Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: wanderingheath    11/11/2018    1 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 4.

Safe Places



 

«I know you claim that you’re alright
but fix your eyes on me,
I guess I’m all you have
and I swear you’ll see the dawn again.

Well, I know I had it all on the line
But don’t just sit with folded hands
and become blind.
 ‘Cause even when there is no star in sight,
 you’ll always be my only guiding light.»

 
 
 
 
9:41 a.m. – Lowhood

 
 

«Ma’, aspettami.»
Sua madre aveva preferito raggiungere il centro di Lowhood a piedi. Sosteneva che gli autobus puzzassero di chiuso e non poteva farcela a passare un’ora imbottigliata nel traffico del sabato mattina con l’aria stantia compressa tra i finestrini. Avrebbe finito per soffocare.
Abituata a vederla reclusa in casa, Melanie aveva dimenticato quanto la madre camminasse spedita. Adesso che la inseguiva fra strade, stradine e vicoletti, le restava tenere il passo. 
Finalmente riuscì a raggiungerla. Sophie Prescott si era bloccata davanti ad un negozio d’abbigliamento che in vetrina esponeva una nuova collezione per l’autunno-inverno. I modelli, realizzati rigorosamente a mano dai fratelli Vondrasek, erano alcuni dei più pregiati a Norwall. Nessuna marca poteva competere con la loro e se i proprietari non avevano ancora trasferito l’attività dalla periferia ad uno dei quartieri rinomati del centro città, si doveva esclusivamente alla devozione verso il suburbio in cui avevano iniziato.
Gli ormai anziani Vondrasek erano attaccati anima e corpo a Lowhood; né Rudy né Magnus avevano dimenticato gli albori dell’esercizio, quando le loro creazioni venivano sprezzate da chi aveva il portafogli gonfio e gli unici fedeli acquirenti abitavano nella zona. Era stato proprio grazie a quella piccola cerchia di clienti, residenti nelle vie parallele, se il negozio aveva potuto decollare.
Melanie si irrigidì, scrutando con diffidenza i vestiti da sera con spacco laterale.
«Non vorrai davvero entrare qui dentro?»
La madre aveva già posato la mano sul pomello della porta.
«Perché no?», replicò stupita.
«Mamma…»
Cercava le parole giuste, la fila di lettere corrette per evitare di ferirla in qualche modo. Infine, si decise a dirle la verità, seppure una parziale. «Non mi sembra una buona idea.»
L’altra le rispose con un occhiolino, socchiudendo la porta in un tintinnio di campanelli.
La ragazza sbuffò, seguendola suo malgrado. «Ah, fa come ti pare.»
All’interno si respirava un’atmosfera d’incanto. Le lampade pendenti dal soffitto restituivano una luce bruciata al negozio, regalando l’impressione di trovarsi in una gemma d’ambra.
Il suono costante di una macchina da cucire era un morbido tappeto in sottofondo.
In un attimo il proprietario si materializzò dietro il bancone, un elegante completo a righe indosso e una nuvola di capelli bianchissimi attorno al volto incavato.
«Buongiorno. Come posso esservi d’aiuto?»
Sophie Prescott si guardava attorno come se fosse appena atterrata nel Paese dei Balocchi. Le brillavano gli occhi, avidi di contemplare tutti i modelli esistenti, di risucchiare il profumo di lacca.
«Vorremmo un vestito da sera, qualcosa di elegante adatto per una festa.»
Quando tornò a rivolgersi al sarto, di fronte ad un prolungato silenzio, corrucciò appena la fronte.
Magnus Vondrasek appariva in evidente imbarazzo ora.
«Qualcosa non va?»
L’uomo si agitò sul posto, stropicciando i palmi delle mani, come un ragazzino colto impreparato all’interrogazione. I suoi sessantasette anni si dissolsero in un minuto.
«Ecco…siamo in chiusura», sibilò infine.
«Ma come? Avete appena aperto.»
