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Autore: yonoi    02/01/2019    8 recensioni
Il principe Alberto Vittorio di Sassonia Coburgo Gotha fu nipote della regina Vittoria del Regno Unito, secondo in linea di successione al trono dopo suo padre, re Edoardo VII: tuttavia, non salì mai al trono, morendo di febbri il 14 gennaio 1892 dopo una vita riservata ma al tempo stesso discussa e costellata di ambiguità. Di dice che il giorno del funerale la sua promessa sposa, Mary di Teck, abbia deposto la sua corona nuziale di fiori d’arancio sulla bara del principe.
Ma cosa sarebbe accaduto se Alberto Vittorio, chiamato familiarmente il principe Eddy, fosse sopravvissuto alla pandemia influenzale che imperversò in quell’epoca in tutta l’Europa, sposando Mary di Teck e diventando regnante? E quanto c’era di vero nelle dicerie che per tutta la vita accompagnarono il principe Eddy?
Prima classificata al contest "Senza tempo" indetto da mystery koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
Capitoli:
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“Ma chi sei tu,
che avanzando nel buio della notte,
inciampi nei miei più segreti pensieri?”
 
(W. Shakespeare, “Romeo e Giulietta”)
 

         2. Colei che avanza tra i miei più segreti pensieri
           

            Abbazia di Westminster, Londra, 27 febbraio 1892
           

            Le nozze tra Sua Altezza Reale il principe Alberto Vittorio e Vittoria Maria di Teck, detta familiarmente May, furono celebrate secondo la data originariamente fissata: il 27 febbraio 1892 poco dopo mezzogiorno, nella cornice solenne dell’Abbazia di Westminster.
            Dieci dame scortarono la sposa fino all’altare, avendo cura del prezioso strascico ricamato: fini trame d’argento brillavano in quella mattina di luce incerta, simili alle gocce che a tratti piovigginavano da un cielo rannuvolato.
            L’uso dell’abito bianco, inaugurato da Vittoria del Regno Unito in occasione del suo matrimonio, era già tradizione: dal giorno in cui la giovane regina l’aveva sfoggiato, sottraendolo al guardaroba del mezzo lutto, per tutte le nobildonne e le ricche borghesi divenne tassativo adeguarsi alla nuova tendenza.
            Era la moda del momento, alla stessa maniera degli uccelletti impagliati, dei fiori e frutti posticci che appesantivano i cappelli delle signore durante i pic-nic. Solo in seguito il bianco, da allora in poi associato alla sacralità della celebrazione, si appropriò dei significati di purezza e innocenza.
            Poiché un matrimonio reale era l’evento popolare per eccellenza, tutta Londra era in festa e si accalcava lungo il percorso da Buckingham Palace a Westminster. Per l’occasione gli uffici osservarono la chiusura festiva, nei mercati si aggiravano solamente i randagi e le uniche botteghe in pieno fermento erano gli atelier di sartoria: pronti a copiare i particolari del velo, dei guanti e delle scarpe, e a riprodurre in centinaia di modelli l’abito della sposa, non appena questa fosse scesa dalla carrozza.
             Un applauso spontaneo salutò l’ingresso della principessa in cattedrale, per la simpatia istintiva che suscitò il suo sorriso, il leggero rossore, ma anche la disinvoltura con cui si chinò a raccogliere un guanto, col rischio di far crollare tutta l’impalcatura complicata del velo.
            Raccolse un guanto e subito le sfuggì di mano quell’altro, e da quel momento May entrò nel cuore di tutti: piacque ai bimbi con gli occhi sgranati in cima alla folla, issati sulle spalle dei padri e dei fratelli; ai piccoli lustrascarpe, strilloni e spazzacamini arrampicati addirittura sui lampioni; agli anziani con gli occhi lucidi, che ancora ricordavano le nozze di Vittoria; alle giovani che sognavano con il capo posato sulle spalle dei fidanzati, che non erano nobili ma semplici lavoratori a giornata, però c’era l’amore e allora quella festa riguardava anche loro.
            Ciò che tutti intuivano era che il matrimonio che si stava celebrando non era il frutto di piani studiati a tavolino, ma un vero matrimonio d’amore. Probabilmente anche questa era una novità introdotta da Vittoria del Regno Unito, che al di là di tutti i preamboli che avevano favorito l’incontro con il suo sposo, si era recata all’altare ben convinta di avere trovato la sua metà: sfidando la consuetudine secondo cui prima ci si sposa e dopo ci s’innamora, o quanto meno s’impara ad andare d’accordo.
