Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Carme93    19/01/2019    4 recensioni
I nati del 1998 sono figli della guerra e della vittoria su Lord Voldemort.
La loro nascita ha simboleggiato nuova luce nel buio delle tenebre e gioia e speranza in un mondo in macerie da ricostruire. Un chiaroscuro insito nella vita di ognuno di loro.
La generazione figlia della guerra arriva a Hogwarts.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Minerva McGranitt, Neville Paciock, Nuovo personaggio, Teddy Lupin | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Disclaimer: il mondo di Harry Potter e tutti i suoi personaggi appartengono a J.K. Rowling e questa storia non ha scopo di lucro.


Capitolo I

 
 
Lettere da Hogwarts
 




«E Ginny Weasley recupera la pluffa» strillò una ragazzina dai corti capelli ramati, appiattendosi sulla scopa. «Evita un bolide» continuò, superando per un pelo un ramo.
«Stai attenta!» urlò una voce in lontananza.
La ragazzina non vi diede ascolto e continuò la sua corsa, finché tre alti anelli non apparvero di fronte ai suoi occhi. «A noi due!» urlò al portiere. Accelerò e puntò dritto sull’altro, che gridò e si scansò rischiando di scivolare dalla scopa.
«Ma che fai?» protestò il portiere togliendosi il casco protettivo e rivelandosi un ragazzino poco più grande. Intanto ella aveva tirato la pluffa e centrato l’anello di mezzo.
«Segno» rispose la ragazzina con ovvietà. «Piuttosto tu ti sei scansato come una femminuccia! Non ti vergogni?».
«Era fallo!» ribatté l’altro sventolando il casco.
«Fallo?! Ma che dici?» replicò la ragazzina ghignando.
«Sì, non si vola con l’intento di entrare in collisione» disse con fare da saputello l’altro.
«Ma fammi il favore, Willy! Non volevo entrare in collisione con te! Volevo farti spaventare e ci sono riuscita» esclamò la ragazzina.
«Ehi voi due» li richiamò un ragazzo più grande raggiungendoli.
«Nessuno ti ha invitato, James» sbuffò la ragazzina.
«Mamma ti ha chiamato un milione di volte, forse ti deve portare al San Mungo per un controllo all’udito?» chiese sarcasticamente James.
La ragazzina gli fece la linguaccia.
«Charlotte, attenta a non farmi arrabbiare» sbottò James.
«Perché mamma ci vuole? Ci aveva dato il permesso di giocare» domandò preoccupato Willy.
«Perché ha visto Charlotte giocare in mezzo agli alberi e, tanto per cambiare, stava per andare a sbatterci contro».
«NON MI CHIAMARE CHARLOTTE» urlò la ragazzina.
«Però Charlie, perché devi fare sempre di testa tua? Non potevi giocare qui?» si lamentò Willy indicando lo spazio libero.
«No, così è noioso. Cioè dovrei giocare a tirarti solo rigori o poco più? Voglio più spazio di azione».
«Beh, mamma e papà non sono d’accordo» sentenziò James. «Ora scendete, entrambi».
Willy sbuffò, ma puntò la scopa verso terra e iniziò a scendere lentamente. «Muoviti, Charlie» la chiamò quando vide che non lo seguiva.
«Sì, infatti» borbottò James.
«Un gufo!» strillò però Charlie, notando il pennuto e ignorando i fratelli.
«Che cosa pensi di fare?!» intervenne James.
«Charlie…» sospirò Willy, vedendola correre verso il malcapitato gufo, che, naturalmente, si spaventò. «Fermati, lascialo in pace».
«Piccola peste» sibilò James.
Charlie, però, non ascoltava più nessuno: il vento le fischiava nelle orecchie a causa della velocità e gli occhi erano puntati sul pennuto. Aveva riconosciuto lo stemma sulle lettere che portava e voleva essere la prima a prenderle. Con una veloce manovra si sollevò al di sopra dell’animale, che rendendosene conto puntò verso il giardino. Proprio dove sua madre aveva apparecchiato per un thè con la sua amica, della cui venuta propria si era dimenticata. Effettivamente aveva detto a lei e Willy di rientrare a un certa ora, ma s’era dimenticata. Accidenti, solitamente era suo fratello a ricordarsi certe cose.
Il gufo fedifrago si gettò proprio sulla teiera di ceramica finissima, rovesciandone il contenuto sulla tovaglia di lino bianco e scagliandone il coperchio lontano nel prato. Allo strillo sorpreso della madre, seguì quello seccato e un po’ spaventato dell’altra donna e della figlia: il thè era finito non solo sulla tovaglia ma anche sulla veste di satin azzurro della prima e il gufo si era catapulto tra le braccia della seconda, che non la prese per nulla bene, come se non fosse una strega e non fosse perfettamente abituata alla posta via gufo.
«CHARLOTTE ELISABETH KRUEGER» gridò sua madre furiosa.
Charlie deviò con maestria ed evitò di rovinare anche lei sul tavolo, ma a differenza dei fratelli non smontò ma rimase a galleggiare a qualche metro da terra, sufficientemente lontana dalla presa materna.
«Il mio vestito! L’avevo comprato ieri alla Boutique Dupois» si lamentò la signora.
«Mi dispiace, Clarisse» si scusò immediatamente sua madre dopo averle lanciato un’occhiataccia.
Charlie non finse neanche di essere dispiaciuta: la signora Gould le stava antipatica, anche se mai quanto la figlia Matilde. Comunque, il suo interesse principale era quello di sparire prima che la madre si dedicasse totalmente a lei, ma non avrebbe mai potuto abbandonare il campo senza la sua lettera. Cercò di attirare l’attenzione di Willy, che, fortunatamente, si teneva a distanza dal piccolo ‘dramma’ e la guardava, mentre James tentava di aiutare la madre. Charlie con la mano indicò le lettere, che, una scocciata Matilde aveva quasi strappato dalla zampa del povero gufo, che, ottemperato ai suoi doveri, era filato via.
Willy la fissò con tanto d’occhi, spaventato dalla richiesta. Charlie congiunse le mani pregandolo silenziosamente. Suo fratello non sapeva dirle di no e sospirò. La ragazzina lo osservò avvicinarsi al tavolo, adocchiare i nomi sulle buste e prenderne due. Charlie scese velocemente verso di lui, ma fu una pessima mossa perché evidentemente la madre l’aveva tenuta d’occhio.
«Charlotte» sibilò allungando una mano per acciuffarla e abbandonando il tovagliolino con cui stava tamponando il vestito dell’amica.
Charlie, allora, prese al volo la lettera dalle mani di Willy e si fiondò dentro casa senza neanche scendere dalla scopa. Non fu una buona idea: investì in pieno qualcuno che stava correndo fuori, probabilmente attratto dagli schiamazzi. Stordita, impiegò qualche secondo a riconoscere l’altro: Cris.
«Scusa» gridò, recuperando la scopa e correndo verso le scale che portavano al piano di sopra. Non si fermò finché non raggiunse la stanza che cercava e vi s’infilò dentro con il fiatone, sbattendo rumorosamente la porta alle sue spalle.
«Charlie» disse una voce profonda in tono di rimprovero.
«Come fai a sapere che sono io?» ribatté la bambina, riprendendo fiato e mettendo a fuoco quello che altro non era che una piccola biblioteca. In una poltrona accanto alla finestra, vi era seduto un uomo sulla quarantina.
«C’è solo un piccolo tornado in questa casa» rispose l’uomo.
Charlie si rese conto che non la stava rimproverando, quindi si avvicinò tutta contenta. «Andavo di fretta» spiegò buttandogli le braccia intorno al collo.
«Per lo stesso motivo per il quale ho sentito tua madre urlare il tuo nome?».
«Forse, ma non sono venuta qui per questo».
«Ah, no?» replicò l’uomo sollevando un sopracciglio.
«No» confermò Charlie. «È arrivata la lettera di Hogwarts e volevo leggerla con te».
Un sorriso si aprì sul volto dell’uomo, che replicò: «Hai fatto proprio bene, su, leggila ad alta voce».
Charlie si accomodò sulle ginocchia del padre, aprì la busta e, dopo essersi schiarita la voce, lesse:
 

«SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Direttrice: Minerva McGranitt
(Ordine di Merlino, Prima Classe)
 
 
Cara signorina Krueger,
siamo lieti di informarLa che Lei ha il diritto di frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Qui accluso troverà l’elenco di tutti i libri di testo e delle attrezzature necessarie.
I corsi avranno inizio il 1° settembre. Restiamo in attesa della sua risposta via gufo entro e non oltre il 31 luglio p.v.
 

Con ossequi,
Filius Vitious
Vicepreside»
 
 

Charlie gettò un urlo, degno di una banshee, una strega delle paludi, e cominciò a saltellare per la stanza. «Quando andiamo a Diagon Alley?» domandò al padre, non smettendo di muoversi neanche per un secondo.
 
L’uomo s’incupì. «Non posso venire, lo sai. Deve chiedere alla mamma quando è libera».
 
Charlie si bloccò di scatto e lo fissò delusa.  «Non vieni?».
 
«Charlie, tesoro, non posso…».
 
«L’hai già detto!» sbottò Charlie interrompendolo. «E non è vero, puoi eccome!».
 
«Eccoti, Charlotte! Sei venuta a infastidire tuo padre?». La madre era entrata in biblioteca senza preavviso, seguita da James e Willy.
 
«No, cara, mi ha solo mostrato la lettera di Hogwarts» sospirò il padre difendendola.
 
«A me è parso sentire le sue urla» commentò James, che non si faceva mai gli affaracci suoi, ma Charlie in quel momento aveva occhi solo per il padre.
 
«Nessuno ti impedisce di uscire, sei tu che hai deciso di ammuffire in questa stanza» esclamò con rabbia. Un silenzio attonito accolse le sue parole.
 
«Charlotte Elisabeth Krueger, hai superato te stessa stamattina! Fila in camera tua» intervenne sua madre, dopo essersi ripresa dalla sorpresa.
 
«Ho detto solo la verità» ribatté la ragazzina furiosa. «Lo pensate anche voi, vero?» strillò ai fratelli al limite delle lacrime.
 
«Assolutamente no» sentenziò James.
 
«Forse, ogni tanto potresti uscire con noi. Ti aiuteremmo» sussurrò Willy, fissandosi i piedi.
 
«William» sibilò la madre in tono di avvertimento.
 
«Non sgridare i ragazzi, cara. È difficile anche per loro» intervenne il padre.
 
«NON È DIFFICILE! SEI TU CHE TI COMPORTI DA STUPIDO! QUELLA MALEDIZIONE DEVE AVERTI COLPITO ANCHE IL CERVELLO, NON SOLO GLI OCCHI» urlò Charlie con tutto il fiato che aveva in gola e scappò via. Si rifugiò nella sua camera, gettandosi in lacrime sul letto.
 
 
♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
 
 
«Ben svegliato, dormiglione! Laurence è venuto a cercarti una decina di volte!» lo accolse sua nonna in cucina.
 
Teddy si passò una mano sul volto ancora addormentato.
 
