Anime & Manga > Inuyasha
Segui la storia  |       
Autore: Roberto_Yoda    16/07/2009    1 recensioni
Un ultimo addio tra vittima e carnefice. Nei capitoli successivi a quelli della vicenda di Hitomiko, Naraku riceve una visita da un fantasma del passato, rivive eventi da tempo trascorsi ...
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kikyo, Naraku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Infuria la tempesta

Infuria la tempesta.

 

La traccia del sangue che stava seguendo è svanita da un pezzo. I palazzi sono rari in questa parte della città. E solo stare in piedi richiede più fatica di quanta Naraku avrebbe mai creduto.

L’acciottolato è sdrucciolevole, inondato di pioggia. La furia sferzante del vento, la luce abbagliante e improvvisa del lampo, seguito dall’assordante e continuo scoppio del tuono, tutto congiura per gettarlo a terra, per smarrirlo, per allontanarlo. Un muro d’acqua gli si schianta addosso, riempiendogli la bocca e il naso, chicchi di grandine gli martellano la schiena.

 

Onigumo non lo vuole. Non lì.

 

La pioggia riduce la propria violenza un istante, e vede in lontananza una tromba d’aria, un dito che si protende da mastodontiche rovine a conficcarsi nelle nubi nere, come un dito che tormenta una piaga. Folate spazzano le strade, ululando. Viene sbattuto contro una parete; il braccio gli si intorpidisce per il dolore.

 

Si asciuga gli occhi. Inutile. Una mano davanti alla faccia, passo dopo passo, segue la strada che sente essere quella giusta.

 

Se solo potesse vederci.

 

Ma non riesce.

 

Perché attorno.

 

A lui è.

 

Tutto.

 

Così.

 

Nero.

 

Dentro al nero.

 

Anche se l’unico occhio che mi è rimasto è aperto.

 

Notte.

 

Notte, perché non c’è neppure quella miserevole luce che mi viene concessa durante il giorno.

 

Silenzio.

 

Nessun suono mi raggiunge. Per quanto ne so, il mondo intero potrebbe essere avvizzito fino a ridursi a questa sola caverna.

 

Caldo.

 

Mi ha steso addosso questa coperta pesante, perché le giornate si fanno più fredde ora che l’autunno è iniziato. Le ho detto e ripetuto che non soffro il freddo quanto le persone comuni. Che coloro che mi hanno conosciuto si sono sempre stupiti di vedermi indossare abiti leggeri, perfino d’inverno.

Mi ascolta.

Ma non si fida di me. Neppure per una tale banalità.

 

Me la toglierei di dosso. Se potessi. Se. Ma le mie braccia. Sono steccate. Spezzate. Non posso muoverle.

Le dita delle mani. L’unica parte del mio corpo su cui ho il controllo. Oltre alla testa. Già.

 

Maledetta donna.

 

Nonostante la sua mole, è sempre stato un uomo agile. Quasi aggraziato. Il vecchio non gli ha mai impartito un formale addestramento nell’arte del Kenjutsu. Ma il suo istinto e i suoi riflessi gli hanno sempre permesso di prevalere sui suoi avversari.

 

E adesso.

 

E’ inchiodato in questa squallida caverna, immobile, impotente.

Da quanto tempo? Quanti giorni? Quante settimane?

 

Sospeso in un limbo crepuscolare, Onigumo non ne ha idea.

 

Maledetta donna. Non lo sai, vero, quanto può essere angoscioso, sentire le ore allungarsi fino a diventare l’agonia di un’eternità!?

 

Onigumo è abituato a convivere col suo fuoco. Gli è sempre piaciuto alimentarlo, per godere con intensità e senza preoccupazioni della sua vita.

Ma adesso questo fuoco lo fa spasimare. Come se degli insetti gli camminassero addosso, solleticandogli la pelle ormai insensibile con le loro zampette.

Tutto quel che è lo sta tradendo, gli si sta rivoltando contro. Il suo corpo, le sue voglie.