            La stessa emozione che i popolani avevano intuito nei gesti un po’ nervosi di May, appariva moltiplicata sul volto e nei movimenti ancora più impacciati del principe Eddy, che per tutta la celebrazione non levò neppure per un istante gli occhi dalla sua sposa: degnò appena di uno sguardo l’arcivescovo di Canterbury, impegnato a celebrare insieme a tutto il capitolo, riservò appena un cenno agli illustri presenti, alle decine di teste coronate da tutta Europa, e fece cadere a terra per ben due volte l’anello nuziale.
            Alla seconda volta che gli sfuggì di mano, l’anello rotolò con tale entusiasmo che dovettero rincorrerlo in due lungo la passatoia, Eddy e l’aitante principe Adolfo di Teck, fratello della sposa.
            Secondo la tradizione, un evento del genere era considerato di buon auspicio, segno che tra gli sposi vi era autentico amore e che il matrimonio era fonte di emozioni forti.
            Non mancò chi colse l’occasione per sottolineare l’ennesima gaffe di Eddy, ad ulteriore prova - semmai ce ne fosse bisogno - della sua sconvenienza e mancanza d’intelligenza:
            “Domani appariranno le solite caricature con Sua Maestà che corre su e giù inseguendo l’anello. Magari a quattro zampe, tanto per rammentare a tutti certi fatti.”
            I fatti in questione risalivano a qualche anno prima, e si riferivano a una vicenda che aveva tenuto banco per mesi nei salotti, diffondendosi a macchia d’olio fino alle ultime bettole dei sobborghi. Chi non sapeva leggere le cronache dei giornali, si affidava alle chiacchiere e ci metteva del suo: la fantasia galoppava, soprattutto da quando si era emerso il coinvolgimento di persone vicine alla corte, forse addirittura di un membro della Casa reale.
            L’intera faccenda era nata da una banale denuncia di furto ai danni di un ufficio postale londinese.
            Tutti i dipendenti erano stati interrogati, e un fattorino era stato trovato in possesso di una somma notevolmente superiore al salario settimanale. Per sottrarsi alle accuse, il ragazzo s’era buttato dalla padella nella brace, rivelando che il gruzzolo rappresentava il compenso per certe prestazioni effettuate a favore di ricchi interessati, presso una certa casa in Cleveland Street.         
            Vuotando a fondo il sacco aveva tirato in ballo altri colleghi, giovani fattorini e telegrafisti che a loro volta adottarono la stessa strategia difensiva: una volta avuta in mano la patata bollente, cercare di disfarsene lanciandola a qualcun altro. Le accuse rimbalzarono sempre più alto, con tutto il loro carico di imbarazzi, pubblico disonore nonché il rischio di ritrovarsi appioppati fino a due anni di lavori forzati.
            Questa era la prospettiva che arrivò a togliere il sonno al maggiore Arthur Somerset, capo delle scuderie del principe di Galles, nonché ufficiale delle guardie reali.
            Correva voce che nel rapporto inviato al Procuratore, il nome di lord Somerset figurasse nascosto sotto a una finestrella a mo’ di collage, per quanto era scottante. Si diceva che per distogliere l’attenzione dalle accuse a suo carico, su consiglio del suo avvocato Somerset fosse ricorso al solito espediente di nascondersi dietro a un pesce più grosso: e che la sigla PAV, con cui il pesce in questione venne identificato nei rapporti di polizia - neanche i collage, a questo punto, erano sufficienti a celarne l’enormità - corrispondesse alle iniziali del principe Alberto Vittorio.
            Il nome di Alberto Vittorio non uscì mai nei rapporti: ma l’intromissione del principe di Galles nelle indagini, il fatto che di lì a poco Somerset ottenesse il permesso di espatrio, lasciando il Regno Unito per non fare mai più ritorno, vennero interpretate come un’implicita ammissione del presunto coinvolgimento di Eddy.
            Nessun cliente illustre fu mai processato e solo i pesci piccoli, fattorini e telegrafisti, finirono per rimetterci la libertà e la faccia: l’intera vicenda finì insabbiata, e ciò contribuì a far fiorire le dicerie secondo cui il proverbiale riserbo di Eddy nascondeva ben altro che semplice timidezza.
            In quel periodo, il principe aveva terminato da poco la sua istruzione a Cambridge, nell’atmosfera ovattata e protetta del Trinity College. Per la prima volta si era trovato separato dal fratello, destinato a proseguire la carriera in Marina. Durante il periodo degli studi era apparso tranquillo, e della sua intimità non si poteva dir nulla: all’esterno appariva ancora più introverso, avvolto da un’aria di malinconia che forse era dovuta alla lontananza dal principe Giorgio, forse soltanto al vuoto che stazionava perennemente nel suo cervello.
            I compagni lo invitarono a unirsi a vari gruppi di studio, ma Eddy preferiva ritirarsi nella sua stanza: il confronto con gli altri non faceva che aumentare la sua timidezza, e in realtà non pareva particolarmente interessato alle dispute intellettuali e alla vita accademica.
