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Autore: Ruta    06/01/2019    1 recensioni
Pensi mai a me? A quando eravamo giovani e felici e con il mondo ai nostri piedi? Pensi mai a quello che sarebbe dovuto essere? A dove saremmo noi se in quella notte fatale -
“Non trascorre giorno senza che ci pensi,” la raggiunge, lontana e vicina, la voce di lui.
[Kitolaf. Pre-serie]
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Conte Olaf
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Will i

Will I be alone?

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Sarò sola? Quando avrò alzato in me l’intimo fuoco che originava già queste bufere e sarò salda, libera, vitale, allora sarò sola? E forse staccherò dalle radici la rimossa speranza dell’amore, ricorderò che frutto d’ogni limite umano è assenza di memoria, tutta mi affonderò nel divenire… Ma fino a che io tremo del principio cui la tua mano mi iniziò da ieri, ogni attributo vivo che mi preme giace incomposto nelle tue misure.

Alda Merini, Sarò sola?

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Lei non dovrebbe trovarsi lì. Mesi di preparativi, di appostamenti e si è verificata l'unica cosa che lui ha cercato di evitare per tutto quel tempo.

L'aria nella stanza è stantia, sa di vecchio e inchiostro e naftalina. Olaf conta i secondi che lo separano dalla rovina. Quanto tempo occorrerà prima che il fuoco appiccato nel seminterrato raggiunga il piano terra e l’ala della biblioteca in cui si trovano? Prima che il fumo riempia i corridoi e lei si accorga di quello che sta succedendo?

“Non dovresti essere qui,” dice nel suo tono più arrogante, quello che usa per mascherare la paura e l’insicurezza. Perché è lì? Il rapporto diceva espressamente che -

“Proprio come te,” lei risponde, senza distogliere gli occhi dal libro ingiallito che sta leggendo. “Immagino che sia l'ennesima prova della mia straordinaria fortuna.” Il sarcasmo ha un suono diverso quando fuoriesce dalle sue labbra, specie se scortato dalla smorfia che ora le corruccia la bocca sottile. Il rumore secco con cui chiude di scatto il libro risuona come uno sparo nel silenzio della notte che li circonda e ricopre il suono stentoreo del battito che il suo cuore ha saltato, non appena lui ha riconosciuto il titolo sulla copertina. Dopotutto recuperarlo è il motivo iniziale che l’ha spinto nell’enorme labirinto che è la biblioteca degli Snicket.  

Secondi preziosi passano senza che lei aggiunga altro o che lo degni della minima attenzione. Gli sembra quasi di sentire il crepitio del fuoco che avanza dal cuore della casa e la violenza dell’atto che ha compiuto si scontra con l’aria insolitamente dimessa di Kit. Non l’ha mai vista così da quando la conosce, ovvero da quando era una ragazzina dinoccolata e occhialuta che divorava libri con la voracità di uno squalo e rispondeva ai soprusi battagliando con una lingua più affilata di uno stiletto.

Altri minuti e lei ancora non solleva lo sguardo dal libro che ha in grembo. Non ci sono luci artificiali al di fuori della lampada da tavolo accesa nell’angolo preferito di entrambi, con il paralume a globo sostenuto da due albatros in ottone.

“Non capisci. Devi uscire. Entrambi dobbiamo.” Non riesce a evitare il piccolo tic nervoso alla bocca e quando finalmente lei lo guarda è per fissarlo con occhi pieni di contraddizioni: sgomento e quieta accettazione e struggimento.

“L'hai fatto.”

“Fatto cosa?” Vorrebbe scoppiare a ridere – la nuova e ammaliante risata malefica che ha perfezionato negli ultimi mesi dacché si sono separati - e negare, fingere. Con lei sarebbe futile.

La osserva e conosce ogni pensiero che le sta attraversando la mente. Sta calcolando come lui: il tempo rimanente, eventuali vie di fuga, la necessità o meno di uno scontro fisico. 

Kit si riscuote con un sospiro profondo. Sembra aver ritrovato parte della sua combattività e il viso teso è acceso da una furia che gliela rende disperatamente cara. “Speravo che non saremmo arrivati a questo punto, ma temo di non avere alternativa. Entrambi abbiamo fatto una scelta ed è ora di accettarlo e imparare a conviverci.”

