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Autore: _EverAfter_    13/11/2018    1 recensioni
Okita Souji.
Colui che chiamano "La Spada della Shinsengumi", il solo - tra i tanti - a sporcarsi le mani quando serve.
Colui che non è vittima di sorrisi e carezze, il nefasto esecutore di migliaia di morti, che va in giro con la katana sporca di sangue, suscitando rabbia, paura, odio. Odio.
Non gli importa granché, lui ci è tagliato, per l'odio. Lo comprende, lo capisce, lo conforta.
Di fronte alla routine della morte, quel sentimento gli appare più passionale che mai, ed è per questo che preferisce essere odiato, piuttosto che nascondersi dietro la stupida facciata del buonumore.
In fin dei conti, come può mostrarsi amabile, un assassino?
[Quinto posto al contest "Una citazione, una storia" indetto da eleCorti sul forum di EFP].
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Souji Okita
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'elsa che mai tremò



Il vaut mieux être détesté pour ce que vous êtes
 que d’être aimé pour ce que vous n’êtes pas.
~ Andrè Gide



La Spada della Shinsengumi.

È così che lo chiamano; pensa che non possa esistere soprannome più azzeccato di quello, per descrivere ciò che è lui, la sua inconciliabile natura di spadaccino al servizio dell’unica giustizia che conosce: la sua. Quella fatta di paura, terrore, sgomento. Come quando trapassa le pulsazioni adrenaliniche dei suoi avversari, da petto a schiena, in quell’ennesima morte che Okita non ha mai sperimentato.

Non ancora.

È buffa la vita, pensa, mentre sfila via l’elsa della katana dal torace trafitto del suo avversario. Il corpo inerme cade a terra con un tonfo sordo, gli occhi vitrei del soldato rimangono per sempre incatenati al cielo di quel giorno, ch’è più terso del solito.

Tira vento e fa freddo, ma Okita non lo sente. Rimane lì, con lo sguardo affilato e meschino, intanto che può ancora bearsi dell’immagine che ha dinnanzi a sé: ne ha sconfitto un altro, senza problemi. È questo quello che si prova, quando ci si abitua alla Falce, s’impara a cogliere l’aspetto più ironico della vita; quel ragazzo morto ai suoi piedi, avrebbe potuto avere l’età di Heisuke. Un moccioso, per la precisione.

Non che sappia la differenza tra uccidere un bambino o un adulto, non è tipo da fare queste distinzioni: è quello che gli dicono di fare, ciò che davvero conta. E la sua volontà è di ferro, non può vacillare davanti all’evidenza di un comando. È per questa ragione che è sempre lui a sporcarsi le mani, lì dove i suoi compagni d’armi falliscono miseramente, per paura, per quella stupida compassione che vede dipinta sui loro volti bonari e pacifici.

Non li sopporta. Non sopporta la loro maschera di benevolenza, così falsa e dissonante rispetto alla katana che stringono intorno alla cintola. Non sopporta il loro sguardo speranzoso di un futuro migliore, mentre temporeggiano sempre un istante in più per estrarre l’arma dalla fodera che la cela. Così facendo, a lui non rimane altro che intervenire prima che qualcuno li ammazzi. Quei poveri scemi.

Oramai la lega della sua arma non è altri che un metallo forgiato col sangue delle persone che ha ucciso.

Una.

Dieci.

Cento.

Mille.

Non fa differenza. Quella spada rimane rossa, di quella linfa indispensabile alla vita e di cui lui si appropria per sfuggire ancora una volta alla propria dipartita.

Magari un tempo riusciva anche a sentirsi in colpa, ma ora è diverso. Quando tornerà al quartier generale, potrà lavare via il vermiglio che gl’impiastriccia le mani, dimenticandosi dell’ennesimo volto che pare averlo maledetto davanti agli occhi di Thanatos.

Ne avrà di cose di cui scusarsi, quando lo incontrerà.


***



«O-Okit…a, maledet-to.» Vomita il sangue, stramazza a terra.

Lo spadaccino pulisce la sua katana con un rapido movimento del braccio, portandosela nuovamente al fianco, mentre il sangue esule s’incolla al muro lì vicino. Le gocce grumose iniziano a disegnare dei rivoli porporini che scendono fino a terra, a macchiare il terriccio di quella strada deserta.

Un altro nemico è andato. Quanti ne restano?

Ritorna al quartiere: sente gli sguardi degli altri soldati addosso. Riesce a percepirlo chiaramente, il loro disprezzo per i suoi modi disumani e brutali, privi di pietà. Non che gl’importi, in realtà; ci è abituato da quando è nato, ad esser visto in quel modo.

C’è chi lo odia perché lui è un vero samurai, nato da una famiglia di guerrieri. C’è chi lo odia perché è un affabulatore scaltro, bugiardo e fiero. C’è chi lo odia semplicemente perché è lui, Souji Okita. Perfino i suoi sottoposti lo disprezzano, accusandolo di essere la ragione per cui tutti continuano a chiamarli “i Lupi di Mibu”.

Avrebbe potuto pentirsi, se ne fosse stato in grado, ma non lo è; perché non è mai stato vicino alle sofferenza altrui, e la misericordia non gli ha mai sfiorato il volto.