 

E a tormento si aggiunge tormento. Il nome della donna, è il nome della custode della Shikon no Tama! Che beffa! Già.

La Shikon no Tama. Ne aveva sentito parlare la prima volta in una locanda fetida, una stamberga divenuta l’ultimo porto di mare di uomini e donne, naufraghi delle loro stesse vite, colate a picco dai fortunali della vita.

 

Con un ghigno di disprezzo, aveva prestato attenzione a quello strano vecchio con la bocca nascosta dietro alla bottiglia del liquore col quale si stava stordendo; spaventato all’idea di poter essere udito da orecchie indiscrete, e tuttavia consumato dal bisogno di condividere con qualcuno il suo sogno da ubriaco. Spaventato dall’oggetto della sua stessa fantasia. Spaventato dalla sua stessa paura, perfino.

Forse era un uomo forte, un tempo. Magari un guerriero. Chissà, un samurai caduto in disgrazie, perché no? Ormai, era solo un rottame sbronzo.

 

Si era informato, aveva indagato, e aveva avuto conferma di quella strana storia. Un gioiello mistico in grado di realizzare i desideri. Una miko posta a custodirlo. Uno hanyou con cui – si sussurrava – la miko si intrattenesse.

Si era fatto beffe di tutto quanto. Quel racconto, per lui, era solo una stupidaggine senza importanza.

Quel che voleva, lui era abituato a prenderselo. Già.

 

Così, quando aveva saputo che il palazzo di Kurokawa era incustodito a causa dell’ennesima guerra, aveva deciso il da farsi. Aveva ingannato Rasetsu. Aveva convinto i suoi compari a seguirlo, certo che l’hanyou avrebbe ucciso Kansuke. E invece!

 

Perché Kansuke Rasetsu non era stato ucciso?

 

Con uno sforzo, Onigumo stringe la mano a pugno, e fitte di dolore atroce gli risalgono dal polso fino alla spalla. Suda e grida. Bene.

 

Ciò di cui si è fatto beffe, adesso è lì per beffarlo. Non ha più il suo corpo. La miko gli ha assicurato che un po’ per volta potrebbe riacquistare il controllo delle braccia, se le fratture si salderanno come si deve. Ma non camminerà più. Quando la donna gli ha toccato i piedi, non ha sentito nulla.

 

E le ustioni? Le aveva chiesto. La miko era stata stranamente evasiva, ma poi gli aveva detto che il fatto che fosse sopravvissuto aveva del miracoloso. Nonostante le cure che gli prestava, le sue ferite si sarebbero potute infettare in qualunque momento.

E allora la cancrena lo avrebbe divorato.

Sì! Un gran bel dono! Già! Se solo glielo potesse restituire!

 

Maledetta donna. Cosa mi hai fatto? Ho ucciso per meno. Per molto meno.

Se potessi farti assaggiare. Stupida donna. Donna dannata. Se potessi farti capire.

Lo sai? Cosa significa!? Essere prigionieri di un corpo che ti tradisce. Di un corpo che è il tuo corpo senza esserlo più? Maledetta donna. Un corpo che non è più che una bara?

Ah se tu solo sapessi …

 

E lì, a brevissima distanza, c’è l’unica cosa che forse potrebbe guarirlo. Guarirlo, e non solo. Anche dargli un grande potere.

Ma, per quanto la Shikon no Tama sia vicina, è come se a separarlo dal talismano ci fossero tutte le terre e i mari del mondo! La miko non gli darà mai il gioiello.

 

Le labbra di Onigumo si tendono. Urla ancora.

Ogni tanto urla. Allontana il battito d’ali della follia che gli svolazza attorno. Non gli importa se qualche bestia o uomo feroce dovesse sentirlo. Non ha paura. Non ha paura di niente.

Ma non vuole rinunciare alla vita. La sua vita. L’unica cosa che ha, poiché lui non crede in nulla; in nessuna delle sciocchezze raccontate da miko, houshi e altri sacerdoti. Stupidaggini bisbigliate da vigliacchi ammucchiati tremanti accanto a un focherello, convinti che questo sia sufficiente a tenere lontane le cose nascoste nelle tenebre.

