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Autore: Jordan Hemingway    05/01/2019    3 recensioni
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.

Storia partecipante al contest "I Doni della Medicina" indetto da Dollarbaby su EFP Forum
Prima classificata al Victorian Age Contest indetto da Hyggelic su EFP Forum
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Secondo
 
 
 
Padova, 8 novembre 1855
 
Nei giorni scorsi sono diventato un assiduo frequentatore delle Debite, anche se per motivi più nobili di quel che questa frase potrebbe far pensare.
Il sedativo che avevo somministrato a Ruzzante gli permise di passare tutta la notte e il giorno successivi in uno stato di sonno profondo dal quale non ebbi cuore di toglierlo. Mi limitai a un esame esterno che mi confermò l’assenza di febbre malarica: il corpo denutrito del prigioniero non presentava rigonfiamenti all’altezza della milza e del fegato, la sua pelle era bianca cadaverica e non giallastra, inoltre non vedevo i continui rivoli di sudore presenti nei malati di malaria.

Il sedativo aveva avuto effetti benefici sulla qualità del riposo di Ruzzante: dormiva sereno senza agitarsi per la prima volta dal momento in cui era stato incarcerato, mi disse il Valle.
“I suoi compagni di camerata si lamentavano spesso,” mi aveva informato già dal giorno successivo la mia prima venuta, “per le urla che Ruzzante gettava durante la notte. Incubi, aveva detto lui, ma io che l’ho sentito urlare vi dico che nemmeno per un mese di congedo pagato vorrei sapere che cosa abbia provocato quel tipo di incubi.”

I prigionieri della camerata avevano confermato le parole del Valle: per la maggioranza si trattava di giocatori d’azzardo e ubriachi che avevano impegnato ogni avere, ma un paio di loro erano state persone dabbene, poveri fittavoli ai quali le rivolte, gli austriaci e le richieste dei padroni avevano tolto ogni cosa. Da questi ultimi venni a sapere che Ruzzante, a parte gli episodi degli incubi notturni, era un prigioniero schivo che rifuggiva dalle chiacchere e dalle lamentele con cui gli altri facevano passare il tempo nella cella comune: si limitava a stare in un angolo immerso nei propri pensieri, senza reagire alle provocazioni che alcuni dei peggiori gli avevano rivolto non appena incarcerato. Tali provocazioni non erano durate a lungo.

“Una mattina il Furlan, il capoccia intendo sior medico,” mi spiegò Lucio, uno dei poveri fittavoli, “si era svegliato con la voglia di darle e aveva alzato le mani sul Ruzzante: quello però non so come era riuscito a parlargli con calma, come si fa con le vacche, e lo aveva fatto tornare a letto senza prendersele: un vero miracolo, sior.”
Oppure l’operato di un medico abituato a parlare con pazzi e poveri di mente, riflettei.

Ero impaziente di poter di nuovo parlare con lui e di fargli continuare il suo racconto.
Ruzzante si svegliò la mattina del terzo giorno: accorsi non appena il tenente mi fece chiamare e lo trovai in relative buone condizioni, seduto sul letto.
Mi porse una mano scheletrica: “La ringrazio dottore per la sua premura.” La sua voce era ancora flebile ma sentivo un’ombra della risolutezza che quell’uomo doveva aver avuto in passato. La malattia aveva dato al suo corpo l’esilità di un fantasma e tolto la lucentezza dell’oro ai suoi capelli ma non aveva ancora distrutto lo spirito che vedevo emergere dagli occhi verdi puntati su di me.
Gli strinsi le dita ossute. “Come si sente oggi? E’ in grado di rispondere a qualche domanda?”
“Meglio che non in molti mesi: da molto tempo non riuscivo a dormire così bene.”

Come sospettavo la sua temperatura era calata: Ruzzante era stato in preda a un attacco di febbre e convulsioni di natura differente da quelle malariche. Il timore di aver a che fare con un malato di mente era però scacciato dalla compostezza e dalle frasi ragionate con cui il mio paziente rispondeva alle domande che gli rivolgevo.

