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Autore: yonoi    12/11/2018    9 recensioni
Storia di un albero di ciliegio, di un umano randagio e di un gatto ormai giunto alla sua settima vita.
Dalla campagna alla città, il gatto Mozzicone è alle prese con la sua missione di "animale protettore". Una missione non facile: seminare nei cuori difficili degli umani una scintilla di tenerezza, di forza, di compassione.
Una storia di formazione, di strani cambiamenti che fanno sì che una ragazza si trasformi in un ragazzo, di una piccola campionessa e un’anziana signora che arrivano a perdere tutto per poi riuscire a trovare ciò che è davvero importante, e di un gatto senza coda, a cui spetterà tirare le fila di tutta la vicenda.
Prima classificata al contest "Racconti di pioggia e di luna" indetto da Wurags sul Forum di EFP e al contest "Mille e una fiaba", indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP, a pari merito con "Anche con il mondo contro" di Molang.
Questa storia partecipa al contest "Il mio Babbo Natale segreto", indetto da Claire Roxi sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Caro lettore, cara lettrice che ricevi questa storia come dono per Natale, spero che il mio racconto, possa incontrare i tuoi gusti e donarti qualche momento di piacevole svago (più d’uno, chissà… si tratta di un malloppone!). Non conoscendo i tuoi fandom su cui abitualmente scrivi, piuttosto che arrampicarmi su specchi per me troppo fragili (col rischio di scivolare, a mo’ di gatto Silvestro) ho preferito affidarmi al peloso protagonista di questa storia… che non è Silvestro ma è comunque un suo collega felino! Del resto, si dice che nella notte di Natale gli animali acquistino il dono della parola…
Con tanti auguri per questo giorno e per l’anno che verrà.
Yonoi.
 



 
L’albero di ciliegio della signora Venturina
 
 

 
“Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna”
(Mizuma Mahaside)
 
 
 

1. L’umano con lo zaino e la signora Venturina
 


Quando arrivammo all’accampamento del Fratellone era già buio.
Il sentiero che conduceva alla radura, una serie di giravolte ispide tra i cespugli, era immerso in quell’oscurità fitta che si trova soltanto fuori città: dove le ultime luci a un certo punto inciampano al di là delle colline, si spegne finalmente il rumore del traffico e resta solo la notte. E poi la notte accende a una a una le stelle, come fa il Fratellone quando passa un fiammifero sul capo chino delle candele, che subito si drizzano e cominciano a splendere.
Il quartier generale del Fratellone è una roulotte che lui ha scoperto per caso, nel bel mezzo di una radura spelacchiata: terra battuta e buche fangose quando piove, e in estate la polvere che il vento fa girare in piccoli mulinelli e somiglia ai deserti dei libri di avventure.
La roulotte si trova qui da tempi immemorabili. Chi ha avuto la sorte di arrivare prima di noi ha portato via i pneumatici ancora buoni, i materassi delle brande, persino la portiera che il Fratellone ha sostituito con un tendone da doccia. Col tempo, la roulotte si è arresa al suo aspetto bizzarro e ha finito per attecchire come una strana pianta, su cui gli arbusti si arrampicano senza paura.
Quando piove per giorni, in quei diluvi monotoni tipici dell’inverno, si forma tutt’intorno una pozza così grande che ricorda i fossati degli antichi castelli: per questo il Fratellone, dopo averci sguazzato più di una volta fino ai garretti, si è deciso a costruire un ponte levatoio con semplici assi di legno, e ha ribattezzato il nostro rifugio la Fortezza.
A dispetto del nome, la Fortezza è tutt’altro che inespugnabile. Da queste parti, come del resto ovunque, gli umani con lo zaino non li vuole nessuno e qualche cacciatore si è preso il disturbo di tirar fucilate contro il tetto del camper, per evitare ai vagabondi di accamparsi. Quando io e il Fratellone siamo arrivati qui, bastava una pioggerella per allagare la Fortezza, e un temporale più forte per far spuntare i funghi sulla vecchia moquette.
Ci voleva ben altro per impedire al Fratellone di sprofondare in un sonno di sasso, lui che è abituato a dormire sui treni merci, in tenda sotto alle stelle e sotto ai cartoni di tutte le strade del mondo. In ogni caso, riparare le falle è stato il primo lavoro a cui ha messo mano, e adesso abbiamo anche un divano dotato di maxi schermo per le serate in relax.
Collocato al limitare della radura, di fronte a un panorama di colline e di stelle che voialtri, in città, ve lo potete sognare, si tratta a tutti gli effetti un rottame: un pezzo di antiquariato fragile già ai suoi tempi, quando si limitava ad accogliere ospiti che sedevano sul ciglio senza appoggiarsi troppo. Ora l’imbottitura è marcita per le intemperie, gli eleganti piedini sono sprofondati nel fango e le molle protestano quando il Fratellone si butta con tutto il peso. Io invece mi arrampico con maggiore cautela, scuotendo via dalle zampette l’umidità.
Noi qui, ogni sera, guardiamo un po’ di tivù: dentro alla carcassa di un vecchio televisore, il Fratellone accende una fila di candele, alcune dritte e nuove, altre ricurve per il peso della luce e addossate una all’altra, come sul terreno fragile di una torta di compleanno.
