Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    29/01/2019    1 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IN VIAGGIO VERSO L’EUROPA
 
 



 
Mar Arabico, fine luglio 1890
 
 
«Ancora poco ed entreremo nel Mar Rosso!» disse Jean «Non sei contenta?»
«Mh.»
Nadia era sovrappensiero e condivideva l’entusiasmo di Jean solo in parte.
Era mattina, una calda, splendida mattina estiva di fine luglio, e lei benediceva i suoi vestiti leggeri e ariosi. Il vaporetto filava da giorni attraverso il Mar Arabico e si teneva ormai sotto costa, pronto per attraversare lo stretto di Bab el Mandeb. Electra aveva spiegato loro che il nome, in arabo, significava Porta delle Lacrime e derivava dalla pericolosità di quel tratto di navigazione nei tempi antichi. Le navi moderne, come il vaporetto su cui viaggiavano, non avevano più problemi.
«Nadia?»
«Sì?»
Jean era perplesso. Nadia aveva sempre amato viaggiare, era abituata a farlo fin da piccolissima, eppure non sembrava che si stesse godendo più di tanto la traversata.
«Soffri il mal di mare?»
Nadia quasi lo picchiò. Ovvio che non lo soffriva!
«Come ti viene in mente?» gli chiese.
«Non saprei, sei pensierosa, assente…»
La ragazza sospirò. Era difficile spiegare come si sentiva. Avrebbe dovuto essere felice, era quasi certa di esserlo. Aveva ottenuto ciò che desiderava, in fondo. Aveva scoperto le sue origini, anche se non erano proprio quelle che immaginava. Aveva combattuto contro Gargoyle, che alla fine avevano sconfitto. Aveva risolto il mistero delle pietre azzurre, compreso quale fosse la loro natura. Era riuscita, esaurendone i poteri, a scongiurarne la minaccia. Nessuno avrebbe potuto più pensare di usarle come armi.
Eppure, al tempo stesso, non riusciva a sentirsi soddisfatta ora che stavano davvero arrivando alla fine. Non c’entrava suo padre, almeno non soltanto. Era qualcosa che la riguardava in maniera più intima. Aveva tanto desiderato una vita normale ma, ora che ce l’aveva a portata di mano, non riusciva a immaginarsela.
«Di che state parlando voi due?»
Si voltarono e si trovarono davanti Grandis.
Sorrideva, vestita in giacca e pantaloni come quando era tornata dalla battaglia.
«Nadia è strana», disse Jean «e non vuole dirmi che succede.»
«È che non so cosa pensare di tutto quello che è successo», rispose lei «Credo che ci metterò un bel po’ a capire.»
Grandis fece spallucce.
«E perché dovresti voler capire per forza? Ci sono cose che non sono fatte per essere capite. Pensa solo che ne sei uscita più forte di prima, Nadia. Tuo padre aveva ragione, devi pensare solo a vivere da ora in avanti.»
Suo padre.
Nadia provò una fitta al cuore.
Se pensava a quanto l’aveva maltrattato durante la sua permanenza sul Nautilus! Assassino, gli aveva urlato. Assassino. L’aveva davvero odiato con tutta se stessa e sapeva il cielo quanto se n’era pentita.
L’aveva rifiutato perfino quell’ultima volta, quando aveva tentato di farle una carezza.
Quasi piangeva di nuovo, a ricordarlo.
«Nadia?»
Grandis non era soddisfatta di quell’aria funerea. Nemo le aveva affidato i ragazzi e non avrebbe permesso che trascorressero quei primi, preziosi momenti di pace nella tristezza. Sorrise.
«Avanti, venite con me. Nella cabina ristorante stanno preparando il gelato. Marie è già andata all’assalto e non ne resterà più se non ci sbrighiamo.»
Era una giornata di sole, la brezza marina rendeva sopportabile il caldo.
Sì, era proprio un peccato sprecarla.
 