Lui afferra facilmente il sottotesto esplicito. Dopo questa notte le loro strade si separeranno definitivamente.

Una rabbia identica a quella di lei lo ghermisce, un abisso nero che inghiotte ogni altra cosa. “E di chi è la colpa?” la accusa.

“Credi davvero che distruggendo la mia famiglia otterrai quello che cerchi?” Lei scuote la testa, i capelli disordinati le cadono in onde scomposte davanti agli occhi e le mani gli prudono per il desiderio di sistemarli dietro le orecchie. “La vendetta non è mai la soluzione, Olaf.”

“Una famiglia per una famiglia. Una casa per una casa.” Tiene le braccia conserte dietro la schiena e le rivolge un ghigno che è uno spauracchio per bambini, ma che non sembra minimamente scalfire la sua compostezza. “Mi sembra fatalmente giusto.”

“Perciò hai intenzione di uccidere anche me?” lei domanda a bruciapelo, senza mezzi termini. Non è quella una delle qualità che l’hanno fatto innamorare di lei? La sua resilienza, la sua incapacità di indietreggiare di fronte al pericolo, la sua intraprendenza, la sua verve? Lei affronta con risolutezza il suo sguardo, senza traccia di compassione per il tumulto che ha appena causato. “Li distruggerebbe. La mia morte. Sai che è vero. Minimo sforzo per il risultato più efficace.”

Ma distruggerebbe anche me. Una parte di quello che sta provando deve trasparire perché all’improvviso lei è di fronte a lui e sta allungando con esitazione una mano verso la sua guancia, un gesto ripetuto mille volte, un’abitudine diventata banale per la consuetudine con cui erano soliti scambiarsi gesti di quel tipo. Non più, una voce crudele gli sussurra all’orecchio e lui si scansa dalla mano di lei, invitante e illusoria, come se avesse provato a schiaffeggiarlo. 

Di fronte a quel rifiuto, il dolore non è una deflagrazione rumorosa, ma si accartoccia nel bordo dei suoi occhi induriti. “Mi odi a tal punto?”

“Non è te che odio, ma quello che rappresenti.” La verità non è clemente né pietosa, ma è l’unica gentilezza che lui può permettersi di concederle ora come ora. 

Kit annuisce con aria imperscrutabilmente definitiva, di chiusura. “E io odio la persona che stai diventando. Sei un brav'uomo. Potresti essere nobile, come tuo padre.”

“Non nominare mio padre!”

“Lo amavo anch'io, sai. Odio quello che mio fratello ha fatto, cosa ha causato, ma capisco le ragioni che lo hanno spinto ad agire in quel modo.”

“Il fine che giustifica il mezzo,” lui ringhia, provando una collera che neppure la presenza di lei riesce a frenare, un’inquietudine e un’irrequietezza che niente riesce a calmare. “Voi e la vostra nobiltà. Voi e le vostre ipocrisie, le vostre mezze verità. Cosa mi dici degli effetti collaterali delle vostre azioni? Affermate di agire per il bene, ma chi ha deciso che il bene di alcuni sia più importante del bene di altri? Chi ha stabilito che il perdono sia concesso solo a pochi eletti e fortunati?”

Quando lei poggia una mano sul suo petto, lui non si ritrae e poggia la sua sopra quella di lei. “Non è ancora troppo tardi. Puoi sempre tornare indietro.”

Entrambi fissano con luttuosa fascinazione la vicinanza delle loro mani sovrapposte. Ed è bastato così poco? Così poco tempo per rendere strano ed estraneo quanto era di più naturale e semplice tra di loro? “So che potrei,” lui risponde atono e non aggiunge altro. Sa che lei leggerà tra le righe, che capirà. Per un istante vorrebbe che Kit non lo conoscesse come lo conosce, ma sarebbe come desiderare l’impossibile, come che il sole non sorga e tramonti ogni giorno o che il mare diventi una distesa placida e priva delle maree che lo caratterizzano.

“Non vuoi,” lei risponde nello stesso tono freddo e impersonale. “Dunque è così.”

“La vendetta è tutto ciò che cerco,” le sussurra all’orecchio piegandosi in avanti, le labbra accostate al suo orecchio. “Non desidero altro.”

Lei si ritrae come se l’avesse colpita. In un certo senso è esattamente quella che ha fatto. “Questo è un addio.”