            Gli fu affiancato un tutor, un giovane insegnante che pubblicava versi ed era conosciuto nell’ambiente letterario, certo James Kennet Stephen. Come già ai tempi delle sciroppose lezioni del canonico Dalton, Eddy studiava da privatista: seguiva i corsi in aula ma il resto del lavoro lo svolgeva col tutor, essendo dispensato dal sostenere esami - particolare che certo non contribuì a farlo uscire dal guscio.
            Riguardo al suo rendimento, le opinioni erano discordi. Indubbiamente Stephen si affezionò al suo protetto: lo incoraggiava e lo difendeva persino con troppa enfasi, sostenendo che il principe non aveva nessuna difficoltà a imparare e si trattava solo di trovare il metodo giusto.
            Il parere del tutor coincideva con quello già espresso da Vittoria del Regno Unito in tempi non sospetti: ma quale fosse il metodo inventato da Stephen per allargare le vedute del suo protetto, nessuno lo seppe mai.
            Quella strana alleanza si diceva non fosse puramente didattica: dal canto suo il duca di Cambridge, incaricato dal principe di Galles di vigilare su Eddy, era fermamente convinto che il ragazzo fosse “un inguaribile perditempo”.
            Di Stephen si diceva che detestasse le femmine, e indubbiamente il giovane tutor era attraente: occhi azzurri e capelli scuri, colto e affascinante, pareva fatto apposta per far cadere ai suoi piedi chiunque avesse l’occasione di conoscerlo. Era ben altra cosa rispetto al vecchio Dalton: ma anche ammesso che gli ambigui sentimenti attribuiti a Stephen contenessero un fondo di verità, restava da provare che Eddy li ricambiasse.
            Riguardo a questo, nessuno poteva dire niente: anche se i due passavano molto tempo insieme, la condotta del principe non superò mai i limiti della mera cortesia.
            Almeno pubblicamente.
            “Non riesce a entusiasmarsi per nulla.”
            “È gelido e pare senz’anima. Francamente mi chiedo se un individuo del genere provi dei sentimenti, qualcosa che vada al di là della buona educazione.”
            “Secondo me, non è neppure capace di pensare qualcosa con la sua testa.”
            Questo, in breve, il parere degli studenti che ebbero l’occasione di avvicinare Eddy.
            Il principe era decisamente un solitario: Non accettò mai di unirsi ai compagni di corso neppure per un pic-nic, una gita a cavallo, una scappata a Londra nei fine settimana. Eppure a Londra ci andava, insieme al suo tutore e più spesso da solo. Poco dopo lo scandalo di Cleveland Street, qualcuno si azzardò a dire che il principe era stato visto da quelle parti, e che probabilmente, invece di fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con gli altri studenti, preferiva andare a Londra e usare il telegrafo.
            Come sempre succede, le chiacchiere s’infittirono e più la storia girava, più si arricchiva di dettagli che in realtà nessuno poteva verificare.
            Finché un giorno qualcuno ebbe la pessima idea di parlarne senza considerare che Stephen si trovava a portata d’orecchio. La reazione del tutor fu immediata:
            “Ditemi, come fate a essere così bene informato? Eravate lì anche voi?”
            Colto alla sprovvista, il pettegolo di turno rimase senza parole. Stephen giocò al rialzo:
            “Qual è il vostro nome?”
            “Mi chiamo Evans, sir.”
            “Ebbene, mister Evans, voi sapete che per questo genere di cose è prevista l’espulsione immediata dal college.” Il tutor non lasciò allo studente il tempo di riaversi e di chiedere a quali cose si riferiva: se quelle in particolare, oppure il semplice fatto di sghignazzare alle spalle di un principe ereditario.
            L’incauto Evans si trovò a un tratto nella scomoda posizione di doversi giustificare: dopo molti “io non c’ero, sono voci che girano”, “chi ha messo in giro la voce? Io non lo so, si dice”, la faccenda fu lasciata cadere per prudenza e non se ne parlò più.
            O almeno si evitò di parlare apertamente.
 
~~†~~
 

            Tenuta di Sandringham House, Norfolk, qualche anno prima
           
            Lo stato malinconico che pareva aver preso stabile dimora nel principe Alberto Vittorio era dovuto in realtà a qualcosa che i suoi detrattori, ma anche il fascinoso e possessivo Stephen, non avrebbero mai immaginato, per quanto era banale.
            Fu durante gli studi a Cambridge che il principe iniziò ad appassionarsi alla poesia, a scrivere lunghe lettere che poi, per reticenza, non osava spedire dal post office del college: si recava personalmente a imbucarle in qualche sperduto ufficio di Londra, servendosi di un taxi nel più completo anonimato. Era vero quindi che Eddy soleva fare brevi visite alla capitale, allo scopo di ricorrere ai servigi delle poste e telegrafi: ma certo non nel senso che intendevano gli altri studenti.