«Neanche il viso ti sei lavato, eh?».
 
«Ho fame» borbottò il ragazzino.
 
«Ecco a te» disse sua nonna, appoggiando sul tavolo una tazza piena di una sostanza biancastra e molliccia.
 
«Porridge» commentò Teddy con una smorfia.
 
«Esattamente e vedi di finirlo tutto, o puoi scordarti di andare a giocare con Laurence».
 
«Nonna, io volevo i pancake, però!».
 
«Domani, magari».
 
Il ragazzino a malincuore si mise a mangiare, ma non perse tempo: lamentarsi con la nonna era inutile, ormai lo sapeva, e voleva andare a giocare fuori dopo giorni di pioggia.
 
«Ah, allora era buono» commentò la nonna quando il ragazzino le porse la ciotola vuota.
 
«Ho fretta» rispose egli sinceramente.
 
«Ehi, ehi, dove corri? Aspetta» lo fermò sua nonna, proprio mentre si stava catapultando fuori.
«Che c’è?».
«Questa non la vuoi leggere?» replicò ella mostrandogli una busta giallastra.
Teddy impiegò qualche secondo per comprendere, per poi gridare: «È la lettera di Hogwarts?! Perché non me l’hai detto subito? Quando è arrivata?».
La donna gliela porse e rispose pazientemente: «Perché non avresti neanche iniziato a mangiare. E comunque è arrivata stamattina. Laurence voleva venire a buttarti giù dal letto».
«E perché non gliel’hai permesso?» ribatté oltraggiato Teddy.
«Perché ti avevo detto di chiudere le luci alle dieci, ma tu sei rimasto a leggere fino a notte inoltrata, sbaglio?».
Il ragazzino boccheggiò colto in contropiede. «Ehm…».
«Appunto e sai benissimo che non sopporto i ragazzini disubbidienti».
Ted Remus Lupin era un ragazzino solitamente mite, tranquillo e giudizioso, così decise diplomaticamente di scusarsi immediatamente per non contrariare ulteriormente la nonna. Andromeda Black in Tonks sapeva essere molto severa ed era sempre meglio non provocarla più del dovuto. «Scusa, stasera andrò a letto al giusto orario. Posso andare da Laurence, ora?».
«Vai, ma ho invitato Harry per pranzo, quindi vedi di essere qui alle undici e mezza».
«Alle undici e mezza?! Ma sono le dieci! E poi Harry non verrà prima delle dodici e trenta!».
«Teddy, se vuoi andare a giocare questi sono i patti, sennò rimani qui che non mancano le faccende che puoi fare».
«No, ci vediamo alle undici e mezza» replicò Teddy e corse fuori in giardino. «A dopo».
Non impiegò molto a trovare Laurence Landerson, il suo migliore amico nonché vicino di casa.
«Ehi! Allora ti è arrivata?» gli chiese a bruciapelo l’altro ragazzino.
«Certo! Che ti credevi?» ribatté Teddy, sventolando orgogliosamente la sua lettera.
«Non vedo l’ora di partire! Potremo fare quello che vogliamo senza gli adulti tra i piedi» commentò beato Laurence. «Saremo tutti e due a Grifondoro e ci divertiremo un mondo!».
Teddy sorrise. «Tecnicamente non potremo fare tutto quello che vogliamo. Ci sono i professori ti ricordo».
«Su non fare il guastafeste! I professori non ti stanno mica appresso dicendoti di mangiare le verdure o di andare a letto a un certo orario!».
«No, questo no. Hai ragione».
«Oh, Teddy Lupin che mi dà ragione. Questa è una giornata da ricordare!».
«Che facciamo?» chiese Teddy ignorando la sua battuta.
«Andiamo al parco?» propose l’altro stringendosi nelle spalle.
«Ok» assentì Teddy. «Non vedo l’ora anch’io di partire. Il nostro quartiere è proprio noioso».
«Quando saremo più grandi potremo spostarci con l’autobus» ribatté Laurence. «Tua nonna ti ha detto quando andrete a Diagon Alley? Potremmo andarci tutti insieme».
«No, ma penso che ne parlerà con Harry. Oggi pranza con noi».
«Davvero? Posso venire dopo mangiato? Adoro il tuo padrino».
«Anche tuo padre è forte e ha più tempo libero di Harry» ribatté Teddy.
«Sì, ma deve comportarsi anche da padre. Harry è solo il tuo padrino, non si mette a rompere le scatole con paternali o simili».
Teddy avrebbe voluto ribattere in qualche modo, pur di negare le sue parole, ma purtroppo era vero: Harry non voleva neanche essere chiamato ‘papà’.
«Non è vero» borbottò, «anche Harry si arrabbia alle volte. È solo che tuo padre è più vecchio».
«Mio padre è poco più grande di Harry, non mi sembra un gran motivo» lo contraddisse Laurence. «E poi, è tua nonna che comanda, è questo che voglio dire».
«In casa tua comanda tua madre» sbuffò Teddy con una punta di cattiveria.
«Oh, sì» sospirò Laurence non rendendosi conto del fastidio che la conversazione stava recando all’amico. «Ho detto a mio padre che io sposerò una donna che mi obbedirà in tutto e per tutto e si è messo a ridere, affermando che non ne sarei contento alla fine. Non capisco perché».
Teddy si strinse nelle spalle poco interessato a simili discorsi. «Siamo arrivati» disse con sollievo, appena raggiunsero il parco. Era chiassoso come ogni mattina, ma il ragazzino aveva ben altro per la testa. Trattenne l’amico e gli sussurrò: «Ieri sera, in un libro, ho letto che esistono degli incantesimi domestici, tuo padre ci farebbe provare? Non dovrei più ordinare la mia stanza». Il signor Landerson era sempre disponibile a far loro usare la propria bacchetta per provare dei semplici incantesimi. Nonna Andromeda, invece, si rifiutava categoricamente; Harry ogni tanto lo assecondava, ma da quando era stato nominato Capitano degli Auror era sempre troppo occupato.
«Leggi troppo, amico, fattelo dire» replicò Laurence alzando gli occhi al cielo. «Comunque se vuoi possiamo chiedere a mia madre, l’ultima volta che mio padre ha provato a lavare i piatti con la magia ha dovuto comprare un servizio nuovo alla mamma».
«Va bene. Andiamo ora?» disse allettato dall’idea.
«Neanche per idea. Gli altri stanno giocando a pallone nel campetto, andiamo da loro».
«Sì, magari vi raggiungo tra un po’» ribatté Teddy per nulla convinto. Finiva sempre per farsi male quando giocava a calcio, non gli piaceva per nulla. «C’è Diana».
Laurence scosse la testa e replicò: «Divertiti con la secchiona. Pomeriggio vieni da me, però, così proviamo il nuovo gioco che mi ha comprato mio padre per la play».
«Certo» gli assicurò Teddy, con una punta d’invidia. I Landerson erano maghi da diverse generazioni, ma vivevano perfettamente integrati nel mondo babbano, se fosse stato per sua nonna, invece, non avrebbe dovuto frequentare nemmeno la scuola babbana. Fortunatamente Harry l’aveva dissuasa sottolineando l’importanza di farsi degli amici fin da piccoli e Teddy glien’era grato naturalmente. La play station, però, si era rifiutato di comprargliela anche lui, affermando che vi fossero un milione di giochi migliori; infatti aveva provato a convincerlo a giocare a calcio nella squadra del quartiere insieme a Laurence, o qualunque altro sport possibile, ma Teddy si era rifiutato categoricamente.
«Ciao» disse avvicinandosi alla ragazzina. Diana per cinque anni era stata la sua rivale. L’unica nella classe babbana a poter competere con lui o che comunque avesse interesse per farlo, ma erano sempre stati corretti l’un l’altro per cui alla fine avevano stretto amicizia. A Teddy dispiaceva non avere più la sua compagnia da settembre.
«Ciao» replicò la ragazzina che con la coda dell’occhio l’aveva visto avvicinarsi. «Sempre allergico al calcio».
Teddy arrossì: Diana era maledettamente sincera e diretta. «Le allergie non si curano, no?».
«No» assentì la ragazzina con un mezzo sorriso. «Mio padre me l’ha spiegato quando ho scoperto di non poter più mangiare le fragole» soggiunse con una smorfia.
Il ragazzino annuì vagamente, non riuscendo a capire perché i riferimenti ai genitori quel giorno gli provocavano moti di stizza e fastidio. Il padre di Diana era un medico e un uomo colto, che teneva molto all’istruzione della figlia anche al di fuori della scuola portandola nei musei o, semplicemente, in gita all’aria aperta. Nemmeno Diana aveva la play station, ma questo non contava molto. I suoi genitori erano intellettuali e avevano delle fissazioni ben precise. Comunque erano sempre gentili con gli amici della figlia e spesso li portavano con sé in queste uscite culturali e non.
«Che hai?».
«Niente» rispose in fretta il ragazzino e in tono leggermente brusco.
Diana si accigliò e annuì. «Ok, non ne vuoi parlarne. Io, però, devo dirti una cosa, ma non qui».
Questa volta fu il turno di Teddy di accigliarsi e arrossire. Aveva detto a Diana che a settembre avrebbe frequentato un collegio in Scozia e sarebbe tornato soltanto nelle vacanze di Natale, non è che voleva dichiararsi o qualcosa del genere? Laurence e qualche altro compagno dicevano che lei aveva una cotta per lui! No, non era pronto.
«Teddy, tutto bene?».
«Mia nonna ha detto che devo essere a casa alle undici e mezza» disse in fretta. Non la voleva offendere, ma non voleva neanche affrontarla.