“No, carissima,” lui promette con ineluttabilità, spostando la mano dietro la sua nuca e apprestandosi al colpo per tramortirla. “Solo un arrivederci.”

Quando si risveglia, sotto una coltre di stelle lontane e su un letto di erba bagnata dalla rugiada notturna, Kit Snicket è sola in giardino mentre la casa della sua infanzia brucia daccapo, per un incendio appiccato dall'amore della sua vita.

Il ciclo della sua vita senza di lui inizia così, con il furto di un libro regalato.

*    

La volta successiva in cui le loro strade si incrociano, entrambi sono presi alla sprovvista da quell’incontro fortuito. Lei è in fuga, scappata per un pelo da nemici troppo potenti e sta percorrendo i tunnel sotterranei per raggiungere la casa di un alleato, in cerca di protezione fintantoché non si riprenderà completamente dalle ferite che le sono state inferte. Lui sta per commettere il secondo crimine che lo condannerà ai suoi occhi. (Fallirà, ma non è questo il punto. Il punto non è mai stato riuscire nei suoi intenti malvagi, ma la natura incontrovertibile dei suoi tentativi criminosi.)   

Olaf la squadra da capo a piedi con atteggiamento predatore e Kit è troppo stanca per badare a come deve apparire. “Ti credevo morta.”

Lei muove una mano per respingere le parole di lui. “Opinione diffusa e ovviamente incorretta.” Prima che lui aggiunga qualcosa lei lo precede. “So cosa hai intenzione di fare.”

Il ghigno di sfida di lui è dolorosamente familiare. “Vuoi provare a fermarmi?” le domanda come se non aspettasse altro.

Prenditi cura di lui,” lei recita a memoria e sente la gola ostruirsi per lacrime che non piangerà. “Il mio ragazzo è testardo e orgoglioso, vanesio come pochi, ma ha un buon cuore. Prenditi cura di lui. Tuo padre me l'ha detto il giorno in cui mi hai dato l'anello di tua madre. Non te l'ho mai restituito.”

Lui è pallido e sembra intontito, come se stesse combattendo gli effetti di un potente sonnifero. Quando lei si sbottona il giubbotto per estrarre la catena con l’anello in questione, la vista basta a risvegliarlo dal suo stato di stordimento.   

Sembra che voglia toccarla, ma alla fine incrocia le braccia dietro la schiena ed evita con decisione il suo sguardo. “Non voglio che tu lo faccia,” lei lo sente dire e così risistema la catenella sotto la camicetta, al posto che le appartiene, vicino al suo cuore.

“Tutti questi anni e per cosa? Hai trovato quello che cercavi?” Non si aspetta una risposta ed è sorpresa quando lui gliene offre una.

“L'avevo trovato.” Gli occhi di lui sono cerchiati da ombre livide e profonde e perseguitati dal suo stesso tormento. “L'ho tenuto contro il mio petto e poi l'ho lasciato andar via.”

La bocca improvvisamente secca, Kit si umetta le labbra screpolate e assapora il gusto amaro della perdita che non è necessariamente morte, ma avversità e patimenti e scelte di vita incompatibili. “Il passato si cela nei ricordi. Il futuro si costruisce sulle speranze.”

“Non sei cambiata,” lui dice e il sorriso che le rivolge è triste e arrabbiato assieme. “Sei la stessa.”

“Non più,” lei lo contraddice. “Il mondo intero è mutato e così ho dovuto fare anch'io.”

Il dolore al fianco sta aumentando esponenzialmente, si accompagna a quello che le squarcia il petto, che le riempie i polmoni. Sotto la mano aperta a ventaglio, lei sente la stoffa impregnarsi di sangue.  

Pensi mai a me? A quando eravamo giovani e felici e con il mondo ai nostri piedi? Un futuro splendente e rigoglioso di opportunità e sfide? Pensi mai a quello che sarebbe dovuto essere? A dove saremmo noi se in quella notte fatale -

“Non trascorre giorno senza che ci pensi,” la raggiunge, lontana e vicina, la voce di lui.

Riapre gli occhi di scatto ed è così che scopre di aver pronunciato ad alta voce i suoi pensieri. Nel lampo di sorpresa e vulnerabilità che gli sta attraversando il volto. E’ così, privata della sua armatura e resa impulsiva da ragioni che travalicano la sua volontà, che si rende conto che sta morendo.   

