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Autore: HellWill    04/12/2018    0 recensioni
"«Perché con quell’atto di eroismo, [...] diedero inizio ad un movimento che è sopravvissuto fino ad oggi: la Resistenza».
«La Resistenza? Resistenza a cosa?».
«Ai soprusi, all’ingiustizia, allo sfruttamento, alla miseria imposta. All’ignoranza, alle leggi disoneste, alla discriminazione, alla schiavitù. Resistenza al mondo umano marcio e alle sue regole corrotte. Resistere per combattere e liberare l’umanità dalle sue piaghe in modo che chiunque, umano o Non, possa vivere libero, rispettato, in pace»."
tratto dal primo volume dei Sentieri Sconosciuti, "Soffitti Sconosciuti".
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sentieri Sconosciuti'
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VII
Beatriz

Il drago
 

pomeriggio, 13 Gjorna 684 d.C.
«Si sta svegliando».
La guardia si fece da parte, per lasciare che Beatriz vedesse il prigioniero che, con il viso ancora intatto ed immacolato, si risvegliava legato alla sedia, al centro della piccola stanza deputata agli interrogatori. Il soldato si mise vicino alla porta, così che la donna potesse fare il proprio lavoro; Beatriz infatti sorrise gentilmente al prigioniero, che aprendo gli occhi istintivamente sorrise.
«Ehy… devo essere in un luogo migliore, se questa è la vista che-».
«E invece no» lo contraddisse la donna, mollandogli un calcetto alla tibia che voleva sembrare timido. «Sei nelle segrete del palazzo conteale, e ti conviene dirmi in quanti erano i clandestini che ieri hanno attraversato le porte di Alya nottetempo» sorrise con gentilezza, e il prigioniero fece una smorfia.
«Mi hanno picchiato, portandomi qui? Ho perso i sensi».
«Forse» sorrise la donna, scostandosi i capelli ricci dal viso. «Ora però parliamo un po’».
«Io sono solo un locandiere» borbottò l’uomo.
«Senti… Aeeln, è il tuo nome, giusto? Bene, Aeeln, non è che abbia particolarmente voglia di farti del male, ma se non fai come dico… beh, avremo dei problemi» Beatriz si sforzò di sembrare triste, e Aeeln batté le palpebre.
«Non… non capisco» decise forse di fare il finto tonto, e la donna finse di credergli.
«Vedi… io so per certo che ti hanno preso mentre offrivi asilo a dei clandestini. Vedi, nel sud del Regno è in corso un’epidemia. Non vorremo certo che Alya venga contagiata, vero?» tubò dolcemente Beatriz, sedendoglisi cavalcioni. Aeeln la guardò assorto, distratto dal calore delle sue cosce.
«N-No?».
«Che bravo» sussurrò Beatriz, abbracciandolo e mormorandogli nell’orecchio: «Allora… quanti erano?».
«Non… non lo so. Sono… sono solo un locandiere».
Beatriz avvicinò nuovamente le labbra all’orecchio dell’uomo, lo sentì tendersi per il contatto e poi rilassarsi, ma lei fece scattare i denti sulla cartilagine. Un urlo le spaccò i timpani, dandole un fastidio tale che tolse un fazzoletto dalla cintura e lo ficcò in bocca al prigioniero, alzandosi di nuovo in piedi.
«Risposta errata, Aeeln. Ora calmati un po’ e… oh, che peccato, un pezzo d’orecchio è andato» constatò in tono dispiaciuto, staccandoglielo definitivamente recidendo la poca pelle che ancora univa la cartilagine al resto dell’orecchio.
Il soldato alla porta spostò il peso da un piede all’altro, a disagio, mentre l’uomo versava lacrime amare e le sue urla di dolore si calmavano. Beatriz gli tolse di bocca il fazzoletto di stoffa, e lo guardò paziente, come si guarda un bambino: gli mostrò il pezzetto staccato e lo buttò sul tavolino, dove c’era un grande sacco nero.
«Ne vale davvero la pena, Aeeln? Vale la pena tacere per dei mendicanti che ci farebbero morire tutti?» mormorò, sedendosi nuovamente su di lui, ma stavolta l’uomo era teso e straziato, in attesa del colpo a tradimento.
«Erano… erano in quattro. Due adulti, un ragazzo, e una bambina, tutti… tutti non umani!» confessò con voce interrotta per le fitte di dolore. «Ti prego…» implorò con voce piagnucolante.
«Sei bravo… ma non è che l’inizio. Dove si trovano? Dove li hai indirizzati in caso di pericolo?» chiese Beatriz, curiosa, e si alzò con il fazzoletto ancora in mano.
«Da… da nessuna parte, lo giuro!».
«Ahi ahi… chi giura e spergiura, dagli Déi l’avrà giù dura!» sorrise dolcemente, avvicinandosi al sacco nero e scrutandoci dentro.
«Cos-Cos’è?» l’uomo deglutì, intuendo che non si trattava di nulla di buono, e Beatriz sorrise.
«Il mio sacco dei trucchetti magici… vuoi vederne qualcuno?» sorrise, e mentre l’uomo scuoteva il capo e tentava di divincolarsi dalle catene che lo tenevano legato alla sedia, Beatriz prese una bottiglietta d’aceto e la versò sul fazzoletto. Fu fulminea nell’avvicinarsi al prigioniero e nello strusciargli l’aceto contro il mozzicone di orecchio sanguinolento come una materna carezza, provocandogli un altro urlo di dolore mentre lei invece tubava dolcemente: «Allora… dov’è che si sono rifugiati?».
«N-Non lo so!» strillò l’uomo, e Beatriz scosse il capo: i capelli ricci e rosa seguirono il movimento, e la donna poggiò il tovagliolo sul tavolo.
«Va bene. Passiamo alle maniere forti, allora».
 

❦❦❦

 
sera, 13 Gjorna 684 d.C.
Beatriz si ripulì gli schizzi di sangue dal viso, ma dato che aveva le labbra completamente insanguinate riuscì solo a fare un gran pastrocchio, e se ne rese conto quando si fissò le mani strusciate di sangue. Il prigioniero, cosciente ma con lo sguardo perso nel vuoto, anche lui con i vestiti inzaccherati, giaceva inerte sulla sedia; neanche un briciolo di tensione residua lo animava, e quando la guardia alla porta lo slegò non riuscì a farlo alzare in piedi… nonostante Beatriz ci fosse andata leggera. Fuori dalla cella degli interrogatori, tuttavia, la attendeva il suo braccio destro, Saradar, che le porse un asciugamano rosso, caldo ed umido, con cui lei iniziò a ripulirsi.