«Ok» assentì ella. «Sono quasi le undici, ti accompagno verso casa, se per te va bene».
«Ehm, no, non è il caso…» borbottò il ragazzino e fece qualche passo indietro.
«Teddy! Ti prego, è importante. Solo qualche minuto!» lo supplicò Diana.
«Va bene» acconsentì allora il ragazzino, maledicendosi per non saper mentire meglio.
E così si avviarono in silenzio verso la villetta in cui abitava Teddy. Il ragazzino era sulle spine e avrebbe voluto correre via.
«Stamattina è venuta una persona a casa mia» esordì Diana.
«Eh?». Teddy cadde letteralmente dalle nuvole e si asciugò il sudore dal volto. Una dichiarazione di solito non iniziava in quel modo e l’amica fissava il marciapiede e non lui. Non era molto romantico.
«Ti ho detto che stamattina è venuta una persona a casa mia… Ha detto che ti conosce… che conosce la tua famiglia… credo anche per tranquillizzare i miei…» bofonchiò la ragazzina.
«Cercavano me?».
«No, usa il cervello!» sbuffò Diana. «Voleva me, è venuta a casa mia!».
«E chi era?».
«Un certo professor Horace Lumacorno».
Teddy si fermò all’improvviso e la guardò con tanto d’occhi. «Hai detto Lumacorno?».
«Lo conosci, quindi».
«L’ho incontrato una volta, mentre ero con il mio padrino» rispose Teddy. «Che ti ha detto?» le domandò ben sapendo che se Lumacorno andava in una casa babbana in pieno luglio, non era per caso.
«Molte cose» divagò Diana. «I miei non volevano crederci all’inizio, poi hanno chiamato tua nonna in aiuto».
«Mia nonna? Mia nonna era a casa».
Diana sbuffò divertita. «Infatti ha detto che dormivi così bene, che non ti saresti neanche accorto della sua assenza».
«Mia nonna dovrebbe parlare di meno» borbottò il ragazzino arrossendo.
«Allora è vero? Mio padre dice che non ci crederà finché non vedrà Diagon Alley» sussurrò Diana a voce bassissima.
«Sì, è vero» assentì Teddy. «È magnifico» disse abbracciandola di slancio. «Mi saresti mancata tantissimo!».
«E Laurence non ti mancherà?» chiese sorpresa la ragazzina.
«Anche Laurence è un mago! Magari finiremo tutti nella stessa Casa! Non è fantastico?» chiese Teddy euforico.
«Casa? Di che parli? E poi Landerson non mi sta molto simpatico».
«Lumacorno è vecchio ormai, non ti ha detto le cose più importanti! Vieni ti offro un gelato».
Presero un cono ciascuno e si sedettero su un marciapiede, lontani da orecchie indiscrete e Teddy cominciò a raccontare tutto ciò che sapeva su Hogwarts. Diana era un’ottima ascoltatrice e lo seguiva rapita.
«Allora è qui che sei! Tua nonna sta dando di matto!».
Una voce ben nota li riportò sulla terra, Teddy e Diana alzarono gli occhi su un giovane sulla trentina, occhialuto, con i capelli neri sparati da ogni parte e una cicatrice, in gran parte coperta da un ciuffo nero.
«Harry, ciao! È arrivata la lettera! E, indovina, anche Diana è una strega!» gli comunicò euforico il ragazzino, ma il suo sorriso scomparve quando vide che non era ricambiato.
«Teddy, tua nonna ti aveva detto di rientrare alle undici e mezza. Hai la minima idea di che ora sia adesso?».
«No» ammise il ragazzino a malincuore. «Ma che importanza ha?» tentò.
«Che importanza ha? Tua nonna è preoccupata! Non sapeva dove fossi!» sbottò Harry.
«Che esagerazione! Dove voleva che fossi? Questo quartiere è piccolissimo».
Una nuova occhiataccia del padrino gli suggerì che era stata la risposta sbagliata.
«È colpa mia, signore» intervenne Diana. «Teddy mi aveva detto che doveva rientrare a casa, ma l’ho distratto».
Teddy sentì la rabbia montare improvvisamente. «Che te ne frega a te?» sbottò. «Lascia che la predica me la faccia la nonna».
Harry sembrò sorpreso dalle sue parole e dal suo tono. «Sono il tuo padrino, ho tutto il diritto…».
«Sarai il mio padrino, ma non mio padre» sibilò Teddy.
Il più grande apparve ferito dall’affermazione, ma a Teddy non interessava in quel momento.
«Teddy, ma che dici… è come se fossi mio figlio…» provò Harry in tono più dolce.
«Non è vero! Non vuoi che ti chiami ‘papà’! È logico che io non sono come Jamie, Al o Lily. Non sono tuo figlio» replicò Teddy, sentendo gli occhi inumidirsi.
«I-io vado… Sono in ritardo anch’io… scusate…» borbottò Diana imbarazzata e si allontanò.
Teddy ne fu contento perché non riusciva più a trattenere le lacrime. Si morse il labbro non volendo farsi vedere da Harry, ma era difficile.
«Teddy» sospirò l’uomo, abbracciandolo. Il ragazzino provò a divincolarsi in un primo istante, poi si arrese tra quelle braccia tanto familiari e nascose il viso nel grembo del padrino. «Mi dispiace che tu mi abbia frainteso».
«Non c’è molto da fraintendere» singhiozzò Teddy.
Harry lo strinse più forte a sé e sospirò. «Ti amo Teddy e farei di tutto per te, proprio come per Jamie, Al e Lily. Sei il loro fratellone. Sei un figlio per me e Ginny. Credimi».
«Allora perché non posso chiamarti papà?».
«Quando ho accettato di essere il tuo padrino ero solo un ragazzino di diciassette anni che giocava a fare l’eroe. Non ce l’avrei mai fatta a crescerti senza l’aiuto di tua nonna e dei Weasley. Non ho voluto che mi chiamassi papà perché non ho mai voluto prendere il posto di Remus, né Ginny quello di Tonks» dichiarò Harry con voce incerta. «Sono dell’idea che nessuno può sostituire le persone alle quali abbiamo voluto bene. Non mi sarei mai sognato di chiamare Sirius papà, forse perché l’ho conosciuto tardi, ma… Senti, io non potrei mai fare a meno di te, di Jamie, di Al o di Lily. Siete unici e fantastici così come siete. Non siete interscambiabili; allo stesso modo io non posso sostituire tuo padre… sono semplicemente Harry e provò con tutte le mie forze ogni giorno a rendere felici i miei figli, tutti e quattro… e non mi riesce granché bene, ieri sera Jamie mi ha detto che è offeso con me perché non gioco più con lui…».
Teddy arrossì e tirò su con il naso. «Anch’io l’ho pensato» confessò vergognandosene. Si divincolò e questa volta Harry lo lasciò andare.
«Mi dispiace» replicò Harry. «Ieri sera ho giocato con Jamie e oggi, appena mi ha chiamato Andromeda, mi sono preso il pomeriggio libero. Te l’ho detto, cerco di fare del mio meglio».
«Il pomeriggio libero, davvero?». Gli occhi di Teddy si illuminarono e finalmente incontrarono quelli del padrino.
«Già, un pomeriggio tutto per noi. Se per te va bene, poi potremmo cenare da me, sennò Jamie chi lo sente? E, lo sai, che Al si rifiuta di mangiare se non ci sono io».
«Avevo promesso a Jamie di raccontargli la biografia di quel giocatore di Quidditch che mi ha voluto regalare».
«L’hai letto davvero?» chiese Harry stupito. «A te non interessa il Quidditch».
«Ho letto abbastanza da poter raccontare qualcosa a Jamie. Quando fa l’offeso è insopportabile. A te non le tira le caccabombe».
«Guai a lui se si permette» borbottò Harry in risposta, per poi sorridergli. «Allora il programma ti va bene?».
«Sì, ma la nonna sarà furiosa» disse Teddy, terrorizzato al pensiero.
«Oh, lo è eccome. Me ne occupo io, però». Teddy s’incupì nuovamente. «Che c’è ora?».
«Se lo avesse fatto Jamie? Non saresti così accondiscendente, ne sono sicuro. Hai detto che è come se fossi mio padre, allora comportati come tale e non come un fratello maggiore!». Teddy sapeva di star andando contro i suoi stessi interessi, ma era troppo importante per lui.
Harry, preso nuovamente in contropiede, boccheggiò, ma alla fine disse: «Se ti ricordi lo stavo facendo prima. Mi hai accusato tu stesso. Come vedi, è tutto un fraintendimento. Jamie, da quando ha imparato a camminare, lancia caccabombe addosso a chiunque non gli stia simpatico o non fa quello che vuole lui; tu non hai mai fatto una cosa del genere. Se non ti rimprovero spesso è perché non ne sento la necessità».
«Scusa» mormorò Teddy sinceramente e questa volta fu lui ad abbracciare il padrino. «Ti voglio bene».
«Anch’io» sussurrò Harry.
«So di essermi comportato male, ma ti prego parla con la nonna, come minimo mi stacca la testa» lo supplicò improvvisamente spaventato all’idea. «Ho realmente perso la cognizione del tempo e ho lasciato anche l’orologio a casa».
«La prossima volta fai più attenzione» lo ammonì Harry. «Parlerò io con la nonna, fidati di me».
Teddy annuì, ripromettendosi di non mettere mai più in dubbio l’affetto del suo padrino. Il padre di Diana poteva anche essere un medico bravissimo e quello di Laurence simpatico e un campione ai videogiochi, ma nessuno di loro aveva sconfitto un mago cattivissimo a diciassette anni e non aveva la minima voglia di vantarsene. «Certo che mi fido. Ti prometto che mi comporterò bene d’ora in avanti».
«Ci mancherebbe pure» commentò Harry divertito. «Avanti, muoviamoci o Andromeda se la prenderà anche con me».
 