L’altro annuì piano, prendendo a trafficare con il registratore di cassa. Di sabato mattina facevano un orario ridotto, così sosteneva tra un colpetto di tosse e l’altro. Avrebbero dovuto cambiare il cartello, mettere un avviso o qualcosa di simile; si trattava di un cambiamento recente.
«Oh, capisco…»
Sophie Prescott non riuscì a nascondere la propria delusione: tutto quel viaggio a vuoto. Non si fece tuttavia scoraggiare nel proprio intento: sarebbero ripassate lunedì o martedì mattina. Stava spiegando al signor Magnus quanto tenesse a comprare un vestito di qualità eccelsa per un evento così speciale: un party al Galaxy Hotel non capitava tutti i giorni, dopotutto.
Il proprietario dal canto proprio annuiva, ma con un sorriso di circostanza a tirargli i lineamenti decadenti.
«Temo che sarà impossibile acquistarlo qui, madame. Lunedì e martedì non saremo operanti.»
Melanie lanciò un’occhiata in tralice prima a sua madre, poi al negoziante.
Sapeva che la conversazione avrebbe preso quella piega; era proprio ciò che voleva evitare.
«Non importa,» s’intromise d’impulso, «ci arrangeremo in un altro modo. Grazie per l’attenzione e…»
Aveva già afferrato la madre per la manica del cappotto, tirandola verso l’uscita, quando la signora Prescott le oppose resistenza. Dio, perché doveva essere così cocciuta?
«Mamma, lascia stare.»
«Ma no!», protestò l’altra. «Allora possiamo ordinarlo? Le lascio un anticipo, se desidera.»
A quel punto, la figura rinsecchita di Rusty Vondrasek fece capolino dalla stanza attigua, le mani piantate sui fianchi esili. Doveva essere il maggiore tra i due, considerato come prese in mano la situazione all’istante.
«Cosa sta succedendo?»
Il fratello gli indirizzò un’occhiata d’intesa. «La signora qui…vorrebbe una commissione.»
Furono sufficienti due secondi di esaminazione attraverso le lenti a mezzaluna perché Rusty si convincesse a declinare l’offerta senza la melliflua gentilezza del suo socio.
Si limitò ad osservare che: «I nostri prezzi sono molto elevati.»
«Lo so, lo sappiamo», concordò Sophie. «Non sarà un problema. Voglio che mia figlia faccia un figurone.»
Magnus balbettò qualcosa su come fossero già stracarichi di lavoro e non potessero accettare altre commissioni almeno per una settimana. L’età e la scelta di mantenere un personale limitato li costringeva a restringere il numero di ordini.
«In tal caso,» proseguì Sophie Prescott con determinazione, «ci faccia vedere qualcosa che è in negozio.»
La tensione nell’aria, carica come una lampadina al massimo voltaggio, minacciava di esplodere da un momento all’altro, senza che la cliente si rendesse conto di nulla. Melanie rifletteva su quanto il comportamento dei due fratelli fosse rivoltante. Non era necessaria tutta quell’umiliazione.
E ciò che la feriva maggiormente era il sincero entusiasmo di sua madre, ancora intenta a trascinarsi di attrazione in attrazione nel luna-park della vita mondana. Viveva in una campana di vetro.
«Signora,» tagliò corto Rusty senza mezzi termini, «non le venderemo un bel niente.»
L’affermazione destabilizzò completamente l’aria serena di Sophie Prescott.
Sulle labbra arricciate a formare un cerchietto quasi comico, morirono le parole.
«Vede, noi abbiamo un pubblico di un certo calibro oramai e dobbiamo premurarci di mantenerlo. Cosa direbbero le mie clienti, se sapessero che Sophie Prescott acquista i nostri prodotti? Sarebbe tragico per gli affari.»
Spiegava concetti paradossali con una scioltezza disarmante, come un insegnante al tramonto della propria carriera che tramandi i segreti della disciplina ai suoi allievi. Era un anziano quasi affettuoso e bonario nello sbattere fuori madre e figlia. Magnus intanto se ne stava rannicchiato dietro il bancone, appollaiato sullo sgabello, a contare delle banconote con meticolosa attenzione: avrebbe contato perfino i granelli di polvere della stanza, pur di evitare lo sguardo mortificato della signora Prescott.