Percorsero il corridoio insieme, mentre l’uomo le apriva tutte le porte: usavano i corridoi di servizio, angusti, bui e soffocanti, ma per non attirare l’attenzione Beatriz si piegava a questo ed altro. Riguardo Saradar, invece, si trattava della spia più brillante con cui avesse mai avuto a che fare, ma era tanto brillante e bravo nel suo lavoro quanto era disinteressato al comando e al potere… se non l’avesse conosciuto così bene, Beatriz avrebbe quasi avuto paura di lui. Lo aveva conosciuto proprio in Spagna, dove lei era nata, all’inizio dei suoi vagabondaggi; inizialmente era lei che aiutava lui nei suoi spettacoli di magia, poi nel Regno di Mame i ruoli si erano invertiti perché Saradar aveva deciso di vendere informazioni – cambiando nome in quello con cui si presentava in quel momento –, e Beatriz invece si era fatta la propria rete di informatori, attirando l’attenzione della Contessina per via dell’essere una strige… così dopo diverse prove di fiducia al Conte ed alla Contessina, era giunta ad essere il Capo delle Spie di Alya, e Saradar l’aveva seguita, diventando una spia vera e propria alle dipendenze della famiglia conteale. Una volta in biblioteca, i due si diressero a passo deciso verso l’antro di Beatriz, posto alla fine della stessa; Saradar non aveva mai imparato a leggere e scrivere la lingua di quel mondo, mentre era la prima cosa che Beatriz si era sforzata di imparare durante i primi mesi. Entrati in quella Dimensione quando erano solo dei ragazzini, ora che erano adulti si erano ritrovati semplicemente inseparabili in un mondo perlopiù sconosciuto.
«Allora? Ha parlato?».
La cadenza dello spagnolo in quel contesto le suonò stranissima, ma così familiare che non lo rimproverò: era un ottimo linguaggio cifrato, dal momento che nessuno oltre loro due poteva comprenderlo.
«Il giorno che non riuscirò a far parlare un semplice locandiere deve ancora arrivare» borbottò la donna, con la voce attutita dall’asciugamano; si inumidì il viso con un lembo, sciacquandosi dal sangue, e anche le mani ne uscirono immacolate, dalla pelle vagamente olivastra. «Si tratta di una famiglia di non-umani, composta da padre, madre, un ragazzo e una bambina; hanno tutti i capelli verdi, tranne la bambina che li ha turchesi», e allo sguardo confuso di Saradar specificò: «Azzurri, sono tipo azzurri».
«Bene. Quindi sarà facile identificarli?».
«No, perché si nascondono alla Tana del Ratto».
«Quella locanda pullula di non umani delle Dita… Circa la metà ha i capelli verdi, e l’altra metà azzurri» Saradar fece una smorfia infastidita, mentre il soldato di guardia apriva le porte di metallo che dalle segrete conducevano alle scale. «Che abbia mentito?».
«Lo escludo. So essere molto convincente… Probabile invece che abbia consigliato loro di andare lì proprio perché si sarebbero mimetizzati» dedusse la donna, poi fece un cenno al soldato. «Grazie» gli disse, ma la guardia le scoccò un’occhiata incuriosita; solo in quel momento Beatriz si rese conto che aveva comunque parlato spagnolo, ma non si corresse e iniziò a salire le scale della torre, continuando a ripulirsi le mani e strofinandosi persino i denti per farli risultare meno rossi.
«Hai scoperto altro?» Saradar la superò sulle scale, per aprirle la porta al primo piano, che Beatriz oltrepassò a passo deciso, con le scarpine che affondavano silenziosamente nel tappeto che ricopriva il pavimento di legno: si trattava infatti di un corridoio della servitù, che le spie utilizzavano di continuo per non lasciar traccia del proprio passaggio; i due incrociarono un paio di donne di servizio, ma una volta giunti nei pressi della biblioteca Saradar scostò un panno e aprì una porticina che dava proprio sulla saletta di lettura della Contessina, vuota a quell’ora di sera.
«Certo. Ho i loro nomi, l’età di ognuno, dove alloggiano, dove passano le giornate, dove cercano lavoro e da quale pertugio sono entrati – oltre ovviamente alla razza a cui appartengono» lo informò Beatriz sbrigativamente quando furono certi di essere soli, ovvero una volta che la porticina fu richiusa e l’arazzo sistemato nuovamente a coprirla e renderla invisibile. I finestroni policromi a quell’ora non proiettavano più le loro figure colorate sulla saletta, bensì quest’ultima era avvolta da una morbida penombra data dalle candele che gettavano sinistre e movimentate ombre provenienti dal corridoio.
«Mi aspettavo di più» ironizzò l’uomo, e Beatriz alzò gli occhi al cielo.
«Vuoi sentirti dire che so persino che voglia ha la bambina sulla guancia? Sì, so anche quello, oltre ad un’altra miriade di piccole cose. Sei soddisfatto? È più semplice elencare ciò che ci serve al momento, invece che sommergerti con un’accozzaglia di informazioni casuali fra cui dovresti destreggiarti bene come faccio io».
Saradar si portò una mano al petto e assunse un’espressione contrita, come se Beatriz l’avesse ferito con quelle parole taglienti, e il capo delle spie per risposta sbuffò divertito, porgendogli il telo umido non più caldo, e ormai sporco. Facendo attenzione a come lo teneva per non sporcarsi le mani di sangue, Saradar la seguì per il corridoio principale della biblioteca, dove con un cenno salutò Rymeth ancora all’opera su un qualche manoscritto, e subito i due si rifugiarono nell’Antro.
Chiamavano infatti così la stanza in cui Beatriz era stata relegata, in fondo alla biblioteca, niente di più che una nicchia della stessa; c’era giusto l’occorrente per svolgere gli affari richiesti dalla corte del Conte: tavoli, carta di pergamena, libri contabili e libri ordinari, inchiostro, e a volte su un tavolino in un angolo stazionavano anche i pasti di Beatriz, che i servi lasciavano nel caso non fosse reperibile… come era stato per quella sera. A chiamarlo “l’Antro” per la prima volta era stato proprio Saradar, perché quella cavità della biblioteca ne condivideva forse l’ambiente – a separare l’Antro dalla biblioteca c’era solo un arco, dal quale ogni tanto Beatriz lasciava cadere una leggera tenda di seta, quando i suoi affari richiedevano concentrazione e non desiderava essere disturbata –, ma se la biblioteca era completamente di legno, la nicchia era di nuda pietra grigia; la prima aveva un’atmosfera calda ed accogliente, mentre l’Antro era angusto e freddo; nulla i due ambienti avevano in comune se non il trovarsi nello stesso grande locale.
Quando, in presenza della Contessina, Beatriz aveva osservato che il covo di una spia senza una porta non era una mossa molto intelligente, si era pentita di quel commento: la Contessina le aveva infatti esposto una complicatissima spiegazione del perché, invece, un covo senza una porta fosse un’esortazione al rimanere segreti sempre e comunque, senza affidarsi alla carta ma solo alle proprie facoltà mentali; nulla di scottante poteva esistere, se tutto avveniva “alla luce del sole”. Beatriz aveva trovato quel discorso illuminante e saggio, all’epoca, e ancora ora, sovente, si soffermava a rifletterci quando osservava l’arco privo di porta che conduceva all’Antro.