“Coraggio, dottore: me lo chieda.” Eravamo alla fine dell’esame e qualcosa doveva essere trasparito dalla mia espressione. “Mi chieda se sono un pazzo.”
“Non avrei usato questa espressione” ribattei secco. Intimamente ero sollevato che avesse deciso lui di affrontare l’argomento.
Si appoggiò con la testa al muro in pietra che reggeva la sua branda.
“Dottor Bedin: lei crede che esistano eventi impossibili da spiegare per la scienza?”
“Lo nego nel modo più assoluto” risposi con convinzione. Fin da bambino ero stato educato a non credere a nulla che non potesse essere dimostrato: mio padre, anch’egli medico, mi aveva inculcato le sue idee di logica e verità e non avevo mai avuto motivo di essere tradito da esse.
“Anch’io, un tempo, ero della sua opinione: prima di essere mandato a Lières-au-Bois.”
Sotto un suo cenno mi sedetti accanto a lui sul letto.
“Era un villaggio sperduto, posto a un paio di giorni a nord di Parigi: lo avevo scelto proprio per il suo isolamento e per aver sentito il precedente officier de sainté parlare della dieta poco varia degli abitanti,   i quali vivevano grazie alla coltivazione del mais importato dalle Americhe. Un caso raro in Francia, dove di solito c’è abbastanza terreno per far crescere più colture. Lières-au-Bois somigliava moltissimo ai nostri paesini veneti, dove il mais, o granturco, è l’unico prodotto o quasi.
Non ho bisogno di spiegarle che cosa implica una dieta basata quasi interamente sul granturco.”

Annuii: erano capitati anche a me casi di contadini affetti da dermatite acuta, inappetenza, sintomi di delirio.
“Gli studi sulla pellagra[1] mi avevano sempre affascinato, sentivo di essere vicino a proporre una cura valida per quelli che ne erano affetti: per questo mi feci assegnare a Lières-au-Bois.”
Chiuse gli occhi come per rievocare i ricordi.

 
“La prima cosa che vidi all’arrivo furono i tetti di ardesia scura, immersi in una nebbia sottile. Poi i lavatoi di pietra, posti accanto al ruscello che circondava il paese e i campi separandoli dalla foresta: sembrava uscita dalle favole, querce robuste e antiche che ispiravano un senso di timore alla vista. La chiesa tozza, anch’essa ricoperta di tegole color grigio intenso, e alcuni abitanti in attesa: il curato – la Rivoluzione non era riuscita a sradicare le radici di superstizione religiosa dal nord – il sindaco, o meglio, il capo villaggio, e alcune donne con grandi cuffie immacolate e inamidate.

- Ben arrivato! - Il curato mi corse incontro, seguito dal sindaco: segno una gerarchia implicita che avrei compreso in seguito.  - Avete viaggiato bene? Ringraziamo Iddio che vi abbia fatto arrivare fin qui, in questo posto sperduto. -
- Che cosa si fa a Parigi? - Mi chiese il sindaco, cercando di ottenere attenzione.
Tra una domanda e l’altra arrivammo alla casa destinata al mio soggiorno, una costruzione bassa con un lungo tetto in ardesia, dotata di pochi mobili e di un piccolo focolare. Era piuttosto lontana sia dalla chiesa che dalla casa del sindaco e immaginai che la scelta fosse frutto di un compromesso.
Mi lasciarono con la vecchia Adèline, una delle pie donne che si occupavano di allestire la chiesa: da quel giorno avrebbe avuto il compito di allestire casa mia, un cambiamento che reputavo salutare.

- Ringraziamo Iddio che siete arrivato, m’sieur, era proprio ora che ne arrivasse uno nuovo di quelli come voi, dopo tutta quella confusione, ecco, e che cosa avremmo dovuto fare noi povera gente senza nessuno che ci spieghi, certo Iddio pensa a tutti ma quando sono a letto con le ossa che piangono le preghiere non servono, se capite quello che intendo...-
Forse il cambiamento avrebbe giovato ad Adèline, di certo non alla mia cefalea.

