacere. Era come se dicesse: “Mi addolora vederti ridotto in questo stato. Non avrei mai voluto vederti così. Se l’unica cosa che posso fare per salvarti e rimandarti nel Cocito allora così sia. Te lo devo in quanto maestro e padre”. Ciononostante non riuscì a sferrare il colpo con tutta la sua potenza. Perché quando la polvere si dissolse anche Valentine si rialzò, dolorante e ammaccato con la Scale a pezzi. «Vattene». Gli consigliò chinando il capo.
«Maestro…»
«Sweet chocolate!» Gridò una voce. E diverse arpie si materializzarono attorno a Valentine e cominciarono a succhiargli la forza vitale. «Valentine!» Esclamò Camus.
«Incompetente. Ecco perché non posso lasciarti da solo neanche un minuto.» lo rimbeccò l’Arpia, sospeso a mezz’aria poco dietro di lui. «Cos’è il tuo cuore di ghiaccio s’è sciolto? Dov’è finito l’orgoglio e la fierezza dei Gold Saint di cui tanto ti vantavi?»
«No, Valentine, non t’immischiare, questo è affar mio».
«Allora vedi di sbrigarti, perché se me ne occupo io di lui non resterà nulla». Poi se ne andò ad aiutare a un altro bastione. Maestro e allievo malconcio tornarono a fissarsi. Sembrava che stessero comunicando in silenzio e senza parole quando: «Perché non attacchi, Isaak?» Domandò un uomo con una cresta che ti ricordò gli hare krishna avanzò verso di loro. Come te teneva gli occhi chiusi.
«Krishna!» Esclamò l’allievo di Camus. Alzasti di poco le sopracciglia. Percepivi una grande forza provenire da lui. E non ti servivano gli occhi per vederlo. Avrebbe potuto essere tranquillamente un tuo discepolo.
Questo era fatto di una pasta completamente diversa da Isaak. Qui Camus si sarebbe trovato in seria difficoltà. Smettesti di levitare e raggiungesti il tuo compagno. Lo chiamasti e questi ti guardò da sopra una spalla: «Prendi Isaak e la bambina e va via da qui».
«Perché?»
«Questo non è un avversario che potrai combattere tanto facilmente». Lui ti guardò per qualche secondo prima di darti ragione e fare come ti aveva detto. Fece cenno ad Isaak di seguirlo e poi i due corsero via. Fianna li seguì. Da questo momento potevate considerare il Marine di Kraken un prigioniero di guerra. Tornasti a guardare il tuo avversario. «Oh, voi dovete essere il Gold Saint di Virgo, colui che si dice sia l’uomo più vicino agli Dèi in Terra». Ti salutò rispettoso.
«Tu parti avvantaggiato, io non ti conosco». Rispondesti garbato.
«Avete ragione, io sono Krishna di Crisaore, il Generale dell’Oceano Indiano è un grande onore per me incontrarvi. Io a differenza di voi porto solo il nome dell’eroe in cui s’incarnò il Dio Vishnù». S’inchinò in segno di rispetto. Tu tacesti.
Quello che ti preoccupava davvero era la sua lancia. Le ferite inferteti dall’Azona tornarono a bruciare. Anche se superficiali era comunque riuscita a danneggiare la tua Cloth. Avevi sentito dire che la golden lance avesse trapassato con estrema facilità la Cloth del Dragone. Non era una notizia rassicurante a prescindere dalla fragilità delle Cloth. E non avevi neanche il mala, ma il mala non era la tua forza. Tu eri sufficientemente forte per spezzargliela. Anche se sarebbe stato difficile. Avevi osservato quel combattimento anche tu dalla Sesta. Se questo tizio non era scemo, probabilmente avrebbe cercato d’impedirti di spezzargliela un’altra volta. Avevi anche un altro asso nella manica. Anche se avesse saputo della battaglia delle Dodici Case, non poteva comunque averti visto in azione. «Mi dispiace davvero che ti sia toccato di affrontare me. Hai una possibilità, se ti inginocchierai a me avrai salva la vita». Concedesti, magnanimo.
«E se mi rifiutassi?»
«Io ti annienterò». Dicesti con calma. In realtà non avevi intenzione di annientarlo. Non era la prima volta che ti confrontavi con qualcuno di nativo dalle tue radici. «Mi dispiace, Mahatma, credo proprio che non lo farò».
«Sia il fato che tu stesso hai scelto». Avresti voluto che ti accontentasse. Perché nessuno lo faceva mai? Solo perché indossavi questa Cloth non significava che avresti esitato a togliere la vita a qualcuno. Non eri né un assassino né un mostro, eri solo deciso. E sapevi bene che se tu non avessi ucciso, il tuo avversario non ti avrebbe riservato la stessa cortesia. «Così sia». L’uomo provò a scagliarti la lancia ma con la telecinesi. «Non è possibile, la mia lancia sacra…»
«Neanche la tua lancia vuole colpirmi. Non è una prova sufficiente per te?» Chiedesti in tono neutro. Ma in realtà avevi cominciato a sudare. Fu il colore del tuo sangue a tradirti. Krishna lo vide e disse: «Allora voi non siete la reincarnazione di Buddha. Questo significa che sono stato ingannato. Sei un impostore!» Esclamò furibondo e ti attaccò con più furia e foga. Se prima aveva esitato ora non esitava più. Non riuscivi nemmeno a bloccarlo con la telecinesi. La rabbia aveva accresciuto la sua forza.  Accidenti. 
«Khān!» Urlasti e lui saltò via per evitare l’esplosione. Accidenti se era rapido. Addirittura ti consigliò di rinunciare e di passare dalla loro parte. Don Avido sarebbe stato generoso con lui. Tu rifiutasti. Tu combattevi per la pace e per Atena. Non ti saresti mai schierato dalla parte di un tiranno. “Non più”. Per questo, sebbene grondante di sangue ti rialzasti e, con un colpo riuscisti a fargli volare via la lancia, che si conficcò nel terreno a qualche metro da voi.
«Mi dispiace ma questa è una guerra e la lancia di Poseidone non è la mia unica arma». Si mise a gambe incrociate e cominciò a meditare. “Sta concentrando il suo Cosmo, probabilmente nel suo repertorio ha un colpo che si basa sul Khān come me, devo stare attento.” Caricò ancora il suo Cosmo. “Forse ho qualche chance di sopravvivere se riuscissi a trovare il suo punto debole, ma qual è?” Non riuscisti a vederlo che esclamò: «Mahā Roşni». E un’ondata di luce t’investì. Ti ritrovasti a fluttuare nel buio. Dov’eri finito? Che posto era questo? Avevi un vuoto di memoria. Ah, già! La battaglia, Crisaore! Maledizione, doveva averti stordito. Dovevi svegliarti.
Improvvisamente udisti una melodia. Girasti la testa a destra e a sinistra alla ricerca della fonte ma non la trovasti. Poi vedesti anche la luce illuminare le membra dietro di te. Sollevasti le braccia e vedesti che t’illuminava il dorso da sotto. Solo allora realizzasti di essere sdraiato. Ma cos’era? Ti girasti e vedesti la fonte di luce e di suono. Era l’album da disegno dell’Azona? Come era arrivato qui? Non ricordavi di averlo portato con te! Da lì stava uscendo quella voce? Fluttuasti fino a raggiungerlo e quando fosti vicino tendesti una mano verso le pagine. La luce s’intensificò e ti avvolse. Riapristi gli occhi immediatamente e vedesti il tuo avversario calare la lancia su di te. L’afferrasti con entrambe le mani e la fermasti. «Cosa? Com’è possibile? Il mio colpo avrebbe dovuto accecarti e condurti alla Dimenticanza e alla morte!»
«Già devo dire che per un attimo mi hai colto di sorpresa». Ammettesti coi muscoli tremanti per lo sforzo. Accidenti, era parecchio più forte di quanto ti aspettassi.
«Mi dispiace davvero, ma mi aspettavo di più dalla reincarnazione di Buddha». Commentò deluso.
«Sei troppo sicuro di te». Lo riprendesti con calma non lasciandoti scalfire. Poi, con uno sforzo sovrumano pure per te, riuscisti a dargli un calcio e allontanarlo. Lui perse la presa sulla lancia e con un balzo tu tornasti in piedi. La lancia nella tua mano mentre tu assumevi la posizione d’attacco. «Voi non avete mai avuto intenzione di spezzarmela».
«In realtà sì, ma anche questo mi va bene».
«Non fa niente, posso colpirvi un’altra volta». Si rimise di nuovo a gambe incrociate. Ma tu ormai avevi capito come funzionava: sfruttava l’energia Kundalini, ossia la sua energia interiore. Il Mahā Roşni indeboliva l’avversario e lo privava della vista. Ma, come pensavo, il suo punto debole lo palesava il suo aspetto e l’attaccamento alle sue radici.  Non avevi altra scelta, avresti dovuto aprire gli occhi. Non farlo, se lo farai perderai la vista! Ti avvisai. “Devo farlo, è l’unico modo!” Curvasti le labbra in un sorriso malinconico. “Ah, sì? Se è così dimmi: qual è l’altro?” Ci provai a cercare qualcosa, una qualsiasi soluzione, ma non ne trovai. E tu, malinconico: “Come supponevo”. Ci voleva qualche secondo per accumulare l’energia del suo Cosmo. Se solo avessi potuto tagliare la sua barriera. Non eri sicuro che la lancia da sola bastasse.  
L’uomo scagliò di nuovo il suo colpo ma stavolta non ti toccò. Improvvisamente sentisti qualcosa agitarsi. Era come il fruscio di fogli di carta smossi dal vento. E il vento soffiava impetuoso. Ti girasti. L’album? L’album da disegno era dietro di te e da lì usciva la luce d’oro bianco che andava dissolvendo il suo attacco.  
«Che diavoleria è mai questa?» Tu cogliesti al volo l’occasione e, con pochi, rapidi colpi, gli sigillasti i chakra con la lancia. I suoi occhi si sgranarono e poi si rivoltarono all’indietro. Un secondo dopo giaceva svenuto al suolo. Ti avvicinasti e lo girasti con la lancia. Normalmente gli avresti dato il colpo di grazia ma era comunque molto forte. Uno come lui avrebbe potuto esserti utile. Perciò piantasti la lancia nel terreno accanto a lui e tornasti dall’album che ancora fluttuava a mezz’aria. Si era probabilmente mosso da solo per venire da te. Avresti dovuto immaginarlo che un oggetto appartenuto a un’Azona non dovesse essere normale. «Vi devo la vita, mia Signora». Mormorasti nella tua lingua natia. Tendesti le mani l’album vi si posò e si richiuse dolcemente. Anche il luccichio scomparve. Proprio in quel momento arrivarono gli Skeleton e tu desti l’ordine di catturare Krishna. Poi, ti avviasti verso l’accampamento.
La battaglia era finita. Non c’erano altri Cosmi ostili.
Alla fine non era stata del tutto inutile e ve l’eravate cavata molto bene. Una volta ripulito e medicato riponesti l’album al sicuro e desti una mano coi riti funebri. Lì vi toglieste l’Armatura e lasciaste che vi avvolgessero in coperte che assorbirono tutta l’acqua. Sarebbe stato meglio fare una doccia calda, ma prima che fossero pronte le tinozze (quanto di meglio potevate permettervi) sarebbe passato un po’ di tempo. A te l’idea non atterriva, non dava neppure fastidio. Camus, essendo abituato ai climi rigidi della Siberia ancor meno. Avevi sentito dire che laggiù facessero anche di peggio che fare il bagno insieme e, poi, dov’era il problema? Eravate uomini tutti e due, tra voi non c’era alcun interesse. Se proprio volevate esagerare sarebbe bastato che entrambi teneste le mutande.
Fino a quel momento non avresti mai pensato che le persone che vissero nel Medioevo europeo si lavassero. Leggenda voleva il contrario, in realtà erano patite di bagni pubblici. Passione che sembravano aver mutuato da quei pochi antichi Romani presenti. 
A malincuore, comunque, lasciaste che alcuni si prendessero cura delle vostre cloth. Nella fattispecie, più che altro, asciugandole e lucidandole. Anche nel riverbero delle fiamme mandavano scintillii che suscitavano l’avidità dei presenti. Ma voi non vi preoccupavate di questo. Soltanto voi Gold le potevate sollevare, in quanto loro legittimi proprietari. Per gli altri sarebbero state pesanti come macigni.
Mentre vi lasciavate medicare faceste il conto dei danni. Grazie a te soltanto una torretta era stata danneggiata. Avevate anche potuto assistere alla devastante forza dei due Specter, che avevano sbaragliato i nemici. Servendosi anche di notevole astuzia e della collaborazione dei loro sottoposti, tra cui Valentine dell’Arpia, che, per il suo padrone scese in campo. Ma la sorpresa vera vi giunse dalla notizia della forza dei vostri alleati, dalla ferocia degli Skeleton e dalla violenza dei popoli di Lady Niniane. Almeno così avevi capito che si chiamasse. La magia e dalla potenza del canto dei Sacerdoti e delle Sacerdotesse era qualcosa di incredibile. Non sapevi che potesse essere così sottile.
Sebbene fosse stata piuttosto cruenta anche sugli altri fronti Isaak si era immediatamente schierato dalla vostra parte. Aveva inoltre insistito per poter parlare direttamente con Lady Pandora. Aveva offerto in cambio le informazioni che era riuscito a raccogliere. Un comportamento che molti giudicarono deplorevole, persino tra gli Specter. Che, pur essendo rivali in accesa competizione, ancora ce l’avevano con l’ex Stella Malefica del Bennu, che passò ai Saint ai tempi della Guerra Santa del Millesettecento. Almeno così avevi sentito dire, ma nessuno volle raccontarti altro.
Tu invece, non ti sentisti troppo crudele con quel ragazzo. Dopotutto eravate militari, eravate in guerra, delle informazioni potevano anche esservi utili.
Non capivi perché la Sacerdotessa di Hades non avesse ancora dato l’ordine di rimontare il campo ma solo di spegnere gli incendi. Ti dispiaceva davvero per il giardino. Decideste di fare qualcosa nel frattempo che la pioggia scrosciante raffreddava l’aria, vi bagnava fino al midollo e trasformava la terra in fango. Non credevate che i Druidi e le Sacerdotesse avessero tutto questo potere. Ed erano solo semplici esseri umani.
Foste richiamati dal popolo cui eravate inevitabilmente diventati amici e, foste invitati a riscaldarvi al falò che avevano acceso in una delle tende. Non vi fu permesso di assistere al colloquio, ma ci pensò Valentine dell’Arpia, macilento eppure ancora in piedi e molto resistente. Fu lui a portarvi Isaak, poi andò dal fabbro per farsi dare una controllata all’Armatura. Per essere meno resistente delle vostre, per fronteggiare spiriti e defunti era efficace. Adesso sapevate perché. Credevate fosse per via della corruzione insita nelle Surplici. Invece erano strutturate diversamente, apposta per proteggere i Vivi che rivestivano dagli attacchi dei morti. Cosa che le vostre non potevano fare.
Tra un gemito di dolore e l’altro mentre veniva medicato, Isaak vi raccontò tutto. Aveva rimandato fino a quel momento, ritenendo più urgente riferire quell’informazione, piuttosto che la propria salvezza. Dopotutto lui era morto.  «Stanno cercando di resuscitare i Primi Cavalieri». Disse il giovane senza un occhio, poi sibilò di dolore e la Sacerdotessa si scusò.
La bambina che girottolava sempre attorno a Camus guardò preoccupata il suo protetto. Il quale ricuciva le ferite di Isaak. Percepisti anche tu l’innocente fitta di gelosia e preoccupazione nell’animo della ragazzina Pitta. Adesso era seduta sul tavolo e cercava di capire che cosa vi steste dicendo. «I Primi Cavalieri? Cosa sono?»
«Sono i Cavalieri al Servizio del primo nucleo divino». Spiegò il giovane ex Marine di Kraken. «Le loro Armature non corrispondono a nessuna costellazione, stella, pianta o attributo dei nostri sovrani; rappresentano la potenza devastante della Natura, le Belve Terrificanti che c’erano prima».
«Come i Titani?»
«No, non come i Titani, come se fossero la personificazione della piena potenza di questi, tranne il Tempo. É da lì che gli Dèi si ispirarono per creare noi». Aggiunse chiudendo entrambi gli occhi per la stanchezza, mentre la donna lo aiutava a distendersi sul materasso.
Camus gli pose una mano sulla fronte e gli sorrise con fare paterno, dicendo: «Sei stato bravo, adesso pensa a riposare». Anche se quelle non erano le condizioni igieniche migliori in cui potesse sostare. Pur essendo uno dei defunti, certe preoccupazioni non mancavano.
«Non va bene». Mormorò Camus mentre tornavate alla sua tenda. Non eravate messi così male in arnese da non riuscire a camminare.
La bambina Pitta che vi trotterellava accanto, mano nella mano con Camus. Forse il Cavaliere dell’Acquario non s’era neppure accorto di averla presa per mano ma alla piccola non sembrava dispiacere. «No che non va bene». Dicesti tu, sentendoti un po’ strano per scambiare tante parole con Camus. Neanche ai tempi della Titanomachia era mai accaduto che parlaste tanto. Per di più senza Cosmo e al di fuori di un Chrysos Synaigen. In un certo senso non avevate mai avuto bisogno di parole; neanche ad Asgard. Il vostro senso di giustizia bastava e avanzava per mettervi tutti in sintonia.
La discussione si protrasse a lungo, anche quando tornaste al tepee che, per sfortuna, Camus e la bambina dovettero ricostruire e rinforzare mentre tu radunasti un po’ di legna asciutta racimolata a giro per l’accampamento e, accendesti il fuoco sotto la cerata, quando questa fu rialzata.
Valentine vi apparve dietro le spalle: «Siete stati bravissimi». Si complimentò affilato, le braccia incrociate.
«Che cosa?»
«Sapevamo che quel prigioniero non avrebbe cantato così facilmente, perciò abbiamo pensato di lasciarlo a voi. E abbiamo avuto ragione, ora sappiamo quali sono le prossime mosse di don Avido». Spiegò compiaciuto.
«Ma allora non te ne eri andato?»
«Certo che no, mi credi così idiota?» Vi tratteneste dall’aggredirlo. «Non fategli del male».
«E perché dovremmo? Per chi ci hai scambiato?» Chiese l’Arpia disgustato. «Se vuoi occuparti tu del tuo cucciolo fa pure, per noi ha già esaurito da tempo la sua funzione. Se lo chiedi a Lady Pandora sono sicuro che non te lo rifiuterà». Montasti addirittura una piccola griglia per riscaldare i piatti, quando poteste mangiare. Nel frattempo ne approfittaste per scaldarvi. Aveva anche cominciato a piovere.
La piccoletta dovette rifugiarsi nello spazio tra le gambe incrociate di Camus (dandoti la tenera immagine di un padre con sua figlia) quando tornò Valentine. Era andato a conferire con la sua Sacerdotessa apposta per Camus e Isaak e aveva fissato un appuntamento per voi l’indomani. Poi si fece spazio sotto la cerata. Maledetta pioggia. Sembrava che i monsoni avessero deciso di trasferirsi in Germania solo per te, come se avessero voluto farti una sorpresa. «Non possiamo restare a guardare così». Disse Camus, quando pranzaste sotto alla tettoia della sua tenda.
«Tu cosa suggerisci?» Domandò beffardo Valentine, accomodato accanto all’ingresso del tepee prima di ficcarsi una cucchiaiata di minestra in bocca. La bambina Pitta seduta a gambe incrociate accanto a lui. Era smontata per permettergli di mangiare. Le vostre razioni vi furono distribuite dal cuoco di Villa Heinstein, quindi non avevate niente da temere.
«L’ideale, mi costa ammetterlo, sarebbe trovare degli alleati, prima che lo faccia Don Avido». Disse Camus. Voi Gold Saint eravate molto potenti, anche gli Specter lo erano, per questo era quasi un affronto ricercare un’alleanza esterna e adesso pure una seconda. «Oh, sì bella idea infangare ancor di più l’onore degli Specter». Commentò Valentine prima di trangugiare un’altra cucchiaiata.
Lo guardaste tutti e tre: «Ma non eravate voi quelli che erano alleati coi Bersekers?»
«Questo quando il Divino Ares se lo ricorda, ma non li vediamo più da millenni». Il rosso si sporse verso il fuoco per insinuarci un altro legnetto. «E, l’ultima volta che le avete viste, erano schierate al fianco di Don Avido». Commentò, rigirando neanche tanto sottilmente, il coltello nella piaga. Oh, sì, era proprio così. Beccandosi un’occhiataccia da parte del bulletto coi capelli rosa e la Surplice dell’Arpia. Se non attaccò briga fu in grazia del patto, della bambina e, della stanchezza. Dopotutto era ancora convalescente.     
«Non tirare troppo la corda, Gold Saint di Aquarius». Suggerì, scontroso.  
In ogni caso non doveste attendere troppo per fare qualcosa. Ci pensò la Somma Pandora a chiamarvi. Oh, Shaka, stavi cominciando forse a parlare come gli Specter? O stavi manifestando il rispetto per la carica ricoperta dalla donna che custodiva il tuo mala? Fatto sta che voi due vi avviaste, lasciando la piccola Pitta con Valentine, che dal canto suo si ritirò nella tenda.