Con un sospiro ne staccò gli occhi: Saradar aveva affisso il velo di seta per proteggerli da occhi indiscreti, e Beatriz iniziò a dividere ordinatamente i fogli sul tavolo perché potessero mangiare: l’amico prese infatti i due vassoi e li posò sul ripiano ora sgombro, in maniera che i due potessero parlare e mangiare l’uno accanto all’altra.
«Dunque… come procediamo?».
«Non è un lavoro da guardie, ci sarebbe un fuggi fuggi generale. Ci vuole qualcuno di più cauto, che si mimetizzi…» Beatriz scoccò un’occhiata ai capelli azzurri di Saradar e l’uomo alzò gli occhi al cielo.
«Certo, mandiamo lo stregone».
«Sei l’uomo più qualificato che ho… nonché quello di cui mi fido di più» cercò di addolcirlo la donna, ma non funzionò.
«Sono immune a quegli occhioni da cerbiatto che ti ritrovi» borbottò, ma poi ridacchiò. «Un metro e sessanta di capo delle spie, nessuno direbbe mai che sei letale se ti ci metti».
Beatriz ebbe un brivido quando sentì le misure metriche: le si accapponò la pelle e sorrise istintivamente, mentre tagliava la carne con il coltello e si portava alla bocca con le dita un boccone; lo assaporò: petto di cappone al latte e acqua di rose… ma oltre alle rose c’era qualcosa che dava al piatto un sapore dolciastro, anche se non seppe capire cosa.
«Certo, certo» borbottò, fra un boccone e l’altro. «Mi conviene, in effetti, sembrare inoffensiva… ho meno rogne».
«Però devi essere brutale con i prigionieri, altrimenti non ti rispondono» le fece notare Saradar, divertito, e Beatriz fece spallucce.
«Bene così, ci si fa l’abitudine… e comunque sono prigionieri, sono lì per parlare. Se non lo fanno è solo colpa loro. Se sembri spaventoso sul campo, poi, la gente si ritrae e non collabora… se sembri un animaletto indifeso, invece, dice un mucchio di cose che non dovrebbe dire» ridacchiò, ripensando alle volte che le era capitato proprio quello.
«Hai intenzione di andare in avanscoperta, per quanto riguarda la famiglia clandestina?».
«Non saprei. La bambina è malata, cercano sicuramente una Sacerdotessa o un Sacerdote per avere delle cure…» lo informò, e Saradar si irrigidì.
«Quindi mi stai dicendo che stanno mettendo a rischio la sicurezza di tutta la città? E per cosa?» quasi ringhiò, e Beatriz si strinse nelle spalle.
«Salvare i figli, forse. Al sud la piaga è aumentata, sta facendo strage di chiunque abbia sangue fatato… Non mi stupirei se la bambina, a questo punto, fosse di un altro padre» Beatriz si versò un calice di vino speziato e osservò con dispiacere che era ormai tiepido, ma lo bevve comunque per stemperare il sapore dolce del cappone; nel momento in cui il vino toccò le labbra, identificò il sapore che le sfuggiva: farina di riso. Mescolata con il latte e l’acqua di rose, rendeva il tutto cremoso e molto mielato, al punto che la stava stomacando: non si era mai abituata a quei piatti elaborati, nonostante vivesse ormai da almeno sei anni a corte.
«Non mi interessano i loro drammi familiari» borbottò Saradar. «Voglio sapere se andrai in avanscoperta e solo poi condurrai i soldati per arrestarli… o se agirete contemporaneamente, tu e le Guardie».
«Direi la seconda… Io li tengo occupati, li faccio parlare, mentre i soldati vengono da noi. Inoltre, bisognerà selezionare solo Guardie umane, in modo che non si rischi che si contagi qualcuno. Cosa mi consigli?».
«Direi drago, ma so che è quello che detesti di più, quindi dirò gatto» l’uomo sorrise, e Beatriz ricambiò, posando il calice vuoto sul vassoio. Lasciò mezzo piatto intatto, e subito si alzò.
«Perfetto… preferenze sul colore?» ridacchiò, e Saradar si strinse nelle spalle.
«Tricolore».
La donna si avvicinò alla parete in fondo all’Antro e con relativa forza spinse un mattone ­­– a cui era fissato un chiodo – a rientrare nel muro di qualche centimetro; la parete si mosse immediatamente, lasciando aprire una porticina in un angolo; Beatriz scostò il tavolino che ne precludeva l’entrata e si immerse nell’oscurità della stanza. Tuttavia, il luogo le era ormai così familiare e conosciuto che subito prese una torcia di fianco la porticina e la porse a Saradar nell’Antro: l’uomo la accese con una candela e la porse nuovamente a Beatriz, che così illuminò l’angusto ambiente ponendola sull’apposito sostegno da cui l’aveva tolta.
Si trattava di un’ulteriore nicchia, e l’odore nell’aria viziata – poiché non comunicava con l’esterno – era quasi soffocante: si trattava infatti di odore di pellicce di tutti i tipi, appese a grucce lungo le pareti. Il soffitto era basso, al punto che Saradar dovette chinarsi mentre sbirciava Beatriz dirigersi verso le pelli di piccola taglia, e prendeva una pelliccia di gatto rosso, bianco e nero dalla parete; subito prese da terra la coppa che usava per soffocare la fiamma della torcia e la spense, posò nuovamente la coppa per terra e, attraversando la porticina, tirò il mattone in posizione grazie al chiodo: la parete si richiuse come se l’apertura non ci fosse mai stata.
«A volte sei inquietante» sorrise, e Beatriz si portò una mano al cuore, come emozionata da quel ‘complimento’.
«Non mi chiamano “strige” per niente» ribatté divertita. «Ora andiamo, non vorrei perdere di vista l’obbiettivo» borbottò, prendendo con sé una borsa di cuoio e arrotolandoci dentro la pelliccia. Saradar fece un cenno affermativo, prendendo con sé la borsa, e Beatriz si avviò attraverso la biblioteca, diretta alla parte di città che dava rifugio a pescatori e non umani di tutti i generi; l’amico la seguì senza fiatare, eccitato all’idea del prodigio a cui stava per assistere ancora una volta.
 

❦❦❦

 
sera, 13 Gjorna 684 d.C.
«Se solo qualcuno ci desse una mano, noi non saremmo costretti a vagare qui e lì come dei mendicanti per avere delle cure da una Sacerdotessa!».
La tonante voce maschile risuonò per la stanza, e la figlia della locandiera si sbrigò a controllare che la porta di legno massiccio fosse ben chiusa, prima di guardare ansiosa la bambina vicino il focolare, con i brividi nonostante la sera non fosse nient’altro che un po’ umida e fresca, dunque per niente fredda.
«Non so cosa dirvi, noi vi stiamo offrendo riparo ma presto le Guardie saranno qui, hanno preso mio zio, e lo hanno portato a Palazzo!» pigolò la ragazza, e l’uomo che aveva parlato la guardò con occhi di brace, senza capire.
«Vostro zio? E cosa c’entra lui, in tutto questo?».