Una volta che quella moltitudine di fiammelle comincia a consumarsi – si consumano più che far luce, e il loro riverbero piace al Fratellone perché non scaccia le stelle dal cielo, non le spegne in un crepitio come i neon giù in città – allora il mio compagno suona la sua chitarra e io mi acciambello accanto a lui, sulla vecchia coperta che sa di cane. E questo è molto strano perché lui è appunto un umano mentre io sono un gatto, e quindi questo odore non si capisce da dove viene.
Bene, voi siete molto cortesi a starmi ad ascoltare mentre io in realtà non mi sono ancora presentato: il mio nome è Mozzicone e sto vivendo l’ultima delle mie sette vite.
In tanti anni ho acquistato una grande esperienza dell’animo degli umani. Quando avrò terminato di percorrere l’ultimo tratto del mio cammino, il mio destino – come quello di tutti gli animali protettori – sarà di trasformarmi nella forza di un sentimento, in un talento per cui valga la pena di vivere, in una piccola ma agguerrita fiammella di ispirazione. Potrò essere armonia tra le mani di un musicista, poesia tra due amanti, compassione in un cuore chiuso. Tutto dipenderà dall’umano con cui deciderò di restare per sempre, e il Fratellone ha tutte le caratteristiche per essere il candidato ideale.
Va detto che il mio padrone è un tipo complicato, e sì che di gente strana ne ho vista, in sette vite. Considera la natura l’unica realtà affidabile e autentica, e il mondo dei suoi simili come un luogo in cui non riesce a raccapezzarsi. La vita della roulotte gli offre il sollievo della bellezza, la sincerità della vicinanza alla terra, ma dentro di lui – io lo so – si agitano molte domande senza risposta. Certo vi chiederete come faccio a conoscere così bene i suoi pensieri. Il Fratellone è introverso e parecchio scontroso, ma le sue carezze sono altrettante confidenze.
Noi gatti abbiamo occhi e orecchie nel pelo, quando un umano ci sfiora sappiamo esattamente cosa si agita nel suo spirito. Per questo posso dire di conoscere il Fratellone. Di più, sono qui proprio per raccontarvi la sua storia, che è un po’ anche la mia.

 
******

        
Non sono un gatto di razza ma un semplice europeo dal pelo arancione, quasi rosa sul petto, forse perché in quest’ultima vita sono nato all’ora del tramonto. C’era una luce dolce intorno a me in quel momento, il canto lento del fiume dove mia madre s’era nascosta per partorire. La tenerezza del suo manto proteggeva me e i miei cinque fratelli, le sue leccate ruvide ci aiutavano a sollevare la testa.
Tutti i miei fratellini sono stati annegati, poco dopo la nascita, proprio in quel fiume.
Il padrone di allora lasciò soltanto me perché la gatta non impazzisse, non trovando più i piccoli. Ho sofferto nel vedere mia madre cercare i miei fratelli, e ho dovuto aggrapparmi a tutta la saggezza delle mie vite precedenti per non odiare quell’uomo e venir meno al compito che mi attendeva in quest’ultima esistenza.
Quando il Fratellone mi ha raccolto per strada mi ha chiamato Mozzicone perché sono senza coda. Sono nato così, ma me la cavo ugualmente a saltare sul divano o sulla branda del mio umano, per dormire con lui sotto a quella coperta che sa sempre di cane e va a capire perché.
Ancora prima, quando abitavo insieme alla signora Venturina e mi acciambellavo su una trapunta un po’ più confortevole e soprattutto pulita – noi gatti abbiamo il pallino dell’igiene, per questo ci troverete sempre accoccolati sui panni appena stirati – insomma, a quei tempi mi chiamavo Garibaldi, che poi era il soprannome del defunto marito della signora, ufficiale in pensione.
A dir la verità, io non avevo affatto i baffi così lunghi. E neppure un cipiglio come quello che la buonanima esibiva nel ritratto appeso in salotto, tra una fila ordinata di orologi a cucù e un’ampia tenda sempre piena di spifferi e forse di fantasmi.
L’ambiente, devo dirlo, era parecchio cupo. Abitavamo al piano terra, e anche a mezzogiorno la casa era perennemente immersa nella penombra. Eppure, né i cucù con i loro strepiti, né le voci misteriose impigliate nella tenda potevano competere con lo sguardo di pietra del capitano Giuseppe Tibaldi, punitore di reclute più che istruttore, che finché visse amava firmarsi con l’iniziale del nome e una tempesta di svolazzi. Tanto che chi leggeva si confondeva sempre e alla fine Garibaldi gli restò come soprannome. Probabilmente solo sua moglie Venturina era convinta che quel nomignolo fosse un titolo d’onore.
In realtà il grido arriva Garibaldi! non era un urlo di guerra: era il segnale che risuonava nelle camerate come ultimo avviso per nascondere la radio, riviste che non trattavano di strategia militare, per dissipare il fumo di sigarette strane e poi sparire in men che non si dica sotto alle coperte, che dovevano ricadere ai due lati delle brande per venti centimetri esatti.
Garibaldi in persona passava ogni sera a controllare col metro.
Persino da morto e in fotografia, il vecchio capitano incuteva terrore. Io preferivo girare al largo da quegli occhiacci che ti seguivano ovunque, come se da un momento all’altro dovessero spuntare dalla cornice due mani, tra le mani un bastone e giù botte da orbi.