L’unica cosa che ha è se stesso. L’unica cosa che esiste è il qui e l’ora. Se fosse morto nell’incendio, oppure quando Rasetsu l’ha precipitato nell’orrido, oppure lungo la riva del fiume, tutto sarebbe finito.

Ma il suo fuoco non si vuole spegnere. E adesso che la stupida donna gli ha salvato la vita.

 

Maledetta donna.

 

Un giorno dopo l’altro.

 

Cerca la sua vendetta.

 

 

 

Grigio.

 

Dentro al grigio.

 

Pomeriggio.

 

C’è un po’ di luce fioca. L’autunno sta per cedere il passo all’inverno.

 

Almeno, questo gli ha detto la donna. La donna. La donna. La donna.

 

Il suo volto. Incubo nel sonno e sogno nella veglia.

 

Certo; non vede altri esseri umani a parte lei. Ma questo non ha molta importanza. Non gli è mai interessato avere compagnia, se non quando questo serviva i suoi scopi immediati.

E quando poi l’utilità dei suoi compagni finiva, se ne andava per la sua strada, a lasciarli vivere o morire come preferivano.

 

Di solito, non ricorda le facce. Non gli interessa ricordarle.

 

Ma il viso delicato della donna, gli si ripropone di continuo nella testa.

 

Le sue dita si inarcano; gratta con le unghie il legno su cui è sdraiato.

 

 

Ed eccola! La sua sagoma si staglia all’imboccatura della cava. Entra. Viene verso di lui. Così silenziosa, e intabarrata nella Chihaya, che quasi gli pare un fantasma.

 

Onigumo rabbrividisce.

 

Segue ogni suo movimento. Il suo sguardo la scruta.

 

La donna posa a terra il cesto e i fagotti che porta sempre con sé, quando viene lì.

 

Si inginocchia per accendere la piccola lanterna che gli ha lasciato accanto.

 

E’ così impassibile. Distante. Sembra che nulla possa raggiungerla.

La linea della bocca, la forza nei suoi lineamenti minuti, i suoi occhi fermi; tutto gli parla della volontà ferrea che esercita su di sé. Già.

 

La volontà che esercita su di sé, per costringersi a tornare, giorno dopo giorno, e prendersi cura di lui.

 

Ma lui si ricorda. Oh sì. L’immagine di quando la vide la prima volta. La conserva gelosamente. Nessuno gliela può togliere.

Colta di sorpresa. Esausta. Sporca. Quasi … spaventata.

Quei vestiti ridicoli e assurdamente larghi, appiccicati alle sue curve, come le mani di un amante, a rivelare quel ch’è nascosto. Magnifica. Perfetta.

 

Onigumo si sente bruciare; il suo fuoco cresce. E cresce. Ogni giorno.

 

Se potessi riportarla a quella volta, là dove voglio.

Ma come?

 

Ormai, non è che un bambino idiota e incapace.

 

Deve essere imboccato.

 

Deve essere medicato.

 

Deve essere rigirato.

 

Maledetta donna.

 

“Me la sono fatta addosso. Puliscimi, miko.”

 

Lo sguardo di lei non esita. Non trema. Non profferisce verbo.

 

Lo libera pian piano delle fasce che costringono il suo corpo infranto. Inzuppa d’acqua i panni puliti. Lo lava. Non mostra disgusto. Non mostra, alcuna emozione.

 

Onigumo sospira. Geme. A volte ridacchia.

Di proposito.

E le tiene l’occhio incollato addosso, cercando di cogliere la ben che minima esitazione nella sua espressione.

 

Nulla.

 

Purtroppo, non c’è molto da pulire, oggi. Di tanto in tanto, quando le sue voglie si fanno irresistibili, e i suoi sogni tormentosi di un delizioso tormento, e i suoi lombi bruciano di fuoco liquido, si sveglia in piena notte, come non gli capitava più da quand’era ragazzo, per scoprire che il suo corpo si è preoccupato di dargli un briciolo di misero sollazzo.