 
 
“Stai pensando a Nadia?”
Non dimenticherà mai l’espressione di Nemo.
Sono nella biblioteca dell’Exelion, lui le sta spiegando delle cose relative al funzionamento dell’archivio, all’improvviso si distrae e sembra volare lontano con la mente.
A lei sembra ovvio che stia pensando alla figlia, per questo glielo chiede.
Lui alza gli occhi, la osserva con lo sguardo di chi ha visto un fantasma.
Tutto si aspettava, evidentemente, tranne che sentire lei che pronuncia il nome di Nadia.
Medina ride, lo abbraccia.
“Tornerà, non ti preoccupare”, gli dice “Ha la pietra azzurra.”
Cioè ha l’anima di sua madre a proteggerla.
“La guiderà fin qui sana e salva.”
Nemo sta in silenzio, poi ricambia l’abbraccio e adagia la fronte sulle sue spalle.
“Grazie. Non sai quanto.”
Medina gli accarezza la schiena, piano. Ha scoperto da poco di essere incinta e già ama il bambino che verrà più di se stessa.
Per cui lo capisce. Lo capisce bene.
La voce di Nemo, un sussurro.
“Ti amo.”
Medina lo stringe un po’ più forte.
“Anch’io.”
 
 
 
Era da qualche mattina che pensava che avrebbe quasi potuto abituarsi a quella vita.
La verità era che quella traversata non le dispiaceva. Il mare la rilassava e avevano ormai abbandonato l’oceano aperto, la navigazione si era fatta più tranquilla.
Electra, seduta su una panchina del ponte principale, si godeva la brezza. La costa dell’Egitto le scorreva davanti agli occhi. Erano entrati nel Mar Rosso.
Soprattutto, era felice di aver definitivamente superato le nausee. Non ne aveva sofferto in modo particolare nei primi due mesi, ma il terzo l’aveva messa a dura prova e l’aveva passato quasi tutto nella sua cabina, sottocoperta. Non le sembrava vero di poter finalmente respirare liberamente l’aria salmastra e di poter prendere un po’ di sole.
Non soffriva il mal di mare – come avrebbe potuto, dopo essere stata imbarcata per anni su un sottomarino? – ma aveva addotto quella scusa con chiunque le avesse fatto domande circa il suo stato di salute. Continuava a non volere pettegolezzi, perlomeno non da parte degli altri passeggeri, e complici le nausee non aveva preso molto peso. Avrebbe fatto in tempo ad arrivare a Tangeri prima che la pancia iniziasse a vedersi. Icolina, nell’ultimo mese, le era stata accanto come un’ombra. C’era ben poco che potesse fare, però, ed era l’unica consolazione. Anche se ci fosse stato Nemo, col suo corpo se la sarebbe dovuta sbrigare da sola in ogni caso.
Toccò la fede che aveva al dito.
Lui le avrebbe tenuto la mano mentre stava male.
Ebbene, lei la mano se la sarebbe tenuta da sé, col suo benestare.
Nemo le mancava come l’aria, era inutile fingere il contrario, ma proprio per questo doveva sforzarsi e andare avanti da sola, fino in fondo. Voleva vedere il bambino che portava in grembo, voleva stringerlo al petto e coprirlo di baci. L’aveva amato dal primo istante.
Ora che era entrata nel quarto mese e la nausea era passata, poteva godersi quel che restava del viaggio. A Tangeri avrebbe finalmente tolto gli abiti occidentali, che iniziavano ad andarle un po’ stretti, e indossato una più comoda djellaba. Icolina e suo nonno le avevano già detto che sarebbero rimasti con lei fino al termine della gravidanza, in modo da aiutarla con il parto, e lo stesso aveva fatto Raoul. Non le aveva spiegato il motivo della sua decisione, ma probabilmente voleva soltanto un po’ di compagnia.
«Signorina?»
Electra alzò lo sguardo. In piedi, accanto alla panchina su cui sedeva, stava un ragazzo sorridente e ben vestito.
«Sì?»
Il ragazzo si tolse il cappello.
«Bella giornata oggi, vero?»
«Sì.»
«Posso sedermi?»
Electra guardò il cielo per un istante, toccò involontariamente, di nuovo, la fede che aveva all’anulare.
«Mio marito mi aspetta», disse ad alta voce, come sovrappensiero «Quindi no, mi spiace.»
«Ah, capisco. Mi scusi.»
«Di nulla.»
 