La signora Venturina, invece, sapeva di vaniglia e aveva la pelle di due misure più grandi dei vecchi. Portava i capelli alla moda di quando era giovane, con due pettini dietro alle orecchie. Da lì si apriva un ventaglio di ricci di carta crespa, lucidati a lungo dal parrucchiere per cancellare ogni traccia di giallo che sa di rancido.
“Vecchia sì, bacucca neanche per sogno,” puntualizzava lei, che la sua vanità se la teneva ben stretta insieme ai ricci ravviati tra i pettini, alla loro preziosa sfumatura di cenere che in certi momenti, complice la penombra, virava decisamente in un azzurro fiabesco.
“Meglio fata turchina che strega di Biancaneve,” rispondeva ai nipoti, una ciurma di ragazzini devastatori che calava come un flagello a Pasqua e a Natale, cacciando dappertutto mani troppo curiose, rompendo soprammobili e cercando di tirare la coda al gatto di casa. Faccenda che, nel mio caso, si presentava assai complicata perché, come dicevo, sono nato senza quell’appendice pericolosa, in grado di attirare l’attenzione degli umani più dispettosi.
“Nonna, hai i capelli blu come la fata di Pinocchio!” Di fronte a quella beata insolenza, la signora Venturina non solo lasciava correre ma addirittura ringiovaniva. Amava lasciarsi travolgere da quell’orda piena di vitalità. Tornava bambina mentre contava fino a cento e poi si metteva in cerca dei nipoti e delle loro risatine nascoste, dicendo ucci ucci.  
Quando li scovava dietro alle tende e in fondo agli armadi – gli abiti buttati per aria e sotto i piedi – se li abbracciava stretti. A nove, dieci anni i nipoti erano già il doppio di lei. Venturina spariva in quell’ammucchiata di abbracci selvaggi, come se fosse la sorellina minore di tutti e la sua pelle piena di grinze, rimboccata qua e là sulle mani e sul viso, fosse soltanto un abito smesso da qualche cuginetto più grande e toccato a lei in sorte, per crescerci dentro come usava una volta.
Quando era previsto l’arrivo dei nipoti la mia padrona si affaccendava per giorni, preparando biscotti a forma di pupazzetti, che decorava con faccine di frutta candita. Poi li lasciava a riposare in file ordinate sopra a uno strofinaccio, sul tavolo della cucina. Di là si diffondeva un aroma che riportava la casa ai tempi dell’infanzia tenera dei suoi figli, ora dispersi ai quattro angoli del mondo.
Ce n’era persino uno che viveva in Giappone. Io l’avevo ben presente perché da quel remoto paese di ciliegi e paesaggi in carta di riso, dopo aver attraversato otto fusi orari insieme alla sua mamma dagli zigomi bianchi, ogni anno piombava tra noi come un cataclisma il nipote più terribile della signora Venturina. Rapido e silenzioso, una volta riuscì a sorprendermi e mi ritrovai a penzolare a testa in giù, legato come una lepre pronta per il salmì, senza neanche capire come c’era arrivato.
La signora Venturina possedeva l’affetto di manica larga dei nonni, ed era disposta a passar sopra a ogni cosa: i vestiti calpestati negli armadi, la cucina in stato d’assedio all’ora della merenda, gli occhi dei pupazzetti che continuava a trovare appiccicati alle suole per giorni, su tutti i pavimenti e fino in fondo al cortile.
Ma il giorno in cui trovò me, appeso come una provola mentre mi contorcevo senza più forze, giunse alla conclusione che era venuto il momento di perdere le staffe.
Cavò lo strofinaccio da sotto ai biscotti e cominciò a menar colpi che fecero impallidire persino la buonanima di Garibaldi. Il fiero capitano seguì tutta la scena con i soliti occhiacci ma anche stringendosi nelle spalle, nel tentativo di parare i colpi e sottrarsi a una spedizione punitiva coi fiocchi.
Nel parapiglia un colpo di strofinaccio lo prese in pieno, facendolo vacillare con tutte le medaglie. Mi sembrò addirittura di sentirle tintinnare, ma forse si trattava di un’allucinazione dovuta al troppo tempo trascorso a testa in giù. Quando riuscii di nuovo a vederci diritto la casa era immersa nel consueto silenzio, l’orda riconsegnata ai rispettivi genitori con l’invito a non farsi vedere per un pezzo.
Io però conoscevo la tenerezza d’animo della signora Venturina, sicché decisi di prendere le mie brave contromisure. A partire da quel giorno, non appena l’aroma dei pupazzetti iniziava a diffondersi per la casa come un segnale premonitore, battevo in ritirata strategica sotto al letto o in cima alla credenza.
Da là attendevo che l’orda passasse, stando ben acquattato nel punto più irraggiungibile dai piccoli umani e dalle loro mani come tenaglie.
Durante il resto dell’anno, il padrone indiscusso di casa era il sottoscritto. Va detto che, come capacità distruttiva, non avevo nulla da invidiare ai nipoti di Venturina, specie quando sentivo il bisogno di far ginnastica e mi dedicavo alle arrampicate estreme su per le tende. A quel tempo ero giovane, ci tenevo a essere in forma e quei tendoni pieni di spifferi erano un ottimo sesto grado per gatti.