            Chi fosse il destinatario di quelle missive non lo sapeva neppure il tutor, il quale era convinto che il suo pupillo avesse scoperto la poesia grazie a quei versi che lui stesso scriveva e pubblicava con un discreto successo.
            In realtà, i versi di Stephen trattavano di satira e questioni letterarie, nulla di più lontano dagli interessi di Eddy, che attingeva piuttosto alle opere di Shakespeare ed era attratto dagli istanti di grande commozione: nella voce del bardo il principe cercava l’eco della propria, e ritrovava i propri sentimenti nei Sonetti, nei dialoghi appassionati di Romeo e Giulietta, e più leggeva più capiva se stesso, o almeno così gli pareva.
            Vedendolo chino sui libri con aria sognante, Stephen cercava di attirare la sua attenzione con lunghe spiegazioni sulla metrica e le tecniche di scrittura poetica: ben presto lo sguardo di Eddy si appannava, e il principe entrava in quella sorta di stato catatonico che era il suo modo per difendersi dalla noia.
            Dormiva ad occhi aperti, nell’attesa che il suo interlocutore si stancasse e lo lasciasse in pace: quando si trovava nuovamente da solo riprendeva vigore, e ritornava sotto al balcone di Giulietta con il cuore carico di emozioni. Attendeva che a quel balcone si affacciasse colei che, in maniera del tutto inattesa, era riuscita a far breccia nella sua proverbiale riservatezza.
            Il principe Alberto Vittorio aveva approfondito la conoscenza di Mary di Teck, ventitré anni splendenti, durante una vacanza a Sandringham House, e ne era rimasto incantato.
            La presenza di May a corte non era una novità: fin da bambini i suoi fratelli avevano condiviso, con il principe Giorgio e il timidissimo Eddy, quei momenti di pura gioia che sono i giochi lontani dagli sguardi degli adulti.
            Lasciati a briglia sciolta, liberi dai lacci della buona educazione almeno per qualche ora, i fratelli di May e i rampolli reali si lanciavano in avventurose scorribande: erano pirati all’arrembaggio di un galeone immaginario, ricavato da un tronco caduto nel bosco; Robin Hood e i suoi seguaci, che tendevano agguati e salivano sugli alberi con grande spargimento di calzoni strappati: re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, che tenevano consiglio attorno al ceppo gigantesco di una quercia, ricoperto di muschio e avvolto dal silenzio mistico della foresta.
            A May, primogenita dei quattro figli del duca di Teck, spettava il compito di sorvegliare gli avventurieri: a soli dieci anni era una miniatura di energia e di buon senso, in grado di rimediare a ginocchia graffiate e capitomboli, metter fine a baruffe che non si confacevano a nobili cavalieri senza macchia - a parte le strisciate d’erba sui pantaloni - e senza paura.
            Fin da quei tempi leggendari e scatenati, il principe Alberto Vittorio aveva stuzzicato la curiosità di May per quell’aria di solitudine posata, ma anche impenetrabile, che lo rendeva così diverso dai ragazzetti della sua età: che Eddy fosse immerso in chissà quali pensieri, mentre gli altri giocavano e lui vagava per la tenuta di Sandringham come se non vi fosse mai stato prima, era un’idea che May si mise in testa fin da allora, con tutta la testardaggine dei suoi dieci anni di bambina giudiziosa.
            Non ci fu verso di farle cambiare parere neppure quando May venne a sapere che a corte Eddy era considerato meno di zero: a partire dal principe di Galles suo padre, tutti erano convinti che nella testa di Eddy dimorasse solo il vuoto, e che il suo stato abituale fosse la sonnolenza, come soleva dire il canonico Dalton.
            Eppure, Eddy incuteva soggezione alla principessa May, che dovette fare appello a tutta la sua intraprendenza per rivolgergli la parola, durante uno di quei pomeriggi di libera uscita.
            Mentre Giorgio e i cugini scorrazzavano nei boschi giocando ai cavalieri crociati di Terrasanta, May aveva scovato Eddy in disparte, immerso nella lettura di un poderoso volume:
            “Antiche leggende di Scozia, d’Inghilterra e del Galles.
            Sorprendendolo alle spalle, May scandì a voce alta il titolo del libro: “Mi piacciono le storie, vorreste leggere per me?”
            Era il periodo in cui il principe, tredici anni schiacciati da studi noiosissimi e dalla fama di stupido che lo inseguiva ovunque, aveva scoperto le consolazioni della lettura: da quel giorno in cui Vittoria del Regno Unito lo aveva iniziato ai segreti della biblioteca di Windsor, non appena ne aveva la possibilità correva a rifugiarsi col naso dentro a un volume.