«È il proprietario dello Scampo Abbandonato…» sussurrò la ragazza, colma di apprensione. «Deve ancora tornare, e spero lo faccia sulle sue gambe e tutto intero, che gli déi lo vogliano» alzò gli occhi al cielo come per rivolgersi a loro, poi tornò a guardare la bambina e si passò una mano fra i capelli biondi, che alla luce del fuoco brillavano leggermente rosati, tradendone la non-umanità. L’uomo, intanto, era impallidito e la furia che lo animava lo aveva lasciato.
«Lo Scampo Abbandonato? È la prima locanda che ha voluto accoglierci… ci ha detto lui di venire qui» aggiunse, e la ragazza fece una faccia addolorata.
«Questo vi fa capire quanto dolore ci provoca dirvi che dovete andarvene il prima possibile, perché altrimenti le Guardie non solo vi porteranno a Palazzo, ma ci andremo anche noi di mezzo! Per avervi ospitati… bambina malata e tutto».
«Tu non hai visto gli orrori della piaga, vero?» borbottò la donna che stava asciugando il sudore febbrile dalla fronte della piccola. La figlia della locandiera scosse piano il capo.
«Prima viene una febbre che non si calma con niente se non delle cure che sono sconosciute ai più, e a cui solo Sacerdoti e Sacerdotesse hanno accesso… se non funzionano neanche quelle, ci sono i deliri. I deliri di una fata sono pericolosi, sai? Potrebbe persino usare la magia, sentendosi attaccata da cose che non ci sono. Poi vengono le bolle, compaiono su tutto il corpo, di colore blu, e sono quelle che danno il nome alla malattia… “febbre blu”. Quando le bolle scoppiano, infettano subito altri del popolo fatato» mormorò la donna, con aria stanca, e continuò: «Se la febbre e i deliri si fermano o vengono fermati prima di arrivare alle bolle, il malato non si ammala più, e la febbre va e viene per un paio di giorni, fino a che non c’è più nulla. Ma se la febbre non viene presa in tempo… dopo le bolle, le estremità del corpo iniziano a morire per conto loro. Diventano azzurre, poi verdi, poi nere… e c’è puzza di cadavere. Sei un morto che respira».
La ragazza si portò le mani alla bocca, scuotendo il capo.
«Abbiamo chiamato una Sacerdotessa, ma non verrà prima di domattina… non potete far altro che aspettare, muovervi con la bambina malata attirerebbe l’attenzione, e…».
Un rumore in corridoio la fece tacere, e il ragazzino che si rigirava nel letto la fece sobbalzare d’improvviso.
«Ti devi calmare, ragazzina, altrimenti-».
Beatriz aveva ascoltato a sufficienza. La gattina tricolore sgusciò via dal davanzale dove era stata per tutto il tempo, saltando sul tetto e al contempo mormorando con la minuscola bocca di gatto:
«Quelsaes».[1]
Immediatamente sul tetto ci fu una Beatriz che si toglieva la pelliccia di gatto dalla schiena e dalla testa, e modulava un delicato suono di civetta: era il segnale.
Saradar a sua volta alzò il braccio e indicò la locanda da un angolo della strada, e quattro guardie entrarono dalla porta principale; sul retro ce n’erano altre quattro, pronte in caso i clandestini volessero fuggire da lì; sul tetto, invece, c’era solo Beatriz… e nonostante il cuore le battesse all’impazzata perché era da mesi che non si lasciava indurre alla tentazione di lavorare sul campo, si sentiva calma e pronta all’azione in caso di bisogno. Sfoderò un pugnale, mentre sentiva il vociare delle guardie al piano di sotto, con il suono sordo di sgabelli e sedie che venivano spostati tutti in un colpo, lo schiamazzo del fuggi fuggi generale fuori dalla locanda, e un tetro silenzio pieno di panico proveniente dalla stanza che aveva appena lasciato.
Come Beatriz aveva previsto, l’uomo dai capelli verdi spalancò la finestra e stava per scavalcare con la bambina malata in braccio, quando vide la donna con il pugnale in mano: il suo colorito da pallido divenne terreo.
«Vi consiglierei di rimanere lì dove siete. Le Guardie vi scorteranno a Palazzo, dove sarete isolati e, chi ne necessita, curati» spiegò calma, ma l’uomo stava valutando evidentemente se poteva buttarla giù dal tetto e scappare. «Ti assicuro che il tetto è troppo alto perché voi possiate saltare giù con una bambina in braccio. E io non morirei per l’altezza, invece… ho la testa di legno» fece un sorrisetto teso, e l’uomo scosse il capo.
«Non puoi capire. Lasciaci tentare. Noi dobbiamo andare via, dobbiamo-».
Dei violenti colpi alla porta lo interruppero, facendolo sussultare, e la bambina febbricitante fra le sue braccia mandò un flebile pigolio di lamento. La donna nella stanza spinse il marito con il busto oltre la finestra, probabilmente chiedendogli in un qualche dialetto mamiano con chi parlasse e perché non fosse già fuori; poi la vide anche lei, e si immobilizzò come un gatto messo all’angolo. I suoi occhi azzurri scintillavano di un’ardente e pericolosa fiamma, quando fece un gestaccio a Beatriz, che portava i colori del Conte.
«Facci passare, o proverai sulla tua pelle la furia di una madre!» ringhiò, iniziando a scavalcare il davanzale per attraversare il tetto; probabilmente si sarebbero diretti verso la stalla coperta, che aveva il tetto più basso, e avrebbero tentato un salto da lì. Beatriz mantenne la calma, nonostante l’idea di perderli ora che erano così vicini le mettesse un pizzico d’ansia in gola. Probabilmente, però, gli déi di quel Regno erano dalla sua, perché la figlia della locandiera era troppo impaurita per non collaborare e non aprire la porta alle Guardie: percependo ciò, la non-umana con il figlio assonnato al seguito tentò di scavalcare di gran carriera il davanzale, ma il marito la prese per un braccio; i due si guardarono negli occhi per un lungo attimo, proprio a pochi metri di distanza dalla strige dai capelli rosa che li fissò senza capire: cosa significava quello sguardo?
L’uomo si voltò, mentre le Guardie intimavano ai tre non-umani visibili di girarsi lentamente con le mani ben visibili, per capire se erano armati. Beatriz scorse una scintilla di disperazione negli occhi della donna a cavalcioni sul davanzale, poi abbassò lo sguardo e scese nella stanza, alzando le mani per mostrare che erano prive di armi, così come il ragazzino. La bambina invece mandò un flebile lamento e si agitò fra le braccia del padre; una Guardia la prese in consegna, consentendo al padre di arrendersi e mostrare che era disarmato… ma invece sfoderò un pugnale, accoltellò la Guardia che teneva la figlia, afferrò quest’ultima al volo e scavalcò la finestra con un agile balzo, passando il coltello al ragazzino, che era improvvisamente sveglio. Il giovanotto tenne impegnati i tre soldati per qualche secondo mentre la madre scavalcava il davanzale, dopodiché le Guardie lo disarmarono e lo immobilizzarono, rendendolo inoffensivo; intanto Beatriz si buttò sull’uomo e prese in ostaggio la bambina, arretrando fino ad avere alle spalle un’altra finestra e una distanza di sicurezza dai due genitori, che ora parevano atterriti.