Avevo anche il mio tiragraffi personale, che poi era la poltrona sopra a cui la signora guardava la tivù, lavorava a maglia e si appisolava. Molto spesso faceva queste tre cose insieme e io allora mi acciambellavo sulle sue gambe, o acchiappavo il gomitolo e lo portavo a fare due passi per casa. Un’altra attività che mi piaceva un sacco consisteva nell’inseguire i rotoli di carta igienica per tutto il corridoio, attorno ai tavoli e sotto il letto, in una corsa scatenata fino all’ultimo foglio. E poi saltare dentro a quelle strisce morbide e trasformarle in tempesta, brandelli che volavano dappertutto leggeri come in quei vecchi carillon che la padrona spolverava sopra alle mensole, paesaggi in una bolla che a voltarli venivano giù i fiocchi di neve.
La signora Venturina possedeva un’intera collezione di quegli strani marchingegni sonori. Piccole sfere che custodivano all’interno miniature d’inverni oppure di oceani, con tanto di conchiglie e tesori sul fondo.
Ero affascinato dalle melodie che minuscoli rulli attaccavano a suonare quando la mia padrona dava la carica con un colpo di manovella. Strofinandomi contro a quei paesaggi congelati – avessi avuto una coda, l’avrei drizzata in forma di punto interrogativo – cercavo di scoprire dove si nascondevano gli invisibili musicisti che pestavano con fervore su tasti e martelletti.
La signora Venturina invece si commuoveva, perché ogni carillon era un ricordo dei tempi in cui viaggiava assieme a Garibaldi, seguendolo nei suoi trasferimenti in giro per l’Italia: nelle città di nebbia della pianura, sotto la neve ai piedi delle montagne, nelle basi militari spaziose sulla costa. Nei porti spalancati su un mare di gabbiani, il ritmo delle onde simile a quello del cuore.  
Quand’era in vena di nostalgia, a Venturina bastava un giro di manovella per mettere in moto i ricordi. Allora Garibaldi si sporgeva dalla sua cornice di legno e un poco sorrideva, mentre i rintocchi scandivano il tempo dei valzer e i loro volti si facevano più vicini.
 

 
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Fino ai diciassette anni, l’umano con lo zaino era stato una piccola campionessa di ginnastica ritmica: minuta e deliziosa, la schiena ad arco perfetto e i capelli tirati con la massima disciplina in cima alla testa, volteggiava sulla pedana come se non possedesse né peso né ossa.
Dotata di una flessibilità fuori dall’ordinario, il suo corpo era in grado di piegarsi senza sforzo, in perfetta armonia con gli attrezzi: la palla correva sul filo ripido della schiena, il nastro l’avvolgeva durante le piroette e la cosa più straordinaria era il sorriso con cui la Livietta Seriani lanciava le clavette e le riprendeva al volo, come se il peso del mondo le fosse del tutto estraneo.
La gioia che provava si librava con lei e tornava a posarsi solamente al momento di ricevere gli applausi, votazioni che premiavano la sua tecnica impeccabile, medaglie che pesavano sul suo torace scarno, senza l’ombra di curve. 
La sua fisicità essenziale era lodata dagli insegnanti e portata a esempio. Apparentemente indenne allo scorrere del tempo, la sua assenza di forme prolungava una fanciullezza assolutamente perfetta per quel tipo di disciplina, votata alla più totale assenza di gravità.  
Tuttavia, ciò che era perfettamente normale a dieci anni, cominciò a esserlo meno quando le sue coetanee, una dopo l’altra, imboccarono il tunnel dell’adolescenza. Ancora a quindici anni, la Livietta continuava ad essere un fuscello di un metro e cinquanta, con un corpo fermo all’infanzia che ignorava i primi dolori della crescita, malesseri mensili e innamoramenti.
Mentre le altre erano già alle prese con forme che cambiavano a una velocità prodigiosa, il futuro Fratellone viveva relegato in un limbo di orologi biologici senza lancette, ormoni che non si decidevano a dare il via e una struttura fisica che le fece meritare, da parte delle compagne di squadra, il poco lusinghiero soprannome di attaccapanni.
Invece di svilupparsi in curve e morbidezza, la piccola campionessa manteneva intatto il suo fisico tutto a spigoli. Di lì a poco, tra le perplessità di genitori e insegnanti, cominciò a svilupparsi sempre di più in altezza, ad allargare le spalle, a riempirsi di peli come fili di ferro, e quella voce che già usava di rado perché era di indole taciturna, si fece a un tratto sbilenca.
In breve, divenne un enigma. Il viso continuava a mantenersi liscio come quando era appena nata, il naso si affilò, il profilo divenne più gentile ma ambiguo. La voce si stabilì su una tonalità grave ma a un tempo melodiosa. Tanto che per sfuggire alla malinconia e alla curiosità che sempre più si stringeva intorno a lei, la Livietta recuperò la vecchia chitarra di suo fratello, cominciò a interessarsi alla musica e a distrarsi cantando.
Fu a quel punto che, di fronte a quella strana modalità di crescita, s’inaugurò una stagione di accertamenti sempre più approfonditi.
La Livietta venne sottoposta a ogni tipo di analisi in punta di microscopio, che si limitarono a confermare quel che già si vedeva a occhio: crescendo, stava sviluppando le caratteristiche di entrambi i sessi senza che il suo corpo riuscisse a definirsi in un senso o nell’altro.
Dal canto suo, la Livietta era interessata soltanto alla ginnastica: la possibilità di librarsi a mezzo metro da terra, quella disciplina ferrea ma anche rassicurante con cui era cresciuta dall’età di quattro anni. A scuola era un’allieva incolore e disattenta, tutto il tempo lo trascorreva in palestra a e al mondo misterioso dell’altro sesso non riservava turbamenti né attenzioni.