            Non ammetteva interferenze, e quel giorno venne meno alle regole della più elementare cortesia: non si prese neppure la briga di rispondere ma scacciò la cugina con un solo gesto deciso, chiudendo il volume e voltandole le spalle per andarsene altrove.  
            “Sei cattivo, non si fa così!” protestò May, improvvisamente regredita alla sua età naturale di dieci anni.
            Di lì a poco i cugini si persero di vista: Eddy e Giorgio salparono a bordo della Britannia, poi seguirono i lunghi mesi di studi a Cambridge, e per Giorgio l’arruolamento definitivo in Marina.
            Trascorsero molti anni prima che Mary di Teck avesse l’occasione di tornare alla carica, durante un soporifero pomeriggio mondano presso la residenza di Sandringham House.
            Stavolta andò a colpo sicuro: lo cercò in biblioteca, e là riprese le fila di quel discorso che Eddy aveva troncato sul nascere.
            Quel giorno, il ricevimento aveva raggiunto un tale apice di monotonia che persino Vittoria doveva trattenersi per non sbadigliare, mentre riceveva gli ospiti e ascoltava la conversazione delle signore.
            Nulla di più insopportabile delle chiacchiere delle femmine, aveva sempre pensato il principe Eddy, che peraltro moriva di noia anche quando era costretto ad ascoltare i discorsi degli uomini: sui divanetti e davanti al thè con biscotti si parlava d’amore e di fidanzamenti, poco più in là tra sigari e pipe si parlava di donne, al massimo di cavalli e di battute di caccia.
            Poiché Eddy non era interessato a nessuno degli argomenti, non perse l’occasione per esercitare l’arte in cui da tempo era diventato maestro: quella di defilarsi senza dare nell’occhio.
            Solitamente si rifugiava in biblioteca, e in estate all’aperto in compagnia di un libro.
            Mimetizzato tra gli scaffali e le siepi, riprendeva contatto con se stesso e respirava a lungo e profondamente, col naso tra le pagine: l’odore della carta lo ridestava da un prolungato intontimento.
            “Vorreste leggere per me?”
            Quella domanda sembrava provenire dalle pieghe del tempo, da quel remoto pomeriggio in cui una voce infantile l’aveva riscosso dai suoi sogni ad occhi aperti. Levando appena lo sguardo come da una trincea, Eddy s’era trovato di fronte Mary di Teck, come un esercito schierato e pronto all’assedio.
            Eddy abbassò lo sguardo con tre secondi di ritardo, il tempo sufficiente perché il volto di lei si stampasse nel suo cuore, nella memoria, persino sulla pelle: ovunque e definitivamente.
            Riparando di nuovo dietro la trincea del libro, si rese conto di avere ormai perduto il segno, e di non essere più in grado di ritrovarlo: i suoi occhi erano colmi del sorriso di May, dei piccoli pendenti che portava alle orecchie e del tenue riverbero che il fuoco del camino donava alle sue guance - o forse era soltanto una traccia di imbarazzo.
             Nelle ore che seguirono, finché qualcuno si accorse della loro scomparsa e si cominciò a cercarli per tutto il palazzo, Eddy e Mary di Teck restarono seduti accanto al caminetto acceso in biblioteca: senza avere neppure il coraggio di guardarsi - tutta la sfacciataggine aveva di colpo abbandonato la principessa May - sfogliarono le pagine del volume che Eddy era intento a consultare, e che narrava la storia dell’Olandese volante, il mitico vascello fantasma che tuttora infestava le rotte delle colonie.
            A un certo punto Eddy, forse per la prima volta nella sua vita, si abbandonò alle confidenze.
            Raccontò a Mary di Teck della solitudine patita a bordo della Britannia, quand’era ancora un bambino e aveva impegnato un giorno e una notte per ritrovare la chiave della cabina, salvo scoprire che i cadetti dell’accademia l’avevano buttata a mare. Qualche anno dopo, e prima di iniziare gli studi al Trinity College, insieme al principe Giorgio aveva effettuato un lungo viaggio nelle colonie, alla scoperta di quelle terre così a lungo sognate sui libri di avventure.
            La corvetta Bacchante faceva parte di una squadra incaricata di pattugliare le rotte dell’Impero. Varata da molti anni, sulla sua solidità Vittoria del Regno Unito aveva nutrito parecchie riserve, sicché l’imbarco era stato preceduto da una messa a prova in piena regola: la vecchia corvetta fu lanciata attraverso una possente tempesta, superandola indenne, sicché i rampolli reali poterono imbarcarsi senza rischiare il naufragio.