«Ti ammalerai se la tieni così stretta, cara» sussurrò la madre; Beatriz scosse la testa.
«Le malattie fatate non hanno effetto su di me» chiarì Beatriz, e la donna si portò le mani al petto.
«Ti prego… lascia andare nostro figlio, lasciaci partire, ce ne andremo dalla città, lo promettiamo» la scongiurò, mentre una guardia scavalcava il davanzale da cui erano usciti i tre; pochi secondi dopo, anche dal davanzale alla loro destra era spuntata l’altra guardia senza impegno. I due genitori erano circondati, e dietro di loro si spalancavano sei metri d’altezza.
La bambina sollevò lo sguardo e vide il viso dai lineamenti dolci di Beatriz; subito sospirò e si strinse a lei, rabbrividendo per la febbre, e la distrasse un attimo; i due non-umani tentarono di avanzare, ma le Guardie fecero lo stesso, facendo bloccare il movimento sul nascere. Beatriz tornò attenta e affilò lo sguardo.
«Se vi arrendete ora, non vi porteremo nelle segrete, bensì in una comoda stanza dove potrete rifocillarvi e venire curati nel migliore dei modi».
«Una gabbia d’oro è pur sempre una gabbia» l’uomo diede uno sguardo alla finestra da cui erano usciti, con un’espressione amara.
«Ho ferito una Guardia, dubito che staremo in una comoda stanza a mangiare e venir curati».
Beatriz assunse un’espressione contrita.
«Forse tu sarai separato dagli altri, non posso negarlo. Spera nella clemenza del Conte; posso provare a spiegargli la vostra situazione, la vostra disperazione… Ma nient’altro è in mio potere» lo avvisò, mentre l’uomo stringeva la donna a sé, sotto il mantello estivo. Si scambiarono qualche parola, mentre l’espressione della donna si intristiva sempre di più; quando l’uomo ebbe terminato di dirle qualcosa, la donna sembrava avere vent’anni di più, ed era curva sotto il peso della consapevolezza che stavano per arrendersi.
«Arrestateci pure, allora… Bambini compresi» sputò su Beatriz, ma lei si limitò a fare un breve cenno alle Guardie mentre si ripuliva dalla saliva con il braccio libero; prese poi la bambina in braccio e lei le si aggrappò al collo, cercando calore in quella notte umida e fresca.
I soldati si affrettarono a mettere le manette ai due non-umani e li scortarono nuovamente nella stanza, dove il loro collega ferito fece una smorfia di dolore e il ragazzino sussurrò qualcosa in un oscuro dialetto mamiano o faël, a cui il padre rispose con un dolce mormorio che sembrò lo scorrere di un ruscello nell’acciottolato del suo letto.
Beatriz consegnò la bambina alla guardia ferita, in modo che la guidasse al piano di sotto; con un paio di parole ben piazzate la Guardia riuscì a convincerla con dolcezza a stare in piedi e a muovere qualche passo traballante, mentre il braccio ferito gli sanguinava lentamente: il coltello si era infatti infilato fra lo spallaccio e il cubitale, dandogli una fitta lancinante sull’istante, e un quieto torpore in quel momento, dopo aver bevuto un po’ dalla fiala della salvezza che veniva data in dotazione ad ogni soldato del Conte.
Beatriz fece un cenno alle Guardie, che risposero e iniziarono ad uscire dalla stanza con i prigionieri in catene, dopodiché la donna diede uno sguardo alla stanza: c’erano ancora tutti i bagagli della triste famigliola, niente di più che un paio di bisacce con i vestiti e qualche soldo sul tavolino vicino la porta. Con un sospiro, la strige raccattò tutto e si mise a tracolla le due borse, dopodiché si mise la pelliccia di gatto su nuca e collo, fra testa e schiena, e borbottò:
«Quelsaes».[2]
Dopodiché, una gatta incinta saltò sul davanzale, passò sul tetto, e scomparve nella notte.
 

❦❦❦

 
notte, 13 Gjorna 684 d.C.
«Detesto portar pesi quando sono in altre forme» borbottò Beatriz, mentre Saradar si stringeva nelle spalle, piluccando una piccola ciotola di frutta secca che aveva sottratto alla cucina e continuando a camminare verso i quartieri notturni insieme alla donna.
«L’importante è che ora siano in quarantena. Se ne occuperanno Irorus e Pareul, mentre noi possiamo andare a dorm…».
Le ultime parole famose stavano per essere pronunciate, ma il caso volle che Saradar fu interrotto prima.
«Mia signora!» un paggio li fermò e venne loro incontro dall’altra parte del corridoio, e quando si fermò inchinandosi davanti a loro sembrava accaldato e a disagio, in attesa di parlare. Beatriz lo guardò con occhi da gatta, neanche stesse per mangiarselo: era stata una lunga giornata, e lei voleva solo andare a letto e svegliarsi il giorno dopo… ma ovviamente la giornata non pareva ancora finita.
«Parla» gli ordinò, arrendendosi all’evidenza che c’era altro da fare.
«Vi porto due messaggi, mia signora» il paggio sembrava a disagio, ma Beatriz lo esortò a continuare; se fosse stata seduta e avesse avuto un tavolo a disposizione, ci avrebbe tamburellato su le dita.
«Dimmeli, dunque; cosa aspetti?» la strige si stava spazientendo, e il paggio si fece più piccolo, se possibile: non poteva avere più di dodici anni, ed era alto quasi quanto Beatriz, dunque fu un prodigio di natura vederlo rimpicciolirsi.
«Uno è di mastro Zahel, e vi invita nelle sue stanze a bere del liquore quando avrete finito i vostri affari per il giorno» il paggio si inchinò alla fine del messaggio, nervoso, e Saradar si coprì la bocca con la mano per non ridere, fingendo di star sospirando per la noia.
«Hai detto che i messaggi erano due» gli fece notare la donna, e il paggio annuì.
«Lo manda mastro Ileeth, e mi ha detto di dirvi solo che ne sono arrivati altri».
Beatriz si fece attenta a quel nome, e al tempo stesso dentro di sé si accese un po’ di curiosità. Si scambiò uno sguardo con Saradar e fece poi un cenno al paggio, congedandolo; il ragazzino scappò a gambe levate.
«Lo hai terrorizzato» rise l’uomo, e Beatriz fece una smorfia.
«Lo sai che l’anima mi-»
«-resta attaccata, sì, me lo ricordo ancora» borbottò Saradar in spagnolo, e Beatriz sorrise.
«Ti va di accompagnarmi?».
«Da Zahel ci vai da sola?».
