Anime & Manga > Yuri on Ice
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Autore: Tenar80    12/11/2018    2 recensioni
Di Victor, che deve fare i conti con la realtà
Di Yuuri, che deve fare i conti con Victor
Di Otabek, che deve fare i conti con i propri desideri
Di Yuri, che pretende che tutti che facciano i conti con lui.
Di quello che accade dopo l'ultima immagine della serie, della difficoltà di ancorare le fiabe alla realtà. Una realtà che abbonda di elementi disturbanti quali omofobia, doping, accenni a molestie e ad abuso d'alcool, ma in cui c'è ancora spazio per la tenerezza.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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– Non ci credo, hai un aspetto più stanco del mio – disse Yuuri, andando a sedersi a uno dei tavoli del bar del palaghiaccio con il caffè in mano, invitando Otabek a fare altrettanto.

    I russi avevano orari inumani. Yakov aveva voluto fare una riunione tecnica con i propri allievi prima dell’inizio degli allenamenti ufficiali. Victor e, supponeva il giapponese, anche Yurio si erano alzati prima delle cinque. Pimpanti e tranquilli come se si preparassero a una scampagnata. 

    – Non è normale pensare di voler andare a pranzo quando invece il sole sta appena sorgendo – si lamentò Otabek.

    In effetti erano appena passate le nove e il cielo stava iniziando a schiarirsi, per passare dal nero a un grigio depressione, illuminando appena una spruzzata di neve che pareva già sporca.

    Il kazako bevve una lunga sorsata di caffè e poi guardò con astio il bicchiere.

    – Non lo sanno proprio fare – grugnì.

    – Non mi sembra così male – lo difese Yuuri.

    Si era promesso di trovare quante più cose positive riuscisse, per abituarsi all’idea di poter vivere in quel posto e il caffè gli era sembrata una da cui poter cominciare.

    – Può essere. Ma io sono mezzo turco. Ho un’idea precisa di caffè e persino in Canada lo facevano migliore.

    A Detroit no, pensò Yuuri. 

    Vivere a San Pietroburgo non poteva essere così diverso dal vivere a Detroit, no? E nei primi tempi, prima che subentrassero la pressione e l’ansia costante non era stato male vivere là, no? Yurio non era Pich, certo, ma ci andava d’accordo, per quanto fosse possibile andare d'accordo con la Tigre di Russia, e Victor compensava il resto. Qui, però, non sarebbe vissuto in un campus, dove non era l’unico straniero, dove c’era sempre qualcuno a cui potesse chiedere un’indicazione, all’interno di un territorio circoscritto, sicuro, da cui partire pian piano in esplorazione. Non ci sarebbe stata l’università, materie che amava da studiare, persone che condividevano le sue passioni. Yuuri si chiese se sarebbe stato in grado di organizzarsi una vita senza l’ausilio di una griglia di doveri prefissata, senza un una zona di sicurezza, in un mondo che diffidava di lui senza conoscerlo, solo perché era fisicamente diverso. E che, conoscendolo, lo avrebbe odiato, perché viveva con un uomo.

    – Bene, quindi siete in grado di cavarvela, checché ne dicano i vostri anfitrioni.

    Una voce li fece voltare entrambi. Era quella di Dimitri, il sorridente vice di Yakov, che li osservava soddisfatto, in piedi dietro di loro.

    – L’istinto ci ha guidato fino a della caffeina – replicò Yuuri.

    Dimitri gli piaceva. Era amichevole tanto quanto Yakov era spaventoso. Con un po’ di fortuna, sarebbe stato lui a seguirlo per la maggior parte del tempo. L’altro doveva aver fatto un ragionamento simile, perché lo stava studiando di sottecchi, valutandolo.

    – Iniziano l’allenamento, rientriamo? – chiese Otabek.

    Il bar aveva una vetrata che dava sull’esterno e l’altra direttamente sulla pista principale.

    – No. Da qui vediamo allo stesso modo e siamo a distanza di sicurezza dalle grida di Yakov – replicò Dimitri.

    – Non si rilassa mai, vero? – chiese Yuuri.

    – Qui meno che meno. In patria è ancora più sotto pressione. Figuriamoci se giochiamo in casa. Se il podio non è tutto nostro ci facciamo una figura peggiore che non a perdere una medaglia alle olimpiadi.