Di fatto si svegliava solamente a ginnastica. Il resto della vita lo trascorreva in una sorta di dormiveglia in vista degli allenamenti. Quando le fu chiesto se le piacevano le ragazze, si limitò a sgranare gli occhi e a tirarsi con forza i capelli dietro alle orecchie.
A toglierle il sonno, a diciassette anni e un metro e ottantacinque, non era certamente il pensiero del sesso. Era piuttosto preoccupata per gli esercizi che, con quel corpo sempre più ingombrante ed estraneo, riusciva ad eseguire con sempre maggiore difficoltà. I piedi troppo grandi inciampavano nel nastro, nel salto non riusciva a calibrare la forza e tutte le figure erano ormai segnate dal vizio della disarmonia e della pesantezza.
Il suo stile di movimento cambiò, e cambiò anche il soprannome: da attaccapanni ad armadio.
Alle ultime qualificazioni regionali ottenne un punteggio ridicolo, e fu a quel punto che i coach si decisero ad affrontare il discorso:
“Tu sai che per la ginnastica occorrono determinate caratteristiche e che molte atlete, nel tempo, sviluppano altre potenzialità. Nel tuo percorso hai già raggiunto ottime prestazioni, ma purtroppo crediamo che, stando così le cose, non sia possibile ottenere di più.”
“Mi state dicendo che non posso più continuare?”
La Livietta si tirò i capelli dietro alle orecchie così forte da farsi male, e quel dolore era niente in confronto ai frammenti di un sogno che si spezza. Mise insieme uno sguardo da cane bastonato e lo indirizzò al direttore della società sportiva, al responsabile dell’agonistica e infine alla coach, a cui il consiglio dei capi aveva affidato lo scomodo ruolo di portavoce.
Mentre il direttore spiava l’orologio senza dare nell’occhio e l’altro boss era intento a guardarsi le scarpe, la signora Morais, che aveva scoperto la Livietta ancora ai tempi dei corsi preparatori, in mezzo a paperelle di quattro o cinque anni, si tirava le parole dalla bocca con le tenaglie:
“A livello amatoriale puoi continuare finché lo desideri. La tecnica la conosci, potresti diventare una brava insegnante. Del resto questa è la prospettiva che si pone quando le cose cambiano e si desidera comunque restare nell’ambiente. Ma l’agonismo richiede un altissimo livello, non ammette passi indietro e questo lo sai anche tu.”
“Io non voglio insegnare.
La Livietta si parlava sui piedi, per la fatica che le costava esprimere i suoi pensieri. Di nuovo attorcigliò i capelli dietro alle orecchie.
“Ce la metterò tutta, ma per favore” – qui dovette fermarsi perché quella strana voce, sbilenca e melodiosa, cominciava a tremare – “lasciatemi continuare.”
Da quel momento in poi, per la Livietta iniziarono le fatiche del gambero: ore e ore di lezioni e continue correzioni - riprendi dall’inizio, concentrati, rifai tutto daccapo – non allo scopo di conquistare nuovi traguardi ma di tornare indietro, alla leggerezza di un tempo.
Mai come in quel periodo si era sentita in gara con se stessa, per superare un corpo che cresceva in direzione opposta alla ginnastica ritmica. Un corpo che volente o nolente era il suo, e non c’era verso di liberarsene perché ogni giorno se lo ritrovava incollato addosso, a partire dal momento in cui s’incontravano davanti allo specchio. Da una parte c’era lei, con i suoi desideri. Di fronte un volto ambiguo e un fisico potente, che però non si capiva cosa voleva essere.
Accettò di seguire una terapia ormonale. Affrontò una dieta severa nella speranza di ridurre l’ampiezza delle spalle col beneficio della magrezza, disposta a tutto pur di non ritrovarsi ad avvizzire su una panca nel ruolo di coach, mentre le sue compagne si libravano sempre più in alto.  
Si sforzò di far rientrare quel corpo da armadio in una disciplina che esigeva flessibilità e acrobazia, stringendosi come una nota che doveva rientrare a tutti i costi nel pentagramma. Poiché il suo fisico era pur sempre quello di un’adolescente, per un certo periodo riuscì a plasmarlo con la sola forza di volontà e il logico corollario di sacrifici tremendi. La schiena tornò a piegarsi, le mani troppo grandi riuscivano a dominare con grande perizia il cerchio, il nastro, le clavette.
Ma quando la ginnastica iniziò a diventare una lotta senza quartiere contro il resto del mondo, la Livietta cominciò a perdere la freschezza, la voglia e anche il senso di quello che stava facendo. Una rivalità senza tregua, l’invidia con cui spiava i risultati delle compagne e si sforzava di superarli, rendevano il suo umore ogni giorno più cupo.
La sera, nel silenzio carico di punti interrogativi della sua stanza, la Livietta passava in rassegna i volti che avevano attraversato la sua giornata: le ragazze della squadra, la coach, i genitori, e si ritrovava con un pugno di mosche, di gelosia e di rancore. Odiava quell’armadio che era costretta a portarsi addosso come il guscio lentissimo di una tartaruga. Eppure, a un certo punto si rese conto che ciò che detestava sul serio era proprio la ritmica, o meglio ciò che restava della sua antica passione.
La strana trasformazione del suo corpo era in fondo il male minore. Di fatto quel corpo incerto, senza meta né sesso, esprimeva esattamente il senso di smarrimento che si sentiva dentro.