 
“Raoul?”
“Sì, capitano?”
Sono sul ponte di comando dell’Exelion, Raoul è chino ad allacciare alcuni cavi.
Lo ascolta, però, è pronto a eseguire qualsiasi ordine Nemo stia per dargli.
“Se dovesse succedermi qualcosa…”
Se.
“… aiutala. Aiutala come hai sempre fatto.”
Raoul si alza, lo osserva.
Nemo guarda i finestroni oscurati dell’Exelion, con occhi lontani.
Occhi che si fanno commossi, all’improvviso.
“Aiuta mio figlio.”
 
 
 
Raoul osservò Electra che respingeva il ragazzo, non senza un moto di apprensione. Si era preoccupato per lei costantemente nel corso degli ultimi tredici anni e, dopo la battaglia, aveva cercato di starle vicino come meglio aveva potuto. Non sempre lei lo permetteva. Raoul capiva bene che era passato poco tempo dalla morte di Nemo, era ovvio che lei non pensasse a rifarsi una vita.
Temeva, però, che tornasse a chiudersi in se stessa.
«Electra?» la chiamò.
Lei finalmente s’accorse della sua presenza, si voltò, gli sorrise.
Un sorriso che scaldò il cuore del vecchio per quanto era sincero, quasi infantile.
«Buongiorno, Raoul.»
«Non avresti dovuto mandar via quel povero ragazzo così. Voleva solo fare due chiacchiere.»
Electra sbuffò.
«Non volevo che mi disturbasse oltre. Che vada da Grandis, se vuole attaccare bottone.»
Raoul rise. L’abitudine e l’astio erano duri a morire.
Si sedette accanto a lei.
«Io posso, almeno?»
Electra annuì.
«Verrò con te a Tangeri», disse Raoul.
«Lo immaginavo.»
Raoul guardò l’orizzonte, la vicina costa sabbiosa dell’Egitto. Erano ormai all’altezza del Tropico del Cancro. Lui ed Electra non avevano mai parlato della situazione, in effetti.
«Non vedo l’ora di guardare il viso di suo figlio.»
Lo disse con voce pacata, tranquilla. Electra non parve sorpresa.
«Te l’ha detto, quindi. Immaginavo anche questo.»
Esitò per un attimo, poi gli strinse la mano.
«Ne sono felice, dico davvero. Avevamo deciso di non dirlo non perché non ci fidassimo, ma per evitare distrazioni e chiacchiere. E per evitare che mi costringeste in qualche modo a rinunciare alla missione.»
«Non l’avremmo mai fatto, lo sai.»
Electra sorrise.
«Elusys ci ha provato fino alla fine.»
Raoul la osservò, sorpreso. Era la prima volta che le sentiva usare il vero nome del capitano, da anni.
«“Non riuscirò mai a convincerti a rimanere a terra, vero?”, mi disse. “No”, risposi io. Questo proprio l’ultimo giorno prima della partenza per lo spazio. Ma litigammo per settimane al riguardo, specie dopo che scoprii di essere incinta. Lui era… protettivo, voleva proteggerci a tutti i costi. Io però sono testarda.»
Quasi pianse, Electra. Tentò di ignorare le lacrime agli occhi, poi prese un fazzoletto e le asciugò.
«Scusami», disse, «Non vorrei piangere, so che ti faccio preoccupare.»
Raoul scosse la testa.
«Avevi più diritto tu di essere là sopra che tutti noi messi insieme. Lui lo sapeva.»
Electra non ribatté e Raoul continuò.
«Sono convinto che sapesse da sempre come sarebbe andata a finire. Lo chiamavano, i suoi demoni.»
