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Autore: Jordan Hemingway    05/01/2019    4 recensioni
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.

Storia partecipante al contest "I Doni della Medicina" indetto da Dollarbaby su EFP Forum
Prima classificata al Victorian Age Contest indetto da Hyggelic su EFP Forum
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Primo
 

Padova, 1 dicembre 1855
 
Al Dott. Attilio Manin:
 
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.
 
Amico mio, in nome di tutto quel che avete di più caro: portate in salvo queste memorie e il mio ricordo.
 
Clemente Bedin
 
 

Padova, 3 novembre 1855
 
Dire che gli avvenimenti di oggi non mi hanno turbato sarebbe una menzogna.
All’alba la vecchia Agnese era venuta a chiamarmi tutta in agitazione: un ufficiale era in mia attesa in soggiorno, nello spazio che utilizzo come ambulatorio in attesa di miglior sistemazione.
L’uomo si presentò come Giulio Valle, tenente, in servizio presso Palazzo delle Debite[1], dove un prigioniero aveva passato una notte talmente agitata da rendere necessaria la presenza di un medico.
“Non dorme e non mangia,” mi spiegava il tenente Valle, “e in certi momenti ha delle crisi, non saprei come chiamarle, in cui urla in francese o in non so quale lingua straniera...”
“Il prigioniero è francese?” Chiesi, ancora assonnato, mentre cercavo di preparare la borsa degli strumenti medici senza dimenticare nulla.
“Italiano, tale Ruzzante Leone. Un vostro collega: dottore a Parigi, dove ha sviluppato un amore troppo forte per le tavole da gioco” ironizzò il tenente.
Un amore che era senz’altro la causa del suo soggiorno alle Debite, dedussi. Era comunque strano che i suoi carcerieri si fossero attivati a quell’ora, quando nemmeno le nebbie notturne che avvolgevano la città erano ancora state scacciate dal sorgere del sole.

Uscendo in strada mi avvolsi stretto nel tabarro: l’umidità, unita al gelo dell’inverno incombente, penetrava fino alle ossa. Il tenente mi imitò e infilò le mani screpolate dal freddo nelle tasche del mantello di lana verde[2]. Insieme ci avviammo a passo svelto lungo le vie lastricate di ciottoli e sotto i portici da dove spuntava occasionalmente qualche figura umana: lavoratori in procinto di cominciare la giornata o gaudenti sul punto di concluderla. Incrociammo un paio di donne che, gettati gli occhi sull’uniforme di Valle, si affrettarono a scomparire verso il quartiere Portello[3]: riuscii a intravedere sprazzi di trucco eccessivo e abiti succinti.
I merli e le arcate eleganti del Palazzo della Ragione, sede della congregazione municipale, stridevano se comparati allo squallore dell’edificio accanto: Palazzo delle Debite era un rettangolo tozzo, sormontato da un torrione e circondato da un piccolo cortile dove i prigionieri uscivano a volte per l’ora d’aria, mi informò il tenente Valle mentre ci avvicinavamo. Una prigione per debiti nel cuore della città, il vizio accanto alla legge: la cosa mi aveva affascinato fin dal primo momento che avevo messo piede a Padova.

Guidato da Valle oltrepassai l’ingresso e salii la scalinata di pietra grezza.
“Quassù teniamo le camerate maschili,” spiegava il tenente, “ma dalla scorsa notte Ruzzante è stato trasferito in una stanza singola, per evitare...”
“Per evitare un contagio in caso di febbri malariche, dico bene?” Conclusi secco: la chiamata di un medico prima dell’alba poteva essere giustificata solo da un timore di contagio non solo per gli altri prigionieri ma soprattutto per la guarnigione. Se questo Ruzzante fosse stato un pazzo come tanti lo avrebbero consegnato al manicomio di Venezia senza tante cerimonie.
Valle annuì e mi indicò una porta all’angolo del corridoio, tanto piccola che dovetti piegarmi per entrare all’interno della cella.
Lo spazio disponibile era quasi del tutto occupato da una branda militare e da un tavolo di legno consumato, sul quale era stato posto un vassoio di cibo ancora intatto. Un’unica finestra dalla quale la luce grigia del mattino entrava gettando le ombre delle sbarre di ferro sul pavimento sporco.