Le fiamme rosseggianti del camino illuminavano il vestito nero della Sacerdotessa degli Specter. Luce ostacolata dalle figure dello Specter della Viverna e di quello del Garuda. Nella sua mano il tridente degli Inferi. Non sembrava ferita solo adirata mentre i servitori e gli Skeleton rimettevano in ordine e pulivano. Accanto a lei il Garuda e la Viverna. Stavano parlando ma si fermarono appena percepirono le vostre presenze.
La Sacerdotessa vi accolse con un: «Devo riconoscere che vi siete rivelati molto preziosi per il buon esito della battaglia. Pertanto io e i Giudici Infernali abbiamo deciso di conferirvi un incarico della massima importanza». Disse, a malincuore. Come se non ci fossero stati altri Specter in grado di assolvere al meglio questo compito gravoso. «Desidero che vi rechiate al Nero Castello, nella parte più profonda del Tartaro, per stringere alleanza con i Divini Erebo e Nyx, sicché liberino di nuovo le bestie infere e la loro progenie e la schierino assieme alle nostre truppe».  
«Il Nero Castello?» Ripeté Camus perplesso. In effetti neanche tu ne avevi mai sentito parlare. E sì che nel Tartaro c’eravate stati per riportare Aiolia e Lythos a casa.
«É la dimora dei genitori degli Dèi Gemelli, nostri alleati». Spiegò la Sacerdotessa dai capelli corvini. «Coloro che hanno il vero controllo del Tartaro. Normalmente manderei qualcun altro, ma ho bisogno che tutte le forze Infere siano qui. Non è necessario che andiate insieme, basta uno soltanto di voi, so che conoscete la strada».
«Sì, conosciamo la strada per entrare nel dominio dei Titani dalla Terra. Il mio collega in passato la sigillò, ma non conosciamo la via per arrivare da queste Divinità primordiali». Dicesti tu.
«Non è possibile spezzare il sigillo?» Chiese la donna.
«Non è impossibile. Il problema è che quei luoghi sono sorvegliati dal Santuario, non possiamo andare lì, spezzarlo e aprire le porte, tecnicamente saremmo morti e la nostra azione causerebbe disturbo ai più». Rispose Camus.
«Dunque il Santuario non sa che vi siete volontariamente schierati con noi?» Chiese la donna, battendo le palpebre stupita.
«No e gradiremmo che restassero all’oscuro».
«Se permettete, mia signora», s’intromise lo Specter della Viverna e voialtri lo guardaste, «ci sarebbe un’altra via; quella presidiata dagli Oneiroi al servizio del Divino Hypnos».
«Ma le tele del Lost Canvas sono andate perdute». Obiettò lei, ragionevole.
«Sì, ma quei luoghi esistono ancora e anche i loro quattro custodi; a quanto sembra, gli Oneiroi sono tornati, solo che questa volta non si sono schierati con noi».   
«Bene, convocateli».
«Sì, Somma Sacerdotessa, ma devo avvertirvi che ci vorrà un giorno, come minimo». Fece la Viverna.
«Ti concedo dodici ore; io intanto sceglierò il drappello di ambasciatori che andrà con uno dei Gold Saint», vi guardò, «decidete voi quale, per il momento siete congedati». Il Giudice Infernale uscì dalla stanza e voi due lo seguiste a debita distanza.  