«Ci mancherebbe altro» rise Beatriz: “bere liquore” significava ben altro, ed entrambi lo sapevano bene… Fu quasi tentata di lasciare Zahel a bocca asciutta come sempre, ma lo aveva fatto troppe volte fino a quel momento e a perseverare avrebbe rischiato non ricevere più inviti. In più, il ragazzo – perché questo era in confronto a lei, un ragazzetto, non se la sentiva neanche di considerarlo adulto – era appena tornato dopo mesi di missione, e lei non si rilassava da un po’; dunque, perché no?
Saradar la strappò a quelle considerazioni picchiettandole su una spalla.
«Ti sei incantata?» ridacchiò, ben sapendo che era stata distratta dal primo messaggio ricevuto. «Eppure speravo in un invito anche io, sai?» sospirò l’amico, e Beatriz aggrottò le sopracciglia.
«Non ti far sentire, che non vorrei rischiare di perderti per un invito del genere».
«Oh, tesoro, ma secondo te non staremmo attenti?» obiettò Saradar, passandosi una mano fra i capelli. «Quel bambinetto è carismatico, non c’è che dire; mi chiedo solo quanto sia effettivamente bravo».
«Le cameriere ne dicono un gran bene» borbottò Beatriz, e Saradar si umettò le labbra, porgendole il braccio. Beatriz lo accettò, anche se in quel modo sembravano padre e figlia data la differenza d’altezza; insieme si diressero verso la prima stanza utile da cui immettersi poi nei corridoi della servitù, per raggiungere le cucine e da lì il retro del castello, dove avrebbero esaminato i nuovi arrivi.
«Se ne dicono un gran bene, dev’esser vero. Anche i paggi più anziani dicono che non è affatto male, purché si accetti di…» Saradar si interruppe e i due si scambiarono un’occhiata, Beatriz più meravigliata che altro.
«Entrambi, dunque! Non lo facevo così…» si interruppe da sola, come per pensare alla parola adatta; nel frattempo, Saradar le scostò un arazzo nel salotto in cui si erano infilati, scoprendo una porticina che conduceva ai corridoi della servitù.
«Versatile?» rise l’amico, e Beatriz ridacchiò mentre si infilava nella porticina.
«Diciamo pure così» confermò, mentre si richiudevano la porticina alle spalle; il corridoio era poco illuminato: le torce erano ridotte a piccole fiamme, e la luce era tenue. I due si diressero verso le cucine, entrambi persi nei propri pensieri; quando uscirono dagli stretti e tortuosi corridoi, Saradar aveva ormai finito di mangiare la frutta secca, dunque lasciò la coppetta su di un tavolo altrettanto vuoto. I due attraversarono lo stanzone: tutti i tavoli erano puliti e sgombri, mentre i forni erano pieni di quelle che ormai si potevano definire solo braci, che emanavano un soffuso tepore; i lavabi – collegati al pozzo tramite delle tubature rudimentali – erano di pietra lucidata dall’uso e levigata dall’acqua; le stoviglie erano riposte nei loro anfratti, e i tegami di rame mandavano un leggero luccichio appesi alle pareti. I due amici scansarono le spezie appese all’architrave della porta che dava nel tinello; superata anche quella stanzetta spoglia adibita ai pasti dei servi, senza uscire dalla cucina, si diressero in silenzio direttamente al grande portone adibito al rifornimento; Saradar prese la chiave da un’alta mensola, mentre faceva un sorriso di sfottò a Beatriz, che alzò gli occhi al cielo.
«A lei l’onore, capo» le porse la chiave sul palmo di una mano, con una riverenza tanto elaborata quanto finta. Beatriz sbuffò e prese la chiave; dopo averle fatto fare quattro giri di chiavistello, aprì la porta quel poco che bastava ai due per scivolare nella notte umida e fredda, e se la richiusero alle spalle portando con sé la chiave: fecero il giro del cortile ed ecco che vicino le stalle, ma abbastanza a distanza da non spaventare gli animali, c’era un carro con le sbarre, di metallo, e Beatriz inarcò un sopracciglio senza riuscire a scorgere nulla al suo interno, se non un profondo e inquietante blu notte.
«Ebbene? C’è magra? Solo quel carro vuoto?» chiese ad Ileeth appena riuscì ad individuarlo in mezzo alle Guardie. In effetti, ce n’erano un po’ troppe, e la cosa la impensierì ancora di più.
«Non è vuoto. Se mi lasci portarla fuori, vedrai con i tuoi occhi che creatura strana e prodigiosa siamo riusciti a catturare stavolta» e dicendo ciò, senza neanche attendere una sua risposta, fece un cenno alle Guardie, che afferrarono delle pesanti catene e le collegarono a dei pesi di piombo ancorati al terreno. Beatriz e Saradar guardarono quello spettacolino di uomini sudati in quella nottata quasi fredda e si scambiarono un’occhiata piena di interrogativi.
Lentamente, un soldato per uno, agganciarono tutte le catene – sei in tutto – ai pesi e una settima Guardia aprì la porta del carro; immediatamente una figura ne uscì di prepotenza, slanciandosi nel cielo. Il blu notte che Beatriz aveva scorto si allargò sotto il firmamento, oscurandone le stelle per una piccola porzione, dopodiché le catene lo trascinarono nuovamente di sotto, impossibilitato a volare per più di un paio di iarde verso l’alto. Beatriz si portò una mano al cuore, atterrita, mentre Saradar le metteva un braccio sulle spalle per farle sentire la propria presenza.
«Che diavolo è quella cosa?» farfugliò la ragazza, dimenticando una delle regole base sulla contaminazione fra i mondi: lì non esisteva un concetto univoco di “diavolo”, mentre i demoni erano ben conosciuti, quindi quella parola le era sfuggita in spagnolo… totalmente incomprensibile per Ileeth, che le diresse un’occhiata confusa.
«È una ragazza-drago, ovviamente».
La figura per terra sibilò, facendo arretrare chiunque fosse a meno di una iarda da essa. Le ali si spalancarono e poi si ripiegarono ordinatamente dietro la schiena di quello che sembrava una ragazzina, poco più che quindicenne, dai fianchi larghi e il seno poco sviluppato. Ma c’erano aspetti di lui ben più spaventosi: prima di tutto, era completamente nudo. Non che la nudità fosse spaventosa, ma i suoi punti delicati erano coperti di squame, così come il seno: dove dovevano esserci i capezzoli, c’erano solo brillanti squame che nella notte sembravano nero-bluastre, e che probabilmente erano azzurre. In secondo luogo, non aveva le braccia, ma un bel paio di ali enormi le sostituiva, spuntando dalle scapole. Inoltre, le squame azzurre ricoprivano la punta del naso, la punta delle orecchie, le spalle, le ginocchia e le dita dei piedi, che avevano anche degli artigli ricurvi come le ali. In pratica, quella creatura era un ibrido fra un drago e un essere umano. L’avere i capelli azzurri – irregolari e corti, tagliati in un caschetto come se piuttosto che un atto d’amore fossero stati tranciati da un artiglio a più riprese – era la cosa meno strana di questo ragazzo e gli occhi gialli sembravano braci nell’oscurità di quella notte; le pupille erano dilatate, ma anche in quel modo era visibile che fossero verticali come quelle dei gatti… e fissavano proprio Beatriz in quel momento, sondandola.