            Accompagnati dall’onnipresente Dalton, Giorgio e Eddy avevano visitato le Americhe sino alle gelide Falkland; avevano doppiato il capo di Buona Speranza al largo del Sudafrica, dove l’oceano possedeva la stessa trasparenza, fulgida e incontaminata, di quando il mondo era stato fatto da un giorno.
            A Eddy era sembrato di sentire i leoni ruggire nella savana, ma aveva taciuto per non passare da visionario, ed essere deriso per quel vizio di sognare ad occhi aperti che si addiceva ai poeti, non a un futuro re.
            Da tempo, confidò a Mary, aveva imparato a tenere per sé i suoi pensieri. Non venne meno a quella promessa neanche quando, al largo delle coste australiane, lo colse una visione terribile e affascinante.
            Quella notte, la Bacchante era impegnata a fronteggiare una burrasca così vigorosa che non si capiva più se era il mare ad arrampicarsi fino al cielo, o se era la pioggia a scaricare più acqua di quanta ne potesse contenere l’oceano.
            Mentre Eddy si trovava sul ponte, spaventato dal continuo ondeggiare della cabina, diritto verso prua gli era parso di scorgere una strana luminescenza: avvolti in quella bruma crepuscolare, spiccavano distintamente gli alberi, le vele lacerate, e infine la sagoma di una nave rosa dalla salsedine.
            Pareva reduce da una lunga permanenza in acqua, da secoli di naufragio.
            Nessun segno di vita, nessuna presenza umana s’intravedeva a bordo, e il velame pendeva come se, nel cuore della tempesta, non soffiasse neppure un alito di vento.
            Eddy s’era voltato per avvertire i marinai, ma il ponte era in subbuglio: un susseguirsi di ordini gridati nella pioggia che il vento scagliava qua e là, insieme alle vele ammainate come stracci inutili sui pennoni. Immense onde schiumose saltavano il parapetto e invadevano il ponte, trascinando la Bacchante da una parte e dall’altra, col rischio di capovolgerla.
            Inutile dire che a Eddy non badava nessuno. Solo per un istante al principe parve di scorgere la sagoma di Dalton: il vecchio canonico s’era accorto che il principe non era in cabina ed era uscito a cercarlo in mezzo al nubifragio. Come un’ombra vagava senza vedere nulla, aggrappandosi ovunque per non finire in mare.
            Eddy provò a chiamarlo, ma il frastuono dei flutti copriva ogni voce.
            Di nuovo rivolse il suo sguardo a prua, verso quell’apparizione ch’era sorta dal nulla o forse dall’al di là.
            Ma a quel punto la nave spettrale era scomparsa, e soltanto un bagliore, presto annientato da un fulmine, restava ad indicare il luogo in cui s’era mostrata per un istante.
            Quella notte Eddy si convinse di avere assistito a un’apparizione del famigerato vascello fantasma, conosciuto come l’Olandese Volante.
            Le leggende a proposito dei supposti avvistamenti non si contavano.
            Ancor più numerosi erano i racconti sull’origine del mito: tra le varie versioni che circolavano tra i marinai, si narrava di un capitano che, incappato in una tempesta con tutto il suo equipaggio, piuttosto che attraccare alla baia più vicina, per avidità o per sfida decise di proseguire comunque la navigazione. Sebbene una voce lo implorasse di invertire la rotta, egli preferì scendere a patti col demonio in cambio della salvezza del suo prezioso carico, destinato a fruttuosi commerci nelle Indie olandesi. Il diavolo lo convinse a dirigere il vascello nell’occhio del ciclone, e là il vascello scomparve con tutto il suo equipaggio.
            Né il relitto né i corpi furono mai ritrovati. Ma nel corso dei secoli, lungo le rotte percorse dal capitano olandese, il vascello maledetto fu avvistato più volte: perennemente avvolto da una bruma spettrale e facendo puntualmente rizzare i capelli ai lupi di mare più esperti.
            Qualcuno giurava di aver visto sulla nave un equipaggio di fantasmi, o addirittura il capitano accovacciato sul ponte di prua, intento a giocare a scacchi col diavolo.
            Poiché era risaputo che ad ogni apparizione dell’Olandese seguiva sempre qualche disgrazia, Eddy non fece parola a nessuno di ciò che aveva visto: sperava in questo modo di sottrarre la Bacchante ad ogni possibile conseguenza nefasta.
            Eppure il giorno seguente a bordo si verificò un incidente inspiegabile: il mare era tornato alla consueta bonaccia, e senza alcun preavviso un pennone si ruppe come se fosse stato segato nel mezzo, precipitando a prua e uccidendo sul colpo un anziano marinaio. Solo poche ore prima, la vittima aveva raccontato di aver visto, nella notte, una nave ferma al limitare della tempesta, avvolta da un riverbero come in pieno giorno.