Alzasti gli occhi al cielo. «Dodici ore sono passate». Dicesti al tuo compagno. E ancora non era successo niente, a parte che eri riuscito ad andare avanti con la lettura. Avevi tenuto l’album al sicuro, in luogo asciutto: il tuo Pandora-Box. L’unico lato positivo era che aveva smesso di piovere e che la maggior parte dell’accampamento era stato rimesso in piedi e, che i Druidi e le Sacerdotesse cantavano una canzone, forse un inno alla Luna, ancora nascosta dalle nubi che venivano trasportate via dal vento.    
«Io non posso venire», disse d’un tratto. Girasti il volto verso di lui. Si vedeva che l’idea lo seccava moltissimo e che aveva preso quella decisione dopo una lunga riflessione. Avrebbe preferito combattere al tuo fianco che restare con gli Specter però; «metterei in pericolo la bambina che mi segue e, ci sono già troppe persone in pericolo a causa mia, potresti andare tu anche per me, Shaka?» Ti chiese il maestro di Hyoga e Isaak. Ti parve naturale che volesse controllare anche il suo ex allievo ritrovato. Per questo non disapprovasti fino in fondo. Ma che c’era da disapprovare quando tu stesso ti saresti tenuto lontano dalla battaglia? «Va bene, mi stavo appunto chiedendo come avresti fatto con lei». D’accordo che era il vostro deterrente contro le Creature, ma ti sentivi di concordare: era pur sempre una bambina ed era un’anima destinata a rinascere, prima o poi. Era ingiusto che fosse impiegata così. Allora avvertiste il manifestarsi di quattro Cosmi di poco inferiori a quelli degli Dèi gemelli. Non li avevate mai percepiti prima.
Volgeste tutti il capo in direzione della Villa. Tu e Camus correste a vedere. Una volta varcata la soglia della sala con il camino, trovaste quattro uomini in Surplice: Oniro il Dio dei Sogni, Morfeo il Modellatore, Icelo delle Fobie e Fantaso l’Illusionista.
«Sacerdotessa di Hades e Gold Saint, non era mai successo che fossimo convocati da una così illustre personalità». Salutò beffardo Oniro.
«Non vi avremmo arrecato tanto disturbo se non fosse necessario». Disse Pandora, sfoderando tutto il suo carisma. Fantaso le si avvicinò. La squadrò interessato sfiorando con dita concupiscenti il mala che si attorcigliava attorno ai suoi fianchi. La Sacerdotessa lo protesse con una mano. Il dio ritrasse le dita e si complimentò con lei:«Siete veramente splendida Donna Pandora, veramente un sogno, neppure io potrei competere con voi». La Viverna sibilò un avvertimento e tu scattasti in avanti di un passo. Il Dio ti guardò dritto negli occhi e ti si avvicinò, incuriosito. «Ma tu lo sei di più, bel Cavaliere della Vergine, la costellazione più di tutti atta a proteggere la giustizia, oh, cosa darei per poter sbirciare nella tua mente anche solo per un po’». Fece sfiorandoti il mento con dita leggere. Tu ritirasti indietro la testa e il Dio rise.
«Smettila di giocare, Fantaso. L’ultima volta che ti sei interessato a un Cavaliere d’Oro è stata la nostra fine». Lo riprese Oniro.
«Stavolta non corro nessun pericolo». Sorrise l’altro fermo davanti a te. Prese dolcemente una ciocca tra le dita e cominciò a lisciarle con delicatezza. Stava ammirando i tuoi capelli biondi. Mancava poco che ti chiedessi che shampoo usassi. Reprimesti il moto di rabbia istintivo e sopportasti stoicamente. «Dunque volete che apriamo le porte per il mondo dei sogni? E sia, ma solo se il Cavaliere di Virgo mi aprirà la sua mente». Questo Fantaso era il capo. «E sia».
«Bene».
«Non così in fretta, prima il Gold Saint deve portare a termine la missione, dopo potrete giocarci quanto volete». Lo bloccò Lady Pandora e Fantaso fece una faccia come a dire: “Accidenti” ma si riprese subito. Era come se dicesse: “Non importa, vorrà dire che aspetterò”.  «Andrete solo voi, Virgo. Sono sicura che saprete cavarvela benissimo». Comandò Pandora senza particolare inflessione nella voce.
«Sta bene».
Fu Icelo ad aprire il varco per il Mondo dei Sogni. Tu avevi la facoltà di teletrasportarti ovunque, ma con i tempi che correvano la via dei Sogni era la più sicura. Almeno le Creature non erano ancora arrivate lì. La fregatura consisteva nel fatto che tu non avevi idea di dove si trovasse il mondo dei sogni e che non conoscevi nulla. Non era come scendere e camminare negli Inferi. Era proprio un altro paio di maniche. Con tuo grande rammarico, avevi bisogno dell’aiuto dei quattro Dèi dei Sogni.
Varcaste il portale tutti e cinque e vi ritrovaste in un lungo corridoio buio. Sui lati c’erano specchi e porte. «Ogni porta è il sogno di una persona». Ti disse Fantaso, con voce sorridente e piena d’orgoglio. Quello che non ti aspettavi, erano i loro sottoposti. «Sommo Icelo». Chiamò una voce femminile, poi: «Presto, raggruppatevi, ci sono i capi!»  Non pensavi che comandassero ognuno una schiera. Pensavi che ognuno di loro presiedesse un ambito e che si occupasse dei sogni di tutti. Fu una specie di delusione. I loro sottoposti si radunarono in due ali nel corridoio e s’inchinarono al vostro passaggio. «Come fate con le Creature?»
«Al momento non ci hanno ancora raggiunti, finché non ci raggiungeranno non evacueremo i nostri sottoposti». Arrivaste alla fine del corridoio e di lì ti lasciarono proseguire da solo fino al Nero Castello. Non sapevi come descriverlo, non era come quelli che t’immaginavi. Era soltanto diverso ed era fatto di cristallo nero che mandava inquietanti bagliori. Le sue guardie erano abbigliate di Cloth come quelle dei Black Saints, però blu scuro. Le guardie chiesero chi fossi e cosa volesti. Rispondesti e fosti ricevuto quasi subito.
La sala del trono del Nero Castello era diversa da quella degli Inferi. Quella degli Inferi era solo oscura, questa era solo buia ma più calda. Intuivi i drappi e le decorazioni, la ricchezza.
Avevi conosciuto i Titani, ma non avresti mai pensato che queste Divinità Primigenie dimostrassero appena una ventina d’anni in più dei figli. La Dea Nyx era come se fosse avvolta in un’aura di mistero e insondabilità, proprio come la notte di cui era padrona. Aveva lunghi capelli neri che sfumavano sul blu e l’azzurro. Il viso era dolce e benevolo. Indossava una tunica blu scuro allacciata sulla spalla destra tempestata di piccoli brillanti. Simulava il buio del cielo. Il corpo era adorno di piccoli gioielli e disegni argentei. Sembravano fatti con il bagliore azzurrino delle stelle.
Suo marito invece sembrava uno di quei re usciti dalle favole. Incuteva rispetto e timore al tempo stesso, ma dove la moglie era più dolce e rassicurante, lui trasmetteva una primordiale sensazione di pericolo. La stessa che l’uomo degli albori provò nelle savane e le foreste. Ma al tempo stesso di forza e mistero, ancor più accentuato. Sul capo di entrambi una corona di stelle.
In mezzo a tutto questo buio tu eri stonato. Eri una macchia dorata in mezzo al buio fiocamente rischiarato eppure non angosciante come la Giudecca. T’inginocchiasti e a parlare fu Erebo. «Benvenuto, Gold Saint di Atena, non ci aspettavamo una vostra visita».    
«E io sono lieto che mi abbiate ricevuto dopo questo lungo viaggio». Ringraziasti cautamente. Non dimenticavi la loro progenie e cosa la tua Cloth simboleggiava per loro. Eppure i due non sembrarono volerti accusare, né sembravano maldisposti nei tuoi confronti. Ed era per via della tua condizione di reincarnazione di Buddha, che ti osservavano incuriositi. «É il minimo che potremmo fare per una così alta personalità, eravamo curiosi di conoscervi. Siete il benvenuto nella nostra umile dimora; alzatevi». Fece la Dea alzandosi dallo scranno nero.
Obbedisti ed Erebo domandò: «Cosa vi porta nelle nostre terre?»
«Sono qui per chiedere la vostra alleanza per conto della Sacerdotessa di Hades, affinché ella possa riconquistare i domini di cui Don Avido sta abusando. So che non è di vostro interesse o competenza, ma gli Inferi hanno bisogno del vostro aiuto e sostegno in questa difficile battaglia». 
«Perché vi preoccupate tanto di una cosa che con voi non ha quasi nulla a che vedere? Noi non abbiamo più rapporti con gli Inferi da molto tempo».
«Io mi preoccupo per tutte le cose viventi, non posso negare il mio aiuto se sono in grado di darlo», spiegasti continuando a tenere gli occhi chiusi e il capo chino. T’inginocchiasti nuovamente, quasi emulando la tua Armatura quando non la indossavi. «Vi prego, non sono qui come vostro pari, ma ve lo chiedo in veste di uomo, per tutto ciò che sta accadendo».
I due ti osservarono. Poi il Sovrano del Tartaro proferì: «Non vedo perché dovremmo».
«Vi prego». Ripetesti, cercando di infondere in queste parole la tua supplica, la necessità. Perché improvvisamente eri a corto di parole. Non eri un oratore, non così, «Se mi concedeste un po’ di tempo, potrei provare a cercare delle parole per spiegarvi le ragioni che mi muovono».
«Un po’ di tempo?» Ti fece eco uno la Regina, interessato.
«Sì, vi scongiuro».
«Faremo anche di meglio». Decretò la Regina delle Tenebre e il marito la guardò. «Ma ora sarete sicuramente stanco, dovrete riposare».
«Nyx» cominciò il Dominatore del Buio ma la consorte lo zittì repentinamente; «So quello che faccio e ti dirò di più: è da un po’ che non abbiamo nuove luci nel nostro giardino». Mille punti interrogativi ti esplosero in testa, ma quello che fu oscuro a te fu chiaro al consorte della Notte.
«Capisco. E sia, ti concederemo il tempo che ti serve, ma alla condizione che stanotte riposiate». Dal nulla comparvero dei servitori, delle anime fosforescenti cui ordinò di scortarti nella stanza degli ospiti più degna della tua persona. Non eri un tipo mondano ma era una grande scortesia rifiutare: «Vi ringrazio moltissimo. Per caso, da voi è giunta una fanciulla?» Domandasti ai regnanti che nel frattempo si erano nuovamente assisi.
«Una fanciulla? Benedetto Cavaliere, qui di fanciulle ce ne sono molte, per caso gradisci qualcuna in particolare, che allieti la tua permanenza?» Ripeté la Dea della Notte battendo le palpebre. Eri sorpreso. Non pensavi che persino gli Dèi primordiali amassero divertirsi. Dopotutto le discinte ballerine ti volteggiavano ancora intorno, come i demoni lascivi tentarono il Buddha nella sua ricerca dell’Illuminazione.
«Non è necessario, la fanciulla che cerco non è una delle vostre».
«Allora temo che non sia passato nessuno».
«Grazie per avermelo detto e perdonatemi ancora per avervi tediato con le mie stupide richieste».
La Signora della Notte ti chiamò e ti si rivolse con dolcezza; «Non sono affatto stupide, sono naturali». Naturali? Dovrebbe essere naturale cercare una persona con la speranza di trovarla? Doveva essere naturale per te, indulgere in queste sensazioni? Niente lo vietava e anche la tua terra era famosa per il kamasutra e altre discipline legate alla sfera amorosa ed erotica. Ma tu non potevi, tu eri l’uomo più vicino agli Dèi sulla Terra.
Anche se in realtà tutto quello che provavi, era in forte contrasto con le nozioni che avevi riappreso una volta tornato a questo mondo. Ricordavi ancora cosa ti insegnavano i monaci e come a te quegli insegnamenti, pensandoci bene, ti sembravano sbagliati. Non ti sembrava, dalle conversazioni con Buddha, che foste mai stati misogini. La misoginia era una forma di rancore, non potevi esserlo e non lo eri. Allora cos’era questa paura? Perché dopo la nostalgia ti metteva paura? Una reazione istintiva? Perché, per via del suo Cosmo? Oh, avere paura era umano e tu eri umano e lei era una Dea era naturale ma era insensato. Tu dovevi portare il messaggio di gentilezza e compassione presso gli esseri viventi, tutti. Allora perché per lei sentivi questo terrore?
Il Buddha stesso congegnò il Sangha monastico, e fu all’interno dello stesso che potevi ritrovare la tua, vostra, promozione attiva degli interessi delle donne e il livellamento degli svantaggi, che altrimenti avrebbero incontrato nella società indiana. Ma ti eri reso conto, che questo non bastava e, ti occupasti in passato, come un genitore avveduto di proteggere la vita delle monache dai pericoli di uno stile di vita ascetico e itinerante. Sia da quelli fisici sia da quelli più lievi come quelli che stava affrontando Asia. Lo facesti con il Patimokkha, ossia le regole monastiche atte a dare alle monache le stesse opportunità sul sentiero della pratica di cui godevano gli uomini. Anche per tenere sotto controllo entrambi i generi. Vi occupaste anche di prevenire monache e monaci dal cadere in ruoli abituali con svantaggio delle monache. Non era servito a niente. La parte femminile del tuo ordine era andata a farsi benedire e le donne ricoprivano un ruolo di servizio volontario presso i monaci, proprio come avevate temuto. Quando te ne accorgesti piangesti per le donne.
Ma qui, furbacchione, non cambiare discorso, stavi sviluppando (e te ne rendevi conto, in quanto maestro d’introspezione) un “comportamento distruttivo”. D’accordo hai sproloquiato abbastanza. Ora ascolta me, che sono la tua coscienza. Guardiamo in faccia la realtà e riprendiamo il filo del discorso, quello vero, che ne dici? E tu scendesti a patto con me, la coscienza e con il Buddha che, paziente, aveva osservato i tuoi tentativi di negazione. O quasi.
Era come se la Azona ti avesse attaccato la sua collera, il suo attaccamento o la sua avidità e tu, nella tua ingenuità, c’eri cascato. Sì eri stato contagiato, si può dire. E il Karma stava presentandoti il conto, rammentandoti i tuoi limiti e il tuo sacro dovere di uomo, ancora prima di Saint. Dopotutto, tu avevi recuperato l’album di Asia. Curiosando, cercando d’interpretare, qualcosa si era risvegliato in te, catturandoti e turbando la tua mente con sogni erotici tutti su di lei. Neanche se la Divina Nyx li avesse conosciuti. Ma lei era la Dea della Notte, era impossibile che non conoscesse questo lato oscuro di te.
Ma a differenza di altri avevi tre strade, il comportamento distruttivo, quello costruttivo o quello neutro. Avresti sottomesso a te la Azona? No, non ne avevi motivo e aborrivi inorridito l’idea. Al limite temevi di farle del male.  Sicuramente (e qui ti posso anche dare ragione) era presto per un’azione costruttiva (ossia farlo per affetto e volontà d’aiutare nella speranza di farla sentire un po’ più felice; e solo la Dea, ora anche tu, sapevate quanto quella giovane ne avesse bisogno).
O forse era ancora più semplice di così. Era solo giunto il momento del risveglio dei tuoi sensi, di quel bisogno intrinseco della natura umana? Quel motivo che ti avrebbe portato a un’azione neutra, ossia solo per sfogo. Sapevi, da quando eri redivivo, che prima o poi sarebbe giunto. Non ti aspettavi che si sarebbe destato così; al secondo incontro. Non c’era nulla di male. Le tue paturnie derivavano dal furto dell’album e dal timore che tu avessi scritto in faccia la tua colpevolezza. Anche se, più che in faccia era più corretto dire sull’addome, visto che era lì che tenevi l’album di solito. Tra armatura e kurta, neanche fosse un rinforzo interno alla Gold Cloth.  
Però, qualcosa dentro di te, ti diceva che non avrebbe dovuto essere questo il motivo del tuo turbamento. A parte la spiacevole tempistica del risveglio dei tuoi ormoni, il motivo fondante era il fatto che un’Azona si aggirasse indisturbata, brandendo la lama appartenuta a Tamerlano, il generale, in queste lande. Apparentemente alla ricerca di qualcosa. Che le sue parole te le ricordavi. Le orecchie le avevi anche tu e la tua lingua natia la conoscevi. Forse era anche per questo, oltre al duello e la tua scoperta, che lei ti era rimasta impressa.
Ma, era tuo dovere aiutarla, non solo in quanto Atena, ma in quanto donna. Per le tue pulsioni sessuali avresti trovato tutto il tempo del mondo. Eri una persona paziente, adesso c’era qualcosa di più importante dei tuoi ormoni ridestati.   
Stufo della tua posizione sdraiata sul letto lussuoso, ti sedesti sul davanzale del terrazzo a gambe incrociate e continuasti la lettura, estraendo il tuo tesoro segreto da sotto al kurta. La poesia che leggesti quella sera fu una delle ultime: Ultima frontiera.

E finiva con per. Per? Era dunque per questo che era partita? Ma la poesia era incompleta come se avesse smesso di scrivere in quel momento. A giudicare dal segno dell’inchiostro, come se le fosse stato strappato di mano. Doveva essere successo allora che era giunta negli Inferi e Atavaka l’aveva intercettata, sicché voi poi vi incontrasti. Adesso, per le ragioni della testa, in accordo anche con quelle del cuore, eri sicuro che non fosse una coincidenza. E di avere la risposta che cercavi nelle tue mani.  
Richiudesti gli occhi percependo il sorriso di Buddha.  
Poi, ti vennero a chiamare per il banchetto. Vero che non potevi né mangiare né bere, però niente ti vietava di presenziare. I due signori dell’Oscurità si scusarono con te, spiegandoti che non potevi comunque rischiare mangiando il cibo di queste terre. Tu non gliene facesti una colpa, anzi, li comprendesti, come comprendesti anche l’enorme rispetto che provarono per te.
Quella sera, la passasti in compagnia di queste due divinità e della sua corte che intrecciò per te danze, canti, balli e fece festa.
L’indomani, un po’ stanco, conferisti con i signori del Tartaro. «Bentrovato, Cavaliere». Ti salutò Erebo, alzandosi dal tavolo dove stava consumando la colazione. «Spero che abbiate riposato a sufficienza, vi aspetterà la prova più difficile di tutte».
«Sono pronto».
Allora Nyx si alzò dal suo trono e, ti venne incontro, poi, ti fece cenno di seguirla dicendo: «Dovrai provarmi la tua fedeltà alla causa mostrandomi la luce più pura che c’è dentro di te». Ti condusse in un giardino pieno di piante fosforescenti. «Questo è il mio tesoro più prezioso, come negli Inferi esistono l’Elisio e il Campo di fiori anche noi non disprezziamo le piante, però siamo un tantino più specifici, i nostri tesori sono la manifestazione dei sentimenti che le persone elargiscono». Spiegò. «Se volete la nostra alleanza, dovrete far fiorire questa luce per me. Ma state molto attento, se non sarà veritiera vi toglierò la vita e le ceneri della vostra anima faranno da concime per la pianta. Se invece riuscirete, potrete ammirare anche voi ciò che si cela dentro il vostro animo». 
Però a convincerli non fu la tua aria di sacralità ma il sentimento che stava sbocciando dentro di te. Sentimento che Nyx materializzò come un fiore e aggiunse alla sua collezione nel regale giardino di Palazzo.
«Come posso far fiorire questo bocciolo?» Chiedesti.
«Nel modo che preferite, potete cantarlo, suonare un’ode, raccontarmelo, disegnarlo, scriverlo, ballarlo, sognarlo, meditarci su. Il tempo che volete metterci lo decidi tu, anche se non ne avete moltissimo, avete detto».
Ti sedesti a gambe incrociate, nella posizione del loto e cominciasti a meditare, mentre la Regina delle Tenebre aspettava.
Un fiore? L’unico fiore che ti veniva in mente era il Loto Rosa che accompagnava le tue tecniche e il tuo Cosmo. Ma il dolore che sentisti al costato ti avvisò che avevi preso la strada sbagliata. No, non era un fiore quello che dovevi materializzare, era la luce dentro di te. Allora provasti a concentrarti sul mondo dei Vivi. Richiamando così a te tutto.  
Il sapore del cibo sulla tua lingua.
Il cuore ti fece male. Eppure tu non ti arrendesti. 
La luce del Sole che scaldava le tue giornate, facendo capolino dalla Sesta per un timido saluto, la luce della Luna che baciava le tue membra stanche mentre riposavi. Le stelle che tempestavano la notte, rendendola culla di tutti i sogni dell’umanità. Il profumo della tua terra e del Santuario, degli amici. Delle stagioni. Questo era quello che volevi proteggere, la tua luce. La tua Dea, che pure avevi accompagnato negli Inferi.
La giustizia, la tua saggezza. Il tuo gravoso compito. 
Eppure ti sentisti perforare l’Armatura. Apristi gli occhi di colpo e vedesti la mano della Signora della Notte ritrarsi. «Risposta sbagliata, caro Cavaliere». Sorrise. 
Ma ora c’era anche qualcos’altro, qualcun altro. Il cui cuore ti aveva salvato la vita. La vedesti di fronte a te. Come nei tuoi sogni. E, improvvisamente capisti perché questa prova era così difficile. Pensarla, aprirti, esporti così era un pericolo per la tua immagine e la tua reputazione. Una reputazione duramente costruita. «No…» Mormorasti mentre l’Armatura si rigenerava da sola.
Percepivi l’eco della morte in tutto il giardino. Tutti quei bellissimi fiori nascevano dalla luce sbagliata. Cavalieri morti per non aver voluto esporsi, forse temendo che rivelarlo li avrebbe sminuiti o avrebbe messo in pericolo le persone che amavano. Oppure perché credevano che non ne valesse neanche la pena.
Come Asia.
E fu come aver ricevuto una seconda illuminazione. Adesso capivi che cosa stava succedendoti, perché sentivi il cuore stretto in una morsa, il braccio sinistro strizzato e qualcosa che cercava di uscire da te dal costato. Avevi visto come operavano gli Evil Seed, non credevi che dentro di te se ne fosse insinuato uno. Né che la sua nascita fosse così dolorosa. Ma non era un Evil Seed, gli Evil Seed non fanno così male, questa era la vergogna di chi viene messo a nudo. La Dea ti stava costringendo ad aprirti, le radici stesse ti stavano aprendo e l’unico modo per eliminare il dolore non era rifuggirlo come credevi, ma saziarlo, andargli incontro. Questo era quello che ti chiedeva. E quel fiore lo nutristi, lo nutristi mettendo tutta la tua luce, tutta la tua speranza, la tua forza, la tua giustizia, la tua tristezza. Gli desti sostanza, infondendovi anche i tuoi sentimenti, la tua umiltà e l’amore che provavi per la spadaccina di cui custodivi il cuore senza permesso. Ecco, questa era la parte peggiore: le avevi rubato il cuore e non avevi intenzione di restituirglielo. Ecco la verità. Tu, novello pescatore, credevi che se glielo avessi restituito, lei sarebbe volata via come le Tennyo delle leggende. Tu ti stavi aggrappando a questo sentimento, ben consapevole che lei ti disprezzava e che forse neanche immaginava ciò che ti turbava. Non ti eri mai innamorato prima d’ora, ma avvertivi distintamente che, se l’avessi incontrata, non avresti dovuto illuderti con delle fantasie. Che poi avrebbero inquinato tutto ciò in cui credevi e vivevi. La volevi conoscere in ogni senso possibile e immaginabile, la volevi amare per quello che era, donna e Dea insieme. E volevi aiutarla a sostenere il peso della sua maledizione, qualunque essa fosse.   
Eppure, scopristi, che nonostante la vergogna, fu come togliersi un peso dal cuore, come se ti fossi confidato con qualcuno. E poi, tutto questo si unì e la luce uscì da te, mentre i tuoi sentimenti, tutto ciò che eri e che provavi, restavano dentro di te.
Apristi gli occhi e vedesti la Dea della Notte accogliere a coppa non un fiore di loto, che ormai aveva perso da tempo quella forma, lo sentivi, ma un fiore che cambiava forma, colore e dimensione per ogni cosa che ci avevi infuso. E la Dea sorrideva commossa di fronte a questo lucente miracolo. Anche tu, non potesti fare a meno di provare stupore di fronte a questo. Dopo tutta la paura che avevi provato, adesso vedevi questa pianta, splendida, mutevole che al tempo stesso racchiudeva te stesso e il resto. Era come se tu avessi catturato la luce e l’avessi conservata tutto il tempo solo per questo momento. E, scopristi, che eri pronto a separartene per il bene comune. Perché tu volevi proteggere tutto il creato, perché se l’avessi fatto, avresti protetto anche la donna che amavi. Ecco il tuo più alto ideale e il tuo sogno più grande, tanto semplice quanto complicato perfino per te, Gold Saint di Virgo. E, quel fiore indefinito, risplendeva come mille splendidi soli in questo giardino. E tu eri sicuro di non aver fallito in quanto avevi incluso ogni cosa.
La Dea ti dette le spalle e lo pose in un vaso che sembrava essere pronto per ospitarlo. Poi si volse verso di te: «É il fiore più bello che abbia mai visto, forse il più bello che sia mai sbocciato in questo giardino, non temere, ne avrò estrema cura e, sappi che, qualunque cosa accada, niente potrà mai offuscare la sua luce». Ti promise. «Hai superato la prova, torna pure nel tuo mondo, Anima Viva, nostro alleato». Fece e, quando riapristi gli occhi, ti ritrovasti sdraiato nella tua tenda senza neanche sapere come c’eri arrivato. Ma, dentro di te, adesso, ti sentivi splendere esattamente come quel fiore, vederlo non te lo aveva affatto sottratto come credevi. Ma anzi, non ti eri mai sentito così bene. Non come se tu avessi raggiunto il Nirvana, ma come se avessi toccato con mano la bellezza del Tutto di cui tu eri solo una piccola infinitesimale parte. E ti eri sentito ricco come non ti eri mai sentito prima.
E piangesti, per la prima volta di gioia, per questo dono.
Quando ti recasti dalla Somma Pandora, la donna trasalì. Credeva che saresti tornato molto tempo dopo, forse, o forse era passato meno tempo del previsto. E, quando l’informasti della riuscita della missione lei si complimentò con te: «Ben fatto, Cavaliere della Vergine».