È per questo che, ogni volta che si sporca le mani, può ripulirsele, in quell’atteggiamento pusillanime e per nulla avvezzo alla pena. Poco importa che si senta in colpa, fin quando può attingere ad una fonte che lavi via le sue colpe. A lui è concessa, l’indifferenza del peccato.

Per questo fa così paura, Souji Okita.

È il Sinistro Mietitore, colui che impugna la katana e non la falce.

Ciò che fa il samurai non è altro che prendersi delle vite, esattamente come il teschio incappucciato. Eppure, Okita è terribilmente più spaventoso, perché non reca in sé le fattezze del venerando psicopompo, che scorta lealmente le anime nell’oltretomba, indicando loro la via. A lui interessa solo afferrare le viscere di quegli spiriti e farle proprie, imprigionandole per sempre nel putridume del ferro della sua spada. Non vi è una destinazione da raggiungere, per quelle vite.

È così che vive, Okita, e se l’odio degli uomini è l’effetto collaterale di quella continua sfida tra lui e la divinità del Tartaro, allora ben venga. È pronto. In fondo, non ci è tagliato per l’amore.

Preferisce vivere col peccato della tracotanza, piuttosto che sopravvivere all’ombra di un sorriso forgiato da false speranze. È fatto così.


***


Tossisce un’altra volta. Con la bocca premuta contro il fazzoletto, sente un po’ di sangue sfuggirgli e colargli sul mento.

Sorride amareggiato, mentre tenta di afferrare col braccio tremante la fodera della sua katana. Gli sembra passata una vita, dall’ultima volta che l’ha usata.

Nell’oscurità della sua stanza, tutto gli appare un progetto definito da tempo: è lui, il Cavaliere dell’Apocalisse, che brama per avere finalmente la sua anima. Che razza d’ingenuo, come se gliela potesse concedere così facilmente.

Sente mancargli l’aria e i polmoni farsi più serrati, sul punto di affogare. Annaspa per un po’ d’ossigeno, mentre si mette a sedere e respira profondamente. Quando riacquista un po’ di fiato, non può fare a meno di ghignare.

È un contrappasso onesto, si dice, per tutte le vite che ha rubato. L’ironia più sagace è che sputa sangue senza che qualcuno l’abbia ferito. Forse è davvero l’odio di tutti coloro che ha ucciso, ciò che adesso lo sta uccidendo a poco a poco. Non merita una morte rapida e indolore, lui.

Se ne sta come in trance, a contemplare il lenzuolo del suo futon, cercando con lo sguardo quell’elsa che oramai non può salvarlo, perché Souji Okita non è più in grado di correre più veloce di lei, la morte, la quale sembra spalancare le sue nefaste braccia intorno al suo corpo che lentamente si consuma.

Si alza in piedi, barcollando verso il metallo scheggiato dalle mille battaglie. Sfiora l’impugnatura con la mano tremante, e quando l’afferra s’accorge che il suo palmo non vacilla più. In fondo, non è cambiato nulla.

Stringe la katana con decisione, ignorando l’impulso di tossire e avvicinarsi ancora una volta alla sua compare incappucciata.

«Dovrai aspettare» le dice, mentre con lo sguardo vaga alla ricerca della fialetta dal liquido purpureo, posta con cura sul tavolino.

La sfida ancora una volta, mentre ingurgita avidamente il liquido che gli brucia l’esofago, gl’irretisce i sensi. Si sente molto più vicino a lei, in quel momento, e di nuovo le sfugge, recuperando le sue facoltà mentali. Ancora una volta, Okita ha sconfitto la morte.

Per quanto ancora giocherà a braccio di ferro con lei? È un po’ stanco.

Eppure non può morire, non ancora. C’è troppo odio intorno a lui, perché possa lasciarsi andare a quel modo. La sua missione non è ancora finita.

Guarda il nuovo sé riflesso sul metallo della katana, chiedendosi cosa ci sia di così terribile nell’avere un paio di occhi rossi e i capelli bianchi – la sete di sangue, dopotutto, già l’aveva. Ciò che è cambiato è solo il suo aspetto. Si sente pronto ad affrontare le conseguenze di quella sofferta decisione, anche se significa generare altri dissapori.

Fino a quando ne sarà capace, poco gli importa che qualcuno possa odiarlo davvero. Deve ancora combattere. Può ancora farlo.

Fa scorrere lentamente la porta della sua camera, uscendo al gelo dell’inverno imminente.

Alle sue spalle, le cavità oculari dello scheletro spazientito attendono risentite il loro prossimo incontro.

Il giorno in cui la vittoria spetterà a lui.











Nda:
Ammetto con estrema facilità che AMO - e sottolineo AMO - Okita Souji. E' inutile, ho provato in tutti i modi a scrivere anche sugli altri personaggi, ma con lui scrivere mi viene davvero naturale. T___T Spero che questa breve one-shot vi sia piaciuta, ci tengo tanto a ringraziare il contest a cui è iscritta, indetto da eleCorti che mi ha permesso di scriverla.
Baci baci!

_Vintage_
  
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