 
♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
 
 
Alcune bambine saltavano con dei cerchi colorati ed erano veramente brave, lei non ci sarebbe mai riuscita; altre giocavano con una palla, ma a differenza dei bambini lì vicino la toccavano solo con le mani e mai con i piedi.
Avrebbe tanto voluto giocare con loro. Sì stavano divertendo tanto! Non poteva sentirle strillare a causa degli incantesimi che proteggevano la villa, ma più di una volta li aveva sentiti ridere e gridare dal giardino. Miss Shafiq, però, riteneva che quei bambini fossero ‘volgari’ e ‘maleducati’. A lei non pareva proprio.
Sospirò, chiedendosi se le avessero permesso di giocare con loro. Oh, quante volte l’aveva immaginato!
Fissò l’orologio a forma di snaso appeso alla sinistra della scrivania: segnava le tre meno cinque. Alle tre e mezza avrebbe dovuto raggiungere miss Shafiq in salone per la lezione di pianoforte. Lezione di cui avrebbe fatto decisamente a meno.
Un’idea iniziò a farsi strada nella sua mente. E se fosse uscita di nascosto e avesse chiesto a quei bambini di giocare con loro? Miss Shafiq a quell’ora riposava sempre nella camera degli ospiti e non si sarebbe accorta di nulla.
Tremò al solo pensiero. Era un comportamento sbagliato, di questo ne era certa. Nessuno le aveva mai esplicitamente vietato di giocare con i bambini, ma suo zio le aveva sempre detto di non allontanarsi da sola e senza permesso. Ma sarebbe uscita soltanto fuori nella strada, non poteva essere considerato come ‘allontanarsi’. Inoltre vedeva perfettamente i bambini dalla sua cameretta, perciò sarebbe stata visibilissima.
Si mordicchiò il labbro nervosamente e guardò nuovamente l’orario. Erano quasi le tre, se doveva farlo, doveva farlo subito, quando miss Shafiq si sarebbe alzata sarebbe stato troppo tardi.
Con il cuore in gola, abbandonò il davanzale della finestra a cui era stata appoggiata fino a quel momento e corse all’armadio. Trovò immediatamente la salopette che cercava e si sbrigò a cambiarsi. Per quanto miss Shafiq trovasse carino ed elegante il vestitino lilla che era stata costretta a indossare, perché ‘si confaceva a una signorina’ – parole di miss Shafiq stessa -, di certo non era adatto per la sua impresa.
Prima di lasciare la stanza, diede una rapida occhiata fuori dalla finestra e si assicurò che gli altri bambini stessero ancora giocando. Sarebbe stata un’enorme delusione in caso contrario!
Chiuse silenziosamente la porta alle sue spalle e si avviò verso le ampie scale di marmo che conducevano all’ingresso, qui si fermò un attimo per essere sicura che fosse libero e non la vedessero gli elfi domestici. Il cuore le batteva forte e sembrava volerle sfuggire dal petto, mentre attraversava il vasto giardino. Si nascose all’ombra degli alberi per paura che miss Shafiq la scorgesse dall’alto. Aumentò il passo e per poco non si mise a correre per raggiungere il cancello. Fortunatamente non aveva bisogno di scavalcarlo – non sarebbe mai stata tanto agile e in più non vi erano appigli sicuri -, l’incantesimo di cui era dotato riconosceva all’istante i membri della famiglia, perciò le fu sufficiente poggiare il palmo della mano sulla serratura e il cancello si aprì lentamente, ma senza il minimo cigolio.
Le grida felici dei ragazzini del villaggio la raggiunsero all’istante ed ella si sentì euforica, correndo fuori dalla proprietà senza porsi più alcun problema.
Ecco era lì a pochi metri dai suoi coetanei, come aveva desiderato un milione di volte, ma si fermò non sapendo che cosa fare esattamente. Li fissò incerta, conscia che a quel punto non le rimaneva che avvicinarsi e chieder loro di poter giocare. Dopotutto la parte più difficile avrebbe dovuto essere uscire dalla villa senza essere vista! Eppure non ne era più così sicura.
«Ehi, ci passi la palla?».
Sobbalzò, rendendosi conto che un ragazzino dai capelli biondo cenere si stava rivolgendo proprio a lei. Anzi, per essere precisi, ora la stavano fissando tutti.
Automaticamente abbassò gli occhi per l’imbarazzo e si accorse che la palla di cuoio con cui giocavano i maschi era rotolata vicino al cancello.
«Ma tu sei uscita dalla villa?» le chiese un altro ragazzino con gli occhi sgranati dalla sorpresa.
«Io pensavo che non ci abitasse nessuno» commentò un altro.
«Ma no, te l’ho detto un sacco di volte! I miei mi hanno detto che ci abita un uomo di mezz’età da solo e ogni giorno lo va a trovare una signora, forse la donna delle pulizie» intervenne con tono saccente una ragazzina.
Chi era la donna delle pulizie? Una sola donna frequentava quotidianamente la villa ed era miss Shafiq. Il pensiero che l’avessero scambiata con la donna delle pulizie la fece scoppiare a ridere.
«Che hai da ridere?» le domandò il secondo ragazzino.
«Quella è la mia istitutrice, non la donna delle pulizie!» spiegò ella divertita.
«Come ti chiami?» le chiese un ragazzo più grande, seduto su una panchina, fino a poco prima intento a leggere un libro.
«Charis Williamson» rispose prontamente la ragazzina.  A sorpresa gli altri ragazzini si presentarono a loro volta.
«Allora, ce la passi la palla?» chiese Karl Harris.
«Oh, certo» mormorò Charis e fece per prenderla da terra.
«No, con un calcio» le disse Henry Braians.
«Con un calcio?» replicò perplessa la ragazzina. All’assenso dei ragazzi, obbedì. Decisamente impresse più forza del necessario al pallone ed esso schizzò –i ragazzini tentarono invano di fermarla – dritta addosso al più grande del gruppo che si era rimesso a leggere.
«Scusa» strillò Charis coprendosi la bocca con le mani e correndo da lui. Il libro gli era volato dalle mani, così come gli occhiali. «Non volevo, non ho mai preso a calci un pallone».
Qualcuno rise a quell’affermazione, mentre Shawn si limitò a tirar loro la palla e recuperare gli occhiali.
«Sono rotti, mi dispiace» insisté Charis torcendosi le mani.
«Colpa mia, i miei mi hanno detto un miliardo di volte di non mettermi a leggere dove giocano. Non è la prima volta che si rompono» sospirò il ragazzino.
«No, no è colpa mia. Sono proprio sbadata, miss Shafiq me lo dice spesso» mormorò Charis con le lacrime agli occhi.
«Ehi, Charis, vieni a giocare con noi?» la chiamò Alexis Green.
«Vai» la esortò Shawn.
«Ti devo ripagare gli occhiali. Il problema è che mio zio non sa che sono qui… io non volevo dirglielo, ma non ho i soldi…» esclamò sinceramente Charis.
«Sul serio, non ti preoccupare. Non c’è bisogno che lo dici a tuo zio. Mia madre li sistemerà in un batter d’occhio» replicò Shawn. «Vai a giocare con le ragazze».
Charis lo ringraziò e raggiunse le altre ragazze.
«Giochiamo insieme a pallavolo? Con te siamo in sei e possiamo fare due squadre» l’accolse Alexis.
«Come si gioca?» chiese Charis.
«Non sai giocare?» domandò stupita un’altra ragazzina.
Charis negò.
«E a scuola a che giocate? Cricket? O avete le squadre di calcio femminili?» domandò Alexis.
«Ma dove vai a scuola? Qui tutte giocano a pallavolo, perché non c’è spazio per altri sport. I maschi giocano in cortile» intervenne Eleanor Chase.
«Io ho studiato a casa con la mia istitutrice, miss Shafiq».
«Ah, ecco cos’è un’istitutrice. Una maestra!» commentò Alexis.
«Vabbè le regole te le spieghiamo noi» soggiunse Eleanor. «Sei nella mia squadra».
«Usiamo il recinto del giardino come rete» decise Alexis.
«Ma non è proprietà privata?» chiese Charis titubante.