 

Ma, qualunque cosa ci sia da ripulire, la miko non batte mai ciglio.

 

Si chiede se la donna sappia che, la maggior parte delle volte, potrebbe trattenere le sue viscere in attesa del suo arrivo. Se solo lui lo volesse.

Forse. Forse lei lo sa.

 

Fa parte della sua vendetta. L’ha trasformato in un imbelle bambino. Che lo pulisca, dunque!

 

“Non dovresti tornare, sai, miko? Uno come me, non merita di essere curato così.”

 

Come sempre. Nulla.

 

Non parla sul serio. La provoca, sfidandola a non tornare.

A lasciarlo lì a morire. A fare sapere dove si trova, così che Rasetsu, o uno dei tantissimi altri che vogliono la sua testa, venga a finire quel che non è riuscito a fare.

 

La voce raschiante di Onigumo si fa sentire di nuovo.

 

“Uno come me. Ho commesso così tante atrocità. Mi ricordo, quella volta …”

 

E le racconta uno dei suoi innumerevoli crimini. Non mente e non omette nulla. E’ certo che, se lo facesse, lei se ne accorgerebbe. E invece, Onigumo vuole che lei gli creda e che sappia chi è.

Ma tiene per sé le sue gesta più infami. Abituala, poco per volta.

 

Nulla.

 

Onigumo ricorda bene i primi giorni. Lui le riversava addosso il suo passato. La miko lo invitava a pentirsi per quel che aveva fatto. Non ricorda bene le sue parole. Non gli importava farlo. Sciocchezze. Sciocchezze riguardanti il Fato, e altre stupidaggini.

 

Onigumo le rispondeva sempre allo stesso modo.

 

“Non mi pento di nulla e nulla rinnego di quanto ho fatto. Ho vissuto sempre e solo per il mio piacere. Già. Se non avessi fatto tutto quel che ho fatto, probabilmente adesso non sarei qui, ridotto così. Ma neppure avrei conosciuto una donna bella come te, miko. Perciò, direi che ne è valsa la pena. Sì, ne è senz’altro valsa la pena.”

 

Passati un po’ di giorni, la miko aveva capito il suo gioco e aveva rinunciato a ribattere.

Ascoltava paziente, l’espressione serena, quasi dolce, addirittura.

 

La sua sfida.

 

Così, Onigumo proseguiva coi suoi racconti, fin quando la miko non finiva di pulirlo e medicarlo.

E infine, lo zittiva nutrendolo.

 

Le aveva chiesto spesso di preparagli della carne di porco e del formaggio. Il cibo degli hinin, la casta delle non-persone.

Certo, non il cibo che si abbasserebbe a mangiare una miko o una, ah!, persona rispettabile.

Onigumo era certo che non lo avrebbe fatto mai.

Così, la prima volta che aveva sentito il sapore del maiale nella zuppa, l’aveva quasi sputata per lo stupore. Poi le aveva chiesto se lo avesse cucinato con le sue mani.

La donna non aveva risposto, scrollando solo le spalle.

 

Donna dannata.

 

Ogni giorno, Onigumo cerca di escogitare uno stratagemma diverso per oltrepassare le barriere della donna.

Non ha nient’altro con cui occupare la mente nelle lunghe ore solitarie.

 

Anche oggi ha finito di sfamarlo. Pesce, tritato con un po’ di verdure. Ben bollito, così che possa masticarlo senza troppa fatica, perfino coi suoi denti rotti.

 

Mentre la donna lava la ciotola con un po’ d’acqua, Onigumo sente ululare in lontananza.

La miko si immobilizza in ascolto.

 

Onigumo ne approfitta subito.

 

“Ah, iene. Bestie infide e vigliacche.”

 

Simula una preoccupazione che non prova. Cerca di indurre il tremito nella sua voce roca.