In realtà, la Livietta sapeva di avere i giorni contati, quanto meno come atleta.
Le rimaneva la consolazione della chitarra, e nella notte il suo canto divenne più malinconico. Si era in estate e i vicini, che tiravano tardi per via del caldo, aprivano le finestre apposta per ascoltarla. Così, mentre la Livietta piegava sulla chitarra quel suo corpo flessibile senza più alcuno scopo, decine di finestre si accendevano nella notte e si commuovevano insieme a lei. Mentre l’aria d’estate portava qua e là i ricordi, i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non sarebbe stato mai più, e infine il conforto del sonno.
 

 
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Dieci anni ho vissuto con la signora Venturina, dal giorno in cui il mio primo padrone, che faceva il mezzadro per conto dei Tibaldi, mi portò nella sua casa piena di ombre e di memorie, togliendomi alla campagna insieme a quattro casse di frutta e verdura.  
Feci appena in tempo a salutare mia madre, mentre già stavo chiuso dentro alla scatola con cui avrei affrontato il viaggio verso la città: bontà sua, prima di imballarmi con due giri di spago, il vecchio padrone aveva ricavato un paio di buchi nel cartone per concedermi un filo d’aria.
Cominciava così, dal fondo di una scatola che ancora puzzava di lucido da scarpe e di vecchi calzini, la mia missione di animale da protezione. A soli due mesi e mezzo, ero perfettamente in grado di reggermi sulle gambe, pardon, sui miei gommini. Eppure, non mi sentivo pronto ad abbandonare il nostro riparo nella stalla, il tepore dei fianchi pezzati delle mucche, il grembo di mamma gatta e la vecchia coperta infeltrita dai nostri odori.
“Mi raccomando, figlio,” fece appena il tempo a sussurrare mia madre mentre già mi trovavo stipato sul camioncino insieme a sacchi di mele, patate e una gabbietta di galline forsennate. Stavano dentro in quattro in uno spazio che bastava a malapena per due, le zampe continuavano a incastrarsi dappertutto e tanto per migliorare la situazione, quegli sciocchi volatili avevano iniziato a beccarsi l’uno con l’altro.
Io me ne stavo acquattato sul fondo con le orecchie all’indietro e il pelo ritto un palmo. Se avessi avuto la coda, l’avrei gonfiata certamente come un cannone.
Di là mi giungevano le parole di mamma gatta, il suo antico odore di latte:
“Tutte le missioni cominciano con una partenza,” miagolava mia madre. “Molto probabilmente andrai a stare bene, perché le vecchie signore, in genere, amano i gatti. Ma ricorda che il tuo compito verrà a reclamarti quando meno te lo aspetti.”
Le mie orecchie appiattite si drizzarono un poco in mezzo agli schiamazzi delle galline prigioniere, che rimbombavano nel cassone come fossero cento. Il pelo ritto della mia schiena riempiva tutto lo spazio della cella di cartone, ma quello che mia madre aveva da dire era molto importante. Tirai su almeno un orecchio per ascoltare meglio.
“A noi gatti sono affidati gli spiriti più solitari. La nostra specialità è sanare le ferite che portano alla durezza, che fanno calli nell’anima difficili da sciogliere.”
Il padrone era indaffarato a completare il carico: altre casse di patate, di prugne e pomodori, grappoli di uva arruffata dai moscerini.
Ogni volta che si arrampicava al posto di guida, il camioncino si scrollava con beccheggi da naufragio e le galline s’indiavolavano sempre più.
Mamma gatta fu costretta ad alzare il tono in mezzo a quel parapiglia:
“Ricorda che una missione può non raggiungere il suo scopo, ma ciò che conta è lo sforzo. Potrai anche fallire con gli umani che incontrerai, come è capitato a me col nostro padrone, ma l’importante è riuscire a piantare un piccolo seme. Un fazzoletto di terra buona, o soltanto un granello, si trovano anche negli spiriti più difficili. Il nostro compito è seminare con fiducia: che poi cresca qualcosa, non dipende da noi. A volte occorrono anni, a volte una vita intera non basta.”
A quel punto il padrone cacciò via mamma gatta e con un ultimo scrollone salì a bordo e mise in moto.
Al buio, tra frulli d’ali e schiamazzi che andavano a spezzarsi contro le aste inesorabili della gabbia, le galline iniziarono a beccarsi con più impegno e ferocia.
Anch’io ero spaventato: e poiché in questi casi niente è più contagioso del panico degli altri, decisi di dare inizio alla mia missione portando un po’ di pace all’interno del furgone, anche se non nel senso che intendeva mia madre. Coi nervi a fior di pelo tirai indietro la schiena, raccolsi tutte le forze e cacciai fuori la più potente soffiata di cui ero capace.
Grazie alla cassa di risonanza della mia scatola, il mio ruggito sortì l’effetto di un boato temporalesco. Le galline levarono i colli spelacchiati per quanto lo permetteva la gabbia e subito si zittirono: come se dal buio fosse uscita una mano pronta a tirare il collo a tutta la compagnia.
Il camion sobbalzava sulla sterrata, poi cominciò a filare liscio sopra all’asfalto. Tutti noi viaggiatori, compresi forse i sacchi di patate e di mele, cominciammo a pensare a cosa ci sarebbe capitato una volta arrivati a destinazione. Persino i polli sapevano che da quell’energumeno del nostro padrone non ci si poteva attendere nulla di buono.