Qualcosa in quel flusso di chiacchere però mi aveva colpito.
- Confusione? Quale confusione, Adèline?-
Lei si rigirò il grembiule tra le mani.
- M’sieur, sono cose che è meglio non parlarne, ecco...- Dopo questa iniziale ritrosia alzò gli occhi ancora vivaci e si lanciò nel racconto: -Il vecchio dottore non era come voi, capite? -
- Nel senso che non era italiano? -
Scosse la testa. - Non solo quello, era strano: voleva andare nei boschi di notte, pensate voi. - Si interruppe per farsi un devoto segno di croce. - E verso gli ultimi tempi era sempre malato, urlava di notte, lo so io che stavo qui a fargli impacchi di rosmarino, che poi il rosmarino non deve essergli servito a molto perché una notte è sparito. -
- Il rosmarino?-
- Ma no, m’sieur, il dottore! Lo avevo lasciato proprio in quel letto, lì in fondo, e al mattino quando sono venuta per il bucato non c’era più!- Ridacchiò nervosa. - Oh, dovevate vedere m’sieur il parroco e m’sieur il sindaco quanto hanno bracalato, -
- Bracalato, Adèline? -
- Urlato, litigato, si accusavano tra loro, - spiegò lei, - E alla fine siete arrivato voi, e siamo tutti contentissimi, basta solo che non iniziate anche voi a camminare nei boschi la notte. -
- Non ne ho intenzione: al massimo una passeggiata nei campi. -
- Basta che non ci sia la nebbia. - Adèline si rifece il segno di croce. - State lontano dalla nebbia, m’sieur, se non volete incontrare...- Si interruppe e fece per andarsene.
- Incontrare chi? -
- Nessuno, m’sieur, nessuno. -

In seguito scoprii che il solo menzionare le nebbie aveva strani effetti non solo su Adèline ma anche sugli altri abitanti: sembravano terrorizzati dalla possibilità di restare soli nella nebbia, evento tutt’altro che improbabile dal momento che il paese si trovava in una zona di per sé nebbiosa.
Il mio lavoro tuttavia era talmente impegnativo che non mi misi a indagare sui motivi di una tale superstizione: lo avrei fatto in seguito, ma per il primo periodo svolsi con diligenza il compito che mi ero prefissato, in altre parole curare quei poveri contadini e studiare a fondo le loro malattie, in particolare la pellagra. Come avevo immaginato erano in molti a soffrirne ma mai fino a uno stadio avanzato: i sintomi si limitavano a una dermatite più o meno forte o a qualche episodio di diarrea e non appena comparivano le chiazze pellagrose  i malati si facevano portare erbe e radici con le quali fare un decotto all’apparenza miracoloso.

Ero molto interessato a quel preparato: forse avrei potuto analizzarlo e capire quali elementi avevano effetto contro la pellagra. Era molto probabile che quella mistura non avesse effetti permanenti – e difatti i miei pazienti dicevano di usarlo spesso perché i sintomi si ripresentavano – ma forse c’era la possibilità di ricavarne un rimedio più duraturo.
Quando però chiesi di poterne avere gli ingredienti ci fu un problema.

- Vedete quel tipo di radice cresce solo nella foresta qui dietro. - Ero a colloquio con il parroco. - E siamo in pieno raccolto: nessuno potrebbe accompagnarvi prima di sera. -
- Quindi?-
- Non troverete nessuno disposto ad accompagnarvi la sera in quei boschi, né io ordinerò di farlo, se è questo che state per chiedermi. -