Ancora una volta, lei restò in silenzio. Raoul aveva ragione. Sapevano perfettamente entrambi come sarebbe andata a finire. Il giorno in cui Elusys aveva tolto la pietra azzurra dalla Torre di Babele e aveva causato la distruzione di Tartesso, aveva compiuto un gesto apparentemente sensato. Qualcosa che la ragione riusciva a comprendere bene. Aveva probabilmente donato qualche anno in più di pace al mondo. Il gesto, però, s’era tramutato nel corso degli anni in una colpa che l’aveva logorato. Finché, sulla plancia del Nautilus, non aveva ammesso che era stato un errore.
Aveva capito, nel tempo, che ogni vita è preziosa in quanto tale.
Aveva capito che i morti di Tartesso non erano questione di numeri, o di male minore.
Aveva capito e aveva deciso di vivere col senso di colpa fino a che l’esistenza non gli avesse chiesto il conto. Era vissuto a braccetto con la morte, l’aveva corteggiata come un’idea fissa. La sua e quella di Gargoyle. Sapeva che la sua sarebbe stata una lotta che avrebbe richiesto, prima o poi, di mettere in gioco la vita. Era un uomo saldo, però, di grande intelligenza. Non si sarebbe mai ucciso. Anche se il dolore era immenso. Quello era il peso delle sue colpe.
«Non è mai riuscito a perdonarsi», disse Electra, «Ma d’altra parte al posto suo non ce l’avrei fatta nemmeno io. E forse non l’avrei mai amato così tanto se, dopo aver fatto quello che aveva fatto, avesse continuato a vivere come se niente fosse.»
C’era stato un momento in cui l’aveva odiato, era vero. Ma era stato un momento, perché lo conosceva e sapeva quanto avesse sofferto. Quanto ancora soffrisse. Aveva ascoltato il suono dell’organo con le orecchie di chi ascolta un pianto.
Raoul rifletté.
«Se non è impazzito dal dolore nel corso degli ultimi tredici anni, è stato anche perché ha avuto te accanto. Ti ha sempre voluto bene, più di quanto lui stesso osasse ammettere. E nell’ultimo periodo era cambiato. Era sereno.»
«Lo so. Siamo stati felici, Raoul. Immensamente felici. E lui non è morto per espiare le sue colpe. Aveva capito da tempo che i suoi morti, invece, l’avevano perdonato.»
Era morto per donarla, la vita.
L’aveva tolta, a Tartesso, a migliaia di innocenti.
L’aveva restituita a Jean, l’unico che nella lotta contro Gargoyle era un vero innocente.
E a Nadia, a lei, a suo figlio, all’equipaggio. Alla Terra intera.
Aveva espiato più che abbastanza.
«Non avevamo fatto progetti per il futuro», aggiunse «proprio perché eravamo consapevoli di quanto precaria fosse la nostra situazione. Io stessa ero pronta a morire, se fosse stato necessario. E mi dispiace dirlo, ma se non fossi stata incinta o se non lo avessi saputo forse avrei scelto di disobbedirgli ancora, di restare con lui sul Red Noah. Ma poi penso che sarebbe morto odiandomi e mi si spezza il cuore.»
Si portò le mani al ventre.
«A essere sincera non so cosa farò d’ora in avanti. Non so neanche come faccio ad addormentarmi la sera sapendo che mi sveglierò e lui non ci sarà. Però gli ho promesso che l’avrei fatto.»
Cercava di pensare il meno possibile, a essere sincera.
Cercava di non ricordare, di non immaginare, di non pensare a un bambino che sarebbe cresciuto senza padre. Erano tutte stupidaggini ma, almeno per un istante, aiutavano a dimenticare il vuoto. Per un istante, appunto. Ma il presente era fatto di istanti inanellati uno dopo l’altro.
Raoul le cinse le spalle con un braccio.
«Se ti ha affidato il futuro, Medina», disse «è perché sapeva che ce l’avresti fatta.»
 