    Condannati alla perfezione, pensò Yuuri. Il palazzetto si stava riempiendo rapidamente. Il pattinaggio era uno degli sport nazionali russi, da sempre una riserva sicura di medaglie per le olimpiadi invernali. A vedere la competizione c’erano moltissimi ragazzi e ragazze provenienti dalle scuole di pattinaggio di tutta la Russia che sognavano di diventare vincenti e famosi come Victor. Molti di loro nel giro di un anno o due avrebbero potuto confrontarsi direttamente con lui e Yurio, alla ricerca della propria opportunità. C’erano poi semplici appassionati, ragazze sopratutto, che stavano già iniziando a posizionare i propri striscioni. Quattro adolescenti stano cercando di appendere una sorta di lenzuolo in cui appariva Yurio disegnato in stile manga con le orecchie da gatto, ma il nome di Victor si leggeva già ovunque. Georgi aveva un paio di tifosi con una bandiera che lo ritraeva. Per età potevano essere genitori o famigliari. Degli altri partecipanti alla competizione sugli spalti non c’era traccia. Doveva essere piuttosto deprimente essere uno di loro.

    – Sto cercando di immaginarmi le nazionali kazake con questo tipo di pubblico, ma mi sembra fantascienza – commentò Otabek. – L’anno scorso ci saranno stati venti spettatori e mia madre ha offerto il the a tutti. È bastato un solo termos.

    I sei pattinatori in testa alla classifica dopo il programma breve scesero sul ghiaccio per l’allenamento pubblico, accolti dallo sfavillare dei flash dei fotografi. Victor, consapevole che i riflettori erano tutti per lui o quasi, si concesse un giro di pista, prima di iniziare a lavorare sul serio. Yurio, al contrario, mostrò un viso scontroso ai giornalisti e si affrettò a cercare spazio per provare i salti.

    – Ho iniziato a capire perché vi siete arrabbiati così tanto, quando Victor è venuto in Giappone – disse Yuuri, piano, rivolto a Dimitri.

    Non si era spettato nessun tipo di apertura da parte di Yakov. A Mosca era stato corretto e professionale nei suoi confronti e lui se n’era andato senza quasi una parola di ringraziamento. Voleva recuperare, ma non sapeva come fare. Ci sono momenti in cui la timidezza lo spingeva oltre i limiti della scortesia e lui, pur provandoci con tutte le sue forze, come un uomo in mare che non sa nuotare abbastanza per evitare di annaspare, non riusciva a recuperare. Ma non poteva iniziare un rapporto lavorativo con chi lo pensava uno spocchioso scostante. Il tecnico russo gli appoggiò una mano sulla spalla e Yuuri si costrinse a non irrigidirsi, nonostante odiasse tutti i contatti fisici che non era lui a ricercare. 

    – Non ce lo possiamo far scappare di nuovo – disse Dimitri, a bassa voce. – Lo capisci? È una sorta di proprietà dello stato e noi abbiamo promesso di conservarlo, integro e competitivo, fino alle prossime olimpiadi. Non possiamo caricare Yuratchka di tutte queste responsabilità.

    Yuuri annuì. 

    – Grazie per… Insomma, non c’è pattinatore che non sogni di lavorare alla Pista di San Pietroburgo, suppongo… Però, ecco, se fosse un problema, per voi, per te, il fatto che…

    Stava per strozzarsi con le sue stesse parole. Dimitri, però, doveva aver capito ugualmente, perché ne uscì con una risata sommessa.

    – Yakov non tollera smancerie in pista. E io sono un banale russo, stipendiato da una federazione russa, non puoi pretendere che non mi faccia schifo l’idea di vedere due uomini che si baciano – sorrise, a smentire la durezza delle proprie parole. – Però io ci passo la vita con gli atleti, fin da quando sono ragazzini. Conosco Victor da quando veniva alle gare con pattini usati e tute macchiate. E quando una persona la conosci da così tanto tempo, non puoi che augurargli un po’ di felicità. Anche se non è il tipo di felicità che vorresti per te o per uno dei tuoi figli.

    Dimitri doveva conoscere tutti i segreti di Victor. Tutte le cose che ancora non gli aveva detto, chi fosse stato davvero quel ragazzino con i pattini di seconda mano. Tutti, però, hanno diritto ai propri silenzi.

    – Grazie – si limitò a dire. – Spero che ne valga la pena.

    Victor, in pista, stava provando l’Axel. Era meraviglioso. Yurio era bravissimo, con tutta la grazia esplosiva dell’adolescenza. Un giovane eroe pronto a scalare l’Olimpo. Ma Victor era ancora, senza ombra di dubbio, il dio del ghiaccio.

    – Mi hanno detto che ha promesso di spostarti – commentò Dimitri.

    Yuuri scosse il capo, anche se istintivamente passò un polpastrello sull’anello d’oro che portava al dito.