«Ma no, è casa di Karl. I suoi lo sanno che giochiamo qui» rispose Eleanor gentilmente, mentre le altre ridevano.
I propositi di Charis di rientrare in tempo per la lezione di pianoforte erano stati dimenticati già da un po’ e la bambina continuò a giocare allegramente senza badare al trascorrere del tempo. Non poteva dire di aver compreso perfettamente tutte le regole di quel nuovo gioco, ma s’impegnò molto lanciandosi per non lasciare che la palla toccasse l’asfalto tanto che una volta si sbucciò anche un ginocchio, ma le altre erano piene di simili ‘ferite’ per cui ella si adeguò e ben presto se ne dimenticò.
Molto più tardi, un giovane, con una tuta beige, si avvicinò loro e li scrutò per qualche secondo, tanto che Henry e gli altri si bloccarono e gli chiesero, un po’ aggressivamente, chi fosse e cosa volesse dalle loro amiche. Quello sobbalzò e si scusò. «Sto cercando Charis Williamson. Sei tu?» chiese rivolto proprio a Charis.
«Che vuoi da lei?» domandò Karl.
«Suo zio la sta cercando» replicò il giovane, minimamente toccato dall’atteggiamento minaccioso dei ragazzini.
Charis sgranò gli occhi e, terrorizzata, si accorse che era lì da tempo: il sole era basso sull’orizzonte. E suo zio avrebbe dovuto essere a lavoro. Deglutì.
Il giovane le si avvicinò e batté due dita sulla targhetta che aveva sulla maglia: Squadra Speciale Magica. Charis si disse che probabilmente era l’unica a poter leggere la scritta. «Credo che tu abbia fatto prendere un bel colpo ai tuoi familiari. È meglio che saluti e rientri con me».
La ragazzina arrossì violentemente e annuì, percependo le lacrime premere per uscire. «Ciao» sussurrò alle ragazze. «Grazie per avermi fatto giocare con voi».
«Vieni domani?» le domandò Eleanor.
«Non credo» mormorò, per poi salutare anche i ragazzi, ma quando cercò Shawn con gli occhi si accorse che era già andato via. Peccato, gli era parso così cortese e carino!
Charis seguì l’agente della Squadra Speciale Magica piangendo silenziosamente. In giardino il ragazzo le mise una mano sulla spalla: «Su, stai tranquilla. Tutti i bambini fanno certe sciocchezze. Anch’io quand’ero piccolo scappavo spesso e volentieri per giocare con i miei amici, talvolta ho saltato le lezioni a Hogwarts per bighellonare nel parco!».
«E i tuoi si arrabbiavano?».
«Oh, sì» rise il ragazzo, ma vedendo nuove lacrime sul viso della ragazzina, si affrettò ad aggiungere: «Vedrai alla fine i genitori perdonano sempre». Decisamente non era bravo a consolare e preferì tacere per non peggiorare la situazione, Charis gli fu comunque grata per averci provata.
«Oh, signorina, sta bene!» strillò un elfo attaccandosi alle sue gambe, appena varcarono la soglia della porta.
«Sì, Tammy» mormorò Charis, non volendo che l’elfo richiamasse l’attenzione di tutti all’ingresso. Non che avrebbe potuto evitare il momento a lungo.
«Dai, la devo accompagnare dal tuo padrone» borbottò l’agente.
L’elfo annuì e, dopo essersi inchinato tre volte, scomparve.
Charis seguì l’agente nel salone della villa. Su una poltrona giaceva miss Shafiq, che gemeva mentre un’elfa le faceva aria con un ampio ventaglio; suo zio andava avanti e indietro, ignorando un uomo particolarmente anziano che tentava di calmarlo.
«Signori». Il giovane agente della Squadra Speciale Magica attirò la loro attenzione.
«Charis!» gridò suo zio, correndo da lei e abbracciandola stretta. La ragazzina avrebbe voluto dirgli tante cose, ma scoppiò in lacrime e nascose la testa sulla sua spalla.
«Sta bene» tentò l’agente. «Era qui fuori a giocare con altri bambini».
«Che cosa?!» sbottò indignata miss Shafiq che, a quanto pareva, non stava veramente male.
«Te l’avevo detto, amico mio, che non era necessario preoccuparsi» intervenne il più anziano. «Io e Tennynson andiamo via».
«Ti ringrazio di essere venuto. Ho avuto così paura che ho pensato subito al peggio» disse lo zio, allungando la mano e stringendo quella del Capitano della Squadra Speciale Magica.
Charis si strinse allo zio e non fece caso ai convenevoli con gli agenti, ma non poté non sentire miss Shafiq quando si rivolse allo zio in tono furioso: «Spero, signor Williamson, che provvederà a punire severamente la bambina».
«Non si preoccupi, miss Shafiq, come le ho ripetutamente assicurato so come educare mia nipote».
«E come le ho ripetutamente fatto notare che, a mio modesto ma esperto parere, lei non è sufficientemente preparato per allevare una signorina e sta commettendo dei clamorosi errori».
«Non ne dubito» assentì l’uomo, accarezzando la testa di Charis. «Sapevo che ne avrei commessi parecchi fin dal primo momento in cui mi è stata affidata, ma spero che, quando sarà grande, mi perdonerà. Oggi si è spaventata molto anche lei, ritengo che sia meglio che torni a casa. Ci vediamo lunedì».
«Ma oggi è soltanto giovedì, signor Williamson».
«Prenderò un paio di giorni al lavoro, non si preoccupi. Ci vediamo lunedì».
Miss Shafiq non sembrò contenta del brusco congedo e si ritirò rigidamente.
Lo zio prese in braccio Charis e la ragazzina mise le braccia intorno al suo collo, ma non ruppe il silenzio. L’uomo l’appoggiò sulla scrivania del suo studio e la fissò turbato. «Ma che ti è saltato in mente oggi?».
Charis gli raccontò del suo desiderio di giocare con gli altri bambini e della decisione di approfittare del pisolino dell’istitutrice; gli descrisse le regole della pallavolo, gli disse dell’incidente con Shawn e di quanto fossero simpatici quei ragazzini. «Quelli che mi piacciono di più, però, sono Shawn ed Eleanor» concluse lanciandogli un’occhiata afflitta. «Mi dispiace averti fatto arrabbiare».
«Non sono arrabbiato» sospirò lo zio. «Mi sono spaventato da morire quando miss Shafiq mi ha chiamato e mi ha detto che eri sparita. Fortunatamente il Capitano Potter mi ha subito dato il permesso di venire».
«Non lo faccio più, zio Adam, promesso» mormorò Charis con nuove lacrime.
«Ma perché non mi hai detto che volevi andare a giocare con i ragazzini del villaggio?».
Charis si strinse nelle spalle. «Pensavo che non mi avresti dato il permesso. So di aver sbagliato oggi. Mi punirai severamente come ha ti ha detto miss Shafiq?».
L’uomo sospirò e si passò una mano tra i capelli, legati come sempre in una coda. «Domani scriverò a miss Shafiq e le dirò che per il resto delle vacanze deciderai tu come gestire il tuo tempo, puoi andare a giocare anche con i ragazzini babbani».
«Davvero?» chiese incredula Charis. Cioè conosceva la bontà dello zio, che tentava di accontentarla ogni qual volta ne avesse la possibilità, ma questa volta si aspettava che si sarebbe arrabbiato terribilmente.
«Già» confermò Adam Williamson scorrendo la posta arrivata quel giorno e tirando fuori dal blocco una busta giallastra. «È arrivata la lettera di Hogwarts, signorina». Charis la prese e l’aprì senza proferir parola. «Non dici nulla?» la esortò lo zio. «Vedrai, lì troverai moltissimi ragazzi della tua età con cui fare amicizia».
«Sarà bello» concordò la ragazzina.
«Senti, signorina, ricordati che quello che è accaduto oggi non deve replicarsi, è chiaro? O ti assicuro che non la passerai liscia». Charis annuì e gli lanciò le braccia al collo. «Ti voglio bene zio Adam».
«Anch’io» mormorò Adam, scoccandole un bacio sulla testa. Non sarebbe mai riuscito a essere severo con lei! Poteva parlare quanto voleva la Shafiq accusandolo di viziarla, ma Charis era una bambina dolcissima, sensibile e tranquilla e, per avere solo undici anni, aveva perso già troppo.