«Lei capisce, non è vero?», terminò Rusty.
Melanie afferrò di nuovo sua madre per un braccio; stavolta non incontrò resistenza alcuna.
«Certo,» commentò amareggiata, «se li tenga pure, i suoi vestiti di merda. Tanto non li vuole nessuno.»
Mezz’ora più tardi scivolavano tra i passanti, confondendosi con la folla mattutina diretta al mercato alimentare di Lowhood. Stavano attraversando il cavalcavia per rincasare, quando Melanie si accorse che la madre non era più al suo fianco.
Aveva camminato con il capo chino, strascicando i piedi sull’asfalto, per tutto il tempo, procedendo solo su insistenza della figlia che la sospingeva con una delicatezza decisa.
Adesso però si era arrestata in mezzo al marasma di passanti e ragazzini urlanti.
«Ma’?»
Non le dava alcun segno di risposta.
La ragazza tornò indietro, facendosi largo a spallate.
«Mamma, che stai facendo?»
Si era appoggiata alla ringhiera che cingeva il ponte pedonale, lo sguardo perso nel vuoto, le dita tamburellavano sul metallo in una melodia sconosciuta. Sotto il sole, i riflessi caramellati dei capelli risaltavano ancora di più, semplice accessorio che Melanie non aveva ricevuto in eredità.
Dopo un silenzio interminabile in cui la ragazza temette di perdere qualunque appiglio sull’animo materno, Sophie Prescott parlò con voce limpida e serena. «Ti ricordi quella volta in cui siamo andate a fare shopping insieme? Quando ci siamo beccate Dio sa solo quanta acqua.»
Il nodo allo stomaco si sciolse.
Melanie riprodusse la sua posa, annuendo piano. Alle loro spalle il flusso continuava indisturbato.
«Ti avevo comprato quel vestitino per Carnevale – cos’era? La Bella Addormentata? – con la coroncina e tutto il resto.» Un sospiro. Sophie abbassò le palpebre. «Non volevo passassi come stracciona agli occhi dei tuoi amichetti.»
Se lo ricordava bene quel pomeriggio. Doveva avere avuto poco più di sette anni; minacciava pioggia da giorni, ma sua madre si era intestardita e avrebbe sfidato perfino il bollettino meteo pur di trovare un costume adatto per lei. Nessuna proposta dei commercianti andava bene, tentativo dopo tentativo erano infine giunte ad un compromesso su un completo di un violetto sgargiante, residuo dell’ultimo film su Barbie uscito nelle sale.
Il diluvio si era riversato sulle loro teste non appena avevano messo piede fuori dal negozio.
Melanie poteva ancora sentire lo scroscio di grandine che le infradiciava la mantellina, mentre correva insieme alla madre verso l’automobile, unico riparo contro la bolla d’acqua.
Richiuse le portiere, entrambe erano scoppiate a ridere.
E avevano trascorso la serata così, con i tergicristalli a pulire uno spicchio di vetro, il calore dell’abitacolo, un paio di ciambelle acquistate al bar di fronte, Don’t Stop Believin’ alla radio. Sua mamma adorava i Journey e il volume era stato sparato al massimo appena riconosciuta la canzone.
Era il ricordo più bello che conservasse, di loro due insieme che cantavano a squarciagola: «People living just to find emotion, hiding somewhere in the night.»
Si chiedeva dove fosse finita tutta quell’energia, se magari era possibile – anche solo per un secondo – riportare il presente a quello stato primordiale di serenità e spensieratezza. A giudicare dalle rughe d’espressione che incidevano il volto della madre, la risposta era negativa. Ne avevano passate troppe, per poter dimenticare.
«Sono svanita, Mel. E questo non me lo perdonerò mai.»