Avrei dovuto aspettare almeno un mese, a quel che sembrava, senza escludere ulteriori impedimenti.
Decisi quindi di farmi dare un disegno della radice e di recarmi da solo nel bosco.
Quando Adèline lo seppe si agitò enormemente: - Ma come, m’sieur, volete fare la fine di quell’altro?-
Nelle ultime settimane il mio unguento contro l’artrite le aveva recato un grande sollievo: la paura di perdere la fonte della medicina fu maggiore di quella del bosco. Finì quindi per prestarmi uno dei suoi tanti nipoti, Philippe, affinché mi facesse da guida.
- E badate bene di restare vicini al paese, dovete sentire l’acqua del ruscello, se non la sentite tornate subito indietro. -
Philippe, un ragazzino di circa sette anni, all’apparenza macilento ma scalmanato quanto un branco di cani, salutò allegramente la nonna: - Ci sto attento io al m’sieur, non preoccuparti vecchietta. -
Le grida di Adèline ci accompagnarono mentre valicavamo il ruscello per entrare nella foresta.

Come ho già detto, si trattava per la maggioranza di querce maestose che si innalzavano con i rami a coprire il cielo: l’effetto era una semi oscurità verde dove insetti e piccoli animali si muovevano indisturbati.
Io e Philippe iniziammo a cercare le radici miracolose, un compito più difficile del previsto dal momento che nella nostra ricerca fummo costretti a camminare parecchio e ad addentrarci maggiormente nella foresta per trovarle. Quando però potevamo contare un buon numero di radici ci rendemmo conto di non sentire più il ruscello scorrere.

- Dobbiamo tornare indietro! - Philippe, spaventato, stava per lasciar cadere a terra il nostro bottino e scappare. Lo afferrai per una spalla.
- Stai calmo. Non ci succederà nulla: sono solo alberi. -
- Voi non capite! - Si dimenò come un ossesso. - Non vedete che sta salendo la nebbia? -
Attorno a noi, in effetti, il sottobosco aveva iniziato a velarsi di bruma bianca e impalpabile, la cui umidità mi penetrava sottopelle e nelle ossa. Mantenni il controllo: le paure irrazionali di un gruppo di paesani non avevano presa su di me.
- Calmati, Philippe: non hai motivo di avere paura. - Gli parlavo per tranquillizzarlo, come con gli animali selvatici. - Abbiamo raccolto abbastanza radici, dobbiamo solo tornare indietro per la strada da dove siamo venuti. Scappare da solo ti farà perdere, meglio restare uniti. -
Smise di dibattersi.

Pensai che le mie parole avessero avuto effetto, invece mi accorsi che stava fissando un punto dietro la mia spalla. I suoi occhi erano sgranati, tondi, e manifestavano segni di un profondo terrore che lo immobilizzava completamente.
Mi voltai di scatto impugnando il bastone da passeggio.
Nella nebbia, tra le querce, qualcosa si muoveva verso di noi.
Ne distinguevo i contorni sfilacciati dalla bruma: una sagoma femminile, vestita di bianco – o era la cortina di nebbia a darle quel colore? - lunghi capelli sciolti sulle spalle. 
Credetti di essere entrato in un sogno, in una favola per bambini dove le fate camminano nelle foreste e a volte vengono viste da noi poveri umani.
Inconsciamente feci un passo verso di lei. La creatura allungò un braccio nella mia direzione.
Philippe urlò.

La voce del ragazzo parve rompere l’incantesimo: l’apparizione svanì nella foresta ed io mi ritrovai a correre alle calcagna di Philippe, il quale stava scappando a rotta di collo verso il ruscello, ora di nuovo in vista.
Quella fu la prima volta che la vidi.”
 

 
La voce di Ruzzante si affievolì, il racconto lo aveva stancato: questa volta tuttavia non presentava segni di confusione emotiva o di spavento.
“Adesso riposate.” Provavo una forte riluttanza ad alzarmi da quella branda, un desiderio di comprendere quali fossero stati gli eventi che avevano portato un uomo, un medico di caratura elevata da quanto avevo dedotto, a occupare una cella in una cittadina di provincia. Questo almeno era quello che mi dicevo.
“Se finora vi ho annoiato...” Cominciò a scusarsi Ruzzante, al che lo interruppi.
“Per nulla, credetemi: non chiedo che di ascoltarvi ma vi vedo stanco. E’ pericoloso sottovalutare una convalescenza, dovreste saperlo bene.”
“Avete ragione.” Sorrise: quella sua espressione, affaticata ma non ancora vinta, rimase con me a lungo e si unì alle immagini che il racconto aveva risvegliato nella mia mente. “Vi vedrò domani dottor Bedin?”
“Certamente, se la guarnigione municipale non deciderà altrimenti, cosa di cui dubito date le circostanze. E chiamatemi pure Clemente,” gli strinsi la mano per accomiatarmi, “tra colleghi possiamo abbandonare le formalità.”
Ricambiò la stretta con la poca forza rimastagli e ci guardammo a lungo con rinnovata simpatia, mi parve.
 