Ovviamente i signori dell’Oltretomba mantennero la parola e, presto, appena cercaste di riconquistare altri territori, i mostri infernali e le truppe Oscure giunsero in vostro aiuto. Più rispondendo a te che a Lady Pandora.
Presto avreste liberato il terzo e ultimo Specter. Stando ai vostri rapporti era prigioniero nella Foresta di Ametiste di Megres. Una volta uno dei domini delle ninfe Stigie.
Vi inoltraste in quel territorio e doveste combattere contro il Guerriero Divino. La foresta aveva un che di spettrale. Impressione ancor più accentuata dalla presenza di tutti quei cristalli viola di varia grandezza. “Dunque sono queste le ametiste?” Pensasti.
Ma non facesti in tempo a fare qualcosa che presto dovette ingaggiare battaglia contro il Cavaliere. Stavate per avere la peggio quando «Ora basta così». Comandò una voce femminile e vi ritrovaste immobilizzati. Non da un Cosmo o un incantesimo, bensì dal suo sguardo. Sguardo che percepisti anche tu, pur continuando a tenere gli occhi chiusi. Occhi che dicevano “Non t’immischiare e lasciami fare”.
Bloccasti con una mano il tuo commilitone Specter, il quale si bloccò istantaneamente con un ringhio.
Megres la guardò di traverso con i suoi occhi verdi chiari. «E, tu chi sei?»
«Chi sono non ha alcuna importanza». Dichiarò lei avanzando nella Foresta di Gemme. Novella Persefone o Demetra, senza dubbio, visto che dove metteva piede lei le gemme venivano riassorbite dal terreno o dagli alberi, che tornavano a crescere rigogliosi. Nutriti da suo immenso Cosmo. Benché fossero alberi Inferi.
«Non è il vero Megres? Cosa significa?» Domandò lo Specter che avevi bloccato, stupefatto alzando il braccio. Anche tu eri confuso. Di questo, né Shijima né Buddha non ti aveva parlato. 
«Puoi ingannare tutti gli altri, ma non puoi ingannare me». Decretò la giovane, continuando ad avanzare nonostante le gemme e la cristallizzazione del suo corpo. Il Cavaliere di Asgard rise come un folle. «Sei pazza se credi che una misera mezzosangue possa fermarmi! Don Avido mi ha promesso il controllo di queste terre e la libertà, non potrei chiedere niente di meglio».
La ragazza, “Asia”, si fermò un momento. Prima di riprendere la sua avanzata, la sua crociata contro le gemme: «Io so che non sei Alberich di Megres, so che non sei umano, non serve che ti nasconda, Guardiano della Casa di Plutone». Appena disse queste parole, dalla schiena del Cavaliere di Asgard uscirono un paio di ali candide, fatte di puro spirito, che lo avvolsero in un bozzolo di luce.
Quando il bozzolo si riaprì e le belle piume tornarono dietro la schiena della creatura. Di Megres non c’era più traccia, persino il suo Cosmo era scomparso, anzi, era cambiato. Lo percepivi, diverso e più potente di quello di Asia. Al punto che la sola luce annullò gli effetti del suo, riportando questo posto al suo vero, originario e tetro aspetto.
Al posto del vostro avversario, adesso c’era una donna completamente bianca, dai lunghi capelli candidi che a un tratto si sollevavano, somigliando a piume e ali, il bel volto coperto da una maschera di piume, salvo gli occhi, il naso lungo e un abito candido a maniche lunghe e aderente. Non si capiva dove iniziava il suo abito e dove la sua pelle a causa delle piume e delle decorazioni di platino. Un vago alone luminoso partiva dal centro della sua figura e la rivestiva come se fosse una stella. Anche il suo Cosmo cambiò, adesso era pieno di dolcezza e innocenza, purezza. Una luce paradisiaca, salvifica, quella vera, non quella degli avversari che foste costretti ad affrontare nel corso della vostra vita.  Quello era il vero aspetto del Cavaliere di Asgard?
La donna aprì gli occhi scuri, profondi e caldi. Le belle labbra rosee si aprirono e ne uscì una nota musicale, in realtà un sospiro. Come se avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo della metamorfosi.
Era più bella persino di Atena. Sembrava figlia del Bene e della Pace, come una candida Colomba, pura come la Pace.
Il tono di voce era diverso da quello udito finora. Dolce, materno, soave e indubbiamente femminile. Anche sconvolto. «Come mi hai trovato? Credevo che il mio travestimento fosse perfetto».
«E lo era, se non fosse che il Cavaliere di Odino appartiene al Valhalla, non alla dominazione Olimpica». Sorrise la giovane spadaccina. Voi non ci avevate mai pensato, credevate che tutti i morti riposassero nell’Hades, non solo alcuni. «I morti vanno nell’Oltretomba in cui credono». Spiegò di fronte ai vostri sguardi smarriti.
«E allora cosa ci fanno qui i Celti?» Le domandasti. “Cosa ci faccio qui io? Io sono buddhista!” Pensasti, roso dai dubbi. Davvero era solo per via del Patto tra Atena e Hades? Davvero una volta morto veramente saresti tornato qui?
«Le loro Divinità sono morte ai tempi di Avalon e sono stati accorpati ai morti degli Dèi Greci». Illustrò lei. Chiaro no? No, perché non bastava vedere una giovane umana, una civile capace di sublimare un ghoul e Skeleton fedeli alla Stella del Passato, lo Specter di Atavaka. Non bastava affrontarla e scoprire che fosse una Azona.  
«Chi sei tu, veramente?»
«Sono la figlia del Guardiano della Casa di Marte». Si presentò la ragazza con la tiara sulla fronte.
Tu sgranasti gli occhi, che già avevi aperto. Questo non l’aveva scritto nel suo album.
La donna sgranò gli occhi: «Il Guardiano della Casa di Marte? É vivo? Mio fratello è vivo?» Chiese la Colomba, poggiandole le belle mani curate sulle spalle, affondando le dita nella sua carne. «Sì, il Drago Rosso è vivo. L’ultima volta che l’ho visto era nella Valle dell’Ade, poco prima della Porta degli Inferi. Anche la Gazza Ladra lo è e si sta già recando al Tempio di Saturno». Gazza Ladra? Ne aveva già trovato un altro prima di questo?
«I sigilli si stanno sciogliendo». Mormorò la Dama Bianca, lasciandole andare le braccia.
«Sigilli?» Domandò Camus e le due donne si girarono a guardarvi, senza però proferire verbo.
«Chi siete?» Chiedesti, mentre la tua vecchia avversaria, “Asia” (ti corresse ancora la tua psiche), scendeva i gradini e veniva verso di voi. Era alta quanto te. Sentivi il suo Cosmo Divino e, al tempo stesso diverso da quelli che conoscevate. Un misto tra quello degli Dèi e quello della Guardiana alle sue spalle, che vi osservava preoccupata. «Un’amica, non temete, non sono con voi, ma neppure contro, non m’interessano le vostre beghe». Mai una volta che dicesse la verità.
Tu che avevi letto il suo album, la sua vita, che avevi scoperto la verità su di lei e lei che svicolava le domande. 
«Perché il Pantheon si interessa di queste faccende? E chi sono i Guardiani delle Case degli Astri? Credevamo che fossero quelli che furono sconfitti dai nostri predecessori». Dicesti.
Intanto gli Specter si avvicinarono incuriositi alla Donna in Bianco. Anche tu sentisti il bisogno di avvicinarti a lei. Ti venne istintivo proteggerla, come se lei fosse un fiore delicato, ancora più di Atena e della giovane Dea che avevi affrontato.
La Dama Bianca, tese una mano verso di loro e mormorò con dolcezza: «Non abbiate paura, noi siamo qui per voi». Poi toccò la guancia dello Specter più vicino e questi chiuse gli occhi, trattenendo il suo palmo gentile con la sua mano guantata di nero metallo. Gli altri si affollarono attorno a lei, inginocchiandosi, improvvisamente ammansiti. Compresi i più feroci. Ma ormai avevi imparato che ogni cosa nell’Hades ha un doppio volto, una doppia valenza, quindi era meglio non fidarsi troppo. Eppure la Dama Bianca ti parve sinceramente dispiaciuta, avresti giurato di sentire vero pentimento nella sua voce. Anche un accenno di pianto: «Cosa vi ho fatto, poveri cari, mi dispiace, mi dispiace davvero». Fece la Colomba, sfilando la mano per toccare gli altri.
«Che garanzie abbiamo che tu non stia mentendo?» Domandasti. In fondo, poteva anche darsi che non fosse la vera proprietaria di quel taccuino.
«Pensa quello che ti pare, affrontami se lo desideri, ma sappi che non m’importa niente di quello che pensi di me. Io so cosa sono, cosa faccio e, non è a te che devo rendere conto delle mie azioni».    
Dichiarò, poi si girò verso la Guardiana della Casa di Plutone e la chiamò: «Colomba Astrale».
La donna la guardò come a dire: “Sì?”
La Vergine Disincantata addolcì la sua espressione e consigliò, in tono più gentile e rispettoso, come se ne riconoscesse l’autorità. «Sarà meglio che anche tu faccia ritorno alla tua Casa».
La Colomba Astrale richiuse la bella bocca e arrossì nonostante la maschera. Ma in un modo delicato, il suo rossore aveva la stessa tenerezza di uno sfumato come gli acquerelli che custodivi gelosamente tra il tuo kurta e la tua pelle. «Hai ragione, vado subito. Ci vediamo presto, Figlia del Drago». Disse prendendole le mani tra le sue, ed esibendosi in una parvenza di inchino. La Figlia del Drago emulò il suo gesto.
Poi si allontanò, presto scomparendo alla vostra vista. Come la Dea vestita di verde. Proprio poco prima che arrivassero le schiere Infere con Lady Pandora e Camus.  
Nove Guardiani per Nove pianeti.
Improvvisamente fosti tu a comporre il seguito della poesia.
«Camus». Lo chiamasti.
«Sì?»
«Io devo andare». Lo devo fare per i miei cari.
Il rosso ti guardò stupito e domandò: «Dove?»
«Devo andare con la Figlia del Drago». Rispondesti.
«Perché?»
Per la Giustizia, la Pace sulla Terra, disponesti. «C’è una cosa che devo fare».
E per il Creato che ho giurato di proteggere.  
Sentivi che non potevi restare lì. Che non avresti compiuto il tuo dovere se fossi rimasto.
Ancora una volta il tuo karma ti spingeva ad accompagnare la Dea che avevi giurato di proteggere e sostenere. Unico Gold con un giuramento simile.
Il maestro di Hyoga sgranò i suoi occhi rossi e, ti guardò con preoccupazione: «Ma Shaka, non puoi abbandonare la battaglia per seguirla, abbiamo bisogno di te. Non hai sentito dove sta andando?»
Sono pronta a sacrificare me stessa.
«Lo so, ho sentito, dì alla Somma Pandora che continuerò a lottare, ma lo farò da solo e con i miei ritmi. Non è tradimento, è solo che voglio vederci chiaro e, temo che stavolta non basterà la meditazione. Non temere, alla fine ci riuniremo tutti nello stesso punto». Promettesti sicuro delle tue stesse parole non appena ti uscirono di bocca.
«Sei sicuro?»
«Ne sono certo».
«Lady Pandora non è stupida e noi stiamo già rischiando tantissimo, ci stiamo aprendo la via ai segreti degli Inferi, la Sacerdotessa di Hades non lascerà mai che tu te ne vada, portando con te quei ricordi; lo sai. Manderà sicuramente dei sicari per ucciderti».
«Che mandi chi le pare; tanto non può uccidermi finché il patto di non aggressione si regge in piedi. Sono disposto anche a morire per proteggere il Santuario». Dichiarasti. Questo non era mai cambiato dai tempi di Asgard.
«Il Santuario? Adesso che c’entra?»
«Tutto. Vado, ho già perso anche troppo tempo». Facesti per muoverti ma sentisti la mano di Camus posarsi sulla tua spalla. Ti fermasti a metà di un passo e ti girasti a guardarlo di nuovo (a occhi chiusi, ovvio) «Buona fortuna». Ti augurò. Tu ricambiasti poggiando la mano sullo spallaccio della sua cloth e annuisti: «Anche a te».
Poi vi separaste e tu ti lanciasti sulle orme di Asia.     
So che sono pronta. 
 