Melanie prese un respiro profondo, riempiendo i polmoni alla massima capienza, pensando che ci voleva coraggio, che essere gentili richiedeva uno sforzo esorbitante. Incastrò il proprio braccio sotto quello di Sophie Prescott, poggiandole il capo su una spalla. Subito, sua madre si strinse a lei, cercando supporto.
«Non è giusto che tu paghi per i miei errori», mormorò.
«Ho solo ricevuto un’eredità più consistente di altre», replicò Melanie con una risatina soffocata.
In un gesto del tutto innocente, Sophie le scostò alcune ciocche di capelli dal viso.
«Ti prometto che piano piano rimetterò tutto a posto, Mel.»
Quanto avrebbe desiderato crederle.
Si era lanciata nella proclamazione delle prossime mosse che avrebbero “aggiustato tutto”, secondo le sue considerazioni, a partire dal trovare un lavoro stabile, occuparsi dell’arredamento della casa,  rimettersi al volante, imbiancare la facciata che cadeva a pezzi, rinnovare il guardaroba di tutti, compreso quello della zia Lydia.
«A proposito,» esclamò con enfasi, «per favore non riferirle quello che è successo stamattina.»
«Tranquilla, mamma, non le dirò nulla.»
Quello che la zia Lydia attendeva era conferma del buco nell’acqua che avrebbero fatto: da quando le aveva raccontato dell’invito alla festa dei Butler, la sua prima occupazione era stata disegnare un modello che lei stessa avrebbe cucito in pochi giorni. Se era stata salvata da abiti con merletti e sbuffi, lo doveva all’eccitamento di sua madre, tutta soddisfatta di potersi dimostrare utile.
«Finirà che ti realizzerà lei qualcosa.»
«No, mai», Melanie scosse la testa, «piuttosto mi presento con il pigiama, la tuta o che so io.»
Sua madre ridacchiò, cristallina, limpida, spensierata.
Le lasciò un bacio sulla fronte, tenendola sempre a braccetto.
«Dai, andiamo a prenderci una brioche.»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
Daphne spalancò la finestra e cacciò fuori il capo, guardando in alto.
L’opzione di arrampicarsi non la convinceva affatto, ma non sarebbe stata la prima volta e come sempre si trattava di una questione di ordine superiore. Si chiedeva solo perché suo fratello non potesse scegliere un luogo meno rischioso in cui rifugiarsi. D’altra parte, non poteva dargli torto: da lì non si udivano le urla del pianterreno.
«Lo stiamo facendo?»
Daphne sospirò, piantando una scarpa sul davanzale, affatto convinta.
«Devo rispettare i miei doveri di sorella maggiore», disse più a se stessa che all’amico. «No?»
Logan si strinse nelle spalle, bofonchiando qualcosa su come avrebbe volentieri lasciato suo fratello a marcire sul tetto, se solo si fosse azzardato ad arrampicarvisi. Le tese una mano per sorreggerla mentre  si issava sulla superficie di marmo. «Speriamo che tenga, Dee-Dee
Lei si voltò di scatto, piccata. «Cosa vuoi insinuare?»
«Che non sei esattamente una piuma», ridacchiò lui.
«Vaffanculo, Logan.»
Ormai era in ballo e avrebbe completato la sua missione da agente 007.
Sollevatasi sulle punte, afferrò saldamente con entrambe le mani il tubo della grondaia, ricercando il solito appoggio nella sporgenza della finestra accanto alla propria. Ringraziò il cielo che si trovassero al primo piano.
«I tuoi lo sanno che vi improvvisate Tarzan nel tempo libero?»
Daphne fece forza sulle braccia e sollevò il proprio corpo, per poi abbandonarsi sul tetto sgraziatamente, il viso schiacciato contro le tegole e le gambe a croce.
Logan la raggiunse pochi secondi più tardi, rialzandosi subito in piedi.
«Dovresti fare un po’ più di attività fisica.»
«Vuoi morire, Logan?»
L’altro mostrò entrambi i palmi delle mani in segno di resa. La aiutò a rialzarsi a propria volta.
Isaac li stava osservando accanto all’apertura del camino, perplesso.