            “Io non ho mai visto un fantasma”, commentò May alla fine, “in fondo non ci credo, però mi sarebbe piaciuto essere lì con voi”.
            Il tardo pomeriggio incominciava a scivolare nella notte, e dalle anticamere le voci degli ospiti iniziarono a congedarsi.
            Qualcuno, forse addirittura la regina Vittoria, si era accorto dell’assenza dei nipoti, e gli addetti alla casa erano stati sguinzagliati in perlustrazione: si udiva il cigolio di porte che si aprivano, l’eco di passi e voci in avvicinamento.
            “Dobbiamo andare”, decise Eddy a quel punto, “già pensano di me tutto il male possibile.”
            “Davvero avrei voluto essere lì con voi”, ripeté Mary, in un soffio. Un fremito la percorse, ma non era timore.
            “Voi c’eravate”, le rispose il principe Eddy, “eravate già nel mio cuore, molto prima che arrivassi a conoscervi.”
 
~~†~~
           

            Bachelor’s Cottage, presso la residenza reale di Sandringham House
 
            Chi aveva ipotizzato che le nozze reali, e soprattutto la condotta impacciata del principe, fossero l’occasione per dare aria nuova a vecchie dicerie, e tornare a parlare di Cleveland Street, rimase deluso. Sui notiziari, e persino sulle riviste di satira più feroce, non apparve alcuna vignetta allusiva con Eddy che inseguiva l’anello a quattro zampe sul pavimento - posizione strategica per ben altre manovre: si diede risalto invece, su tutte le prime pagine, ai banchetti di arrosti che per disposizione di Alberto Vittorio erano stati allestiti nei quartieri popolari, ai pasti caldi offerti agli ospedali pubblici e ai vassoi di dolci consegnati agli orfanotrofi.
            I consiglieri di corte e il principe di Galles acconsentirono di buon grado a quella prodigalità in occasione delle nozze, ritenendola un’ottima strategia per accrescere la popolarità della Corona:
            “Per una volta tanto, un’iniziativa sensata.”
            I veri motivi del gesto - il ricordo dei bambini dediti ai furtarelli al porto di Dartmouth, la malattia recente, la consapevolezza che la signora dagli occhi rossi, la febbre perniciosa, aveva spopolato interi rioni - non furono resi noti a nessuno, e condivisi soltanto con la principessa May.
            A riprova che Eddy probabilmente non era una cima d’intelligenza, ma aveva buona memoria.
            Vittoria del Regno Unito, dal canto suo, si era astenuta dal fare domande: la sua esperienza di vita e la profonda sintonia con Alberto Vittorio le avevano già suggerito ogni risposta.
            Molti anni dopo, quando ormai la regina si accingeva ad abbandonare questo mondo, Eddy aveva ritenuto di doverle delle spiegazioni, affinché tra loro non restassero ombre.
            Sfinita dalla vecchiaia, dai reumatismi e da oltre sessant’anni di regno, Vittoria gli aveva preso il volto tra le mani, sorridendo bonaria:
            “Tu non mi dici nulla che io non sappia già. Abbiamo avuto dei sovrani guerrieri, conquistatori, politici avveduti. Ma un re benefattore mancava, in questa casa.”
            Quello fu il loro ultimo incontro. In quel momento, Vittoria avvertiva una sorta di premonizione. In ogni caso ci teneva a far sapere al nipote il suo punto di vista, e a consegnargli il suo testamento:
            “Per tutta la vita ho udito persone intorno a me dirmi che tu mancavi del tutto d’intelligenza. Chissà se poi ne occorre così tanta per regnare, o se si tratta solo di barcamenarsi tra i calcoli. Temo che lascerò la vita con questo dubbio. Ma tu ricorda sempre che dove l’intelligenza non arriva, perché non si può mai arrivare dappertutto, il cuore è sempre avanti di un passo. Seguendolo, non sbaglierai.”
            Dopo i festeggiamenti, Eddy e Mary di Teck si trasferirono nella tenuta di Sandringham House, occupando il Bachelor’s Cottage, dono personale di nozze del principe di Galles.
            Si trattava di un villino disabitato da tempo, dall’apparenza spettrale[1].
            Sorgeva al limitare di uno stagno di acque verdastre, ricoperte da una pellicola mucosa.
            Una famiglia di pellicani aveva nidificato nel folto di un canneto altissimo e inestricabile: una sorta di palizzata, da dove provenivano fremiti da spavento quando i cinerei ospiti si levavano in volo.
            “Accogliente, non c’è che dire”, fu il primo commento della principessa May.
            Mary di Teck nutriva ben poca simpatia per il principe di Galles, ed ebbe l’impressione che quel luogo cadente riflettesse in pieno l’opinione del suocero riguardo al principe Eddy:
            “Non temete”, disse affrettando il passo verso l’ingresso del cottage, e tirandosi dietro il coniuge un po’spaesato, “evidentemente, vostro padre sa che siete un appassionato di storie di fantasmi. Provvederemo noi a rendere questo luogo abitabile, non solo per i pellicani e i pipistrelli.”