 

 
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Non so quale fu il destino delle mie pennute compagne di viaggio. Alla seconda fermata del camioncino, dopo lo scarico dei sacchi al mercato dell’ortofrutta, arrivammo a un quartiere residenziale. Fuori da una villetta, quasi tirammo sotto una vecchia signora che stava controllando la posta nella cassetta.
La signora Venturina, evidentemente assorta in altri pensieri, mi accolse come un pacco recapitato da un postino ritardatario. Per il contraccolpo della frenata, la mia scatola era ruzzolata fino in fondo al furgone. Dentro, io mi dibattevo graffiando come un pazzo, e solo quando arrivai tra le mani di Venturina mi tranquillizzai a un tratto, senza neppure sapere perché.
Forse era il suo odore antico di vaniglia, la lozione all’acqua di rose tamponata sul volto che lasciava una traccia tra le rughe del viso, il peso della carne spessa sui polpastrelli per via del suo mestiere di sarta. Noi gatti possediamo una sensibilità innata per gli odori, siamo in grado di leggerli proprio come se fossero manuali di istruzioni per capire l’umano che abbiamo di fronte.
Quando mi fu permesso di uscire dalla scatola e iniziai a guardarmi attorno, mi ritrovai in un mondo totalmente diverso da quello in cui avevo vissuto fino ad allora. Un’isola separata dal traffico della strada, dove l’unico rumore appena percettibile era un ticchettio che lì per lì non riuscivo a capire cosa fosse. Scoprii che sulla parete sopra di me era appesa una serie di casette molto simili a quelle che in campagna si usano per i passeri.
Dietro ai balconcini e alle persiane chiuse, gli uccellini c’erano veramente. Lo scoprii proprio in quel momento, quando le lancette si allinearono in un rintocco, mettendo in moto un cigolio di congegni a molla.
Tutt’a un tratto si aprirono minuscole porticine e saltarono fuori i cucù, cacciando fuori uno strepito che mi colse di sorpresa e mi spinse alla fuga, sotto alla prima poltrona che trovai disponibile.
Restai nel mio rifugio finché le porticine non tornarono a chiudersi, gli uccellini scomparvero di nuovo nelle casette e nel salotto tornò la quiete.
Piegandosi a fatica, la padrona provò a raggiungermi con un piattino di latte.
Noi gatti consideriamo assolutamente disdicevole farci corrompere dalle moine degli umani. Ma dovete anche sapere che quel latticello emanava un tepore delizioso, ed erano parecchie ore che il sottoscritto non infilava il muso dentro a una ciotola. Date le circostanze, poteva considerarsi valida l’altra fondamentale regola del vivere felino: se lo acchiappi puoi mangiarlo e il resto non conta un baffo.
Sgattaiolai quindi dal mio nascondiglio. Terminato il mio pasto, mi voltai ad annusare due pantofole morbide e un paio di vecchie gambe, nodose dentro a calze dai riflessi azzurrognoli. I capelli della signora erano di una tonalità appena più chiara, piccole onde simili alle increspature del mare in inverno. Sotto alle sopracciglia disegnate con cura, due grandi occhi mi osservavano incuriositi, anch’essi in tinta col resto.
Era una donna anziana, eppure così diversa dalle vecchie della campagna, le contadine ruvide che mi scacciavano a colpi di scopa e distribuivano il becchime sull’aia, sbracciandosi e facendo il verso delle galline.
La mano della padrona scorreva con delicatezza sul mio dorso un po’ ispido, il pelo ancora ritto in parte per lo spavento. A un certo punto l’umana mi sollevò per la collottola, mi prese tra le braccia e poi si mise a ridere. Il mio muso dall’espressione circospetta dovette sembrarle buffo, perché mi indicò un ritratto alle sue spalle, che esibiva due baffoni da generale e un cipiglio terrificante:
“Ti chiamerò Garibaldi, perché somigli a quel buontempone di mio marito.”
L’umano nel ritratto aveva una faccia feroce che io non sarei riuscito a tirar fuori neppure reincarnandomi in un leone. E poi, lo ripeto, io non avevo affatto i baffi così lunghi e anche le mie orecchie non erano così a sventola.
In breve, tra me e Venturina nacque un sodalizio fondato sulla reciproca simpatia e sulla bontà degli odori. Molte sensazioni per me erano nuove, così mi dedicai a esplorare l’ambiente con molta curiosità.
Un forte senso di umidità mi guidò verso un giardino interno. Un sacco di terriccio e un innaffiatoio parlavano di lunghi pomeriggi trascorsi dalla padrona coi guanti da giardiniere, le cesoie e un filo di spago per accompagnare la crescita delle ortensie, le rose spilungone, un ciliegio dai rami curvi come quelli di un salice.
Il ciliegio apparteneva a una varietà che veniva dal Giappone. In primavera si curvava ancora di più, radunava le forze e poi da un giorno all’altro sbocciava una cascata imponente di fiori che duravano pochi giorni.
Neanche una settimana e se ne andavano così com’erano venuti, nella stessa maniera fragile e precipitosa: un soffio di vento prendeva la via di quel quadrato di cielo, scendeva e li levava tutti quanti dai rami, in un mulinello. Nel giardino formavano un fragile tappeto, ma volavano anche per casa e io li ritrovavo persino sotto al letto, a distanza di molti mesi dalla loro fioritura, mentre ancora morivano dentro ai loro profumi.