A fatica riuscirono a piazzarsi accanto a lui, circondandolo su entrambi i lati. Al ragazzo non sarebbe comunque passato per la testa di scappare. In quei momenti voleva isolarsi dal resto dell’universo, ma l’idea di rimanere completamente solo con i propri pensieri, con tutto quel casino che gli affollava la testa – quel groviglio nero di scarabocchi – lo terrorizzava.
«Che ci fate qui?»
«Veniamo in tuo soccorso.»
Daphne l’aveva detto con una voce contraffatta, accompagnando il tutto con un gesto buffo delle braccia, ma si trattava proprio di quello: aveva scoperchiato la realtà e sotto non c’era altro che un vuoto vertiginoso. Rischiavano di perdercisi, di finirci dentro entrambi, ciascuno a modo proprio, ma proprio perché si rendevano conto della gravità di quel pericolo, improvvisavano delle missioni impossibili di intervento: perché nessuno scivolasse nel baratro.
Fu lo sguardo da cane bastonato del fratello a convincerla ad abbandonare quella pantomima. In un tono più vero, quasi sussurrato, gli domandò come stesse.
Isaac abbracciò con maggiore forza le ginocchia, tirandole al petto come a volerle riassorbire nello scheletro.
«Così», bisbigliò senza emozione.
Un rumore ovattato, come di stoviglie che andavano in frantumi, li toccò.
Si era sbagliata: arrivavano anche lì.
Nessuno dei tre aveva il coraggio di spiccicare parola. Guardavano in direzioni opposte, si raccoglievano in capsule di pensieri opposti, ciascuno solo nella propria solitudine, ingombrante in quella degli altri.
Infine, fu Logan a spezzare il silenzio.
«Hey, sapete che hanno vinto i Red Lions?»
In qualunque altra occasione, Daphne l’avrebbe fulminato sul posto.
A nessuno dei tre importava davvero del baseball, né tantomeno dei tornei minori che vedevano sfidarsi squadre amatoriali provenienti dai diversi quartieri di Norwall. Era inutile perfino seguirlo, quello sport, in città: tanto lo sapevano tutti che avrebbero trionfato i Violet Runners, di Ginger Blooms, come al solito.
Quella volta però, fu un galleggiante a cui aggrapparsi.
«Davvero?»
Isaac sollevò il capo. «Non ci avrei scommesso nemmeno un soldo.»
L’altro confermò la versione, mostrando ai due Bennett la notizia sul proprio cellulare. La partita si era conclusa poche ore prima e purtroppo si sarebbero persi anche la semifinale, che era prevista per la settimana seguente. «Coincide con il compleanno di Cindy Butler,» commentò Logan, «mio padre mi ha praticamente obbligato ad accettare.»
«Che bello», ironizzò Isaac ridacchiando. «Non vorrei essere nei vostri panni.»
«Puoi sempre assistere tu, alla semifinale. O magari ce la registri.»
Il ragazzo scosse la testa. Doveva lavorare, il prossimo weekend.
Purtroppo, i genitori si erano messi in testa che era una specie di genio e dall’estate scorsa avevano decantato il suo talento a conoscenti ed amici. Dopo aver dato ripetizioni di matematica ad un ragazzino delle elementari, si era apparentemente sparsa la voce e adesso era stato richiesto da una collega di sua madre, per la figlia quattordicenne che si spaccava la testa sui libri.
«Inizio lunedì», terminò. «Devo andare fino allo Zenzer Bazaar.»
Daphne scattò sull’attenti. «Cosa? Ma è dove sta il Black Market!»
Suo fratello si limitò a scrollare le spalle. C’era già stato un paio di volte, al Black Market, senza mai attraversarlo. Se doveva essere sincero, l’idea di potersi addentrare in una delle zone più pericolose e malfamate della città, lo eccitava terribilmente.
«Sì,» minimizzò, «c’è anche il Black Market. L’appartamento però è in una parallela, quindi no problem.»
L’altra però non appariva persuasa. «Mamma e papà cosa ne dicono?»
Isaac sorrise. Un sorriso serafico e al tempo stesso velato di malinconia.
«Cosa vuoi che dicano? Mi sembrano abbastanza impegnati a pensare ad altro.»