 

“Miko. Resta un po’ qui con me. Per favore. Solo … solo per oggi.”

 

C’è stato un lampo nello sguardo della donna? Come se si fosse accorta della sua recita? Onigumo non riesce a capirlo. Di solito, gli riesce facile dissimulare. Rasetsu è solo uno dei tanti che ha ingannato.

 

Però, questa donna …

 

La miko gli si avvicina e si inginocchia di nuovo al suo fianco.

 

L’ululato delle iene si fa sentire di nuovo.

 

Onigumo annaspa, muove impotente le dita, grugnendo.

 

“Miko. Vorresti ... prendermi la mano? Te ne prego.”

 

Nonostante l’orecchio di Onigumo gli dica che la sua recita è perfetta, come la è sempre, il lampo si ripresenta negli occhi della donna. Non gli crede. Sa che sta mentendo.

 

La donna intreccia le dita con le sue.

 

Il cuore di Onigumo accelera il battito.

 

“Grazie.” Dice soltanto.

 

Le trattiene la mano con la poca forza che gli resta, le accarezza piano il dorso, sfiorando le dita affusolate di lei coi polpastrelli; e poi le poggia il pollice calloso nel palmo, ruotando e carezzando, là dove lui sa che la pelle è più sensibile.

Onigumo sa bene come rendere lascivo perfino un tocco così innocente.

 

I lineamenti della donna restano rigidi fin quasi a rendere il volto una maschera. Ma non si sottrae alla sua presa.

 

Onigumo sorride tra sé. Oh sì; le donne orgogliose sono da sempre le sue preferite.

Quando le spezza, sono quelle le cui grida gli danno più piacere.

 

 

 

Bianco.

 

Dentro al bianco.

 

E’ nevicato, in questi giorni.

 

Mattina.

 

I raggi del sole non mi raggiungono, di mattina. Solo quando sta per tramontare, il sole riesce a sfiorarmi per qualche minuto.

 

Ma il riverbero freddo e violento del sole sulla neve bianchissima, lo raggiunge perfino qua.

Dove la luce viene spinta, quasi urlante, per diventare illusione e sogno.

 

Che strani giochi di luce! Ma sono sveglio? Sono sveglio per davvero? Oppure sto dormendo? Sembra tutto così irreale.

Ormai mi sono abituato al buio. Questo riflesso …questo biancore è accecante, insopportabile. Mi pizzica l’occhio. Lo infiamma. Mi fa piangere. Ma va bene. Non lo chiuderò. No. Continuerò a fissare la volta di questa grotta scavata dagli uomini.

Ci sono segni che non ho ancora imparato a memoria. Forse, con questa luce, potrò vedere qualcosa di diverso …sì …qualcosa di nuovo.

 

 

Qualcosa di nuovo è successo. Ieri. Dopo che la donna ha finito di sfamarlo. Invece di andarsene in silenzio, come sempre, gli si è avvicinata, si è chinata su di lui, lo ha chiamato per nome.

 

“Onigumo.”

 

Aveva trattenuto una smorfia di stupore, che pure si sarebbe persa tra le bende che gli nascondono quasi tutta la faccia.

 

“Ascolta.” Aveva continuato lei, con la sua voce quieta e cristallina come acqua fresca. Acqua che non ha il potere di spegnere o sottomettere il suo fuoco, sia ben chiaro.

 

“Un villaggio vicino ha chiesto i miei servigi per sterminare alcuni youkai. Mia sorella Kaede verrà a portarti da mangiare e a occuparsi di te. E’ giovane, ma l’ho addestrata bene.”

 

La donna si era interrotta, fissandolo diritto negli occhi.

 

“Ma se, al mio ritorno, Kaede sarà turbata, o spaventata, o sconvolta, da una qualsiasi delle cose che potrebbero venirti in mente di raccontarle; in tal caso, Onigumo, io non potrò più occuparmi di te.”

“Se, invece, saprai pazientare, tra pochi giorni sarò di ritorno. Hai capito?”