    – È stato per dire, davanti a una birra.

    Per quello che ne sapeva, un sacco di gente poteva aver ricevuto un’identica promessa. Persino Ludmilla.

    – Per dire… – Dimitri guardava la pista e i suoi allievi che volteggiavano sul ghiaccio. – Gli ho visto dimenticare, o fingere di dimenticare, ogni sorta di impegno. Tuttavia di promessa gliene ho vista fare una soltanto, prima. Quella di vincere più di qualsiasi altro pattinatore russo.
 

*
 

    Otabek si era alzato in piedi, portandosi il caffè, per lasciare che Yuuri e Dimitri parlassero.

    Si chiese se Yuri fosse davvero sereno come sembrava, tra atleti che avevano il doppio o il triplo della sua esperienza. Tra Victor, Georgi e l’altro che era al momento quarto sul ghiaccio c’erano otto o nove medaglie olimpiche, di vari metalli, tra gare singole e a squadre. C’era di che fare tremare le gambe. Di sicuro erano tremate a lui, quasi un anno prima, alla finale dei mondiali. Yuri poteva ostentare tutta la sicurezza del mondo, ma il peso delle leggende lo si percepiva, lo si percepiva eccome. Ai mondiali dell’anno precedente Victor, che pure aveva esibito una faccia da funerale per tutto il tempo passato fuori dalla pista, in gara era stato inavvicinabile. Non una questione di mera difficoltà tecnica, Otabek nel libero aveva portato quattro quadrupli, esattamente come lui, ma di perfezione d’esecuzione. Una di quelle cose che ti fanno pensare di aver sbagliato tutto nella vita e che forse quel lavoro di cui hai sentito parlare all’università, una ricerca sulle abitudini della aquile, da svolgersi in un rifugio sperduto a tremila metri sulle montagne a sud di Almaty, non era poi da scartare. Giacometti, invece, lo aveva sconfitto guardandolo. Uno sguardo pesante di due olimpiadi e otto finali mondiali. Otabek si era sentito giudicato un bambino che sta giocando per la prima volta sui pattini in una pista messa al centro del paese per le festività natalizie. Non era umano, Yuri, se non si sentiva neppure un minimo così. Sotto la tuta aveva già il costume di gara, quello rosso del libero. Otabek sorseggiò un altro poco di quel terribile caffè. Lo aveva sognato, quella notte, Yuri nel costume rosso e non era stato un bel sogno.

    Nell’incubo, mentre iniziava il libero le fiamme che decoravano il costume di Yuri prendevano vita. Iniziava a vedersi del fumo seguire i suoi movimenti, un guizzare troppo acceso di quelli che non potevano essere lustrini e pian piano si faceva viva negli spettatori la consapevolezza che il costume del ragazzo stava prendendo fuoco. Con la logica ferrea e assurda che hanno a volte i sogni, l’Otabek onirico aveva pensato che era una vera sfortuna. Yuri avrebbe dovuto fermarsi, ritirandosi dalla competizione, per spegnere le fiamme. Solo che Yuri non si era fermato. La musica aveva continuato a suonare, mentre le fiamme pian piano lo avvolgevano, trasformandolo in una torcia. Impotente, Otabek lo aveva visto letteralmente carbonizzarsi, mentre portava a termine un’esibizione da record del mondo. Restava un istante soltanto fermo nella posizione di chiusura e poi si scomponeva in puro fumo, disfacendosi nell’aria.

    Si era svegliato sudato, con un insolito peso sul petto che si era rivelato, in realtà, il sedere di Sua Maestà. Nel buio aveva sentito il russare lieve del suo compagno di stanza, per niente intenzionato a disperdersi in fumo. Anzi. Era la notte prima della finale delle nazionali e a non dormire era quello che non doveva gareggiare.

    – Io torno dentro, sta per iniziare la gara – disse Yuuri.

    Otabek annuì, distratto. In realtà non gli importava niente di quelli che si stavano per esibire, ma Yuuri, con la sua tipica serietà orientale, avrebbe di sicuro considerato un dovere morale guardare tutti gli atleti in gara.

    – Non ti fa impressione neppure neppure un po’, esserti legato a un atleta simile, tuo avversario? – chiese Otabek, e subito si guardò con attenzione la punta delle scarpe.

    Era una domanda fuggita e non prevista, figlia di quel sogno che ancora gli pesava addosso. La sensazione che non ci potesse essere nulla di più terribile che veder sparire Yuri e, insieme, la consapevolezza che lo avrebbe desiderato ogni volta che avessero calcato la stessa pista.