 
Uscii dalle Debite in preda a una strana irrequietezza.
La fitta coltre di nebbia mattutina era stata scacciata dal sole invernale: le strade acciottolate e gli edifici avevano di nuovo una forma fissa, i contorni avevano smesso di sfumare nell’aria grigia. Ogni cosa appariva solida e concreta, in netto contrasto con la storia che avevo appena ascoltato.
Forse per questo decisi di non ritornare a casa bensì di recarmi al Bo poco distante, dove avrei potuto imbattermi in qualche collega a cui porre certe domande che mi assillavano.

Il Palazzo del Bo [2]era anche sede dell’Università: chiusa più volte dal governo asburgico per timore delle rivolte degli studenti, era stata da poco tempo riaperta sebbene con molte restrizioni. Di conseguenza entrando nel maestoso edificio non vidi i gruppetti di allegri goliardi che da sempre lo popolavano: studenti e professori evitavano di parlarsi, stretti nei loro mantelli neri entravano nelle aule fingendo di non fare caso alle uniformi bianche dell’esercito asburgico che comparivano qua e là ma senza poter dimenticare gli eventi del 1848[3].
Del resto il segno delle pallottole sulle mura del Bo e del Caffè Pedrocchi lì accanto rendevano difficile il compito di far tacere la memoria.

“Clemente! Finalmente ti si rivede amico mio.” Mi ritrovai la mano serrata in una stretta cordiale: avevo avuto la fortuna di imbattermi proprio nella persona che inconsciamente stavo cercando recandomi lì, ovvero il dottor Attilio Manin, mio vecchio mentore all’Università.
“Attilio!” Non nascosi la gioia nel rivederlo: aveva trascorso anni in Francia e Inghilterra allo scopo di approfondire la nostra scienza medica e solo di recente avevo udito parlare del suo ritorno a Padova. “L’aria d’oltremare ti ha giovato: dimostri dieci anni di meno.” Ed era vero: nonostante il capo canuto, la luce che gli faceva brillare gli occhi era rimasta tale e quale a quella del giovane professore che mi aveva guidato negli studi.
“Mentre tu ne dimostri dieci in più: la nebbia di questa città ti sta consumando o si tratta di un’allegra donnina del Portello?” Attilio mi abbracciò ridendo: non era cambiato per nulla, nemmeno nei modi più adatti a un’osteria che a un’aula.

Senza badare alle guardie asburgiche che, attirate dal chiasso, ci stavano osservando con l’aria di aquile pronte a ghermire la preda mi prese a braccetto e s’infilò nel reticolo di viuzze che circondavano il Bo.
“Come te la passi Clemente?” Ci sedemmo al tavolo di una taverna davanti a un bicchiere di vino. “Ho sentito dire che questi anni non sono stati facili per voi.”
Gli diedi un breve resoconto degli ultimi anni di vita sotto il governo austriaco: non era un racconto allegro e difatti quando arrivai al termine sia io che Attilio avevamo ben poca voglia di scherzare.