Ansima e mentre la consapevolezza la travolge, si appoggia contro il muro di mattoni. Cercando di prendere fiato, il peso del suo corpo moltiplicato dalla stanchezza, cerca di mantenersi in piedi su gambe instabili. La testa gira vorticosamente.

“Kit.” La mani di lui poggiate sulle sue spalle, il modo in cui nella penombra del tunnel la sta studiando. “Perdi sangue.” La sua voce è pericolosamente bassa e roca,  promette minacce. “Cosa è successo? Chi ha osato –”

“Si sono presentati come i tuoi mentori. Mi hanno invitato a cena.” Cerca di sorridere, ma il tentativo fallisce miseramente. “Non ho potuto rifiutare.”

“Sciocca ragazza. Sai di cosa sono capaci e lo stesso sei andata. Perché?” La rabbia è a malapena contenuta. Lo ha già trasformato, rendendolo un demone di distruzione. 

Successivamente Kit si discolperà per quell’interludio di debolezza e fragilità, trincerandosi dietro la scusa della ferita, dello stato febbricitante in cui si trovava. Parole a lungo trattenute, terreni inesplorati non perché resi accidentati da insidie nascoste, ma perché senza via di uscita.

Un braccio dietro le sue spalle, un altro dietro le sue ginocchia. Kit si lascia sollevare e poggia la testa nell’angolo del suo collo. “Volevo cercare di capire,” ammette in un mormorio. “Se avessi capito loro, forse avrei avuto maggiori speranze di –” si blocca e strofina il naso contro la mandibola di lui. Leggero come un alito di vento del sud, il respiro di lui le sfiora la guancia. “Non ha più importanza. Ho mandato un volenteroso foglietto a Jacqueline. Manderà qualcuno a prelevarmi. Devo solo aspettare i rinforzi.”

Olaf continua a camminare e Kit è cullata dal leggero dondolio della sua camminata, dal profumo della sua colonia, dal pizzicore della sua barba contro la fronte. Prende nota distrattamente delle direzioni. Destra, sinistra. Due volte sinistra e poi ancora una volta destra. 

“Non arriverà nessuno.”

Riapre gli occhi. “Sai della festa.” Non è una domanda, neppure un’affermazione. E’ qualcosa a metà strada tra le due, ambiguo come è diventato il loro rapporto. 

“Ho i miei informatori,” lui risponde, insolente e arrogante.

“Stavi andando lì. Perché?”

“Per uccidere i traditori.”

Non è nuova al dolore noncurante che affermazioni del genere, specialmente perché fatte da lui, le procurano. Dovrebbe essersi educata al contraccolpo che producono dentro di lei, sfiorando le corde più segrete del suo cuore, affilando i denti e le unghie contro quella massa morbida che erano i suoi sentimenti per lui, non importa quanto ostinatamente lei cerchi di soffocarla come il più dannoso e nocivo degli incendi. Il dolore ha riempito gli spazi vuoti creati dalla sua assenza. Si agita un poco tra le sue braccia, ma la sua voce non mostra tracce dello shock e del tradimento che prova. “Loro non hanno mai tradito. Nessuno di noi l'ha fatto. Ma tu sì.”

Le mani di lui si serrano attorno alla sua spalla, attorno al suo ginocchio destro. “Insisti nelle tue menzogne?”

“Di cosa stai parlando?”

“La freccetta avvelenata,” lui digrigna i denti. “Era tua.”

“Non ne ho mai fatto segreto.”

“Chi ha scagliato la freccetta che ha ucciso mio padre?” lui domanda incalzante. “Chi compì il misfatto?”

“Conosci la risposta.”

“Sì, ora sì. Osi ancora difenderli? Dopo tutto quello che hanno fatto?”

“Gli arditi sono coloro che osano e coloro che osano cadono dalle vette più alte.”

Il buio le cala sulle palpebre come una ghigliottina, il vuoto le riempie le orecchie. Quando si risveglia, è disorientata. Si aspettava di trovarsi su un prato con le stelle come uniche compagne. Invece è stesa su una brandina, medicata con garze che le fasciano il torace. 