Esistono molte forme di amore al mondo. Voi conoscevate quello per la collettività, quello che vi legava alla Vostra Dea. Adesso comprendevi cosa spinse Shijima di Virgo a rischiare la vita per proteggerla.
Lo stesso volevi fare anche tu.
Per questo le urlasti tramite il Cosmo: “Asia!” quando la individuasti scendere dalla montagna attraverso un sentiero, mentre lei scivolava agilmente giù tra le rocce, leggera come il vento. Aggraziata come una lince in caccia. E la lince si fermò, restando in equilibrio su un masso grande sei volte lei. Si volse verso di te.
Questo lo potevi fare, in quanto al resto, il tuo poteva anche essere un amore sacro. Un po’ come quel quadro di cui avevi sempre sentito parlare da Aphrodite.
Unica cosa che non andava contro ciò in cui credevi e predicavi. Ma era difficile.
Il tuo petto non si alzava e si abbassava più affannosamente per la corsa, tu non avevi di questi problemi, ma lei sì. Lo vedevi, appena percettibilmente, ma lo vedevi.
Ed era difficile.     
“Perdonami”. Ti ritrovasti a dire, tu che eri abituato a elevarti sopra i comuni mortali, dimentico troppo spesso dei tuoi, vostri, stessi precetti. Tu che pretendesti che i Bronze Saint si umiliassero al tuo cospetto, prostrandoti e portandoti il rispetto che si confà a una Divinità incarnata. Dimentico tuttavia della tua compassione e del prezzo da pagare per avere un corpo umano. Ossia il non essere riconosciuto in quanto Dio e i dubbi propri dell’ego, una volta libero di fronzoli e di opulenze. Il riscoprire il vero te stesso dietro le illusioni che tu stesso ti eri costruito. Inorgoglito dalla tua stessa forza, avevi dimenticato che anche chi era meno forte di te poteva esserlo. Grazie alla tenacia e all’impegno, niente era impossibile. E, tu, avevi solo fatto la figura del borioso quando avresti dovuto restare puro come il bambino che si avvicinò all’anziana attendente per aiutarla. Come l’uomo che si batteva attivamente contro la legge della maschera delle Sacerdotesse-Guerriero, lamentandosi a più riprese con Arles, ex pontefice, quando non eri a meditare altrove.
Questo era l’uomo incorrotto che dovevi tornare a essere, mio confuso Shaka.  
“Come sai come mi chiamo?”
Una colpa alla volta, adesso qual era la cosa più importante?
Non era solo per quella superba bellezza; per quegli occhi caldi o per le forme, o per gli ormoni. Non era solo per il Cosmo o la sua storia, mondo, galassia, universo a parte rispetto a te, che eri lì.
Non solo per il nome e il continente che per te, indiano - non - indiano, era casa. Nome che associato a lei catturava la tua anima abbracciandola e contenendola. Sicché tu, piccolo umano, pagassi il sacrificio degli Dèi incarnati, ridimensionando il tuo ego per un corpo.
Lei ti guardò in attesa poi un pensiero le sfiorò la mente e la fece trasalire. Non la sentisti, invece la percepisti. “Hai tu il mio album?” Ti rinnovò la domanda, timorosa e speranzosa al tempo stesso.
In quel momento capisti che i tuoi timori erano infondati. E che avevi un nuovo compito da svolgere.
“Rispondimi! Hai tu il mio album?”
E, bastò sentire quelle parole per mandare a farsi benedire il tuo equilibrio interiore e farti pensare persino l’impossibile.
Tre incontri sono sufficienti per innamorarsi.
Strano come tu, in tre incontri ci fossi caduto subito.
Sì, amore. Amor casto, amor sacro, amor cortese, amor senza parole e senza reale possesso. Per voi non era inusuale mostrare affetto in maniera diversa dagli occidentali. Non avevate bisogno di parole, forse potevi persino soprassiedere sulla tua persona, nella tua dottrina della rinuncia. Così facile, adesso che avevi un obiettivo e una risposta al motivo alla tua resurrezione. Un giuramento di fedeltà come voto nuziale. Fedele ad Atena in morte in vita. Una tomba come letto coniugale per la tua lealtà eterna.
Perché l’ho già fatto una volta
Ti tornarono in mente altre parole che avevi letto su quell’album per il quale lei stava cominciando a disperarsi e a risalire il sentiero. E tu, non ti eri neppure accorto di aver aperto gli occhi.
“Ti prego, rispondi!”
La verità è complicata, hai ragione, avresti voluto dirle. Con molte sfaccettature. Chiaro, ma coinciso. E qual era la tua verità, Shaka? Che sfaccettatura stavi guardando in questo momento?
Per quale ragione eri stato resuscitato?
«Ti prego, devo saperlo, se ce l’hai ridammelo!» Esclamò stavolta a voce a due metri da te. 
Che favola stavi vivendo adesso, Shaka? Non sembrava anche a te di essere finito nella Leggenda della Dea Celeste? No. Non era solo quello. Tu non le avevi rubato l’hagoromo mentre si faceva il bagno in una fonte. Eri lì per un’altra ragione. 
Il tuo cuore batté rapidamente quando adesso lei fu a un metro da te.
Il tuo corpo si mosse da solo e la nobile Asia si fermò di colpo.
T’inginocchiasti al suo cospetto, come anni prima in un’altra Sala, a un’altra Dea. Sguardo basso, rispetto, pugno a terra e ginocchio rialzato.
La giovane ti guardò interdetta e confusa dal tuo gesto. Poi, si addolcì, mitigando un po’ la sua espressione per implorarti, ritraendo la mano per portarsela al cuore, stretta in pugno. Un gesto che le sapevi ormai abituale. «Per favore, rispondi». Disse piano.  
E sono pronta a farlo ancora. Come lo eri tu. 
«Io lo so, perché vivo per servirVi e per aiutarVi nella vostra difficile strada, mia Signora». Rispondesti tra il convinto e il cerimonioso, mentre il cuore ti batteva rapido in petto, come se tu stessi correndo e non fossi un Gold Saint. Poi alzasti lo sguardo su di lei, che ti fissava con due occhi grandi così, mentre il vento cominciava a soffiare in queste terre, come se si stessero risvegliando dopo millenni di sonno. Smuovendovi dolcemente le ciocche e i mantelli. «Vi prego, concedetemi il privilegio di venire con voi». “Sicché anche il tuo cuore sia di nuovo assieme a te”. Pensasti senza esternarglielo.
Testimoni di questo rinnovato giuramento furono un aspro paesaggio roccioso, degli Specter in avvicinamento, il cielo coperto di nubi temporalesche e il vento.   

Lancelot
Da quando Astrid era stata designata come attendente della Tredicesima non avevi più avuto occasione di incontrarla. Salvo poche volte, quelle poche in cui sgattaiolava via dalla Casa di Atena o come quando veniva chiamata a risolvere problemi legati alle Creature.
E ora questo.
Ovvio che non avevi scordato quello che era successo. Eri accorso anche tu a salvarla mentre gli altri cercavano di tenere buoni i Marine. Il contributo più grande però lo dovevate al tuo alleato annidato tra le ombre. Se non fosse stato per lui il Santuario sarebbe saltato per aria. Invece i danni erano stati contenuti e, il Cavaliere della Vergine, sotto ordine del Gran Sacerdote, cancellò la memoria di questi probabili alleati con dispiacere (?). Non avresti saputo dirlo neanche tu, dal momento che, ti era sembrato parecchio determinato mentre usava questa capacità e, i Marine e il loro seguito dimenticavano. Beatificati nell’oblio.
L’avevate salvata appena in tempo, anche se non se la cavava malaccio. Per essere una civile, ovviamente. Il vero problema era giustificare l’assenza del Cavaliere di Gemini, ancora rinchiuso nella gabbietta. Prigione che Astrid avrebbe dovuto sciogliere in quanto neanche le armi di Libra sembravano servire a qualcosa. E, da allora non l’avevi davvero più vista.
Peccato però, ti stava davvero simpatica; non solo per i guai che combinava e il potere che albergava in quel corpo che non ti sarebbe dispiaciuto stringere a te. Come facevi con Integra quando sua sorella maggiore non dava di matto.
Se non la guardavi in faccia avresti potuto scambiarla per la tua antica amante. Che, detto tra noi, avevi intrecciato quella relazione soltanto perché la vedevi solo come un’estensione del tuo re. Fosse stata un’altra non ti sarebbe neanche importato. Ma figuriamoci, tu eri leale ad Artù, che si era riunito al resto dei Cavalieri d’Oro di miss Tomoe.  
Peccato che gli altri fossero così prevenuti nei tuoi confronti. Persino il tuo collega, il Cavaliere d’Ariete della tua dimensione ti teneva d’occhio. Neanche tu avessi dovuto farle fare la fine del Senza Volto che affrontò Hyoga a Tokyo tre anni fa. Però niente t’impediva di incrociarla qualche volta al mercato mentre faceva spese. Il fedele Cocteau sempre appollaiato da qualche parte a tenerla d’occhio. Certe volte avresti voluto farlo allo spiedo, l’Oracolo d’Atena.
Ti aggiravi per il mercato masticando una mela che ti eri comprato dal fruttivendolo, certo che tra poco l’avresti incontrata. Infatti eccola lì, alla bancarella del pesce che si faceva consegnare il cartoccio che poi ripose nel cesto della spesa.
Ti avvicinasti e la salutasti, facendole prendere un colpo che per poco non le fece volare via il cesto.
Ridesti: «Sono mesi che ci si conosce e hai ancora paura di me?»
«Lancelot! Se tu continui a comparirmi alle spalle tutte le volte è ovvio che avrò sempre paura di te».
«Veramente non ero alle tue spalle, sono accanto a te».
«Fa lo stesso».
«No che non è lo stesso».
«Sei venuto qui per farmi perdere le staffe?»
«Per quanto io adori sentire i tuoi insulti contro i reali del tuo Paese no». Scherzasti. Non t’importava che gli altri Stati avessero una repubblica o una monarchia. Eri un Cavaliere mica un politico. E, poi alla fine gira e rigira per essere considerati eroi bisognava ammazzare molta gente. Avevi provato a spiegarlo ad Astrid, una volta e lei ti aveva parlato di questo Gandhi che, da solo e, senza neanche l’uso delle armi, era riuscito a liberare l’India dalla supremazia dell’Impero britannico. Tu l’avevi guardata senza neanche capire di cosa o chi stesse parlando. Perciò lei, rassegnata, ti aveva fatto un rapido riassunto della formazione dello stato d’Inghilterra (anche qui, boh? Ma di cosa parlava questa) dall’Impero Romano a ora, passando appunto per l’Impero britannico. Non ricordavi che le donne fossero così dotte. Anche se tua madre Viviana di Avalon, fu una delle più erudite, ti ritrovasti a pensare che Astrid lo era persino più edotta di lei. Non ti piacque molto sentirti fare la lezione di Storia. Se evitasti di urlarle contro per riparare al tuo onore ferito fu solo perché provenivi da una cultura dove le donne governavano e gli uomini erano i loro dux bellorum. Perciò non potesti fare altro che domandarle: «Dove le hai trovate tutte queste informazioni?»  
«Scuola».
«Prego?»
«Sono andata a scuola e ho studiato in questi anni di vita». Spiegò.
«Ah. Insegnano questa roba a scuola?» Domandasti.
«Certo e anche di più».
«Non m’interessa».
«Chissà perché… Temi forse il peso della cultura?» Ti schernì con un sorrisetto. Tu incassasti il colpo con un’altra risata. Ecco perché la ritenevi una persona divertente. Neanche Miss Tomoe riusciva a farti scompisciare dalle risate come lei. Anche se nel Caso della tua Dea non era rispettoso. «Comunque se ti interessa c’è il corso accelerato».
«Ah, sì?»
«Sì, su Google puoi leggerti tutta la Storia che vuoi».
«Interessante, appena trovo questo Google ci faccio un pensierino». Rispondesti. Lei ti guardò un po’ a disagio con un sorrisetto imbarazzato sulle labbra. Ti accigliasti. Che avevi detto di così strano? Non avevi detto una castroneria. Poi cambiasti discorso mentre lei comprava la carne dal macellaio: «Ho sentito quello che hai fatto a Saga una settimana fa». Tu non c’eri perché eri stato momentaneamente richiamato nell’altra dimensione per fare rapporto a Miss Tomoe. Non ti eri preoccupato di lasciar sola Miss Yoshino, dal momento che Mur era con lei. Facevate a turno, una volta al mese andava lui e una te. 
«Davvero?»
«Ecco a lei, signorina». Interruppe il macellaio porgendole il cartoccio. Lei lo mise nel cesto, sorrise, pagò: «Grazie, arrivederci».
«Arrivederci».
«Non pensavo che tu fossi tanto potente da riuscire a tenere testa a Saga. Shura può considerarsi fortunato, non credi? Se non ci fossi stata tu forse non si sarebbe salvato». Avevi percepito anche tu il Cosmo di Shura cambiare in quello demoniaco, prima che Astrid intervenisse. «Ma, sembra che tu non ne sia felice, mi sbaglio?»
Lei ti trapassò con lo sguardo prima di urlarti: «Come faccio a esserlo? Questo posto brulica di pazzi uno dietro l’altro! Questo non è un Tempio, questo è un manicomio! E, quella con la doppia personalità e, quello che manipola e, quello che si crede il Fantasma dell’Opera e, quello che colleziona teste e, l’altro che è autolesionista psicologico e, l’ammorbato di vendetta nei confronti dell’autolesionista che vuole aiutarlo a stare peggio! E, quello che ha la visione distorta della giustizia e, l’ossessionato stalker e il narcisista patentato, gli indemoniati e i non morti, manca solo quello con il complesso di Dio e poi le abbiamo tutte! E, dulcis in fundo, pare che io abbia scritto in fronte psicologo a caratteri cubitali e fosforescenti, Lancelot! Come diavolo faccio a esserne felice?» Non l’avevi mai sentita gridare prima di allora (non così) e strabuzzasti gli occhi. Quell’urlo fece voltare molta gente verso di voi e, tu, ricevesti delle occhiate di rimprovero da più persone. «Calmati, calmati, non volevo offenderti, non pensavo che…»
Lei avanzò di un passo verso di te, inchiodando i suoi minacciosi e ferini occhi dorati nei tuoi, «Che cosa, Lancelot? Cosa?» Sibilò minacciosa. Ecco, se quando urlava ti spaventava, quando sibilava era capace di eccitarti e, al tempo stesso, intimorirti. Neanche la tua ex amante, la cara regina Ginevra riusciva in una simile impresa. Dovesti compiere un piccolo sforzo di volontà per ritrovare la calma e tornare alla realtà. Realtà dove lei sembrava sul punto di sbranarti come una belva assetata di sangue e, tu, facevi la figura del cretino in mezzo alla piazza del mercato. 
«Cosa? Avanti, dillo! Avanti!» Esclamò livida.
«Che ti fosse successo questo». Riuscisti a dire, ricordandoti per un pelo il filo del discorso.
«Ah. Certo. E, io che pensavo che volessi solo sfottere».
Poi riprese a camminare verso l’uscita del mercato. Evidentemente aveva finito di fare gli acquisti. La seguisti e presto l’affiancasti. «Ehi, io non sfotto, non sono mica Death Mask». Le dicesti, perfettamente calmo. Non eri mica il tipo che attaccava briga con una donna.
«Se, se». Ribatté lei, sarcastica. Tu sogghignasti sotto i baffi e non le dicesti più niente, limitandoti a camminare accanto a lei. «Oggi cucini tu?» Le domandasti dopo un po’.
«Lo sai che non posso più, ormai cucino per la Tredicesima».
«Peccato, la tua cucina mi piaceva». Soprattutto da quando ti eri reso conto che le ricette che conosceva lei erano porzioni talmente piccole da tenere a stecchetto. Ora sì che non ti sorprendeva che avesse la corporatura di un uccellino. Con voi era stata costretta ad aumentare le dosi e metterci un po’di grassi in più, perché altrimenti, erano ricette dietetiche quelle che conosceva. Anche se non sempre il risultato estetico era allettante, il salmone con l’avocado ti era rimasto nel cuore.
«Perché, quella di Death no?»
«Non troppo».
«È sempre la stessa cucina».
«Le mani del cuoco sono diverse». Obiettasti.
«Questo non cambia che sia sempre la stessa cucina».
«Trovo comunque sia un peccato».
«Parlane con il Gran Sacerdote».
«Cosa stai cercando?» Le domandasti notando il modo in cui si torturava il labbro inferiore, come se stesse pensando che non avesse ancora trovato il materiale che le serviva. «Un ottico».
«Un ottico?»
«Sai cos’è?»
Ovvio che lo sapevi, in Giappone ti eri informato su quelle farfalle che il tuo re portava in faccia. E la spiegazione ti aveva talmente convinto, che poi tu stesso, anni dopo, cominciasti a indossarli. «Sì, ogni tanto il mio re ci va per farsi visitare, ma perché lo cerchi? Hai problemi alla vista?»
Lei ti guardò: «No, per niente, voglio costruire un telescopio».
«Un telescopio? E che roba è?»
«È uno strumento ottico per osservare le stelle». Spiegò con un’ovvietà e una semplicità tale che quasi ti offendesti. D’accordo che eri un uomo d’azione, ma non eri così scemo. Per questo la fulminasti con lo sguardo. Santo Merlino, mancava poco che ti facesse il disegnino.
«D’accordo, cosa ti serve?»
«Due lenti, un tubo da spedizione, un seghetto da traforo, un taglierino, della colla forte e un trapano». Elencò brevemente.
«Va bene, ti aiuto io.» ti offristi scrollando le spalle.
«Sei sicuro?»
«Certo, so anche dove trovare qualcuno che può darti una mano a costruirlo».