Come a sottolineare il concetto, un insulto poco elegante si levò dalla finestra della cucina, ottenendo in risposta l’abbaiata di un cane in fondo alla strada. Iniziava a fare buio.
Daphne non poté fare a meno di pensare che, se Alyssa fosse venuta a conoscenza di come passava i suoi sabato sera, l’avrebbe trovato desolante. Lei che era impegnata in chissà quale uscita fra ragazze con le sue adorabili amiche, probabilmente avrebbe rinnegato Daphne e la sua intera famiglia.
«Ordiniamo una pizza?», propose Logan.
«Possiamo portarla qui?»
Daphne incrociò lo sguardo di suo fratello. L’immagine di quello stesso ragazzino scosso dai singulti, tremolante e incapace di prendere aria, la trafisse all’istante. Quante volte aveva assistito ad una scena simile? Non sapeva mai quando il prossimo attacco si sarebbe presentato, ma le sembrava che Isaac fosse sempre sull’orlo di una crisi.
Cenare sul tetto non avrebbe fatto male a nessuno e i suoi genitori non se ne sarebbero neppure accorti.
«D’accordo. Vado a chiamare», concesse alzandosi.
«Vengo con te.»
Logan si era a propria volta messo in piedi. In un attimo erano atterrati di nuovo sul pavimento della camera di Daphne. Nella penombra della sera, le fotografie di famiglia, incorniciate sulla scrivania, mandavano riflessi quasi diabolici.
La ragazza indugiò al centro della stanza, strusciando le scarpe da ginnastica sul tappeto. Avrebbe dovuto scendere in salotto e sentire che pizza volessero i suoi? Respinse il pensiero di intromettersi nella lite.
«Logan,» bisbigliò voltandosi verso di lui, «mi dispiace.»
Lui abbozzò un sorrisetto incerto. «Per cosa?»
«Beh, che tu debba assistere a tutto questo casino. Non si vergognano nemmeno di fare figuracce davanti ad estranei. È terrificante e capisco perfino Isaac, quando perde il controllo.»
Il ragazzo le posò le mani sulle spalle, stringendogliele appena. «Non è colpa tua.»
«Lo so,» sospirò lei, «è quello che ripeto sempre ad Isaac. Ma è difficile crederci, quando è qualcun altro a dirtelo.»
Prima, queste cose non era costretta ad affrontarle da sola. Poteva parlarne liberamente, aprire lo strappo e mostrare tutta la carne maciullata che pulsava sotto, senza paura di vergognarsene. Ma era cambiato tutto. 
Un'altra sfilza di pensieri le attraversò la mente, ma non diede loro spazio o voce. Si trattava di un treno di passaggio, su cui erano state stipate memorie che preferiva seppellire. Non era quello il momento per la notte dei morti viventi del suo passato.
«Daphne.»
Sollevò il mento, ripulendo qualche fronda di inquietudine.
«Non è colpa tua.»
Glielo ripeté, stavolta con maggiore decisione, sperando di incidere il rivestimento dei suoi dubbi.
«E non devi vergognartene. Anche la mia famiglia è un casino, fidati.»
Lei incurvò le labbra, scettica al riguardo. Conosceva entrambi i signori Woods e il fratello minore, Ryan, che aveva la stessa età di Isaac: sembravano appena usciti da qualche spot pubblicitario.
«E io non sono un estraneo, comunque», aggiunse risentito.
L’altra si sciolse dalla presa, ridacchiando. Logan capì al volo di non aver ottenuto niente.
Riusciva a leggere Daphne con estrema facilità, ma solo superficialmente. A volte, gli pareva di conoscerla a memoria, a menadito, ma in altre occasioni lei gli sbatteva la porta in faccia e risultava indecifrabile. Detestava il modo in cui per lei era naturale metterlo a proprio agio o capirlo, mentre a lui serviva uno sforzo titanico per trovare anche solo uno dei tasselli, figuriamoci per farne combaciare due o tre.
E detestava anche il modo in cui lei non glielo permetteva; non gli permetteva di entrare, di recuperare qualche indizio o di vedere l’intero puzzle.
«Okay, chiamo la pizzeria.»
Al contrario, gli voltava le spalle, proprio come stava facendo in quel momento.
«Tu che cosa prendi?»
 