    Yuuri, però, si limitò a scuotere il capo.

    – Mi terrorizzano gli aspetti pratici, la gestione delle nostre rispettive carriere, non l’agonismo in sé – disse, voltandosi a guardarlo mentre procedevano lungo gli spalti. – Ma non ci può essere davvero competizione tra noi. Anche se vincessi tutto, da qui al mio ritiro, comunque non potrei vincere quanto Victor, per una mera questione anagrafica. L’unico che può davvero insidiare la sua leggenda, sul lungo periodo, è Yuri… Spero di non averti offeso.

    – No. Hai ragione – ammise Otabek.

    Era uno dei migliori al mondo. Sapeva di esserlo. Era tra i dieci, forse tra i cinque migliori pattinatori, ma non era il migliore. Il divario tecnico tra lui e i russi era un dato oggettivo. Un anno prima, aveva fantasticato di insinuarsi nello spazio che si sarebbe aperto con l’inevitabile declino di Victor. Ma non aveva fatto i conti con Yuri. Poteva sperare di battere il ragazzo che si voleva portare a letto solo augurandogli una crisi di qualche genere. Non era una prospettiva entusiasmante. 

    – Chissà come ha fatto Giacometti a rimanere in buoni rapporti con Victor per anni, senza volerlo ammazzare – commentò.

    Continuavano a uscirgli frasi inopportune. Prima per se stesso, ora per il giapponese. Tre anni prima, subito dopo una gara in Canada, aveva visto Victor e lo svizzero in un bar vicino al palaghiaccio, uno con il braccio sulla spalla dell’altro, intento a sussurrargli qualcosa all’orecchio, in un atteggiamento indubbiamente intimo.

    Yuuri, intanto, aveva individuato i loro posti. Si sedette, prima di riprendere la conversazione.

    – Io ho passato la vita a sentirmi solo – iniziò. – Negli Stati Uniti, dove ero comunque l’unico giapponese, sia in aula che il pista, ma anche prima, a casa mia. Ho sempre pensato che ci fosse una sorta di barriera tra me e gli altri, fatta di lame di pattini e cose non dette.

    Otabek si trovò ad annuire.

    Nell’ambiente del pattinaggio erano in molti a non avere una grande considerazione del giapponese, per via dei suoi modi impacciati e i risultati altalenanti. Eppure, in due frasi il kazako si era sentito perfettamente descritto.

    – Vai avanti – lo incoraggiò.

    – Ma in realtà ho sempre avuto amici, famigliari, persone che mi vogliono bene. Non sono mai davvero stato così solo come credevo. Nel salotto di Victor ci sono parecchie foto, ma sono tutte di gare. Tranne una con Yakov e una con Chris. Io non ci sono, non ancora…

    Otabek annuì di nuovo. 

    Gli era bastato un giorno per toccare con mano la solitudine di Yuri. Per sentirsi un privilegiato per il fatto che gli era stato permesso avvicinarsi. C’era un prezzo che quei maledetti russi avevano pagato per la loro perfezione. Forse non lo avevano pagato consapevolmente, ma c’era. E il rendersene conto probabilmente rendeva un po’ più facile l’accettare di rimanere sempre un passo indietro. E, comunque, fosse stato al posto di Giacometti, lui in quel bar lo avrebbe strozzato, Victor, o almeno azzoppato.

    Scosse la testa.

    – Quando ero in Canada, i Leroy continuavano a ripetere che gli avversari sono sempre e comunque avversari. Io e J.J. ci allenavamo insieme, ma la sola prospettiva di diventare amici era impensabile. Mi è rimasto dentro, suppongo. Ma Yuri mi aiuterebbe a essergli amico, se ogni tanto sbagliasse qualcosa.

    – Allora puoi sempre tifare contro. Georgi apprezzerà.

    – Poveraccio, schiacciato tra quei due maledetti biondi.

    Sogghignarono entrambi.

    – E adesso, con il tuo arrivo, si trova in pista un altro record del mondo – osservò Otabek.

    Yuuri scosse il capo.

    – Non riesco a farmi piacere San Pietroburgo – ammise.

    Otabek non riuscì a trovare qualcosa da dire. Non era bravo a consolare le persone. E lui stesso non sarebbe stato entusiasta di doversi di nuovo trasferire, proprio in quel momento in cui aveva trovato un modo di far funzionare le cose rimanendo a casa propria. Si guardò le mani. Victor e Yuuri erano la sua migliore prospettiva possibile. Per quanto scomoda fosse al momento la sua posizione, forse poteva solo peggiorare.

 

   
 
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