“Credo che accetterò l’invito di quel mio amico di Londra per una cattedra di medicina.” concluse Attilio dopo aver finito la bottiglia che ci stava davanti. “Dovresti venire con me: di questo passo nessuno sa che cosa potrebbero fare gli Asburgo.”
“Forse hai ragione, eppure non riesco a decidermi ad abbandonare questa città” ammisi a malincuore.
“Se credi che ti mancheranno le foschie venete ti posso tranquillizzare: Londra offre banchi, cumuli di nebbie che non ti faranno sentire nostalgia di casa.”
“Ho i miei pazienti di cui occuparmi, non mi va di lasciarli nelle mani di altri. E a questo proposito... ” Gli parlai del Ruzzante.

L’espressione di Attilio era interessata: del resto tra i suoi innumerevoli studi alcuni dei più importanti riguardavano proprio l’alienismo[4], una branca della scienza medica che a fatica si stava ritagliando un posto tra campi più nobili.
“I sintomi che descrivi sono complessi da interpretare” commentò alla fine. “Di certo il tuo paziente soffre di una forma molto acuta di crisi nevrotiche, la cui causa è da ricercarsi forse in eventi gravi del suo passato: il loro ricordo potrebbe innescare le crisi e di conseguenza la febbre e tutto il resto. Un fenomeno che ho già visto in alcuni soggetti, per la maggior parte donne.”
“Tu credi che la sua storia su quel villaggio francese possa essere correlata alla sua malattia?”
“Potrebbe essere. Il fatto che abbia deciso di mettertene a parte è significativo” riflette. “Mi piacerebbe visitarlo personalmente.”
Mi irrigidii e voltai la testa. “Temo che al momento non sia in condizione di ricevere estranei.”
Sentii lo sguardo indagatore di Attilio su di me.
“Interessante” mormorò.

Ripresomi da quel primo, inspiegabile turbamento, mi affrettai a replicare: “Tra qualche giorno spero si sia rimesso abbastanza da permettere nuove visite.”
“Se me lo permetterai.” Il sorriso di Attilio aveva un che di strano, ma m’imposi di non farci caso. “Il tuo unico scopo è la salute del paziente, non è vero Clemente?”
“Certo: quali altre ragioni dovrei avere?” Risposi vagamente irritato.
“Esistono uomini che prosperano con scaltre menzogne di fronte a sé e al mondo: la verità però affiora sempre prima o poi.” Attilio sembrava pensare ad alta voce.
“Che cosa vuoi dire?”
“Nulla, amico mio, nulla di serio.” Ordinò una nuova caraffa di vino novello. “Per tornare alla questione che ti sta a cuore, posso consigliarti alcune letture sugli stati nervosi e sulle malattie mentali, oltre che a un paio di trattati su...”
La nostra conversazione passò ad argomenti tecnici e si esaurì solo al calar del sole, mentre la nebbia tornava a occupare le vie di Padova.
 
[1] La pellagra è una malattia causata dalla mancanza di vitamina B nell’organismo e tipica di luoghi dove si conduce una dieta non variata che ne impedisce l’assorbimento, es. dove si mangia solo granturco non trattato. E’ detta la malattia delle tre D (dermatite, diarrea e demenza) o delle quattro D se si aggiunge il risultato finale Death, morte. Ho immaginato che una società contadina impoverita potesse sviluppare sintomi di pellagra, non avendo a disposizione latte o altro.
(https://it.wikipedia.org/wiki/Pellagra)


 
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_del_Bo
[3] In quel periodo a Padova avvennero rivolte contro la dominazione asburgica, nelle quali vennero uccisi parecchi studenti dell’Università che avevano contribuito al movimento d’indipendenza. Le cronache dicono che il maresciallo austriaco d’Aspre pretese di passare in carrozza laddove stava sopraggiungendo il corteo funebre di uno studente. Il giovane Bortolo Lupati apostrofò veementemente l’arrogante generale intimandogli di retrocedere. Scolari e cittadini si ribellarono, a nulla servirono i tentativi di placare gli animi, l’università venne chiusa, nelle strade vennero posti picchetti armati; si sparò, vi furono morti e feriti (da Le strade di Padova di G.Toffanin).
(https://www.blogdipadova.it/8-febbraio-1848-padova/)
[4] Lo studio degli alienati, cioè dei malati di mente.
  
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