Attorcigliato nelle lenzuola lise il prigioniero, Leone Ruzzante, respirava a fatica: viso magrissimo, emaciato, tranne che per due chiazze rosse sugli zigomi, segno inequivocabile di febbre in corso assieme al sudore che gli scendeva a rivoli lungo le tempie dai capelli biondi e sporchi.
Teneva gli occhi chiusi e si agitava nel letto, borbottando parole in quello che poteva essere francese o dialetto teutonico per quel che me ne intendevo.
Gettai la borsa sul tavolino e iniziai a estrarre i miei strumenti.
“Dottore, posso contare sulla sua discrezione?” Il tenente Valle era sulla soglia, chiaramente non intenzionato ad avvicinarsi a un possibile caso di malaria. Come dargli torto del resto?
Alzai le spalle. “La mia priorità è la salute del paziente, non è nel mio interesse diffondere la notizia e allarmare la popolazione inutilmente.” Fissai il tenente negli occhi. “Dopo avrò bisogno di esaminare i prigionieri che erano nella sua camerata e i soldati addetti alla loro sorveglianza. Se troverò motivo di preoccupazione dovrò tuttavia informare le autorità comunali.”
“Certo, ovviamente.” La postura del tenente si rilassò un poco. “Ora la devo chiudere qui dentro: mi dia una voce quando ha finito.” La porta fu serrata alle mie spalle: per un istante mi sembrò di capire lo stato d’animo dei condannati a vita.

Scacciando quel pensiero tornai al mio paziente: senza dubbio era nel pieno di un attacco di febbri ma per scoprire se si trattasse effettivamente di malaria avrei dovuto esaminarlo meglio. Gli presi un polso, sottile tanto da sembrare un semplice osso ricoperto di pelle cadente: il battito era alto, troppo perfino per una febbre malarica. Mi accorsi che aveva smesso di borbottare e che aveva aperto gli occhi: mi fissava con intensità, i suoi occhi erano una lama verde non intaccata da febbre o follia: erano probabilmente l’ultimo residuo dell’uomo che doveva essere stato in passato, prima di finire delirante in una cella.
Interruppi il mio esame.

“Chi siete?” La domanda che avrei voluto porre mi fu rivolta dalla voce arrochita del prigioniero.
“Clemente Bedin, dottore in medicina. Mi hanno detto che siete stato, siete, anche voi un medico.”
Il malato annuì. “Leone Ruzzante, medico presso l’Università di Parigi.”
“Allora siete senz’altro in grado di darmi maggiori informazioni sul vostro stato: da quanto tempo avete questa febbre? Siete stato a contatto con...”
Un cenno della sua mano mi impose di tacere: colsi nei suoi occhi qualcosa di strano, sembravano fissi su una visione che non aveva nulla a che fare con quella stanza.
“Ero medico, sì,” proseguì debolmente ma con tenacia, “ho studiato a Parigi, assieme a tanti altri come me, attirati dalle scoperte e dagli inviti dell’imperatore verso le migliori menti d’Europa. Mia madre era francese, grazie a lei ho imparato quella lingua che mi ha permesso di proseguire gli studi a livelli impossibili in Italia.”

Lo lasciai parlare: vedevo che il ricordo pareva calmarlo, respirava più lentamente e il battito era migliorato. Mi resi conto di avere ancora la mia mano sul suo polso e con dolcezza mollai la presa.
“I miei studi si erano concentrati sulle condizioni di salute dei contadini francesi, in particolare a nord di Parigi, dove i raccolti spesso sono soggetti a carestie e alluvioni: le nuove leggi avevano incoraggiato noi officiers de sainté[4] a prendere servizio in alcuni villaggi, per curare gli abitanti e approfondire la conoscenza di certe malattie diffuse in quelle terre. Così mi sono ritrovato a Lières-au-Bois.”
“Avete soggiornato a lungo in quel luogo?”