 
♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
 

Era pomeriggio inoltrato di una calda giornata di luglio e cinque ragazzine sedevano sotto il portico di una villetta, tre su un dondolo e due sui gradini.
«Il gelato di Brewers Lane è il migliore del mondo» dichiarò una di loro.
«Dovresti starci attenta, però. Tra qualche anno finirai per ingrassare come mia sorella» intervenne un’altra.
«Dai, lasciala in pace, Caroline» sbuffò una delle due stravaccate sui gradini.
«Oh, ma è vero» insisté Caroline.
«Mio padre è un nutrizionista, se dovesse accadere può andare da lui» esclamò un’altra.
«Samantha, per favore, devi sempre fare pubblicità a tuo padre?» chiese scocciata Caroline. «E poi Zoey non siamo tutte menefreghiste come te».
«Certo che gli faccio pubblicità. È con i suoi soldi che mi compro i vestiti firmati» commentò Samantha alzando gli occhi al cielo.
«Io da grande farò la stilista e farò vestiti adatti anche per le più grassottelle» dichiarò la ragazzina sui gradini vicino a Zoey.
«Dalila, lo sappiamo che sei dolce» sospirò la più minuta del gruppo.
«Certo, Chris. Non lo fa perché ci sono più grassi che magri e ci guadagna di più» ironizzò Caroline. Le ragazzine scoppiarono a ridere.
Zoey sorrise a quei discorsi sconclusionati, pensando al primo anno di scuola quando Dalila, Caroline e lei non facevano che litigare. Ora erano un gruppo inseparabile e adorava trascorrere il suo tempo con loro. A settembre sarebbero andate tutte e cinque alla scuola media migliore di Richmond, sebbene avessero dovuto faticare per mesi per convincere suo padre e quello di Chris che avrebbero preferito mandarle in una scuola di Londra che riteneva di gran lunga migliore.
«Buonasera».
Le ragazzine sobbalzarono alla vista di un uomo sulla trentina e a Caroline scappò una risatina, Samantha le diede una gomitata. Zoey si mise a sedere in modo più composto, poiché non l’aveva mai visto, ma accadeva che il padre incontrasse i clienti a casa e si arrabbiava parecchio quando ella si comportava – a parere suo, s’intende – in modo maleducato, perciò si obbligò a rispondere: «Buonasera. Cerca mio padre?».
«Tu sei Zoey Turner?».
«Sì, signore, sono io».
L’uomo le sorrise e le porse la mano. «Mi chiamo Neville Paciock e sono un professore. In effetti sono venuto a parlare con i tuoi genitori, sono in casa?».
Zoey boccheggiò un attimo per la sorpresa, poi si costrinse a rispondere educatamente – se era nei guai, non era il caso di peggiorare la situazione -: «Sì, signore, mia madre è in casa. Mio padre rientrerà senz’altro a breve. Vuole accomodarsi?».
«Sì, grazie».
La ragazzina fece segnò alle amiche di aspettarla fuori, infatti, appena accompagnò l’uomo dalla madre, corse subito da loro.
«Un professore? Ma che hai combinato ancora prima che inizi la scuola?» sbottò incredula Chris.
«Forse quelli della scuola media hanno visto il tuo profilo» ipotizzò Samantha.
«Già, forse ti sei messa troppe volte nei guai per una scuola di élite come quella di Richmond» soggiunse Dalila.
«Non ho fatto nulla!» sbuffò Zoey. «Comunque mia mamma ha detto che devo tornare dentro. Vi chiamo dopo cena e vi faccio sapere, ok?».
«Mi raccomando non ti dimenticare» le gridò Caroline, proprio mentre chiudeva la porta di casa.
Sua madre aveva fatto accomodare il professor Paciock in salotto e lì li raggiunse.
«Oh, ecco Zoey» mormorò nervosamente sua madre. La ragazzina la squadrò, ma non le apparve arrabbiata. D’altronde che avrebbe mai potuto aver combinato se la scuola non era ancora iniziata? «Siediti, io vado a prendere il thè» le disse la madre.
Zoey obbedì e diede un’occhiata di sfuggita all’insegnante. Chi cavolo era?
«Allora, Zoey stai trascorrendo buone vacanze?».
«Sì, grazie, signore» rispose ella laconicamente. Comprendeva perfettamente che quello era stato solo un tentativo di rompere il ghiaccio, ma non era intenzionata a sbottonarsi troppo senza prima sapere chi aveva realmente di fronte. «Allora, dove insegna?» replicò.
«Oh». Per un attimo l’uomo apparve impacciato per la domanda a quanto pare inaspettata. «In una scuola scozzese».
«Scozzese?» ripeté stolidamente Zoey. Che cosa voleva un professore scozzese da lei?
«Sì, la scuola dove insegno si trova in Scozia» confermò il professore nervosamente.
«Ecco il thè» annunciò sua madre, rientrando nel salone con una vassoio in mano. «Vuole zucchero, professore? Latte?».
«Solo un po’ di zucchero, grazie, signora. Oh, non si preoccupi tanto».
In quell’istante si sentì il rumore di una serratura e dei passi nell’ingresso.
«Sono a casa» disse una voce maschile.
«Oh, è arrivato mio marito. Mi scusi un momento, professore» disse la donna e si allontanò.
«Che cosa c’entro io con una scuola scozzese? I miei mi hanno già iscritto alla Richmond Middle School. Insieme alle mie amiche». Era meglio mettere le mani avanti: aveva litigato per settimane con suo padre che voleva mandarla alla Lady Margaret School di Londra e l’apparizione improvvisa di questo professore le puzzava d’inganno.
«Capisco, ma è meglio parlarne quando arrivano i tuoi genitori» rispose l’insegnante sorseggiando il thè senza molta convinzione.
«Buonasera». Zoey sbuffò all’ingresso del padre: non avrebbe potuto torchiare l’uomo da sola!
Il professore si alzò e strinse la mano dell’altro.
«È un piacere conoscerla, signor Turner. Come sua moglie le avrà senz’altro accennato, mi chiamo Neville Paciock e sono un professore».
«Sì, sì mi ha accennato, ma, sinceramente, siamo entrambi sorpresi dalla sua visita. Mia moglie mi ha anche detto che lei non è un insegnante della Richmond Middle School, alla quale abbiamo iscritto nostra figlia. Non comprendo come potremmo esserle utili».
Bene, almeno suo padre era andato dritto al punto.
«Vedete, la scuola dove insegno accoglie studenti con determinate qualità…».
«Oh, non me lo dica! Ho capito tutto! È stata quella stupida di Paula Porter, la preside della Richmond Primary School. Guardi, non le faccio perdere ulteriore tempo, mia figlia è vivace, molto vivace se proprio vuole, ma andrà in una scuola normale e imparerà a controllarsi» sbottò la signora Turner interrompendolo.
«Ehm, no signora, veramente non conosco la signora Porter. Sono qui per conto soltanto della mia Scuola» spiegò Neville Paciock.
«Mi scusi» intervenne il signor Turner, «noi non abbiamo fatto alcuna richiesta, se permette, questa situazione è molto strana».
«Me ne rendo conto, ma sono qui per spiegarvi». Paciock si passò una mano sulla fronte sudata. A Zoey non sembrava una gran minaccia. «Come ho detto poco fa, Hogwarts, la mia Scuola, ammette solamente studenti con determinate qualità. Ora, vi prego di essere sinceri, sono mai capitati eventi strani intorno a Zoey? Non so, qualcosa che non siete riusciti a spiegarvi razionalmente?».
«Che sta dicendo?» brontolò il signor Turner infastidito.
Il cervello di Zoey, però, era scattato a quelle parole e diversi ricordi le erano tornati alla mente. «La sua ‘scuola’ sarebbe un laboratorio che usa cavie umane?». Quella vecchia paura di essere considerata ‘strana’ dai suoi amici le fece battere il cuore.
«Zoey, va’ in camera tua. Ci parliamo noi con il signore» sbottò suo padre imperioso.
La ragazzina, però, non aveva alcuna intenzione di dargli retta. Erano anni che si chiedeva come riusciva a compiere quelle che lei definiva le sue piccole ‘imprese’ – far diventare verde vomito i capelli di Patricia Stanford, perché l’aveva fatta arrabbiare o quando aveva fatto inciampare quel secchione di Eustace Easton in una pozzanghera – e adesso sentiva di essere vicina alla soluzione.
«No. Hogwarts è una Scuola. Dalla tua reazione, direi che non mi sono sbagliato» insisté Neville Paciock, questa volta sicuro di sè. Le sorrise incoraggiante.
«Zoey, ho detto vai in camera tua!» ordinò suo padre a denti stretti.
Col cavolo, avrebbe avuto le sue risposte! «E se è una scuola, che cosa si fa?».
«Ti verrà insegnato a usare i tuoi poteri».
«Basta così! Sono tutte baggianate, esca da casa mia. L’avverto, chiamo la polizia» minacciò il signor Turner.
«No, fermi tutti!» gridò Zoey. «Ve l’ho sempre detto che so fare delle cose e voi non mi avete dato mai retta!».
«Ma che diavolo dici?» sbottò sua madre.
«Ecco, state a vedere». Tentò di raccogliere la sua rabbia al pensiero che ancora una volta i suoi volevano far passare le sue capacità come fantasie infantili, in tal modo avrebbe dovuto tentare di nasconderle a tutti gli altri e far finta di nulla. Aprì gli occhi che aveva chiuso per concentrarsi e gli puntò su uno dei vasi ornamentali del salone. Quello scoppiò. «Sì, l’ho sempre odiato!».
«Era una dioscorea elephantipes! E tu l’hai fatta saltare in aria!» sbottò Neville Paciock.
«Era una pianta orribile, faceva dei fiorellini minuscoli» ribatté Zoey.
«Era una pianta rara!» sibilò palesemente oltraggiato il professore.
«E anche costosa» sbuffò il signor Turner.
«L’ho fatta scoppiare io» dichiarò Zoey esultante.
«Lei ci sta dicendo che dovremmo mandare nostra figlia in una scuola nella quale le verrà insegnato a far esplodere vasi cinesi costosi e piante altrettanto rare?» chiese con voce acuta e leggermente isterica la signora Turner.
«Assolutamente no» ribatté Neville. «Le verrà insegnato a curare e a rispettare le piante, questo glielo posso assicurare visto che insegno Erbologia». E qui incenerì la ragazzina, che gli rivolse uno sguardo colpevole. «Comunque a Hogwarts imparerà a controllare i suoi poteri. Se volete, posso darvi una dimostrazione di magia».
«Sììì» strillò Zoey prima che i suoi genitori potessero dire alcunché.
Neville Paciock estrasse la bacchetta e la puntò sui resti del vaso. «Reparo».
«Oh». Il vaso era tornato perfettamente integro. «Me lo insegna?» chiese Zoey eccitata. Quella roba l’avrebbe salvata da un sacco di guai.
«Non è il momento, ma lo imparerai se verrai a Hogwarts. Questa è la tua lettera di ammissione».
Zoey prese la busta giallastra e si sorprese che fosse fatta di pergamena e non di carta. I suoi genitori, trasecolati, si era seduti sul divano vicino a lei.
«Capisco che abbiate già programmato il futuro scolastico di Zoey, ma credo che dobbiate riflettervi seriamente di nuovo. I poteri magici cresceranno con lei ed è fondamentale che impari a controllarli. È una strega, da quello che ho visto abbastanza potente, per cui ha bisogno di essere seguita».
«Ho un sacco di domande» dichiarò Zoey dopo aver letto la lettera e averla passata ai suoi genitori.
«Va bene, tenterò di essere esauriente» rispose Neville Paciock, visibilmente più tranquillo dopo aver mollato la bomba.
«Che cosa significa ‘posta via gufo’?».
«È il metodo di distribuzione postale dei maghi. Usiamo veramente i gufi, ma non ti preoccupare di questo, darò io la risposta alla professoressa McGranitt».
«E davvero qualcuno vorrebbe un rospo come animale domestico, sono nauseanti!».
«Io ne avevo uno di nome Oscar».
«Oh, ehm scusi» borbottò Zoey. Possibile che non ne dicesse una giusta? E aveva fatto esplodere la pianta e lui era il professore di Erbologia, ci mancava solo il rospo!
«Scusi… io… sono un po’ confuso…» borbottò il signor Turner fissando nervosamente il bastoncino nelle mani dell’insegnante.
«Ha ragione, mi scusi lei». Neville rimise la bacchetta in tasca e si alzò. «Se per voi va bene, tornerò il secondo sabato di agosto e vi accompagnerò a Diagon Alley, l’unico posto di Londra nel quale Zoey potrà trovare tutto quello che le serve per la Scuola».
«Aspetti, ma possono venire anche le miei amiche. Sono ricche, non si preoccupi, possono benissimo pagare la retta» lo fermò Zoey.
«Hogwarts non è a pagamento. Le famiglie si devono far carico della divisa, dei libri e di tutto il materiale necessario» spiegò Neville Paciock.
«Quindi le miei amiche potranno venire?» insisté Zoey.
«Hogwarts ammette maghi e streghe dagli undici ai diciassette anni» rispose pazientemente il professore.
«Le mie amiche sanno essere delle vere streghe».
«Ma hanno o non hanno i tuoi stessi poteri?».
«Io… io sono sicura di sì…» mormorò testardamente Zoey.
«Sono di questo quartiere?».
«Sì, andrà anche a casa loro?».
«Temo di no, mi è stata assegnata la zona di Londra e a Richmond sei l’unica streghetta di undici anni».
«Ma io non posso venire a Hogwarts senza di loro».
«Temo proprio che dovrai farlo, ma sono sicuro che ti farai tanti nuovi amici» sospirò Neville Paciock, poi si congedò.
 