 
Apre gli occhi.
Non ha ben presente dove si trova.
Lui è sdraiato accanto a lei, la osserva.
Ha un’espressione appena un po’ sorpresa e l’aria di chi si è svegliato da un po’.
Il pensiero che possa essere stato sveglio a guardarla dormire la attraversa.
Non ci crede.
Eppure sembra così.
Lui allunga una mano, le accarezza piano i capelli.
Lei arrossisce, ancora incredula, nuda sotto lenzuola non sue.
Ricorda ogni cosa.
Allora si fa coraggio, gli si avvicina, gli posa un bacio sulle labbra.
“Buongiorno”, dice.
Ogni mattina per i successivi, ultimi quattro mesi.
Lui le sorride.
Un sorriso di occhi e labbra che lei non gli ha mai visto addosso da quando lo conosce.
Il sorriso di una persona felice.
 
 
Medina pianse, quella mattina.
Pianse dopo aver visto quel sorriso, consapevole del fatto che era stata lei a restituirglielo.
Sarebbero stati sempre i suoi tesori più preziosi, quella consapevolezza e quel sorriso.
 
 
 
Tangeri, Sultanato del Marocco, agosto 1890
 
 
Giunsero a Tangeri nel pieno del mese di agosto, con la temperatura che toccava e superava i trenta gradi. Dell’equipaggio del Nuovo Nautilus, a raggiungere il Mediterraneo erano stati Electra, Raoul, Icolina e suo nonno, Echo, Jean, Marie, King e Nadia, Grandis, Hanson e Sanson. Echo, in particolare, non aveva grandi idee riguardo al suo futuro. Avrebbe ripreso il mare, probabilmente, ma non prima di aver sposato Icolina. In verità era arrivato fino in Marocco per seguire lei. Poi forse sarebbe tornato in Francia coi ragazzi, per rivedere la sua famiglia.
«Casa nostra è nella Medina, non distante dal Grand Socco», disse Electra «È chiusa ormai da parecchio tempo, ma dovrebbe essere rimasto tutto com’era. Certo ci sarà da rimetterla un po’ in sesto.»
Il quartiere non era distante dal porto, per cui si inoltrarono a piedi per le stradine della città bianca. La Medina era un labirinto di vicoli, di casette bianche e negozi di spezie, tappeti e artigianato. Saliva dolcemente verso l’alto, costruita com’era su una collina, e la kasbah dominava il porto.
«Più tardi, quando farà un po’ più fresco, potremmo fare un giro», propose Raoul.       
«Perché no», rispose Sanson.
Non erano mai stati in Marocco e visitare una nuova città era sempre un’esperienza. Marie, in particolare, saltellava da una parte all’altra della via inseguendo King, che scappava attirato dai profumi. L’aria calda aveva un odore particolare, come di frutta e spezie.
Il palazzo che cercavano dava proprio sulla piazza del mercato del Grand Socco, e non aveva niente a che spartire con le piccole case più povere che si arrampicavano una sopra l’altra nella Medina. Era un palazzo a più piani, in stile coloniale francese.
«Quando Nemo lo comprò», spiegò Raoul «era ancora da restaurare. Dentro c’è anche un bel cortile, vedrete che vi troverete bene. Ah, potete fermarvi quanto volete, naturalmente. Non credo che Electra abbia nulla in contrario.»
Electra scosse la testa, sorridendo.
«Nessun problema.»
Era meglio così, avere persone intorno.
Sentire di meno la solitudine.
 
 
Il palazzo era in stile coloniale francese ma gli interni erano in stile marocchino e ricordavano un riad.
Si entrava su un cortile con una vasca a forma di stella nel mezzo, c’era poi un colonnato su cui affacciavano diverse stanze, tra cui un salotto che era stato ricolmo di cuscini e tappeti.
Le scale salivano, i gradini ornati da maioliche colorate.
I tappeti erano stati tolti, i mobili coperti da teli bianchi.
Filtrava il sole, in alto oltre il cortile.
Era stato più o meno così anche la prima volta che ci era entrata.
 