 
*   *   *
 
 
 
Il lunedì mattina si era aperto con una lezione di letteratura piuttosto lenta.
L’insegnante, certo Professor Ranster, si occupava di un po’ tutto, fuorché la letteratura.
Era al tempo stesso un filosofo, un cinefilo, un amante della fotografia e dell’alta cucina, ma oltre a dispensare notizie sui prelibati piatti serviti all’epoca di Henry James – per poi divagare e passare ai migliori vini di cui si dichiarava raffinato intenditore – non accennava minimamente alla storia letteraria o al panorama culturale degli autori. Lasciava che la campanella lo cogliesse sempre di sorpresa, spezzando a metà un discorso sulle pellicole polacche degli anni sessanta o un dipinto orientale trafugato e perduto.
Quella mattina, ebbe una rivelazione: assegnare dei compiti.
«Ah, ragazzi! Voglio un elaborato su Henry James per giovedì. Chiaro?»
Nessuna spiegazione, nessun avvertimento, nessuna delucidazione.
James raccolse la cartella, trascinandola accanto alla gamba come un peso morto.
«Che palle. Ci mancava solo questo.»
Logan sghignazzò, approvando in pieno. Probabilmente avrebbero cercato qualche informazione su Internet e tanti saluti. Ranster non li avrebbe neppure letti, quegli elaborati.
«Meritereste di essere beccati», osservò Alyssa sorpassandoli nei corridoi.
James tirò un sorriso di circostanza, salutandola con la mano prima di accartocciare la mano a pugno e farne spuntare fuori un dito medio. «Come se lei facesse diversamente.»
«Lei se li fa scrivere da Daphne», commentò Jason.
Arrivati ai rispettivi armadietti, i ragazzi presero ad armeggiare con i lucchetti. Quello di Travor era rimasto bloccato, casualità particolarmente divertente agli occhi degli altri.
«A proposito,» Jason ancora cavalcava l’idea di poco prima, «Logan, non puoi chiedere a Daphne di scriverne un paio in più anche per noi?»
L’altro si esibì in una smorfia mortificata. «Jason, non mi sembra carino sfruttare così gli amici.»
«Hey, ma anche tu la sfrutti!», protestò quello. «L’ultimo tema non era decisamente opera tua.»
«Per lui è diverso,» spiegò Travor ironico, «trattamento speciale da migliore amico – o qualcosa del genere.»
Logan provò a protestare, ma infine si arrese all’evidenza: ogni tanto gli capitava di chiedere a Daphne qualche favore in ambito scolastico, soprattutto se in campo letterario, ma sfruttarla era un termine eccessivo. Favori. Sì, favori gli piaceva di più come definizione.
James, che intanto stava controllando l’aula per l’ora successiva, colpì l’armadietto con il capo.
«Fisica. Perché diamine abbiamo scelto Fisica? A me fa proprio schifo Fisica.»
Il corso, tenuto quell’anno da un supplente, veniva proposto come alternativa all’insegnamento della Chimica. All’inizio era sembrata un’ottima idea quella di saltare le lezioni di Reed con i suoi calcoli allucinanti e gli elementi che non entravano in testa a nessuno dei due, ma ora sia Logan che James si videro costretti a rimodulare le aspettative.
Accomodatisi in fondo all’aula, scrutavano con diffidenza le pareti tappezzate da grafici e progetti realizzati da studenti degli anni precedenti. Le formule intricate spaventavano entrambi.
Mr Jeggins contava un numero poco nutrito di iscritti, ma non ne sembrava turbato, potendo in tal modo tenere l’attenzione dei presenti alta – spesso attraverso richiami, domande e correzioni.
Quel giorno era entrato in classe con un’aria elettrizzata e trafficava con delle scartoffie adagiate sulla cattedra. Anziché spingersi verso la lavagna e dare inizio alla lezione, si prese del tempo per far entrare una ragazza, che timidamente avanzava verso di lui al centro della stanza.
Era una sedicenne dall’aspetto alternativo, con i capelli scuri tagliati corti a caschetto, un paio di anfibi ai piedi in cui aveva infilato delle calze sottili ed un semplice giacchetto di jeans a coprire la maglietta petrolio.
A Logan ricordava una delle tante ragazzine hipster che giravano nei corridoi – specialmente del secondo anno – con il suo zainetto verde oliva e una cascata di braccialetti da bohémienne che grondava dai polsi.
«Ragazzi, lei è Frances Hurst. Si è appena trasferita nel nostro istituto, quindi mi aspetto da parte vostra un comportamento caloroso ed accogliente nei suoi confronti. Ciò significa,» proseguì rivolgendosi direttamente alla nuova arrivata, «che se hai bisogno di qualunque cosa, Frances, puoi chiedere senza timore. Sono certo che ci sarà qualcuno disposto a darti una mano con la Fisica.»
Logan si voltò verso il proprio amico, cercando in lui una reazione. James però appariva trasfigurato.
«Oh, tutto bene Jay?»
L’altro non lo ascoltava, non lo vedeva, non si accorgeva neppure della sua presenza. Raccolto in flashbacks che lo riportavano alcuni mesi indietro, davanti a sé scorgeva solamente una spiaggia al tramonto, il cielo tinteggiato di viola ed arancio, un paio di drink fruttati e la discoteca in riva al mare strabordante di gente, impregnata dall’odore di erba.
James si riebbe d’improvviso, aspirando aria come riprendendosi da un incubo.
«Jay, sicuro di stare bene?»
Tornò ad osservare Logan, stralunato. «Amico, io la conosco.»
«Cosa? Com’è possibile?»    
Gli occhi chiari della nuova allieva si spostarono tutt’intorno, posandosi di tanto in tanto sui banchi lucidi, sui volti di sconosciuti o sugli zaini abbandonati a terra. Aveva uno sguardo ipnotico e una bellezza unica nel suo genere.
«Ti senti di aggiungere qualcosa, Frances?»
«No, professore. Credo che abbia già detto tutto Lei.»
 