Seduto alla sponda della brandina, lui la osserva con occhi spietati e teneri, nell’ossimoro che lui è diventato per lei. In mano ha la catenella con l’anello che le ha dato in un’altra vita, quando le ha promesso se stesso e il mondo. Il sentimento che lei legge nei suoi occhi le fa perdere un battito.

“Dov'è il tuo cuore?” domanda e non si stupisce quando lui si sporge per agganciare nuovamente la catenella al suo collo. Le sue dita sono fredde e le sollevano il mento. 

“Qui,” lui dice. “Esattamente dov'è l'ho lasciato. E il tuo invece?”

In un giardino. In un vecchio libro di poesie che lui le ha sottratto, approfittando vergognosamente del suo stato indotto di incoscienza. In una collezione abbandonata di freccette avvelenate. Nell'anello che porta al collo. Negli occhi tormentati dell'uomo che è inginocchiato accanto a lei e che la guarda con gli occhi del passato, occhi in cui si rincorrono le risate di amici perduti, fantasmi e rimpianti. È un attimo, l'impulso dettato da un sentimento troppo a lungo sotterrato. L'uomo rancoroso cede il posto a un ragazzo solitario e triste. Le mani le prudono dalla voglia di sfiorare quel viso familiare ed estraneo, spianare le nuove rughe che ha sulla fronte. Kit si sporge prima che la ragione metta a tacere l'istinto. Allunga il collo, inclina la testa e con lenta, deliberata precisione poggia le sue labbra contro quelle di lui. Non un sussulto, non un tremore lo attraversano. Nessuna sorpresa. La bocca di lui rimane immobile e dura sotto la sua per secondi lunghi interi anni. La perdita consistente di sangue ha reso la sua testa leggera, ma ora si sente come un pallone aerostatico.

È sempre stata brava a trattenere il fiato. Immersioni, freccette avvelenate, bibliofilia. Questa era lei prima di lui. Per un tempo è stata una ragazza che indossava vestiti eleganti e portava diamanti al collo. Non ha più indossato un vestito elegante e un gioiello da quella sera. Aveva promesso a se stessa di non avere pace fino alla fine dello scisma, fino al ricongiungimento con le persone a lei care. La promessa diventa inconsistente alla luce delle nuove rivelazioni di quella sera, di fronte all'ennesimo rifiuto che brucia più di mille incendi appiccati contemporaneamente. Quando si scosta, poggia la fronte contro la sua spalla e fa un sospiro profondo. È doloroso ricordare il prima e confrontarlo con l'adesso.

Nel prima le braccia di lui non sarebbero rimaste inermi contro i suoi fianchi, ma serrate con forza attorno al suo corpo. La sua mano le avrebbe accarezzato la nuca, reclinandola per avere maggiore accesso alla sua gola. Ci sarebbe stata gentilezza e passione e quel calore confortevole che l'aveva convinta di aver finalmente trovato la sua Itaca dopo mille naufragi e peripezie.

“Non ti bacerò, non stanotte. Non quando credi che sarà l’ultima cosa che farai.” Il suo sorriso è amaro e cupo. “Più tardi lo rimpiangeresti.”

“È la fine.”

“Non ancora.” Olaf parla rapidamente, accompagnandola nel sonno.  “Non finirà fino a quando ognuno di loro avrà provato il dolore e la disperazione che io provo costantemente. Finché ognuno di loro non avrà assaggiato il sapore amaro della mia vendetta. Non finirà fino a quando ognuno di loro non avrà perso tutto ciò a cui tiene, non avrà visto ogni cosa bella trasformata in cenere, le loro case ridotte in macerie e la vita non sarà diventata che una lenta agonia, tutto intorno a loro solitudine, pazzia e rovina.”

Dopo, quando è di nuovo sola e la febbre è retrocessa, il dolore al fianco sbiadito in qualcosa di sopportabile, un nuovo foglietto volenteroso raggiunge Jacqueline per avvisarla del pericolo imminente.

Olaf sa.

*

La prima volta che Kit visita casa Baudelaire è anche l'ultima. Kit osserva quella casa massiccia e ricca, piena di sole e risate e poesia e piante. Ne osserva l'opulenza criticamente. Le tende sono troppo chiare per i suoi gusti e ci sono troppi tappeti e fiori e pochi quadri. Non può fare a meno di pensare a tutto ciò che ha perso. Soppesare i sacrifici e chiedersi se ne sia valsa davvero la pena.