            Oltre ai pellicani, il villino infatti ospitava una colonia di pipistrelli che dormivano indisturbati nel sottoscala, simili a una fila di ombrelli a testa in giù: fu May a imporre lo sgombero degli inquilini indesiderati, mentre Eddy si manteneva prudentemente a distanza. Persino i domestici esitavano a mettere piede in quella casa, che si diceva infestata.  
            In origine, il cottage era stato costruito per alloggiare gli ospiti di Sandringham House, quando nell’edificio principale non si trovavano camere a sufficienza. Già allora il personale era soggetto a un continuo ricambio: maggiordomi e cameriere, cuochi e giardinieri venivano assunti e si licenziavano dopo pochi mesi, per non dire che fuggivano a gambe levate.
            A quanto si diceva, proprio in quei luoghi era solita manifestarsi, in occasione di eventi luttuosi, la Guardiana della famiglia: lo spettro che annunciava, con alte grida e il battito ritmico delle mani, la morte di qualcuno dei membri della Casa reale.
            In più occasioni, chi si trovava al cottage aveva sperimentato la sgradevole sensazione di sentirsi osservato o addirittura seguito, pur essendo in realtà completamente solo: sicché alla fine gli ospiti avevano cominciato a declinare gli inviti, mentre i nuovi assunti facevano le valige ancor prima della scadenza del periodo di prova.
            Mentre Eddy ripensava a quella notte in cui lady Forster era morta al castello di Balmoral, e lui aveva udito i lamenti della Guardiana a molte miglia di distanza, la principessa May aveva tagliato corto:
            “Quante sciocchezze. Tutte le case disabitate d’Inghilterra hanno il loro bravo fantasma: dovesse saltar fuori, ma io ho parecchi dubbi, vorrà dire che gli offriremo una tazza di thè.”
            Di fatto, il primo fantasma dal passato si presentò in carne e ossa, nella persona dell’ex sovrintendente alle scuderie del principe di Galles, nonché principale accusatore di Alberto Vittorio durante la vicenda di Cleveland Street: lord Arthur Somerset, rientrato dall’esilio per il tempo necessario a sistemare alcune faccende, si presentò al Bachelor’s Cottage in maniera del tutto imprevista, per presentare le proprie scuse al principe Eddy.
            Fu Mary di Teck a riceverlo: sin dal tempo dei giochi infantili nel bosco, quando il fascino ingenuo di Alberto Vittorio l’aveva conquistata per sempre, si era ripromessa di proteggerlo da qualsiasi ingiustizia, anche a costo di scendere in guerra col mondo intero.
            False accuse e pettegolezzi: quelli sì erano spettri di cui aver paura, altroché le leggende che spaventavano il popolino.
            Quando si presentò al cottage, lord Somerset pareva anche lui un fantasma fatto e finito: a May raccontò che l’idea di accusare Alberto Vittorio gli era stata suggerita dal suo avvocato, allo scopo di provocare un intervento della Corona e impedire che l’istruttoria facesse il suo corso.
            Personalmente, non aveva mai avuto occasione d’incontrare Eddy in quel luogo: sapeva però che circolavano voci a questo riguardo, e le voci si sa, non nascono mai per caso.
             Lì per lì, May non diede peso alle allusioni di Somerset. Tuttavia la presenza dell’ospite le suscitò a un tratto un’invincibile ripugnanza: sicché accettò le scuse e lo licenziò su due piedi, invitandolo a non farsi rivedere mai più.
            In quel momento Eddy si trovava a Sandringham, occupato a ricevere i capomastri in vista dei lavori di restauro del cottage. Al suo rientro, May non fece parola della visita dell’ex capo delle scuderie reali: il dubbio però aveva già cominciato a insinuarle un tarlo nell’anima, sicché Mary di Teck si strinse nello scialle, avvertendo improvvisamente un brivido di freddo
 
~~†~~
 
 

[1] Il Bachelor’s Cottage (“villino dello scapolo”), originariamente costruito per accogliere gli ospiti in soprannumero di Sandringham House, fu offerto nel 1893 come dono di nozze da Alberto Edoardo principe di Galles al figlio Giorgio, duca di York (il futuro Giorgio V) e alla sua sposa, Mary di Teck. Giorgio amava in modo particolare questa residenza, in seguito ribattezzata York Cottage, che gli ricordava “tre pub assemblati insieme”. Nonostante ciò, il villino godrebbe di una fama sinistra: sarebbe infestato proprio dal fantasma del principe Eddy, morto prematuramente nel 1892.
  
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