 
 
*   *   *



Stava uscendo dalla lezione di Storia, quando decise di appoggiarsi in biblioteca per qualche ora.
Anziché attendere gli allenamenti come al suo solito raggomitolata nel cortile scolastico, decise di provare a recuperare un paio di materie di cui aveva accumulato arretrati.
Non studiava: eccola la verità.
Si ritagliava scuse che le permettessero di evadere dalla prigionia di numeri o nozioni che defluivano nel suo cervello senza stazionarvi per molto tempo. Non odiava l’apprendimento di per sé, a volte la aiutava a staccare la spina e togliere corrente al flusso di pensieri che la angustiava. Altre volte però, lo trovava di una noia mortale e allora preferiva rinchiudersi nel paradiso della musica, dove si sentiva a proprio agio tra cantautori e band del passato che considerava dei veri amici.
In una fase adolescenziale di euforia, aveva perfino acquistato qualche magliettone con nomi o simboli dei suoi idoli; di certo non avevano contribuito a migliorare la reputazione di pazza che le era stata cucita addosso. Adesso non li indossava più, non all’interno dell’Arcadian almeno, non per via delle dicerie che circolavano, ma per una sensazione di passato che le stava stretta. Appartenevano ad un periodo superato, in cui riconoscersi diveniva difficile.
La biblioteca scolastica era diversa rispetto a come se la ricordava: arcate imponenti, maestose librerie, scaffali stracolmi di volumi ordinati per epoca, autore o collana. C’era tutto e di più, a disposizione.
Melanie si diresse senza esitazione nell’area dotata di Wi-Fi e computer.
Non che le servissero davvero, ma preferiva tenerli a portata di mano…e poi quell’area della biblioteca sembrava meno affollata; si configurava come un cantuccio per veri appassionati o studenti annoiati come lei.
Si piazzò ad una postazione libera, disseminando il tavolo di astucci e quaderni che non avrebbe utilizzato.
Nella prima mezz’ora di permanenza, qualunque scusa diveniva ottima per distrarsi e mollare le vicende della Guerra di Secessione Americana. A partire da soggetti che passavano accanto al suo tavolo, alla pioggia che prendeva a tamburellare debolmente contro il vetro, fino al puntatore luminoso del mouse.
Davvero qualunque cosa.
Poi però, riuscì a trovare un angolo di serenità e a dimenticarsi dell’ambiente circostante. La quiete fu interrotta all’improvviso da un tonfo alle sue spalle.
Melanie si voltò di scatto, imitata dagli altri presenti, gli sguardi catturati da uno studente del primo anno che si profondeva in una serie di scuse, mentre la bibliotecaria gli spiegava che non poteva prendere in prestito più di un certo numero di libri. Quello si difendeva mettendo avanti il professore che gli aveva commissionato il lavoro, ma qualunque replica non faceva altro che sottolineare la sua ingenuità.
Infine abbandonò l’ambiente rosso fino alla punta delle orecchie.
La bibliotecaria, una donna abbastanza paziente e molto pacata, si lasciò sfuggire un’imprecazione nel raccogliere da terra i volumi. Terminato il siparietto comico, Melanie tornò al proprio libro di storia.
Nemmeno si era accorta del sorrisetto divertito che le sporgeva ad un angolo delle labbra. Sorriso immediatamente incrinato da una coincidenza.
Per qualche istante rimase immobile, il viso paralizzato in quella che ormai era divenuta una smorfia.
Seduta di fronte a lei, con un paio di tavoli deserti a dividerle, riparata dietro lo schermo luminoso del portatile, la solita montatura scura sul naso, Daphne Barnett incrociò il suo sguardo.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: wanderingheath