Non può evitare di pensare per un attimo, un attimo soltanto, a quanto sia profondamente ingiusto e iniquo. In un mondo alternativo quella casa potrebbe essere sua. È un attimo. Poi Beatrice le viene incontro, tendendole le mani e accogliendola con un sorriso pieno di affetto ed è raggiante e fiera e coraggiosa e tenace. È la sorella che non ha mai avuto (e che non avrà mai). La madre che ha sempre aspirato a diventare. Una donna realizzata e appagata e con un velo di malinconia che la rende soltanto più umana e vera. Alle sue spalle Bertrand porta in braccio una bimba dai capelli scuri che indossa un vestito di velluto e scarpette di vernice.

Sono deliziosi a vedersi e l'istinto di proteggerli è prepotente e feroce.

I suoi fratelli sono dispersi, uno morto e l'altro una creatura che cammina sotto cieli sconosciuti in cerca di risposte alle sue infinite domande.

Kit accetta l'abbraccio di Beatrice e il tè che Bertrand le versa in un servizio di porcellana a fiori. Intreccia i capelli di Violet come Esmé le ha insegnato a fare anni addietro e scambia giochi di parole di cui Lemony sarebbe fiero. Lei e Bertrand declamano citazioni dei rispettivi autori preferiti, sfidandosi a riconoscere l’opera a cui appartengono.

È un pomeriggio di luce e profumi e nel crepuscolo di ciò che è stato, lei accetta con quieta determinazione l'alternativa di ciò che sarebbe dovuto essere.

E dopo tante perdite, lutti e atti di coraggio, l'ennesimo crepacuore ha un sapore familiare. Dopo essere sopravvissuta al primo, rimanere in piedi dopo gli altri che sono seguiti è diventata la sua normalità.

Dopo aver salutato i Baudelaire, si incammina lungo il viale alberato. È primavera, ma l'inverno si è incuneato fin dentro le sue ossa. Nonostante i numerosi inviti, non rimetterà mai più piede in quella casa.

*

Nel suo decimo anno sotto copertura al Carosello Caligari, un volenteroso foglietto la informa che l'inevitabile è accaduto. I Baudelaire sono periti in un terribile incendio scoppiato nel diciottesimo anniversario di quella notte fatale all'opera. Kit piange le ultime lacrime che ha e così, quando un altro volenteroso foglietto la informa tredici mesi più tardi della morte dell'unico familiare che le era rimasto, non ha più lacrime da versare. Affida il suo travestimento di Madame Lulu all'inesperta ma sagace e intelligente Olivia Caliban (un’altra quasi sorella. In una vita più giusta la sua sarebbe stata una famiglia di persone stupende) e indossa i panni di insegnante nella Prufrock Preparatory School (e se anche percorrendo i corridoi e le aule in cui lei stessa da ragazzina ha imparato le prime importanti lezioni della vita, la biblioteca magnifica e l'angolo dei trofei i fantasmi degli amici e dei compagni di avventura la tallonano indesiderati, questo è un segreto che appartiene a lei soltanto e un dolore con cui ha imparato a convivere. È la testimonianza che ha ancora un cuore, pulsante e funzionante, insieme a una coscienza e a un'anima non ancora corrotte dal rimpianto).

*

La risposta alla domanda che vi sarete di certo posti (può l’amore finire? Anche quando tutto è perduto o crollato sotto il peso fatiscente di troppi errori e tradimenti da ambo le parti?) è nella zuccheriera. È sempre stata nella zuccheriera sin dal momento in cui Kit la recuperò dall'ospedale e più tardi dal Torrente Teso.

Che "il servizio da tè sarebbe un posto a portata di mano per nascondere qualsiasi cosa importante e piccola" é una verità universalmente riconosciuta. La zuccheriera conserva al suo interno uno e più segreti. Il secondo più importante è il cimelio che Kit vi nascose all'interno durante la fuga dall’uomo senza capelli con la barba e la donna senza la barba con capelli.

Un anello. A chi appartenesse potrei saperlo solo io che ho provveduto a nasconderla nell'ultimo luogo sicuro eppure non è così. L'anello è l'unico oggetto che possiedo di mia madre e non saprò mai chi glielo abbia regalato e perché.

  
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