«Sa… sa parlare?» indagò la maestra delle spie, rabbrividendo.
«Non ha fatto altro che ruggire e tentare di sputare fuoco da quando l’abbiamo catturata» borbottò Ileeth, scuotendo il capo.
«Ehy, tu» lo apostrofò allora Beatriz, e il mezzo-drago inarcò un sopracciglio squamoso.
«Chi, io?» chiese, come per sfotterla, e Beatriz rabbrividì: aveva una voce roca e profonda, senza genere.
«Hai un nome?» chiese Saradar per lei, sentendo la sua pelle d’oca sotto le dita lì dove le copriva le spalle.
«Cael è come mi hanno chiamato mio padre e mia madre».
«Dunque sei un ragazzo?» chiese Beatriz confusa: aveva imparato a distinguere fra nomi maschili e femminili, negli anni in cui era restata nel Regno di Mame, e quello era un nome decisamente maschile.
«Sì, sono un ragazzo» confermò il mezzo-drago, cercando di alzarsi in piedi invece di restare accovacciato per terra: aveva anelli a caviglie, collo e vita, collegati alle catene collegate a loro volta i pesi ancorati per terra, per cui quando si sollevò produsse un rumore metallico e che Beatriz associò agli schiavi.
«Eppure non lo sembri» obiettò Saradar, inclinando il capo di lato come per osservarlo meglio. «Sembri anzi una bella ragazza. Come mai ti fingi uomo?».
Nel buio, Beatriz non distinse bene l’espressione di Cael, ma due scintille uscirono ad un’espirazione del ragazzo drago, e gli illuminarono il viso per un breve istante: sembrava irritato, ma non proferì parola. Beatriz realizzò all’istante quale fosse il punto della situazione, ma Saradar sembrò arrivarci dopo: stava per fare un’altra domanda, poi si bloccò e annuì.
«Perché l’avete messo in gabbia e addirittura ancorato?» chiese ai soldati, ma soprattutto a Ileeth, che lo guardò come se stesse dubitando della sua intelligenza.
«Altrimenti sarebbe volata via, mi pare ovvio. L’abbiamo catturata che dormiva su un albero».
«E come si reggeva, non avendo né mani né braccia?» chiese l’uomo, genuinamente curioso. «E soprattutto, come mai l’avete preso? È entrato ad Alya senza permessi né quarantena? Avremmo saputo di un mezzo drago che fa il suo ingresso in città. Non passano inosservati, soprattutto se… beh» Saradar si portò una mano al viso, si grattò il mento, poi indicò il ragazzo che aveva inarcato un sopracciglio squamoso. «Soprattutto se girano nudi e non hanno le braccia» l’uomo suo malgrado sorrise, così come Ileeth, che addirittura rise, ma Beatriz scosse il capo: l’avrebbe infatti saputo nel momento stesso in cui avesse messo piede in città… dopotutto, lei aveva orecchie e occhi ovunque.
«Dove l’avete trovato?» ripeté allora la domanda, sperando stavolta ci fosse una risposta. Ileeth scrollò le spalle come se non fosse importante.
«Durante una ronda nel bosco di Ilyann, la parte che confina con la città. Ci è sembrata una creatura abbastanza rara da interessarti… e da interessare alla Contessina».
A Beatriz si strinse il cuore; non era un compito che svolgeva con piacere, e alla fin fine non riusciva neanche a godersi i soldi che derivano da quella missione.
«Sì…» si rese conto di sembrare dubbiosa, così corresse il tiro, e confermò secca: «Sì, è decisamente roba che ci interessa. Lascia che lo esamini».
A quel punto Cael arretrò di qualche passo, e Beatriz notò che camminando le ali si muovevano impercettibilmente per fargli mantenere l’equilibrio; in assenza delle braccia, il ragazzo doveva aver sviluppato altri metodi per camminare, correre, e anche volare. La donna iniziò a girargli attorno, e il mezzo-drago si muoveva con lei, per quanto concesso dalle catene; ad un certo punto Beatriz si avvicinò pericolosamente, incuriosita dalla sua mancanza di braccia – le aveva perse da bambino o era nato senza? – e Cael le soffiò come un gatto; quattro balestre e tre alabarde furono puntate immediatamente al mezzo drago, che si ritrasse ringhiando. Beatriz alzò le mani e scosse il capo.
«Fermi».
Bastò una parola per fermare le Guardie, che però non abbassarono le armi. Ad un cenno di Saradar ed Ileeth, tuttavia, lo fecero immediatamente; Beatriz sorrise amaramente tra sé e sé, ma non disse nulla.
«Non essere spaventato» si rivolse allora al mezzo drago, che la guardò diffidente; i capelli erano bluastri e sottili, lisci, e gli cadevano sulle spalle corti, sfilacciati. Gli occhi gialli e brillanti la seguirono mentre Beatriz gli girava ancora attorno; aveva un fisico forte, e anche se non poteva vedere la schiena, la donna dedusse che aveva una muscolatura molto robusta, per sostenere il volo. Gli porse una mano, e Cael la guardò con il capo inclinato, come valutando l’offerta; con un tintinnio di catene, concesse di essere toccato da quella donna gentile. Beatriz rabbrividì quando venne in contatto con le spalle toniche del ragazzo; le squame si alzarono leggermente per il nervosismo del mezzo drago, rischiando di ferirle le dita. Finalmente osservandolo da più vicino, Beatriz capì che senza braccia quella povera creatura ci era nata; e che solo grazie alle ali e ai suoi artigli, probabilmente, manteneva una certa autonomia.
«Come fai a mangiare?» Saradar, com’era tipico di lui, interruppe il momento e fece voltare Cael con un’occhiata ferina.
«Dammi del cibo e ti faccio vedere» sibilò, e Saradar si strinse nelle spalle mentre Beatriz gli lanciava la chiave delle cucine.
«Fa’ presto, abbiamo da fare» lo rimproverò, ma in cuor suo pensava che fosse una buona idea far mangiare quel ragazzino: era magrolino, anche se muscoloso, e senza cibo non sarebbe durato molto nelle segrete del palazzo conteale. Una volta che Saradar si fu allontanato abbastanza, Beatriz riprese la sua osservazione, ma durò pochi secondi, perché era ormai stanca: il ragazzino aveva sicuramente sangue di drago, questo era ovvio, ma al contrario dei Draghi Superiori non era un qualcosa che poteva controllare… la sua storia sarebbe stata interessante da ascoltare, ma non era quello il momento, né il luogo: con tutti quei soldati che scambiavano un singhiozzo per un ringhio, la Contessina non le avrebbe mai perdonato l’uccisione di una bestiola così preziosa.
«Cael, posso farti qualche domanda?».
Il mezzo-drago storse le labbra.
«Ho una qualche scelta?» disse, alzando un piede e facendo così tintinnare le catene che aveva alla caviglia; le ali si mossero appena per bilanciare lo spostamento del peso, facendo innervosire i soldati.