Saga
A svegliarti dal tuo incubo era stato il canto di una voce femminile: «I ain’t scared no more…» La voce aveva continuato per un po’ e, quando raggiunse l’acuto ti perforò i timpani, facendoti aprire gli occhi di scatto gemendo di dolore. In un nanosecondo fosti assalito da una dolorosa fitta alla testa che ti fece gemere un’altra volta.
Ti ritrovasti a fissare i gradini, fosti sbalzato in avanti, ma sbattesti il muso contro le sbarre. Poi, mentre gemevi di dolore, fosti catapultato all’indietro e vedesti il cielo, prima di sbattere la nuca contro le sbarre e rotolare sul fondo. Poi vedesti di nuovo i gradini e di nuovo il cielo, tutto così, mentre la Prima Casa (era la Prima, vero?) si stagliava all’orizzonte. Fatto sta che quella dolorosa altalena e la discesa, ti stavano facendo venire la nausea. E, a parte quella per espellere i boli dal becco, ti domandasti se potevi effettivamente vomitare come un vero essere umano anche in quelle sembianze.
Ti lamentasti.
Che cosa ti era successo? E, soprattutto, come c’eri finito in una gabbia? Realizzasti orripilato guardandoti intorno. Scorgesti la gonna bordata d’oro che si muoveva con le gambe della tua portatrice alla tua destra. Battesti le ali furiosamente, nel tentativo di liberarti. Ma per quanti sforzi facessi non riuscivi a passare attraverso le sbarre e finivi sul fondo della gabbia. Le ali penzoloni nel vuoto.   
Lei smise di cantare per volgere il viso verso di te e salutarti, ironica, senza smettere di agitare la gabbietta: «Oh, buongiorno, dormito bene?» Non ti ci volle la scienza per capire che la bastarda lo stava facendo apposta.
«Cos’è successo? Come sono finito qui dentro? Perché mi fa male la testa? Liberami subito!» Le ordinasti arrabbiato mentre i topolini sul tuo capino riecheggiavano l’ultima parola che avevi detto. Però eri talmente abituato a loro da non sentirli neanche più.
L’isteria non faceva parte della tua persona, ma la rabbia sì, nonostante la tua natura buona e caritatevole. Già avevi i sensi di colpa per gli attacchi del tuo demone, adesso ci si metteva persino lei? No! Ti saresti sentito meno in colpa se avessi potuto muoverti liberamente. Le avresti fatto le tue scuse, cercando di nasconderle il tuo rimorso. Ma così partiva con il piede sbagliato.
«Neanche per sogno». Ribatté lei, acida.
Battesti le palpebre e alzasti il muso cercando il suo, ma riuscisti a vedere solo i capelli biondi e parte della testa.
«Perché mi hai messo in una gabbia? Io non sono un animale!» Protestasti. 
La ragazza si fermò.
Sollevò la gabbietta e, vacillasti per tenerti in equilibrio tra le sbarre. Quando ci riuscisti ti ritrovasti a fissare i suoi adirati occhi gialli.
«Già è vero, in realtà tu sei un uomo; Saga, giusto?» Sibilò e tu trasalisti spalancando gli occhi. Per poco non arretrasti sul fondo della gabbietta che reggeva con tre dita. «Non ci siamo presentati, prima; io sono Astrid, incazzata di conoscerti. Vuoi sapere perché ti ho messo in gabbia? Bene, ti accontento subito: ti sei finto un animale per controllarmi da vicino senza destare sospetti, non ti sei scollato da me per quasi nessun istante, neanche quando mi cambiavo. Poi mi sei comparso davanti, nudo, come il più grande maniaco erotomane dei giardinetti del mondo e, quello che ti viene da chiedermi, è di liberarti? Lo sai che in altre circostanze ti avrei già denunciato per violazione di privacy, di domicilio, per stalking, atti osceni in luogo pubblico, truffa e tentato omicidio? Bello mio, mi sa che non hai capito bene quello che hai fatto e, dopo ciò, col cavolo che te ne puoi stare appollaiato sulla mia spalla…» come se ci fossi mai stato. Avevi sempre evitato di posarti sulla sua spalla proprio per via della tua natura umana. L’immagine era già grottesca al solo pensarci, figuriamoci se l’avessi fatto davvero. Ma Arles l’aveva fatto e di quelle volte tu serbavi ancora il ricordo con vergogna.
Qualcosa ti diceva che non avrebbe gradito se avesse saputo. «O in casa mia!» Concluse fissandoti con astio. Mai come allora quegli occhi ti ricordarono quelli di un gatto: gialli, affascinanti e predatori. Le mancava solo la pupilla verticale e ti saresti sentito davvero come un uccellino spaventato.
Nessuno tranne Arles era mai riuscito a intimorirti, neanche quel pazzo di Death Mask, che a suo tempo lo seguì più che volentieri per la gloria e il potere.  
Bisognava ammettere che la ragazza sapeva davvero come aumentare il tuo senso di colpa.
Quando aprì bocca temesti che stesse per darti l’ennesima stoccata, invece, disse: «Sfortunatamente non posso accusarti di niente di tutto questo perché, primo, siamo al Santuario, secondo, appari come un animale e, terzo, se anche ti denunciassi alla polizia passerei per mentecatta».   
«Per favore, liberami, lo so che non avrei dovuto ingannarti ma non ho...» Cominciasti ma lei t’interruppe. «Avuto scelta? Era un ordine di Kanon, magari?» Indovinò, inarcando un sopracciglio e portandosi l’altra mano al fianco. Come conosceva il nome di tuo fratello gemello? Ricordavi che Shura lo aveva gridato prima che Arles prendesse il sopravvento, ma non che lei lo avesse immagazzinato subito. Neanche lo avevi pensato. Solo adesso ti rendevi conto di averla sottovalutata e di molto. Non avrebbe potuto competere con nessuno di voi dal punto di vista fisico, ma stava dimostrandosi davvero intelligente e sveglia, per essere così fragile. Non sapevi se continuare a essere arrabbiato o se ammirarla.  
Ti appigliasti a una delle sbarre sul fondo con gli artigli e chiudesti gli occhi per fare un bel respiro profondo. Poi, dicesti: «Mi dispiace, ma temevo che non ti saresti fidata di me se avessi cominciato a parlare e ti avessi detto la verità».
«Al limite avrei pensato di essere impazzita, ma poi l’avrei accettato. Anche se a fatica. Non è mica da tutti accettare l’esistenza di animali parlanti così, come se niente fosse. Però avrei gradito molto di più, invece di continuare a pensare che tu fossi davvero un gufo o quello che sei. Ma tu dovresti comprendermi bene, d’altronde l’altra parte di te è un megalomane da strapazzo».
«Megalomane da strapazzo? Eh? Aspetta un momento, tu hai capito...»
Lei t’interruppe di nuovo: «Che soffri di Disturbo Dissociativo dell’Identità? Certo che l’ho capito. A differenza della maggior parte di voi, abituati a pensare che esso sia un demone che ti possiede e commette peccati con il tuo corpo, io ne so qualcosina. Anche se è la prima volta che mi capita di assistere anche a una trasformazione fisica». Commentò poi.
Riprendeste a scendere e, stavolta, però, lei tenne la gabbietta stretta contro il suo addome con entrambe le braccia cingendola alla stregua di un cesto. Alzasti lo sguardo e la guardasti allibito. «Come hai capito? Ero nei ricordi di Death Mask?» Domandasti incredulo. Era difficile spiazzarti, ma questa ragazza ci stava riuscendo alla grande.
«No, finora il massimo che conoscevo lo dovevo a qualche psico thriller visto in Tv in passato o agli Avengers e altri film della Marvel».
«Intendevo...»
«Sì, ho capito cosa intendevi. In realtà quella parte l’avevo rimossa quasi completamente. Non è divertente ricordarmelo ogni volta. Anzi, non vedevo l’ora che cominciasse a sparire. Nei suoi ricordi compari solo nella tua forma umana, dove il megalomane Arles, Aristotele, Arlecchino, come gli gira di farsi chiamare, ha deciso di diventare Ares, il Dio della Battaglia in contrapposizione ad Atena durante la Titanomachia per inseguire il suo sogno di gloria. Non ti dispiace se scoppio a ridere vero? Perché penso che una simile blasfemia non stia né in Cielo né in Terra».
Distogliesti lo sguardo, incapace di sostenere quelle iridi giustamente feroci: «Tu non sai quello che dici, lui è davvero potente, forse sono stato davvero posseduto da un Dio». Ribattesti spaventato, pieno di sensi di colpa e intimorito.
«Se, ma fammi il piacere! Se quello è un Dio io sono Michael Jackson. Siamo seri, dire di voler essere come un Dio e poi convincersi di esserlo davvero, non cambia la propria natura umana. Un essere umano resterà sempre un essere umano, anche se gli tagli una mano o gli cavi un occhio o lo chiami con un altro nome. Tra parentesi, ci guadagnava di più a farsi chiamare Aristotele. Arles, ma che razza di nome è? La versione regale di Arlecchino? Io ci chiamerei il mio gatto, più che una persona. Suvvia, siamo seri. Ad ogni modo no, Death non ha pensato che fosse importante conservare un piccolo particolare come questo». Rispose lanciandoti un’altra occhiataccia fulminante. In quel momento i suoi occhi potevano tranquillamente rivaleggiare con quelli di Aiolia pur non sprigionando scintille di elettricità.
Fece un respiro profondo mentre tu ti domandavi cosa significasse quel discorso. Che avesse parlato con Death Mask? Era possibile, dopotutto sentivi il Cosmo del Cavaliere parecchi metri dietro alle spalle della ragazza. «Che cosa significa?»
«Che le informazioni raccolte spariscono, prima o poi e, no, non riguardano voi. Io non conosco tutti voi ma soltanto Death, quanto vi ci vuole per capirlo? Tutti voialtri sto imparando a conoscervi».
Questa sì che era una rivelazione.
«Quindi quando leggi la mano non entri anche nella mente delle persone che sono legate a quella che stai leggendo?» Domandasti sorpreso.
Sbuffò: «Parla chiaro, sono ancora semi addormentata e non ho ancora fatto colazione».
Ti esprimesti in parole povere: «Quindi tu non hai letto le nostre menti tramite la mano di Death Mask?»
«Certo che no, il mio potere non è sviluppato fino a questo punto, genio, altrimenti mi sarei uccisa da un bel pezzo».
«Non credo di aver afferrato».
Emise un profondo sospiro per l’esasperazione e chiuse gli occhi, portandosi la mano alla radice del naso. Poi disse: «Ascolta, non ho voglia di parlarne, ok?»
Ti appuntasti di scoprirne di più, dal momento che ti avevano raccontato che aveva usato quel talento per infierire su una Saint attaccabrighe e per arrotondare un po’, prima di essere assunta alla Tredicesima. «D’accordo, non te lo chiederò più. Adesso ti sei calmata?» Tentasti, con voce flebile e ancora piena di rimorso.
Riaprì gli occhi e ti fulminò un’altra volta con lo sguardo. «Sì». Sibilò, con voce dura, troppo dura per essersi veramente rabbonita.
Anche se eri relegato in quella forma, capivi anche tu che i tuoi peccati erano imperdonabili. Eppure, avevi bisogno che lei comprendesse quanto ti dispiaceva non essere riuscito a controllarsi. Per fortuna che c’era stato Shura, altrimenti sì che sarebbe stato peggio. Avresti dovuto ringraziarlo per averti fermato. Ma sapevi benissimo che queste scuse e ringraziamenti sarebbero rimasti impigliati nella tua gola, per uscirne mascherati in altre frasi. «Non pensare di cavartela così facilmente». Disse lei a un certo punto. 
«Non sei una persona incline al perdono, vero?»
«Le tue azioni non sono facilmente perdonabili come desideri, mi dispiace». Rispose abbacchiandoti ancor di più. Ma le desti, inevitabilmente, ragione. «Dove stiamo andando?» Le domandasti allora. «Mi porti a liberarmi?» Chiedesti riconoscendo la Prima Casa. Forse Mur avrebbe potuto aprire questa dannatissima gabbietta.
Lei rispose dopo qualche secondo che passasti tenuto sulle spine. «Eh, no».
«No? Come sarebbe a dire no?» Urlasti volgendoti di nuovo verso di lei.
«Calmati e non urlare, che ci sento. Questa non è una gabbia come tutte le altre, Saga, questa gabbia è la tua costellazione solidificata». Ti spiegò mentre entravate nella Prima Casa.
«La mia costellazione? Aspetta, vuoi dire che non è stato Shura a fermarlo?»
Si fermò di nuovo e aggiustò la presa sulla gabbietta prima di rispondere: «Già, che delusione, eh?»
«Come hai fatto?» Domandasti sorpreso con la mente invasa da milioni di domande. Tu, il Saint più potente al servizio di Atena, un Cavaliere d’Oro addestrato, padrone del Settimo e dell’Ottavo Senso, forse anche del Nono e di un Cosmo Doppio, che veniva sopraffatto da un’ancella del Grande Tempio, anzi no, da un’Incantatrice priva della stoffa del guerriero e dell’addestramento necessario per tenerti testa? Non sapevi se sentirti in imbarazzo o se ringraziarla. Bè, dopotutto ne andava del tuo orgoglio maschile. Ma anche questa era una stupidaggine: quante volte l’avevi messo da parte per implorare l’aiuto della divina Atena sia in battaglia che anche contro quella bestia che albergava dentro il tuo essere? Allora cos’era quella sensazione che provavi? In ogni caso era meglio così, nessuno si era fatto male. Non sopportavi di avere altri innocenti sulla coscienza.  
«Hai presente il mio potere? Bene, quando “il potente Arles” o Ares, come gli gira di farsi chiamare, ha preso il sopravvento e ha tentato di ucciderci, ho collegato le stelle della tua costellazione, quello che dimenticate sempre è che le costellazioni sono raggruppamenti apparenti di stelle, ergo, possono cambiare forma e dimensione nel corso del tempo. Ti chiederai cosa c’entri, ebbene, io, tramite i collegamenti che ho creato, sono riuscita a impacchettarti e impedirti di bruciare il tuo immenso Cosmo Doppio. Quando sei tornato gufo la gabbia si è adattata alla tua forma».
«Oh». Aveva manifestato un nuovo potere proprio per salvare Shura. «Shura sta bene?» Domandasti poi, in apprensione per il compagno. Ricordavi che ti eri dovuto trasformare per affrontarlo quando il demone della sua costellazione aveva preso il sopravvento.
«Non preoccuparti per lui, sta benone, Shun è un ottimo medico e Shura si riprenderà completamente in una quindicina di giorni».
«Perché mi fa male la testa?» Chiedesti quando fosti colto dall’ennesima fitta.
«Per tramortirti ho usato una padella. Meno male che sono riuscita a calibrare bene il colpo, se no a quest’ora saresti all’altro mondo con il cranio sfondato, invece che ancora vivo e in una gabbia».   
«Era la prima volta che tramortivi qualcuno?»
«Sì».
Ti era andata davvero bene.
«Quando mi libererai?» Chiedesti poi.
«Appena capirò come riportare la tua costellazione alla normalità».
«E, quanto ci vorrà?»
«Buongiorno, Kiki». Salutò invece di risponderti.
Ti girasti e ti sporgesti oltre le sue braccia per guardare il giovane Cavaliere della Prima Casa venirvi incontro.
«Saga! Allora è vero che ti sei svegliato. Astrid, stai bene?» Vi accolse preoccupato, poi, sollevato, tornò a rivolgersi a te: «Sono contento di vedere che sei sveglio, ci hai fatto preoccupare».
«Sì, sto bene, Kiki, mi fa male un po’ la testa». Ribattesti tu, mentre la giovane vi guardava.
Il lemuriano spalancò gli occhi viola, indicandoti. «Quella è…»
«La gabbia fatta con la costellazione dei Gemelli e, ehm, Saga?» Disse di nuovo, cercando di indovinare il tuo nome. «Sì». Confermasti. Se avessi potuto sbuffare lo avresti fatto. Tu, che di solito neanche ti sognavi di sbuffare. Neanche pensavi di poterlo fare in questa forma. 
«Avete già fatto colazione?» Chiese l’allievo di Mur, ma rivolgendosi di nuovo ad Astrid e tu strabuzzasti gli occhi. Che, ci stava provando? Adesso? Se avessi potuto sgranare gli occhi come quando eri umano l’avresti fatto. Non pensavi che potesse essere così intraprendente nonostante il carattere flemmatico. Neanche Mur lo era mai stato, a suo tempo. Anzi, non ricordavi proprio di averlo mai visto provarci con un essere umano o vivente in generale. Neanche con un sasso, ora che ci pensavi. Ma neanche che scegliesse un momento così pessimo per flirtare.  
«Sì, da Death».
«Oh, peccato e tu, Saga?»
«Io non ho fame». Sentivi che avresti potuto rimettere se avessi inghiottito qualcosa. Ti agitasti per riportare l’attenzione di Astrid su di te. Non volevi fare da terzo incomodo. La giovane parve trovare il coraggio per declinare l’invito: «Non fa niente, dai, sarà per la prossima volta, posso passare? Devo scendere a Rodorio».
«Certo, ma perché ti porti dietro Saga?» Chiese accompagnandovi lungo il corridoio di passaggio.
«Perché voglio provare ad aiutarlo io». Dichiarò e tu la guardasti stupefatto. Avevi sentito male?
«Aiutarlo tu? E, come?» Chiese stupito e interessato il Custode del Tempio del Montone Bianco.
Lei sorrise: «Te lo dico quando torno, adesso è tardi e ci aspettano». Promise.
«Va bene, allora a dopo Astrid. Saga».
«Kiki». Salutasti.