Tra il ciliegio solenne, le altissime rose, le ortensie bianche e azzurre, il minuscolo giardino della signora Venturina era un concentrato di essenze da far girare la testa. Più tardi scoprii che dietro a ognuna di quelle piante c’era una storia. La maggior parte erano doni dei figli della signora, arrivati fin qui dai quattro angoli del mondo.
Quando il camioncino del mio vecchio padrone aveva quasi rischiato d’investirla, la signora Venturina era intenta a controllare la posta sul vialetto di casa. Quello della posta era un rito quotidiano. Più che le telefonate, che i figli le facevano negli orari più strani per via dei fusi orari, la padrona amava le lettere: perché poteva rileggerle e sentirsi in compagnia dei figli in ogni momento.
Il tempo passava tra i ricordi dell’infanzia di ciascuno e nel difficile compito di decifrare calligrafie ai limiti della comprensione umana. Il figlio maggiore scriveva dall’America con il tipico stile cuneiforme dei medici. Dotato di una scrittura aguzza e ordinata finché era stato studente, man mano che la carriera aveva fatto progressi era diventato sempre più sbrigativo, fino a ridursi a una serie di linee che sostituivano le parole.
Alla signora Venturina occorrevano giorni interi per decifrare quei messaggi. Per di più, il contenuto era quasi sempre banale, notizie telegrafiche sulla salute di moglie e figli, sull’acquisto di una nuova auto, sui riconoscimenti ottenuti con l’attività di ricerca.
Io ricordavo gli scambi di fusa con mamma gatta quando tornavo al nostro rifugio nella stalla, dopo qualche avventura a zonzo per i prati. Le lettere scritte da quell’umano così istruito non valevano neanche un minuto delle nostre fusa un po’ rudi, delle leccate con cui mia madre mi ripuliva dalle scorie delle mie passeggiate solitarie, poi con una zampata mi spediva a gambe all’aria per punirmi per il ritardo.
Il secondo figlio della signora, l’unico che era rimasto in Italia a fare il giudice in Tribunale, compilava molte sentenze ma a sua madre non spediva mai neppure una riga.
L’ingegnere di Kyoto scriveva per compensare la difficoltà di farsi sentire al telefono, e in aggiunta spediva pacchi di cose strane e molte fotografie: ombrellini in carta di riso, borsette ricamate e soprattutto foto del nipote della signora, che soltanto a vederle mi usciva una gobba alta così sulla schiena e attaccavo a soffiare come una locomotiva.
Una volta arrivò, ben sigillato dentro a una scatola decorata di misteriosi ideogrammi, quel famoso ciliegio dall’aspetto di piccolo salice: piccolo veramente, perché all’epoca si trattava di un bonsai. Anche allora, la sua fioritura durò il tempo di un attimo. Nel biglietto che lo accompagnava, l’ingegnere di Kyoto spiegava che in Giappone il sakura rappresenta la bellezza di un solo istante, destinata a svanire presto, in un soffio di vento.
Di lì a poco infatti il ciliegio sfiorì, ma in compenso si ricoprì di foglioline: privo delle potature consuete, incominciò a crescere. Con la bella stagione, la padrona lo piantò in un angolo del giardino. Libero da ogni vincolo, l’alberello bonsai trovò il terreno ideale per espandere le radici e in capo a due stagioni acquistò la fisionomia di ogni ciliegio che si rispetti.
Sotto l’albero del sakura, come sotto a una tenda di fiori e di brezza, io e la mia umana ci occupavamo di giardinaggio e di lavori di sartoria. Nelle giornate estive, restavamo qui finché c’era luce. Io mi godevo il fresco e l’umana col metro al collo sfogliava cartamodelli, prendeva le misure sul tavolo ingombro di stoffe, imbastiva pedalando sulla sua vecchia Singer che portava fin qui dal laboratorio. Poi rientrava e andava a far le prove sul manichino, gli occhiali sulla punta del naso e sulla fronte due rughe per la concentrazione.
Il ciliegio, le ortensie, le rose spilungone la aiutavano a lavorare con più serenità, come se fosse in compagnia dei suoi figli. Eppure, nessuno di loro era presente quando la mia padrona si ammalò improvvisamente. Quel che fecero in seguito, fu vendere la casa e rinchiudere la madre in un luogo dove, secondo loro, poteva essere curata perché da sola non poteva più stare.
Fu così che mi ritrovai per strada, scacciato dagli umani dell’agenzia immobiliare e senza più un tetto sopra le orecchie. Per un po’ continuai ad attendere che Venturina rientrasse come faceva sempre, col piccolo carrello per portare la spesa e il cappello di sbieco sui ricci, perché ai suoi tempi una signora non usciva mai senza.
Qualcosa mi diceva che il posto dove era andata a finire era brutto e triste, una specie di gattile dove gli umani lasciano i vecchi quando non sanno più dove metterli. Mi venne allora in mente di ritrovare Venturina per riportarla a casa, a costo di girare per tutta la città inseguendo le tracce del suo profumo di vaniglia.
Dopo aver atteso a lungo il suo ritorno insieme a Garibaldi, ai cucù nelle loro casette e al ciliegio, mi misi alla ricerca con quella testardaggine che possediamo solamente noi gatti. Ma andiamo con ordine e vogliate scusarmi: ormai anch’io sono un vecchietto e nel narrare tendo a perdere un poco il filo.
 

 
  
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