 

Onigumo aveva annuito. Oh, sì che aveva capito. Sia la minaccia, che la promessa, celate dietro quelle poche parole. E l’ammissione che per tutto quel tempo, lei aveva sempre saputo quale fosse il gioco col quale lui si intratteneva.

 

 

Onigumo ride al ricordo; risate brevi e secche come colpi di tosse.

 

Ah, lo sapevo, lo sapevo. Donna. Quanta passione … che fiamma deve esserci sotto quel ghiaccio. Sì sì, l’ho sempre saputo. L’ho capito appena ti ho vista. Donna dannata. Stupida donna. Mia carceriera.

Nessuno è mai riuscito a imprigionarmi. Ma tu ce l’hai fatta. Vero?

 

Lui non ricorda le facce. Non gli importa ricordarle. E non usa i nomi. No. Non gli piace chiamare le persone per nome, se appena può evitarlo.

 

Ma il viso della donna ormai è impresso nel cuore stesso del suo fuoco. Indelebile.

 

E poiché lui non ricorda le facce, e non usa i nomi, non gli è difficile immaginare … sognare.

Gli basta chiudere l’occhio, un solo momento, per riposarlo da questo intollerabile barbaglio.

 

E ricordare una delle tante donne del suo passato.

 

Come gridano e piangono, mentre le afferra e le schiaccia per terra.

 

Alcune cercano di mordere, quando con una mano immobilizza i loro polsi, oh così sottili, e con l’altra accarezza i loro colli.

 

Alcune gridano più forte, mentre altre restano ghiacce dal terrore, quando strappa il tessuto dei loro vestiti. Che rumore delizioso, oh sì, che pura delizia.

 

E quando usa le ginocchia per forzarle ad aprirsi per lui, e i loro corpi sudati si contorcono, sussultano e tremano. Come scalciano. Sgroppano, proprio come cavalle selvatiche.

 

Delle volte, le prende dopo aver ucciso i loro mariti, o i loro figli. Spesso, quando fa così, i loro sguardi si spengono presto. Gli oppongono appena un po’ di resistenza, ma poi lo lasciano fare. Divertente. Ma lui preferisce, quando combattono fino alla fine.

 

Ormai, i volti di tutte quelle donne sconosciute e senza nome sono diventate un unico volto.

 

Maledetta donna.

 

Che si ripresenta, di continuo, di continuo, dal pozzo della sua mente.

 

Onigumo ne ha avuto la certezza fin dalla prima volta.

 

Senza alcun dubbio. La miko è una di quelle che lotterebbe fino in fondo.

Quanto, prima di riuscire a farla gridare?

 

Molto.

 

Quanto, prima di costringerla a chiedere pietà?

 

Moltissimo.

 

Quanto, prima di riuscire a farla piangere?

 

Ancora di più.

 

Oh sì-sì-sì. Magnifica. Perfetta.

 

Forse con lei potrebbe anche non annoiarsi, dopo le prime volte.

 

E le sue lacrime.

 

Lui beve sempre le loro lacrime. Che arrivano. O prima o poi, arrivano sempre. Basta essere pazienti. E lui è paziente, quando c’è bisogno di esserlo.

 

Sì. Ne è sicuro. Le lacrime della miko sarebbero puro nettare. Pura estasi. Dolci e salate quanto mai ne ha assaggiate. Le vuole. Oh, quanto le vuole. Non ha mai voluto niente altrettanto intensamente.

 

Potrebbe perfino non esserne sazio. Già.

 

Potrebbe perfino non averne, mai abbastanza.

 

E poi sì, dopo aver bevuto tutte le sue lacrime, a modo suo sarebbe dolce. Potrebbe toglierle i vestiti stracciati. E lavarla. E medicarle i lividi. E prendersi cura di lei. Esattamente come fa lei, con lui.

 

Perché lui lo sa. Già! Lui lo sa cosa vogliono davvero. Cosa davvero desiderano, tutte le donne che ha conosciuto.

Anche se non lo ammettono, così come non lo ammette la miko.