Astrid uscì dalla Prima Casa e, mentre camminavate, le domandasti, incuriosito: «Davvero hai intenzione di aiutarmi?»
«Certo».
«Come? Dimmelo, ti prego». Chiedesti incuriosito e pieno di speranza e gratitudine. 
«Visto che gli esorcismi sono andati a vuoto, proviamo con la terapia».
«Terapia?» Ti saresti aspettato una terapia d’urto come minimo. Ma lei non aggiunse mai queste due parole. Adesso non avevi la più pallida idea di cosa stesse parlando: «Sì, terapia. Che tu ci creda o no, conosco un paio di persone che sarebbero felici di aiutarti».
«Un caso come il mio? Aspetta, mi porti dallo psicologo?» Tentasti d’indovinare. Anche se vivevate al Santuario non eravate così fuori dal mondo come la maggior parte delle persone tendeva a pensare. Solo che gli psicologi soggiornavano ad Atene e lei non aveva il permesso di lasciare il Santuario.
«Precisamente». E, tu che pensavi che ti avrebbe portato da chissà quale santone all’interno del Santuario.
«Ma al Grande Tempio non ci sono psicologi». Obiettasti confuso.
«Forse quando eri tu il Gran Sacerdote no, ma adesso sì. Ti ricordi l’amico di Galan? Quello che mi sta aiutando a gestire le mie crisi e i vari traumi? Bene, ha un collega arrivato da Atene da poche settimane; si occupa di casi come il tuo e che sarebbe felicissimo di aiutarti. L’avresti mai detto che Rodorio avrebbe fatto la fortuna degli psicologi? Io no, ma forse ce lo saremmo dovuti aspettare. Non preoccuparti per i soldi, ne ho parlato con Aiolia e gli altri, scendendo. Ci ho messo un po’per convincere i più ostinati, ma hanno detto che mi aiuteranno tutti a sostenere le tue spese mediche. Con tuo fratello, Hyoga e Aphrodite ci parlerà Shura quando si sveglierà. Hai capito i Gold? Dovresti essere felice di avere dei compagni come loro. Non preoccuparti per l’orario, Galan ieri sera è sceso a Rodorio apposta per avvisarlo quando gli ho raccontato la mia idea».
«Io non pensavo che…» Balbettasti sorpreso, mentre la commozione s’impadroniva di te. Finalmente Atena aveva deciso di esaudire le tue preghiere. Avevi implorato tante volte che ti salvasse e adesso eri stato ascoltato. Se avessi avuto ancora un corpo umano avresti pianto e ringraziato la Dea ai piedi della sua statua.
La voce di Astrid interruppe le tue elucubrazioni: «Che così tante persone si sarebbero mobilitate per aiutarti? Saga, dovresti smettere di concentrarti solo sulla pericolosità insita in te stesso e, rimorsi vari e chiedere aiuto un po’più spesso».
«L’ho fatto, io… non hai idea di quante volte io l’abbia fatto». Rispondesti sigillando quegli occhi che non avrebbero mai più versato lacrime finché fossi rimasto un animale. Solo gli esseri umani piangono, nessun altro essere vivente può. “E, non hai idea di quante volte la mia richiesta non sia stata compresa, di quante volte abbia lottato per cercare di liberarmene e non ci sia riuscito. Allora ho cercato di fermarlo. Pensavo che la morte avrebbe potuto darmi sollievo e invece no. Sono stato resuscitato tre volte e tutte e tre quella bestia era sempre con me”.
«Forse l’hai chiesto alle persone sbagliate e non ti sei saputo esprimere bene, dopotutto quanti anni avevi quando la malattia si è manifestata per la prima volta? Dodici? Tredici?». Domandò lei con delicatezza, mentre scendeva l’ultimo gradino ed entravate in paese. Sembrava sinceramente interessata e preoccupata.
«Quindici».
«Praticamente un ragazzino». Commentò con lo stesso tono compassionevole e delicato. Sì e, come un ragazzino, ti eri espresso e non eri stato ascoltato. Come se non bastasse eri pure stato maledetto da Chronos, condannato a essere schifato ed evitato da tutti. Tu che pure eri molto rispettato e amato.
«Su, adesso andiamo a mangiare qualcosa e poi andiamo dallo psicologo». Disse tanto per cambiare discorso. Poi ti domandò: «Cosa vuoi mangiare?»
«Non avevi detto che avevi fatto colazione da Death?»
«Ho mentito, in realtà abbiamo quasi litigato».
«Quasi?» Trattandosi di quel provocatore di Death Mask era un record.
Lei fece spallucce: «Bè, il nostro è un rapporto turbolento, con i suoi alti e i suoi bassi. Forse sono una delle poche persone con cui ha un rapporto affettivo sano. Diciamo che non gli ho ancora perdonato di avermi tenuto nascosto la tua vera identità. Lo so che era un periodo non proprio felice, che era sempre via e che non ci parlavamo spesso, ma avrebbe dovuto dirmelo. La sua scusa? Pensavo che lo sapessi. Mica posso ricordarmi sempre tutto, dannazione! Sono un essere umano anch’io». Sbottò ed emise un verso stizzito, che presto si tramutò in uno rassegnato: «Va bè, ormai è andata così. Vuoi qualcosa da mangiare anche tu o pensi di non averne bisogno?» Ti chiese mentre vi avviavate a una locanda con i tavoli apparecchiati fuori della porta.
«Mi offri da mangiare?» Domandasti come se non avessi capito bene.
Lei fece spallucce. «Perché, dovrei forse lasciarti a stecchetto?»
«No, ma…»
«Che c’è? Qualche problema?» Ti chiese guardandoti. Ricambiasti il suo sguardo senza riuscire a spiccicare parola alcuna mentre le persone che vi passavano accanto gettavano un’occhiata alla gabbietta.
Alcuni bambini insistettero per vederti e Astrid li accontentò. E, ti ritrovasti a guardare quelle facce adoranti e a sopportare quelle vocine che raggiungevano picchi che le tue corde vocali avrebbero potuto sognare. Che grande umiliazione. Tu che da Papa eri stato circondato dai bambini adoranti e avevi elargito benedizioni e carezze, adesso ti ritrovavi in una gabbia, sottoforma di civetta e mancava poco che ti accarezzassero loro. Grazie ad Atena gli uccelli rapaci non esternavano l’affetto come i gatti, perché non eri bravo a fingere. Cercasti di tenere il becco il più serrato possibile. Soprattutto quando un bambino si rivolse alla ragazza dicendogli: «É bello, dove l’hai trovato?»
Astrid rispose, alzando la gabbia: «Questo non è mio, è di un mio amico che mi ha chiesto di portarlo dal veterinario per il suo controllo di routine perché oggi lui non può.» la frecciatina la sentisti più acuta che mai. Se avessi potuto fulminarla con lo sguardo lo avresti fatto. Di solito eri un tipo paziente, ma qui si esagerava. 
Una bambina senza incisivi domandò, sputacchiando: «Ma è domestico?»,
«Adesso credo proprio di sì».
Girasti il capo e fulminasti Astrid con un’occhiataccia.
Adesso ti stavi veramente alterando. Solo la Dea sapeva perché diavolo non avevi ancora aperto becco e cominciato a sgridarla.
«Non sembra molto felice.» commentò un bambino, in pena per te.
«Eh, no, il veterinario non piace a nessuno, poi mi sa che non gli piaccio molto». Confermò la bionda.
«Possiamo toccarlo?» Chiese un altro bambino, incuriosito e bramoso di accarezzarti. Tu lo guardasti inorridito. 
«No, se apro la gabbia vola via».
Invece, un’altra ancora, saltellante come un grillo, cercò di farsi largo tra i compagni domandando a raffica: «Come si chiama? È un maschio o una femmina? Se è una femmina fa i gufettini?» alché tu ti ritrovasti a pensare, “Civetta! Sono una civetta!” Pensasti, per poi darti dell’imbecille da solo, “Ma che civetta e civetta! Io sono un essere umano!”
Astrid, ignara di tutto, rispose, paziente, sempre sorridendo: «Si chiama Cocteau ed è un maschio, non fa i gufettini e non credo che sia alla ricerca di una compagna. Mi dispiace». 
«Io ho un gufo reale, dici che se li facciamo conoscere diventano amici?»
“Ci mancherebbe solo questa!” Pensasti mentre il tuo umore sprofondava sotto le zampe.
Un bimbo di otto anni tirò la manica della giacca della madre e, indicandoti disse la frase che avevi temuto di udire quel giorno, più di tutte: «Mamma, me lo compri?»
Volgesti il capo verso Astrid, la quale scoppiò in una risata benevola, divertita da quella domanda. «No, piccini, non è in vendita, mi dispiace».
«Su, bambini, andate a scuola, si è fatto tardi». Disse la donna correndo in vostro soccorso, poi si scusò con Astrid per l’impiccio. «Si figuri, non hanno fatto niente di male». Lei sorrise, rinfrancata e seguì i bambini.
L’ancella riportò la gabbia sull’addome e ti guardò: «Tutto bene?»
«Sì». Dicesti. Per un momento avevi avuto seriamente paura che ti vendesse a quelli lì.
«Scusa se ti ho fatto passare per un animale. Non potevo certo dire la verità, non a dei bambini».
«Non ho detto niente». Se avessi potuto volare via l’avresti già fatto da un pezzo.
La sua voce ti giunse calda e dolce come una carezza: «Ma l’ho sentito lo stesso. Su, dai, non arrabbiarti, sono solo dei bambini, lo sai come sono fatti. Per farmi perdonare ti offro da mangiare tutto quello che vuoi. Ti va?» Offrì, cercando di placarti.
Riprese a camminare.
«La fai facile tu, non posso neanche entrare in un bar o in un posto qualsiasi, moltissimi sono vietati agli animali, anche se io sono un uomo». Ti lamentasti imbronciato. Normalmente non avresti mai detto niente, ma lei, per quanto fosse brava a farsi detestare, ti faceva venire voglia di vuotare il sacco. Perché il tuo becco si apriva da solo e diceva tutto? Ma chi era questa ragazza per farti confessare così? Era lei a farti quest’effetto o eri tu che avevi bisogno di parlare con qualcuno che ti capisse davvero? Dopotutto lei era stata la prima a capire cosa avevi veramente. Che, inconsciamente ti fidassi già di lei?
Lei si morse il labbro e ti guardò impietosita, prima di dire: «Bè, non c’è problema, ci sistemeremo in un posto con i tavoli all’aperto. Abbiamo solo un problema». Fece una pausa, mordendosi il labbro, imbarazzata. “E, ora che c’è?” Pensasti sull’orlo dell’esasperazione. «Non so cosa mangiano i gufi».
«Meno male che lo so io». Rispondesti in tono stanco.  