«Puoi non rispondere… lo capirei. Sei arrivato qui in gabbia, e ora sei in catene» osservò Beatriz cauta, e Cael quasi fece un sorriso amaro.
«E la cosa non andrà a migliorare, non è vero?»; poi sospirò, senza attendere una risposta già ovvia.
«Sei nato così?» Beatriz fece un cenno con la mano alle ali e alle squame, ma Cael sorrise fiero.
«No, un drago mi ha scelto; il suo corpo era in punto di morte e ha scelto di farmi un dono. Aveva visto che ero nato senza braccia, e ha voluto prestarmi le sue ali» si erse, fiero in tutta la sua magrezza, ma le ali tremarono appena, tradendo invece il suo nervosismo. Beatriz era quasi delusa, però, da quella rivelazione, e non sapeva cosa fare: lasciare libero il mezzo drago, poiché il suo sangue era umano? oppure relegarlo nelle segrete per dare alla Contessina un’altra creatura da torturare a suo piacimento?
Proprio in quel momento tornò Saradar con un cestino pieno di cibo. Lo mise davanti a Cael, che spalancò gli occhi: il capo delle Spie pensò immediatamente che il ragazzo drago non avesse mai visto così tanto cibo in vita sua, perché si accovacciò immediatamente e allungò l’artiglio del pollice dell’ala per scoprire delicatamente il cestino, sollevando la tovaglietta di stoffa bianca che copriva il cibo; al movimento un paio di soldati sollevarono la propria arma, ma Beatriz osservò affascinata Cael che infilava l’artiglio nel pane ormai secco del giorno prima e se lo portava alla bocca, masticando velocemente e con gusto il pane duro.
«Grazie» riuscì a bofonchiare il ragazzo drago, passando a mangiare una pera e non curandosi né del picciolo né dei semi, che ingoiò insieme alla polpa.
«Ti capita mai di ferirti con… beh… l’artiglio?» Saradar incrociò le braccia, e osservò Cael che prendeva dei pezzi di carne essiccata e se li infilava in bocca con l’altro artiglio, e il ragazzino si strinse nelle spalle, a bocca piena.
«Pria fì, adeffo no» parlò a bocca piena, poi ingoiò l’enorme boccone, e se ne mise subito in bocca un altro, un’altra pera intera, che non si diede la pena di mordere prima di masticare.
Beatriz non poté fare a meno di sorridere nel vederlo mangiare, ma le si strinse il cuore al pensiero che, non appena avesse finito di mangiare, avrebbero dovuto portarlo nelle segrete, lì dove venivano custodite anche le altre creature magiche.
Cael finì di mangiare prima del previsto: il cestino era vuoto e il ragazzo drago sazio, al punto che si leccò gli artigli dei pollici dell’ala e fece un grande sorriso a Beatriz e Saradar.
«Grazie» disse, alzandosi e facendo una riverenza maschile ad entrambi.
«Ora sai cosa accadrà, vero?».
Il ragazzo drago si rabbuiò.
«Mi lascerete libero?» chiese sarcastico, e Beatriz non poté fare a meno di sorridere, mentre Saradar ridacchiò.
«Certo» rispose altrettanto sarcastico, mentre faceva un cenno alle Guardie; immediatamente le catene di Cael vennero tirate nuovamente verso il carro-gabbia, e il ragazzo drago oppose subito resistenza.
«Non ho fatto niente! Non potete imprigionarmi!» ringhiò, ma Beatriz poté vedere che gli occhi erano colmi di lacrime disperate; provò a dire qualcosa, ma Cael iniziò a sbattere le ali incatenate e lo spostamento d’aria le fece sollevare le braccia per coprirsi il viso e non far entrare la polvere negli occhi.
«Tenetela!» urlò Ileeth, mentre Cael si sollevava di qualche centimetro da terra; le catene assicurate ai pesi di piombo lo tirarono subito giù, così che la sua fosse una lotta inutile contro gli elementi di metallo pensati per tenere a terra i draghi selvatici. Beatriz scosse il capo e fece un cenno: Cael sarebbe stato riportato in gabbia, e da lì calato direttamente nelle segrete dal montacarichi che si usava anche per i prigionieri pericolosi. Saradar le si affiancò parlandole animatamente di qualcosa di non ben definito, mentre lei si voltava e si dirigeva nuovamente verso le cucine: si sentiva ubriaca tanto era stanca, e soprattutto si sentiva spaventata da quell’incontro; si morse le labbra, mentre si girava circospetta per cercare di scorgere Cael, ma l’avevano già chiuso nella gabbia: l’unica cosa percepibile erano i suoi gemiti di dolore e paura… Anche perché si era probabilmente mostrato più forte di quanto non fosse in realtà.
«Gli avranno fatto del male?» sbottò a Saradar, che continuava a parlare, e lui si zittì, girandosi per un attimo a guardare Cael, prima di voltare l’angolo e tirar fuori la chiave delle cucine.
«Non credo. Sanno che è merce delicata».
«Lo spero bene, altrimenti lady Willow non sarà delicata con me» lo scimmiottò, di pessimo umore. Saradar si accigliò, notando che qualcosa non andava, e tentò di metterle una mano sulla spalla; Beatriz, però, gli diresse un’occhiata gelida e se lo scrollò di dosso, entrando per prima e accelerando il passo così che capisse che non voleva essere seguita. Ora come ora, le serviva non pensare… e si ritrovò infatti a vagare per il castello obbligandosi a non riflettere eppure immersa fino al collo in quei pensieri cupi ed oscuri che Cael le aveva suscitato, riscuotendosi solo quando arrivò alla porta della stanza di Zahel.
Destino? O semplicemente voglia di scivolare via da quegli affari foschi come da una delle sue pellicce? Si sentiva ancora un po’ gatta, dentro, e bussò piano. Una voce soffusa, altrettanto felina, le rispose dall’altra parte del legno:
«Sì?».
«Sono Beatriz».
«Entra» la voce sembrò flettersi in un sorriso, anche se Beatriz non seppe con precisione cosa le avesse dato quell’idea; eppure, quando entrò, trovò Zahel sorridente sul copriletto, completamente nudo. La donna si portò una mano al cuore, riscaldata da quella vista sia nel petto che nel ventre, e sorrise a sua volta, immensamente divertita: ebbene, visti i suoi costanti rifiuti, il ragazzo aveva voluto fare a modo proprio.
“Così sia”.
Si richiuse lentamente la porta dietro, mentre il ragazzo si alzava e le veniva incontro: quando fu vicino, le prese le mani e le baciò le dita una ad una, facendo una sorta di profonde e sorde fusa.
«Vi stavo aspettando, mia signora» mormorò; Beatriz chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal suono della sua voce, che la catturò immediatamente e le promise di perdersi in mari lontani, dove nulla di quell’oscurità l’avrebbe più raggiunta.

 

 


[1] “Trasformami”.

[2] “Trasformami”.

   
 
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