 
♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
 

«Enan, per favore, vai a chiamare tuo zio giù al villaggio. La cena è quasi pronta».
«Sì, nonna» replicò Enan intento a togliersi gli stivali, seduto sul gradino della porta di casa.
«Ecco le tue scarpe».
«Grazie» disse il ragazzino, indossandole rapidamente.
«Mi raccomando, non perdere tempo. Sai che tuo nonno odia i ritardatari».
Enan le sorrise e le promise di fare in fretta. Era un ragazzino di undici anni, dai folti capelli neri e con una corporatura robusta grazie ai lavori quotidiani che compiva nella riserva e la sua pelle era ben colorita proprio per la sua tendenza a trascorrere molto tempo all’aria aperta.
Corse lungo il sentiero che dalla fattoria conduceva a Craighouse, il villaggio principale dell’isola di Jura sulla quale viveva con la sua famiglia.  Fortunatamente non era molto distante perché egli era già abbastanza stanco dalla giornata appena trascorsa.
Suo zio, Alistair Macfusty, aveva uno studio medico – o almeno era così che lo chiamavano i Babbani -, in cui esercitava la sua professione di medimago. Naturalmente, a un certo orario avrebbe dovuto chiudere la sera, ma si attardava sempre vuoi perché gli abitanti del villaggio lo cercavano o lo intrattenevano chiacchierando, vuoi per concludere una ricerca o qualcosa di simile. Per lo più lavorava da solo, con l’unica eccezione della moglie, Selene, che solitamente gli faceva da segretaria, ma in quel periodo era incinta per cui rimaneva a casa a riposarsi. Ora che erano in vacanza, però, gli dava una mano Blair, cugino di Enan, che non amava minimamente i lavori pesanti della fattoria, perciò ogni scusa era buona per defilarsi. Soprattutto, Blair non amava le creature magiche e la famiglia Ma cfusty si occupava di draghi da generazioni. Blair era stato smistato a Corvonero e negli ultimi due anni aveva conseguito voti molto alti in tutte le discipline, roba, come diceva sempre nonno Donel, non si vedeva da quando andava a Scuola Alistair. Per questo motivo il nonno, nonostante lo zio Iagan, il padre di Blair, non approvasse, sollevava lo studioso nipote da ogni incarico perché potesse leggere e studiare tranquillamente, assolutamente convinto che questi avrebbe fatto strada se gliene avessero dato l’opportunità.
Enan giunse allo studio, che poi altro non era che una capanna in legno di due stanze, proprio mentre usciva un vecchietto. Salutò educatamente ed entrò nel piccolo ingresso che fungeva da sala d’attesa, sentì delle voci sommesse e raggiunse zio e cugino nell’altra stanza.
«Ciao» esordì attirando l’attenzione su di sé. Lo zio stava mettendo in ordine e Blair osservava concentrato un microscopio babbano. Enan si accigliò leggermente, perché lo zio non gli aveva mai permesso di giocarci.
«Ciao, Enan» lo salutò zio Alistair. Blair mosse leggermente la mano, ma non alzò il capo. «Ti ha mandato nonna?».
«Sì, ha detto che la cena è quasi pronta».
«Ottimo, sbrighiamoci Blair, tuo nonno odia che si arrivi in ritardo ai pasti» commentò zio Alistair riempiendo la borsa, nella quale teneva tutto il necessario per il pronto soccorso.
«Sì, ma mi devi spiegare come si distinguono i diversi tipi di tessuto» ribatté il ragazzino più grande.
Enan si avvicinò curioso. «Posso guardare anch’io?».
Blair sbuffò ma si spostò. «Devi mettere l’occhio qui». Enan obbedì ma vide tutto molto sfocato. «Cosa dovrei vedere? Non vedo nulla» si lamentò.
«Blair l’ha regolato in base alla sua vista» spiegò pazientemente Alistair. «Adesso andiamo o nonno si arrabbia».
I due ragazzini a malincuore lo seguirono fuori dallo studio e attesero che chiudesse la porta a chiave.
«Mi è arrivata la lettera di Hogwarts» annunciò Enan, tutto contento, mentre si avviavano.
«Complimenti» gli disse sinceramente lo zio.
«Magnifico! Ora potremmo andare a Diagon Alley» strillò felice Blair.
«Shhh, abbassa la voce» lo richiamò Alistair. «Vuoi farti sentire dai Babbani?».
«Tanto mica capiscono» si difese Blair.
«Ti aiuto a portare la borsa?» si offrì, invece, Enan.
«No, sei sfinito, te lo leggo in faccia. Non poteva venire una delle ragazze a chiamarci?».
«A me fa piacere» replicò Enan stringendosi nelle spalle. Ed era vero anche se non vedeva l’ora di arrivare a casa.
«Con chi andremo a Diagon Alley quest’anno?» domandò Blair.
«Non lo so. Io sicuramente non posso muovermi da qui. Ti darò la solita lista con quello che mi serve».
«Certo, tranquillo» replicò Blair, orgoglioso della fiducia dello zio.
«Va tutto bene da noi?» chiese Alistair a Enan.
«Tutto come al solito. Fagan e Donel hanno litigato e il nonno è furioso».
«Sono arrivati alle bacchette?».
«No, hanno combattuto alla babbana».
Alistair sbuffò: «Non si smentiscono mai. E dire che Evander vorrebbe trovare una moglie a Donel, ma è ancora così immaturo!».
Donel aveva diciotto anni e si era diplomato a Hogwarts un mese prima; era il più grande tra i ragazzi ma anche il più insopportabile. Non mancava mai di ricordare che Enan vivesse della bontà dei suoi zii e del nonno: se loro non l’avessero voluto, non avrebbe avuto nessuno.
Il ragazzino sospirò mestamente: la sera sorgevano pensieri tristi fin troppo facilmente. Scorse le luci della fattoria con piacere e corse, lasciando indietro Blair e lo zio: appena fu in cucina abbracciò la madre, che aveva appena finito di apparecchiare la tavola. Ella gli sorrise dolcemente e lo sollecitò ad andare a lavarsi le mani.
Per fortuna la casa era molto grande e non avrebbe mai contenuto tutta la famiglia Macfusty! I nonni avevano avuto ben otto figli, cinque maschi e tre femmine e ora abitavano tutti lì con le relative famiglie, a eccezione della zia Callen, trasferitasi a Londra dopo il matrimonio con Andrew MacGregor; la zia Lyla che viveva sull’isola di Skye; lo zio Akira, simpaticissimo a suo parere, che aveva deciso di continuare gli studi dopo Hogwarts e adesso lavorava come magiavvocato a Londra, dove viveva con la famiglia. Nonostante la loro assenza, comunque, la casa continuava a essere molto affollata.
«Ehi, bastardino, dai la precedenza» sibilò Donel Macfusty spingendolo e facendolo ruzzolare sul pavimento del bagno. Enan si vantava di essere molto più forte di tutti i coetanei che vivevano al villaggio, ma Donel, non solo aveva sette anni più di lui, ma era anche un energumeno, tutto muscoli e molto poco cervello.
«Lascialo in pace» intervenne Blair, che basso e magro com’era non era certo una gran minaccia, ma Enan gliene fu comunque grato e si rimise in piedi. «Nonno non vuole che lo chiami in quel modo».
«Sta zitto, quattr’occhi» lo redarguì Donel, per poi rivolgersi nuovamente a Enan, la sua vittima preferita. Il ragazzino tentò di difendersi, ma il più grande lo prese di peso e lo gettò nella vasca. «Puzzi da morire, permettimi di aiutarti».
Un getto d’acqua colpì violentemente il ragazzino impotente. All’improvviso, quando pensava che sarebbe affogato, il getto si fermò e poté riprendere a respirare.
«Zio, stavamo solo giocando» sentì Donel giustificarsi con qualcuno, ma il rumore sordo di uno schiaffo fece intuire a Enan che le scuse non erano servite a un bel nulla. Si strofinò gli occhi per focalizzare il mondo attorno a sé.
«Stai bene?» gli chiese Blair preoccupato, facendo capolino nel suo campo visivo. Vicino al Corvonero vi era lo zio Aiden che rimproverava Donel.
«Fila di là, stavolta tuo nonno ti ammazza» sibilò lo zio Aiden. «Vai anche tu Blair, sono tutti a tavola».
Blair lanciò un’ultima occhiata a Enan e obbedì. Quest’ultimo si rimise in piedi tutto gocciolante e con un poco di fatica uscì dalla vasca, rischiando di scivolare solo un paio di volte durante il processo.
«Ti asciugo con la magia» gli disse lo zio. Il ragazzino lo lasciò fare, senza guardarlo negli occhi.
La loro era una famiglia patriarcale di vecchio stampo, di quelle che forse non esistevano più e in casa funzionava tutto in modo gerarchico: il nonno comandava su tutti, persino sui figli ormai adulti – qualcuno diceva che lo zio Akira se ne fosse andato a Londra perché era uno spirito libero e non voleva alcuna intromissione nella sua vita -, ma non era un tiranno perché permetteva a figli e nipoti di intraprendere la strada desiderata, ma certamente non tollerava l’indisciplina e la mancanza di rispetto; generalmente toccava ai i figli educare i nipoti e il nonno interveniva solo in casi eccezionali; gli zii a loro volta potevano dare qualche scappellotto o schiaffo ai nipoti, se lo ritenevano opportuno e in assenza dei fratelli, solo per riportare l’ordine sul momento. Enan, però, era un caso straordinario: non aveva il padre, così tutti gli zii si sentivano in dovere di contribuire alla sua eduzione. E questo non era quasi mai divertente.
«Lavati le mani e andiamo a cenare» gli ordinò lo zio Aiden, appena fu completamente asciutto. «E dopo cena porta questi vestiti in lavanderia, sono sudici. La doccia te l’ha già fatta Donel».
Enan si affrettò a obbedire. «Nonno si arrabbierà anche con me?» chiese preoccupato.
«No, solo con Donel. Oggi ha superato se stesso» lo rassicurò Aiden, mentre uscivano dal bagno.
«Fagan?». Fagan era il figlio di zio Aiden ed era uno dei cugini preferiti di Enan.
«A letto senza cena. Gli avrò detto un milione di volte di non reagire alle provocazioni di Donel».
Enan non commentò, anche perché avevano raggiunto la sala da pranzo. Si scusò sommessamente per il ritardo, ma zio Aiden si chinò sul padre e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, probabilmente quello che era accaduto in bagno, vista l’occhiata che l’anziano rivolse al più grande dei nipoti, così il ragazzino poté scivolare nel posto accanto alla madre senza che nessuno gli dicesse nulla.
«Che è successo?» gli sussurrò la madre, dopo avergli riempito il piatto.
«Donel faceva il cretino» bofonchiò Enan, che non voleva farla preoccupare.
«Nonno ha deciso che verremo io e Aiden a Diagon Alley con voi ragazzi, sei contento?».
A Enan si illuminarono gli occhi: certo che era contento! Lanciò un’occhiata grata al nonno, che, intento a discutere con lo zio Evander non lo vide: l’aveva supplicato di farlo andare con la mamma e lui l’aveva accontentato!
La cena trascorse tranquillamente e chiassosa come sempre, visto che si avvicendavano tante voci in contemporanea. Appena il nonno diede loro il permesso di alzarsi, Enan, anziché andare nel salone, dove poteva giocare con i cugini fino all’ora di andare a letto, diede la buonanotte alla mamma e corse all’ultimo piano dove si trovava la sua camera, che condivideva con Blair, Fagan e Corey, il secondogenito di zio Alistair.
Come aveva immaginato, c’era soltanto Fagan, sdraiato sul letto e intento a sfogliare una rivista di Quidditch.
«Fagan» lo chiamò, avvicinandosi.
«Ehilà Enan» replicò il diciassettenne, senza alzare gli occhi dal giornale.
«Ti ho portato un panino» sussurrò il più piccolo in tono complice.
Fagan gettò la rivista sul materasso e gli regalò piena attenzione. Enan lo tirò fuori dalla tasca dove l’aveva nascosto dopo averlo avvolto nel suo fazzoletto.
«Sei un mito! Stavo morendo di fame!» trillò Fagan riconoscente.
Enan sorrise soddisfatto di essere stato d’aiuto al cugino.
«È con le olive! Il mio preferito» commentò Fagan dopo averlo addentato. «Amico, ti devo un favore enorme». Enan l’aveva scelto apposta e si sedette sul letto, sperando che il cugino rispondesse alle sue domande su Hogwarts, appena finito di mangiare. «Comunque, mi fa rabbia che Donel l’abbia passata liscia come al solito. Ha convinto zio Evander che è colpa mia e lui si è solo difeso. Ma quando mai? Spero che gli sia andata storta la cena!» sbottò il più grande dopo aver deglutito.
Enan scosse la testa e gli raccontò quello che gli aveva fatto in bagno.
«Meno male che l’ha beccato mio padre! Zio Evander sarebbe stato capace di prendersela con te. Quell’idiota, poteva affogarti! Spero che il nonno gliela faccia pagare!».
«Eccovi qua». Zio Alistair entrò all’improvviso e li fece saltare entrambi. Fagan provò a mettersi in bocca il resto del panino, ma era troppo grosso. «Se fossi in te, metterei bocconi più piccoli in bocca. Sono abbastanza stanco stasera, senza dover occuparmi anche di te che rischi il soffocamento» esclamò Alistair scuotendo la testa. «Enan, mi ha mandato tua mamma. Sei corso via e non ha potuto parlarti. Ti sei dimenticato di toglierti quei vestiti sporchi?».
«Oh, oh sì» mormorò il ragazzino in tono colpevole.
«Avevi troppo fretta di portare il cibo a tuo cugino?».
«Senti, zio…» cominciò Fagan.
«Non m’interessa» lo zittì Alistair. «Non sai neanche quante volte ho portato la cena di nascosto a tuo padre». Fagan sorrise e si rimise a mangiare, questa volta più in fretta, caso mai qualcun altro avesse deciso di invadere la privacy della loro camera. «Enan, non stare lì impalato» soggiunse Alistair schioccandogli le dita davanti. «Mettiti il pigiama, porterò io vestiti sporchi in lavanderia».
«Sul serio?» chiese sollevato il ragazzino. La lavanderia non era altro che un capannone attaccato alla cucina e per raggiungerlo avrebbe dovuto rifare nuovamente tutte le scale e si sentiva letteralmente sfinito.
«Sì, sbrigati. Aiden mi ha sfidato a una partita a carte e se non scendo penserà che ho paura di perdere».
I due ragazzi ridacchiarono. Enan si cambiò in fretta. «Grazie, zio».
«Di nulla. Buonanotte, ragazzi».
«Buonanotte, zio» replicarono i due.
«Stai sicuro che a Hogwarts non andremo a letto così presto» commentò Fagan, appena furono soli.
Enan si ricordò il suo proposito di interrogarlo. «Posso farti delle domande sulla Scuola?» chiese titubante.
«Sicuro, ma mettiti nel tuo letto, così, se ti addormenti, non c’è problema».
«Grazie, Fagan, sei il migliore!».
«Lo so, lo so, non c’è bisogno di ricordarmelo» scherzò il più grande.
 