Kanon
Eri stato uno sciocco. Avresti dovuto immaginarlo che nella rinascita, anche la parte oscura di Saga sarebbe tornata a nuova vita. Ma come era successo? Seiya diceva di averla vista abbandonarlo. A meno che, quello spettro che l’abbandonò non fosse veramente la sua parte oscura e neanche la maledizione che gli lanciasti, bensì la creatura che lo pilotò, forse uno dei figli di Eris. Se non sbagliavi, anche sfogliando i documenti degli anni della sua reggenza, nell’ultimo anno, quando cominciò a manifestarsi la vera Atena e cercò di riprendersi il trono, Eris stava già cercando di impossessarsi del Santuario. Se fosse rimasta una Dryad dentro di lui fino alla battaglia delle Dodici Case? Era possibile, anche se non era bene fidarsi di uno che tuo fratello aveva pestato a sangue e che, in quel momento, era più morto che vivo.
Un istante, la fugace visione di un istante.
Mayura del Pavone, Juan di Scutum, Georg di Southern Cross e le Saintia avevano combattuto direttamente con Eris e i suoi Dryad, i Phantom di Ares. Sapevano come ragionavano. Avresti potuto chiedere anche a Milo di Scorpio e a Mur di Aries, che, ai tempi le combatterono al fianco delle ancelle della Dea.   
Finché era rimasto sottoforma animale non c’erano stati problemi di nessuna sorta. Anche quando l’avevi aiutato inviandogli la sua cloth due anni fa, ti eri accorto di niente. E, adesso tu, ben tre dei tuoi Cavalieri e la vostra ospite, avevano rischiato di rimetterci la pelle a causa della tua disattenzione. Avevi commesso un errore madornale nei confronti del tuo caro fratello maggiore.
Avevi avvertito la perturbazione nei Cosmi la sera prima ed eri accorso più rapidamente che avevi potuto, ma quando eri giunto sul posto non avevi trovato nessuno e non avevi potuto fare niente. A un tratto avevi sentito un’interferenza nel Cosmo di tuo fratello, poi un picco di inusitata potenza, considerando il vostro Cosmo doppio e, infine, più niente.
Avevi temuto che Shura fosse riuscito a ucciderlo. E, avevi pianto, oh, se avevi pianto. Saga era la tua famiglia, l’unico che ti restava e, ancora una volta, non avevi fatto altro che dimostrarti un pessimo fratello minore. Avevi urlato il suo nome e le montagne ti avevano restituito l’eco della tua voce. Qualche ora dopo, quando eri riuscito a ritrovare un po’di contegno e il gelo serale aveva cominciato a farsi sentire su di te, ti eri fatto forza e avevi cominciato la tua lenta discesa. «Non può essere morto, non può essere morto» continuavi a ripeterti come se fosse un mantra. Una parte di te ci credeva davvero, ma se stavi ai fatti, allora il dolore che provavi, diventava ancora più insostenibile. Dicono che tra gemelli ci sia un rapporto speciale, quasi simbiotico, ma nel vostro caso, ormai era così allentato che l’unica cosa che potevate dire che vi accomunava era solo l’aspetto. Forse nemmeno più quello. Però, anche se eravate come due fratelli normali, non significava che non gli volevi meno bene. E, che, ancora una volta, ti ritrovavi a pensare a quanto avessi sbagliato tutto con lui, accecato dall’invidia, dalla gelosia e dalla sete di potere. Che stupido ragazzino che eri stato, avresti dovuto aiutarlo, invece di maledirlo. Perché era stata tutta colpa tua, quella storia era tutta colpa tua. Se non lo avessi maledetto forse quel demone, Dio, qualunque cosa fosse, non si sarebbe mai insediato nell’anima di tuo fratello maggiore e avreste potuto passare le vostre vite insieme come avevate fatto fino a che non ti aveva rinchiuso a Capo Sounion. Avresti voluto chiedergli scusa già durante la Guerra contro Hades, però non eri riuscito neanche a guardarlo in faccia. Forse era stata soltanto la presenza dei tuoi compagni e della tua Dea a impedirti di piangere. Ma adesso, lì con te non c’era nessuno. Non era più necessaria quella freddezza che, oltre a isolarti dagli altri, ti aveva portato a contenerti per tutto questo tempo.
«Oh, Atena, fa che sia salvo, fa che non sia morto, fa che stia bene». Gemesti, pulendoti il viso sporco con il dorso della mano meglio che potesti, mentre ti aggrappavi alle rocce umide per aiutarti nella discesa, graffiandoti la pelle. Ma il dolore provocato dal quelle ferite non rappresentava nemmeno un balsamo per quello nel tuo cuore. Ogni luogo al Grande Tempio ti ricordava lui. Persino i sentieri segreti che stavi percorrendo per tornare alla Tredicesima Casa. Era stato lui a insegnarti questi percorsi e tutto quello che sapevi. Lui, per permettere a te una vita più normale della sua. Però non eri ancora pronto per accettare la sua dipartita e di essere tornato solo. Ciò che avevi temuto più di ogni altra cosa era avvenuta.
Perciò, eri stato molto sorpreso e sconvolto quando i soldati semplici ti avevano rintracciato che scendevi dalle alture e ti avevano raccontato del ritorno di Shura e Astrid al Santuario, adesso alla Sesta che si stavano facendo medicare dal Cavaliere di Virgo in seguito alle ferite riportate. Alla fine i tuoi sospetti sull’intrusione di un nemico entro i confini si erano rivelati veritieri. «Siete riusciti a catturarlo?» Avevi domandato, ben conscio che neanche un miracolo avrebbe potuto mascherare i tuoi reali sentimenti.
«No, signore, ma è ferito, i miei uomini e alcuni Cavalieri d’Argento sono sulle sue tracce, lo prenderemo in queste ore. Vi manderò un paggio appena avrò notizie più esaustive». Promise il soldato.
«Bene, altro?»
«Sì, pare che il cavaliere di Capricorn e un’ancella del Santuario abbiano salvato la vita dell’Oracolo di Atena». Salvato la vita? Ma allora… Saga! Una luce di speranza si accese dentro di te. Lo guardasti ad occhi sgranati mentre la speranza montava impetuosa dentro di te, accompagnata da un sottofondo di terrore. Lo avevi afferrato repentinamente per le spalle e avevi detto, spaventandolo non poco: «L’oracolo d’Atena? Come?» In quel momento non t’importava di mostrarti debole, al diavolo la debolezza. Era tuo fratello e avevi rischiato di perderlo di nuovo, dannazione!
«Pare che il nemico abbia tentato di prenderlo in ostaggio ma che i due siano riusciti a trarlo in salvo».
«Dov’è, adesso? Dov’è?»
«Alla Decima Casa, mio signore». Ti raccontò il soldato.
A quella notizia la speranza si era trasformata in un’ondata di gioia, potente e luminosa come il sole la cui luce spazzava via le tenebre. Il tuo primo impulso fu quello di scaraventarlo di lato e correre da lui. Volevi vedere tuo fratello, però i sensi di colpa si frapposero tra te e questo impulso come un muro e restasti inchiodato sul posto. Già, tu e tuo fratello non potevate sopportarvi più di tanto. C’era ancora quella voragine tra voi che non eravate riusciti a risanare. “Ah, già”, pensasti deluso.
Perciò ti costringesti a lasciar andare le spalle del soldato, ringraziarlo e congedarlo.
L’uomo s’inginocchiò, si rialzò e obbedì.
Lo seguisti con lo sguardo finché non scomparve alla vista. Dopodiché chiudesti la porta della camera da letto, solo per riaprirla subito dopo e uscire, così com’eri, per recarti alla statua di Atena e inginocchiarti lì. Non ti importava dello scompiglio generale che causasti tra le guardie. Non t’importava del tuo ruolo di Gran Sacerdote e dell’etichetta, tantomeno della figura che ci facevi. In quel momento tu non eri più il Gran Sacerdote, né un Cavaliere d’Oro, eri solo un uomo. Un uomo la cui Dea aveva esaudito il suo desiderio più grande. E, la dovevi ringraziare.
Arrivasti alla statua della Dea e lì ti gettasti in ginocchio. «Oh, Atena», dicesti, guardando l’imponente statua mentre fiumi di lacrime solcavano di nuovo le tue guance, offuscandoti la vista. Poi sigillasti gli occhi, trattenendo un gemito di pianto: «Grazie, mia Dea, grazie, grazie!» Esclamasti poggiando la fronte al suolo. E, lì, ricominciasti a piangere, stavolta di gioia. E, le offristi le tue lacrime proprio come offerta votiva e ringraziamento. Perché offerta più sincera di quella non potevi fargliela. Ringraziasti il tuo segretario e facesti il tuo ingresso nella sala del trono deserta. Non solo perché eri abituato a svegliarti presto, ma perché la maggior parte delle volte quella sala era proprio così. Di norma ti saresti recato nel tuo studio privato (debitamente ricostruito e affrescato a tempo di record dai celeri operai mandati dalla Dea. All’inizio ti eri pure meravigliato della loro velocità; te li ricordavi anche più lenti) ma quella mattina dovevi prima di tutto occuparti della questione che più ti premeva: Saga.

Avevi finito la colazione nei tuoi appartamenti privati e ora ti stavi preparando per affrontare la giornata. I servi avrebbero provveduto a pulire non appena avresti lasciato le tue stanze. Non amavi che ti ronzassero in giro e ti aiutassero a vestirti quando potevi benissimo pensarci da solo. Era un’abitudine che ti era rimasta da prima della tua investitura a Gran Sacerdote.
La notizia della sconfitta di Arles stava per spargersi a macchia d’olio per il Santuario. Però potevate ancora fare qualcosa per rimediare.
Ti guardasti allo specchio mentre ti vestivi. Il volto fresco di rasatura e i capelli che avevi pettinato a dovere, purtroppo servivano a poco per attenuare il gonfiore dei tuoi occhi arrossati. Fortuna che avresti indossato la maschera sacerdotale, altrimenti non sapevi proprio come avresti fatto a giustificare il tuo aspetto quella mattina.
«Grazie, Atena, grazie». Non avresti mai cessato di ringraziarla. Poi voltasti le spalle allo specchio e, dopo aver indossato le collane, uscisti. Le guardie si inchinarono in rispettoso silenzio al tuo passaggio.
Il tuo segretario ti attendeva qualche corridoio più in là per illustrarti i doveri di quella giornata.
Doveri che ascoltasti con un orecchio solo. La tua mente ripercorreva i fatti della sera prima. Mandasti a chiamare Shura di Capricorn da un paggio. «E, riferiscigli che voglio vedere anche l’Oracolo di Atena».
Il Cavaliere d’Oro arrivò dopo mezz’ora e s’inchinò ai piedi della pedana. Il viso rivolto a terra in segno di rispetto e sottomissione. «Santità». Ti salutò formalmente.
«Avevo richiesto anche la presenza di Cocteau». Dicesti tu, perplesso. Di solito Shura non trasgrediva mai un ordine, perché adesso sì? Eppure, lui era uno dei Cavalieri più fedeli al Santuario. Ogni ordine era legge per lui.
«Mi rincresce molto portarvi questa notizia, ma quando mi sono svegliato stamani mattina, non era più nella Decima con me. Astrid lo ha portato con sé a Rodorio». Rispose il corvino.
«Astrid? Cosa c’entra la signorina Astrid?» Domandasti in tono gelido e sospettoso, artigliando i braccioli del trono con le dita, come se così facendo avresti potuto impedire a te stesso di balzare in piedi. Eppure le tue gambe sembravano non rispondere all’impulso scatenato dai tuoi sentimenti. «Perché avrebbe dovuto portarlo con sé a Rodorio?» Saresti stato dieci volte più lieto di poterlo almeno vedere, non di apprendere una notizia simile.
«Perché dice che forse lei sa come aiutarlo. Mi ha lasciato un biglietto stamani che ora giro a voi di modo che possiate valutare la sua proposta». Disse sfilandosi dal bracciale sinistro della Gold Cloth una lettera piegata in due.
Gli facesti cenno di alzarsi e portartela, pensando: “Un’ancella del Grande Tempio che ci fa una proposta?” Mentre nella tua mente cominciavi a valutare le opzioni con cui rispondere alla fantomatica proposta che stavi per accingerti a leggere. “Quale audacia!” Già ti era parso che quella ragazza avesse fegato, ma ora che ne avesse così tanto non ti era parso. Forse avresti fatto meglio a tenerla d’occhio ancor più strettamente di quello che facevi invece di lasciarla libera di scorrazzare per le Dodici Case. Forse necessitavi di una nuova segretaria.
Ti meravigliasti della sua scrittura in greco. Anche se ortograficamente parlando c’erano un po’di errori e qualche strafalcione lessicale, comprendesti il messaggio e restasti di stucco.

Già dai ricordi di Death avevo capito che il problema di Saga era grave, ma fino a ieri sera non avevo compreso quanto potesse effettivamente esserlo.
Voi siete abituati a pensare che sia un demone maligno o un Dio che lo possiede appropriandosi del suo lato oscuro ma non è così: Saga è affetto da una malattia mentale, il Disturbo dissociativo d’identità, altrimenti detto disturbo di doppia personalità, che non ha niente a che vedere con la sua costellazione d’appartenenza o con le divinità. Per farvi un esempio pensate a lui come al Dottor Jeckyll e Mr. Hide, oppure a Bruce Banner e Hulk.

Non è una cosa da prendere sottogamba, come credo che finora sia stata presa. Non sparisce così con un abbraccio o delle belle parole o una stretta di mano o una medaglia al valore. O, con un esorcismo. Se fosse stato aiutato nel modo giusto non avrei percepito il dolore del vostro compagno e sentito la sua richiesta d’aiuto. Per questo voglio aiutarlo io. Un collega del mio psicologo si è trasferito da poco da Atene e ha aperto uno studio proprio qui, nel Santuario. Purtroppo però la parcella è salata e il mio salario non è sufficiente per coprirne le spese. Per questo chiedo a voi Cavalieri di organizzare una colletta per pagare la terapia. So che non dovrei essere io a dirvelo e, neanche a scriverlo, ma non conosco altro modo per chiedervelo. Né, abbastanza bene la lingua greca per spiegarvi meglio la mia idea.
Pertanto mi appello alla vostra coscienza e al vostro onore di Cavalieri.
Intanto io stessa mi metterò in moto da stamattina cercando di sottoporre questa proposta anche agli altri Gold presenti nel Tempio. Forse più siamo e più riusciremo a coprire meglio le spese mediche.
Per quanti rancori possano intercorrere tra di voi, non penso proprio che lo lascerete in balia della malattia, ora che sapete di cosa si tratta. Se avete a cuore la sua salute allora sono sicura che questa richiesta non cadrà nel vuoto.
  
 
«Perciò questa è la proposta della signorina av Stjernene». Commentasti sforzandoti di usare le parole che più si confacevano al tuo rango, dopotutto stavi argomentando in veste di Papa, non di Kanon, anche se, ti accorgesti, non ti stava riuscendo tanto bene. E, di certo, il custode della Decima non ti aiutava: infatti, stava aspettando pazientemente che tu continuassi.
Cercasti di sforzarti di passare per il solito freddo commilitone ma non ci riuscisti. “Astrid, la tua ingenuità mi fa ridere. Non lo sai che questo è il destino dei Cavalieri dei Gemelli? Almeno uno dei due è sempre posseduto da questo demone. Questa è la nostra maledizione da sempre e non c’è modo di spezzarla”. Pensasti rassegnato e, al tempo stesso pieno di compassione per la tua giovane attendente.
Nel frattempo lo spagnolo, tornò nella posizione originale. Forse si accorse dei tuoi pensieri perché alzò la testa per guardarti stupito, o, almeno, così doveva essere, peccato che la sua espressione truce e seria la fece passare per tutt’altro. Chinò di nuovo il capo. Se non lo comandavi tu, nessun Cavaliere aveva il diritto di guardarti in viso. «Così Astrid frequenta uno psicologo? Da quanto?» Domandasti incuriosito. A dirla tutta non sapevi neanche che adesso ce ne fossero almeno due al Santuario. Non ti ricordavi che ci fossero, quando eri più giovane. 
«Non mi è dato di saperlo, signore».
«Bè, non importa».
A quel punto, il Cavaliere prese parola: «Non dovete temere per la salute di Saga di Gemini, mio signore. Egli sta bene, è stato visitato dal Cavaliere di Virgo appena ci hanno soccorso. Ha riportato soltanto un bernoccolo dovuto all’utensile che abbiamo usato per tramortirlo. Per quanto riguarda l’intenzione della signorina av Stjernene, credo che non abbiamo nulla di cui preoccuparci. È in buone mani». Se non l’avessi conosciuto bene, avresti detto che stesse cercando di rasserenarti. Come si permetteva?
Poi ripensasti alle sue parole. Dunque era così che erano riusciti a fermarlo. Conoscendo tuo fratello non doveva essere stato facile. Dopotutto lui era il Saint più forte al servizio di Atena. Se non avessi letto la lettera e conosciuto la serietà del tuo interlocutore avresti giurato che ti stesse prendendo per i fondelli. «Credi? Io temo di più per lei che per lui». Confessasti con aria stanca e preoccupata. Anche perché quella ragazza dagli occhi gialli era un’ospite, non era un’ancella a tutti gli effetti.  E poi, anche se Saga era ridotto male, restava lo stesso un Cavaliere addestrato, mentre l’ancella di combattimenti non ne sapeva niente, in confronto a voi. Inoltre, se quello che era scritto nella lettera era vero, tuo fratello non si sarebbe lasciato convincere così facilmente.
Autorizzasti il tuo sottoposto a parlare, perché lo vedevi che aveva qualcos’altro da dire. «Non c’è nulla da temere, la signorina è riuscita rinchiudere Saga in una gabbia sfruttando il suo potere».
«Cioè? Che vorresti dire?»
«Ieri sera, durante lo scontro, ha manifestato due nuove tecniche legate alle stelle: con la prima è riuscita a risvegliarmi dal mio demone, con la seconda ha creato una gabbia che ha annullato tutti i movimenti e il Cosmo doppio di vostro fratello usando la costellazione di Gemini». Spiegò lo spagnolo «Saga è ancora dentro la gabbia, sebbene abbia riacquistato le sue sembianze animali».
Completò dopo una pausa, come se fosse deciso se continuare o no.
«E, questa gabbia, si può spezzare?» Domandasti dopo un po’.
«No, sono le stelle delimitanti il Cosmo dei Gemelli che hanno preso forma solida, soltanto Astrid la può spezzare senza procurare danni a Saga. Il problema è che al momento non ha ancora idea di come fare e non si è ancora ripresa completamente dall’attacco». Doveva averci pensato molto per dirti queste parole. «Ma abbastanza da prendere in mano il controllo della situazione». Commentasti. «Tu hai già letto questo biglietto?»
«Sono stato il primo a leggerlo». Confermò.
«Cosa ne pensi?»
«Non la trovo una pessima idea, credo che dovremmo almeno rifletterci su». Suggerì con delicatezza.
«Adesso dov’è?» Chiedesti riferendoti ad Astrid.
«A Rodorio, volete che la raggiunga?»
«No, per ora non c’è bisogno, grazie, Cavaliere di Capricorn. Siete congedato». “Mi hai dato parecchie questioni su cui riflettere”.
«Sua Santità». Dopo di ciò si alzò e se ne andò.

   
 
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