Improvvisamente il suo respiro si fece affannato: mi prese una mano con forza insospettabile e mi trovai a meno di qualche centimetro dal suo viso.
“La nebbia avvolgeva ogni cosa, dottore. Ogni cosa, compreso il cuore degli uomini: solo nella notte e nella nebbia lei si sentiva sicura.”
I suoi occhi non abbandonavano i miei nemmeno per un istante.
“Di chi state parlando?” Sussurrai.
Si gettò all’indietro sul letto e iniziò a gemere e ad agitare braccia e gambe, rischiando di spezzare la branda vecchia e traballante. Mi gettai alla porta e chiamai Valle: insieme riuscimmo a fermarlo e sedarlo con una dose di morfina sufficiente a farlo dormire per l’intera giornata.
Valle mi assillò di domande concernenti lo stato di Ruzzante ma non ero in condizione di rispondere: il colloquio con quell’uomo mi aveva turbato e non ne capivo la ragione.

Avevo tuttavia dei doveri da assolvere in quanto medico e pertanto mi feci portare alla camerata dove Ruzzante aveva trascorso la sua prigionia fino alla notte precedente. Nessuno dei carcerati sembrava affetto da sintomi di malaria ma per esserne sicuri ordinai al tenente Valle di non farli uscire per qualche giorno e di comunicarmi immediatamente qualsivoglia cambiamento nel loro stato di salute.
“E per quanto riguarda Ruzzante?” Mi domandò il tenente.
“Verrò domattina per ulteriori esami: non sembra malaria ma non si è mai troppo certi.” A dire il vero i sintomi di Ruzzante sembravano più materia per alienisti che non per medici normali: avevo però il timore che se Valle e la guarnigione lo avessero saputo mi avrebbero congedato e avrebbero ritrasferito l’uomo nella camerata comune oppure in un manicomio, un’idea che mi ripugnava in quanto avrebbe significato tradire un collega medico.
Inoltre ero rimasto con un quesito: che cosa era successo in Francia a Leone Ruzzante?
 
 
[1] Palazzo delle Debite, o Debite, era una prigione per debitori situata vicino a Palazzo della Ragione a Padova: nel 1874 è stata chiusa e ristrutturata a scopo commerciale da Camillo Boito, perdendo del tutto l’aspetto originale. Nelle foto d’epoca si può infatti notare che la prigione era un edificio basso, lungo e massiccio, mentre invece l’attuale Palazzo è una cosa molto gotica (e molto cool) con colonnine e archi.
(http://www.lavecchiapadova.it/02-TESTI/BASILICATA/PAGINE/IL%20PALAZZO%20DELLE%20DEBITE.htm)
[2] Il colore del mantello di Valle lo identifica come un soldato del corpo italiano al servizio dell’esercito asburgico – in quell’epoca Padova era sotto dominazione austriaca della monarchia Asburgo, le cui uniformi erano bianche per gli ufficiali e azzurre per i soldati da quel che sono riuscita a ricostruire.
(http://associazione-legittimista-italica.blogspot.com/2013/04/imperiale-reale-esercito-austriaco-le.html)
[3] Uno dei quartieri più antichi di Padova e uno dei più animati, in seguito all’apertura del tratto di ferrovia Padova-Mestre a metà Ottocento e alla conseguente crisi del commercio fluviale diventò un posto malfamato. Oggi è una delle più vivaci zone universitarie.
(https://www.blogdipadova.it/tour-nella-padova-gotica-dell800/)
[4] Gli officiers de saintè erano medici destinati alle aree rurali e al lavoro medico di routine, in possesso di una laurea che li distingueva dai ciarlatani.
(http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-scienze-mediche-medicina-e-societa_%28Storia-della-Scienza%29/)
  
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