 
♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
 

«Mark, portami una birra» urlò suo padre dal salotto.
Il ragazzino sospirò. «Arrivo» gridò in risposta. Finì di asciugare l’ultimo piatto e lo ripose nella credenza insieme agli altri. «Devo buttare fuori la spazzatura» gridò nuovamente.
«Sbrigati!».
Il ragazzino prese il sacco dell’immondizia, contento di poter prendere tempo, ma meno di dover uscire fuori: era una mite serata estiva, ma il loro non era un quartiere tranquillo e la notte lo inquietava particolarmente. Prese un bel respiro e uscì dalla porta della cucina. I lampioni della via non erano ancora stati aggiustati e la strada era deserta – il che era una fortuna -, così Mark si trascinò dietro il sacco fino al marciapiede e, con parecchia fatica, lo gettò nel contenitore.
Mark aveva undici anni, compiuti da poche settimane, ed era piccolo e mingherlino per la sua età. Vide una macchina avvicinarsi e si nascose dietro la staccionata del suo giardino. Accidenti! Aveva dimenticato lo scherzetto di sua sorella ed era uscito di casa senza coprirsi la testa. Se l’avesse visto il vicino, sarebbero stati guai! In quel momento aveva due bellissime orecchie d’asino, fin troppe realistiche per essere confuse con un paio finte.
Eh, già, Mark e la sua famiglia erano maghi, ma, vivendo in mezzo ai Babbani, dovevano stare ben attenti a non infrangere lo Statuto Internazionale di Sicurezza.
Attese che il vicino, dopo aver parcheggiato, entrasse in casa; solo dopo fece altrettanto. Suo padre sentì il rumore della porta che si chiudeva e lo chiamò: «Allora? Quanto ci metti?».
Il ragazzino sospirò e andò in salotto. «Mi sono dimenticato che Alexis mi ha trasfigurato le orecchie e mi sono dovuto nascondere quando è arrivato il signor Patterson» spiegò.
Il padre, come ogni sera, era stravaccato sulla poltrona di fronte alla televisione e si guardava una partita di rugby – sebbene non ne comprendesse neanche le regole base -, sul tavolino accanto a lui c’erano già tre bottiglie di birra vuote.
«Allora, questa birra?».
«Stamattina sono arrivate le lettere da Hogwarts» disse eludendo volutamente la domanda e porgendogli un foglio di pergamena spiegazzato.
«Lo so, tua sorella è stata nominata Capitano della squadra di Quidditch» replicò suo padre prendendo la pergamena e scorrendola rapidamente, per poi abbassare il volume della televisione. Ciò sorprese molto Mark, che, comunque, non lo reputò un buon segno. «Jay non è stato nominato Prefetto, ma non mi meraviglia». Il ragazzino non replicò, non ritenendo opportuno esprimere il proprio parere in merito: suo fratello era apatico e sembrava che l’unica cosa al mondo che lo interessasse fossero i videogames, in compagnia dei quali trascorreva ogni vacanza chiuso in camera e sembrava allergico persino ai libri di fiabe dei bambini nei quali vi erano più immagini che parole. «Dovresti prendere esempio da Alexis» continuò suo padre. Mark percepiva il suo sguardo addosso, ma tenne gli occhi fissi sulle sue vecchie scarpe da tennis. «Bada bene che non tollererò da parte tua lo stesso comportamento che hai tenuto alla scuola babbana. Mi vergognerei profondamente se ottenessi voti così scarsi a Hogwarts! Io sono stato Prefetto e Caposcuola!». Ancora una volta Mark tacque, ben intenzionato a non discutere con il padre. «Neanche la scuola estiva ti è servita a qualcosa! Tua sorella ha fatto proprio bene a farti crescere quelle orecchie da somaro». L’asprezza delle parole paterne ferì il ragazzino. Non riteneva di essere ignorante: aveva letto molti libri, sapeva leggere fluentemente e correttamente a differenza di molti suoi compagni di classe e di norma comprendeva quasi tutto quello che studiava. Il disastro alla scuola babbana dipendeva da svariate altre cause. «Riprenditi la tua lettera, non avevo alcun dubbio che saresti stato ammesso: sono anni che assisto all’incidenti causati dalla tua magia accidentale!» sbottò suo padre lanciandogli la pergamena, Mark l’afferrò al volo. «Proprio per questo mi aspetto il meglio da te. Sarai un Grifondoro magnifico e dopo la Scuola, entrerai al Ministero… Un posto di prima classe, non da quattro soldi!». Il tono di voce si era alzato gradualmente e Mark aveva sollevato gli occhi su di lui, spaventato: alle volte la birra lo rallegrava, ma quella era una serata no. Pensò alla birra nel frigorifero e una morsa gli strinse lo stomaco: aveva scelto un pessimo giorno per attuare il suo piano. «Non mi ripeterò sull’argomento: stai attento a come ti comporterai a Hogwarts, perché non la passerai liscia. È chiaro?».
«Sì, signore» rispose Mark atono. Come se l’avesse mai passata liscia! Ogni volta che Alexis era a casa trovava un modo di metterlo nei guai e di convincere loro padre a punirlo in qualche modo! Chissà se a Hogwarts avrebbe potuto evitarla? Certo che, se fosse stato smistato a Grifondoro, non sarebbe sfuggito dalle sue grinfie.
«Bene» brontolò suo padre. «Ora, dimmi, somaro che non sei altro, per avere una birra ti devo fare una richiesta scritta con il timbro del Ministero?».
«No, signore, vado subito a prenderla» mormorò affranto il ragazzino. Filò in cucina, ben deciso ad aprire una nuova confezione di birra: suo padre era troppo arrabbiato quella sera; ma, ahimè, quando aprì lo sportello si rese conto che erano rimaste solo tre bottiglie. Quelle modificate. Deglutì, consapevole di essersi messo in un mare di guai e non avendo la minima idea su come uscirne. Il cuore gli batteva all’impazzata. Che avrebbe dovuto fare? Tornare di là e confessare, sperando di essere perdonato? L’umore del padre non gli lasciava grandi speranze. Svuotare le bottiglie, buttarle e dire al padre che le birre erano finite e, a causa delle orecchie d’asino, non era potuto uscire a comprarle? Quella appariva la soluzione migliore: non avrebbe potuto prendersela con lui. Eppure non era bravo a mentire e questo avrebbe potuto fregarlo. Nonostante ciò, in quel modo erano maggiori le possibilità di cavarsela senza neanche una sgridata. Eppure una parte di lui gli suggeriva di andare avanti con il suo piano. Aveva agito in piena coscienza e credeva di essere nel giusto, sebbene suo padre non sarebbe mai stato d’accordo.
«Quanto ci metti, accidenti! Vediamo se mi devo alzare io!» gridò suo padre dalla sua postazione nel salotto.
Mark prese un bel respiro e decise che l’avrebbe fatto. Non l’avrebbe mica ammazzato per un paio di bottiglie di birre, no? E poi voleva il figlio Grifondoro? E lo avrebbe avuto!
«Eccomi!» annunciò dopo aver preso una bottiglia e gettato il tappo rovinato. Raggiunse suo padre, con gli occhi fissi sulla televisione, e gli porse la tanto agognata bevanda. «Tieni, te l’ho pure aperta».
L’uomo grugnì in risposta e si prese la birra.
«Buonanotte» gli augurò Mark, non desiderando essere presente quando suo padre avrebbe scoperto che cos’aveva combinato.
«Notte» borbottò quest’ultimo, intento a dedicarsi alla sua attività serale preferita: lo zapping.
Il ragazzino batté in ritirata velocemente e si chiuse nella sua camera. Il cuore batteva a mille, mentre si accucciava sul letto e tendeva le orecchie asinine per carpire ogni rumore proveniente dal salotto. Gli sembrò di sentire un’imprecazione e si chiese se avrebbe potuto funzionare fingere di dormire. Si strinse al cuscino, ben sapendo che suo padre sarebbe venuto a chiedergli spiegazioni a breve. Non ebbe neanche il coraggio di alzarsi e recuperare il romanzo che stava leggendo.
Non dovette attendere molto, che la porta della sua stanza si spalancò: «Che diavolo è questa storia?» strillò l’uomo, agitando la bottiglia di birra che gli aveva consegnato prima.
E se gli avesse detto che era un errore del produttore? No, la sua faccia in quel momento doveva essere terrorizzata e non gli avrebbe creduto; inoltre non era proprio il caso che il padre litigasse con i Babbani.
«Cosa?». Provò comunque a fare il finto tonto, ma dalla gola gli uscì uno squittio acuto, tutto tranne che credibile.
«C’è dell’acqua al posto della birra!» sibilò l’uomo, avvicinandosi e afferrandolo per una delle orecchie d’asino.
«No, mi fai male!» si lamentò, ma non ottenne alcun effetto.
«Dimmi la verità».
«Ho buttato la birra nel lavandino e ho riempito le ultime tre bottiglie d’acqua».
«E ti sembra uno scherzo divertente?! Le ho pagate quelle birre, non le ho trovate per strada!».
Mark piagnucolò perché l’orecchio iniziava a fargli veramente male, perciò non osò rispondergli che sarebbe stato meglio che non gli avesse spesi in quel modo i loro pochi soldi. Provò a rabbonirlo, spiegandogli perché l’aveva fatto: «Non è uno scherzo!» strillò. «Ho letto su un libro che l’alcool fa male, se bevuto in eccesso». E, per inciso, suo padre si scolava parecchi litri di birra a settimana e ogni tanto –anche troppo spesso – si concedeva del buon whisky incendiario, come diceva lui. «Non voglio che muori».
Suo padre mollò la presa, apparentemente sorpreso dalle sue parole. «Ma che accidenti dici?».
«Ti dico che è così, se non mi credi perché non lo chiedi a un medimago?» ribatté Mark, massaggiandosi l’orecchio.
Suo padre lo fulminò con lo sguardo. «Non prendo lezioni da un ragazzino!» tuonò. «Lo sai qual è il problema?». Il ragazzino non fiatò. «Leggi troppi libri!».
Mark lo fissò a bocca aperta, mentre s’impossessava del romanzo sulla scrivania. «No, è della biblioteca! Lo devo restituire! Se non lo faccio, non potrò più prenderne in prestito e dovrò pagare una multa! E se non la pago, non mi faranno più entrare!» gridò disperato, tentando di riprendersi il libro dalle mani del padre.
«Meglio! Non ci devi più andare! Dammi la tessera!» replicò suo padre urlando.
Il ragazzino sgranò gli occhi e scosse la testa: avrebbe potuto fargli quello che voleva, anche strappargli quelle ridicole orecchie da asino, ma la tessera della biblioteca non gliel’avrebbe mai consegnata.
«Dammela!» ordinò di nuovo l’uomo, ma vendendo la sua testardaggine chiamò: «Alexis, vieni qui!».
Sua sorella non si fece attendere: adorava troppo vederlo nei guai.
«Che c’è papà?» cinguettò tutta contenta.
«Usa la magia e vedi dove tuo fratello nasconde quella maledetta tessera della biblioteca».
«Oh, sì, stai tranquillo». Alexis, purtroppo maggiorenne e perfettamente capace di usare i suoi poteri, estrasse la bacchetta e con un ghigno pronunciò: «Accio tessera!».
«Nooo» gridò Mark scoppiando a piangere, mentre la carta plastificata volava fuori dalla sua tasca. Quella tessera era l’oggetto più prezioso che possedeva e, adesso, non l’avrebbe più rivista.
Sentì a malapena le parole di scherno di Alexis e quelle di rimprovero del padre. Quando loro uscirono dalla camera, si gettò sul letto sfogandosi, senza notare che non era solo: le urla avevano attirato suo fratello Jay.
«Guardami negli occhi» gli disse il ragazzo dopo averlo lasciato sfogare per un po’. Mark, stranito, obbedì.
Le immagini di una vasta biblioteca, piena di libri dall’aria antichissima, lo colpirono all’istante: era frequentata da molti ragazzi che indossavano la stessa veste nere, seduti nei vari tavoli intenti a studiare o bisbigliare tra loro.
Il contatto visivo s’interruppe improvvisamente proprio com’era iniziato e Mark fissò stupito il fratello, che non lo guardava più negli occhi.
«Poco più di un mese» gli disse Jay, avviandosi verso la porta. «Poco più di un mese e sarai a Hogwarts, dopodiché la biblioteca di Jaywick ti sembrerà ancora più squallida di quello che è. E nessuno ti potrà impedire di entrarci».
Il ragazzino per lo stupore aveva smesso di piangere.
«Tieni duro, eh» concluse Jay. «Notte».
«Notte» sussurrò Mark con voce roca e a malapena udibile.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Carme93