 
La bambina compie il suo primo passo oltre il cortile.
Resta incantata nel vedere le maioliche che ricoprono il muro.
È tutto polveroso, in parte da ricostruire.
Ma è una reggia.
Lei non ha mai visto un tale lusso.
La prima cosa che fa una volta sistemate le sue poche cose è un bagno.
Si toglie di dosso una crosta di polvere, si pettina i bei capelli biondi.
È già tutta un’altra cosa guardare il mondo da puliti.
Ha i lividi addosso, ancora.
Dell’esplosione di Tartesso.
Ci metteranno un po’ a sparire.
Tuttavia è tranquilla.
Sente le voci degli adulti oltre la porta, hanno iniziato a sistemare la casa.
È serena.
 
 
Era strano essere di nuovo in quella casa, dopo essere stati lontani per anni.
Era come ritrovare una vecchia amica.
Tutto era rimasto come l’avevano lasciato, sarebbe bastata una bella pulita e il palazzo sarebbe tornato la reggia di sempre. Solo, non ci sarebbe stato il padrone di casa.
Electra entrò nello studio che era stato di Elusys. Era certa che ci fossero ancora molte cose sue, tutto quello che non aveva portato sul Nautilus. Sotto ai teli bianchi c’erano la sua scrivania, la sua poltrona. C’era una pipa appoggiata sul portapipe, sembrava in attesa di essere accesa.
Electra tolse uno dei teli dalla poltrona e si sedette.
Odorava di cuoio.
Chiuse gli occhi, trattenne una lacrima.
Era strano pensare che tutto quello le appartenesse.
 
I ragazzi rimasero a Tangeri per due settimane. Si erano offerti di dare una mano a sistemare la casa, nonostante sia Electra che Raoul avessero fatto presente che non ce n’era bisogno, ma la forza di Sanson si era rivelata molto utile.
Echo aveva approfittato della pausa per parlare a Icolina della sua intenzione di andare in Francia.
«Ti andrebbe di venire con me?» le aveva chiesto.
Non era proprio una proposta, no, però… era un impegno.
L’infermiera gli aveva sorriso, dolce come sempre.
«Non posso», aveva risposto, ed Echo si era sentito morire.
Icolina, però, gli aveva preso una mano.
«Non è che non voglia venire con te, è solo che devo stare con Electra, per adesso.»
Era arrossita leggermente mentre parlava, e già questa era una risposta sufficiente.
 