 

Infide. Bugiarde. False. Ipocrite. Tutte. Tutte. Tutte quante. Tutte uguali!!

Sono la vostra voglia inconfessata. Io lo so quel che volete veramente. Maledette.

 

E’ sicuro che tutte custodiscono il suo ricordo. Certo, tutte quelle che non sono morte o che lui non ha ucciso.

 

Non si stancherebbe mai di bere le lacrime della miko. Non si stancherebbe mai di badare a lei, di insegnarle cose che, ne è sicuro, nessuno di quegli imbecilli le ha mai insegnato.

 

E visto che lei è forte, molto, molto forte, molto più di qualunque altra donna su cui abbia mai posato gli occhi, forse, forse lei potrebbe sopravvivere abbastanza a lungo da confessare a se stessa la verità, e cioè che è questo quel che vuole davvero. Sì.

Perché lui le insegnerebbe con tanta, tanta pazienza.

 

Onigumo si chiede se sia questo, l’amore.

 

Le sue dita si contraggono mentre, furibondo, pensa all’hanyou. Non lo ha mai visto. Non conosce il suo aspetto.

 

Maledetta donna. Ti credi tanto speciale? Tanto superiore? Tanto meglio di chiunque altro? Oh no, non ti bastava un amante qualunque. Non era sufficiente per te. Doveva essere qualcosa di diverso, qualcosa che potessi avere solo tu. Qualcosa di più forte, già, di più resistente. E cosa ti fai fare dal tuo hanyou? Eh? Come ti tocca, lui? Io saprei fare di meglio, molto di meglio.

 

E da quando in qua una miko si lascia corteggiare da uno hanyou? Da quando mai? Da una cosa che è poco più che un animale. Già. Almeno, io sono un essere umano.

 

Ipocrita. Come tutte. Come tutte.

 

Onigumo si prende la punta della lingua tra i denti spezzati, mordendosela. Sente il leggero sapore ferroso del sangue.

 

E si chiede se sia questa, la gelosia.

 

Mia carceriera.

 

E adesso, cos’è questo ricordo? La miko gli ha detto tante cose. Specialmente i primi giorni. Le ha parlato della sua inutile religione. Lui ha ascoltato tutto con attenzione; per trovare un appiglio da usare per ferirla.

 

Cosa gli ha detto? Gli ha parlato di una … tradizione? Preghiera? Come si dice?

 

Il Kotodama. La ripetizione sacra della parola.

 

Cosa ha detto?

 

Di non permettere che la sua malvagità uscisse con tale frequenza dalla sua bocca. Perché le avrebbe dato vita, in molti modi misteriosi che nessuno avrebbe potuto prevedere. Perché le parole hanno un potere. Il potere di prendere vita. Il potere del Kotodama. E gli diceva di trattenere la sua malvagità, di combatterla. Di usare meglio che poteva il tempo che gli restava in questo mondo.

 

Stupidaggini.

 

Tutte. Quante. Stupidaggini.

 

Però, ha tanto di quel tempo! Perciò, perché non provare a riempirlo, anche così? Cos’ha da perdere? Nulla. Assolutamente nulla.

 

E’ la prima volta. Perciò esita un po’.

 

“Ki … kyou.” E’ la prima volta che pronuncia il nome della donna. A lui non piace usare i nomi. Se appena può evitarlo. Però, questo nome non è troppo sgradevole da pronunciare. Riprova. Più deciso, stavolta.

 

“Kikyou.” Non suona poi così male. No. Nient’affatto.

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou.” Piacevole. Già. Ogni volta più … carezzevole.

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou.” Adesso sì. Adesso comincia a prenderci gusto. Davvero. Sorprendente!

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou! Kikyou! Kikyou! KIKYOU! KIKYOU! KIKYOU!!!

 

Onigumo grida e ride, ride e urla il nome di lei, come il pazzo che, infine, è diventato.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inuyasha / Vai alla pagina dell'autore: Roberto_Yoda