Il vaporetto che avrebbe riportato Nadia, Jean, Marie, King, Echo, Grandis, Hanson e Sanson verso la Francia partiva nel pomeriggio. Andarono verso il porto, in attesa di imbarcarsi.
«Marie andrà a stare da una zia», diceva Sanson «ma cercheremo di stare tutti in contatto.»
Icolina si accomiatò da Echo regalandogli un suo fazzoletto ricamato. Echo, che non aveva nulla da offrire, le baciò galantemente la mano e promise di tornare a trovarla presto.
Jean diede a Electra un biglietto su cui aveva appuntato l’indirizzo di casa dei suoi zii.
«Scriva, mi raccomando. Vogliamo sapere come sta. Anche Nadia sarà contenta.»
Electra annuì.
«Senz’altro.»
Guardò Nadia. Sembrava un po’ pensierosa, ed era incredibile quanto la sua espressione somigliasse a quella del padre.
«Nadia?» la chiamò.
Lei alzò gli occhi, i begli occhi verdi come quelli della madre.
«Sì?»
«Allora ci sentiamo», le disse.
Non avevano più parlato di Nemo né del bambino che sarebbe nato. Non avevano quasi più parlato di nulla dal giorno in cui s’erano abbracciate piangendo in una tenda della baia di Suruga. Non aveva idea di cosa pensasse Nadia, se fosse felice di avere un fratello, di avere lei come matrigna. Non sempre era corso buon sangue tra loro, ma Electra non l’aveva mai davvero odiata. L’aveva temuta, sì, aveva avuto paura di quello che rappresentava per Nemo, ma non c’era mai stato odio nelle sue parole o nelle sue azioni. Nadia era una vittima tanto quanto loro e aveva sofferto altrettanto, in modo diverso.
Sperava davvero che, col tempo, sarebbero riuscite a costruire davvero un rapporto.
Anche per il piccolo, che aveva diritto ad avere una sorella.
Electra sperava che Nadia avrebbe sentito un po’ meno la solitudine. Riusciva a capirla, in parte, comprendeva lo smarrimento di essere rimasta l’unica atlantidea sulla Terra. Era qualcosa di insensato razionalmente, ma Electra era conscia del fatto che la consapevolezza delle sue origini non l’avrebbe mai abbandonata.
Non aveva mai abbandonato neanche Nemo, che aveva deciso di vivere in pace con gli umani ma non si era mai davvero mescolato a loro. Tartesso era stata una città isolata, considerata quasi una leggenda dalle popolazioni che ne erano a conoscenza. Il popolo di Atlantide, fin da tempi remoti, era stato venerato.
Infine, prima ancora, Nadia era una ragazzina ed era cresciuta da sola tra mille difficoltà.
Quando finalmente aveva trovato suo padre, l’aveva perso.
Dovevano esserci momenti in cui la solitudine le sembrava intollerabile.
Electra sperava che almeno l’amore non l’avrebbe mai lasciata.
Nadia le sorrise.
«Certamente», rispose.
Restava una sola cosa da fare.
Electra si voltò a guardare Grandis, Hanson e Sanson.
«Grazie», disse loro, di tutto cuore.
Avevano fatto tantissimo e si meritavano tutta la sua gratitudine.
Hanson la guardava con le lacrime agli occhi, Grandis con uno sguardo che non riusciva a decifrare. Stava per voltarsi e andarsene quando fu proprio la voce di Grandis a fermarla.
«Ehi.»
Rozza come al solito.
«Vedi di non sentirti troppo superiore solo perché mi hai battuta.»
Electra socchiuse gli occhi. In quei mesi di viaggio e nelle ultime due settimane si erano cordialmente evitate, una da una parte una dall’altra, e si erano parlate il meno possibile. Electra capiva perfettamente a cosa Grandis si riferisse, per cui non rispose. C’era qualcos’altro a trattenerla. Vedeva che Grandis soffriva e non riusciva a detestarla quanto avrebbe voluto. Non avrebbero potuto essere più diverse eppure avevano al contempo molto in comune. Erano entrambe delle comandanti, sia pure in modo diverso, ed Electra sapeva che Grandis aveva amato sul serio Nemo, nella sua maniera sincera e schietta. Un tempo era quasi impazzita di gelosia, ora avrebbe quasi voluto ringraziarla per questo.
«Dimmi solo una cosa», le chiese Grandis.
Non sfuggì a Electra il lampo di dolore negli occhi azzurri di Grandis.
«È stato felice?»
Si osservarono per un lungo attimo. C’erano cose che non sarebbero mai cambiate. Probabilmente avrebbero continuato a farsi la guerra per tutta la vita, proprio perché erano due comandanti. Però si rispettarono. Si rispettarono e, non ebbero dubbi, sarebbe stato vero anche quello per sempre.
«Sì», rispose «È stato felice.»
Non ci fu altro da aggiungere.
 
 
 
- continua -


 
 
N.d.A. Mi scuso per il lieve ritardo nell’aggiornamento ma ho avuto un fine settimana un po’ movimentato. Spero che vi sia piaciuto il capitolo, siamo sempre nella parte più strettamente introduttiva. L’unica cosa che ho da dire è che per ragioni di storia spesso e volentieri ci saranno dei balzi temporali anche di mesi o anni fra capitolo e capitolo, comunque saranno adeguatamente indicati e introdotti. In questo caso abbiamo Electra che è al quinto mese di gravidanza, il bambino difatti se tutto va bene dovrebbe arrivare nel prossimo capitolo (nascerà a dicembre).
Nel prossimo capitolo si dovrebbe anche parlare un po’ più di Nadia.
A presto!
 
Vitani
   
 
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