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Autore: maybeitsadream    05/02/2019    0 recensioni
1944, Barcellona.
Ognuno ricorda, ognuno sa cos'ha sepolto sotto la cenere. Liam ha seppellito suo fratello, Zayn la sua personalità.
Importante: i familiari dei protagonisti, a eccezione della mamma di Liam, avranno nomi diversi da quelli reali.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ricominciammo a vederci, a parlare come facevamo un tempo, come se non ci fossero tra noi quasi due anni di silenzi, di assenza, di avvenimenti che ci avevano cambiato nel profondo.

Mi disse che ormai viveva nella sua vecchia casa e che aveva ricominciato a lavorare nella libreria del signor Martínez, che aveva sentito tanto la mancanza di Barcellona, delle sue strade e dell'atmosfera di cui queste si circondavano quando c'ero io al suo fianco. C'era tornato stabilmente dall'Ottobre del 1945, dopo aver realizzato di non voler vivere lontano dal posto che gli aveva tolto tutto e poi restituito altro; i suoi genitori lo avevano accolto con un abbraccio disperato, ancora distrutti dalla lontananza a cui li aveva costretti per tanto tempo, e poi lo avevano appoggiato, anche se timorosi, spaventati. Avevano parlato tanto, mi disse, anche di me. 

I signori Serrano non gli avevano proibito di cercarmi o di vedermi. Non comprendevano la sua natura, il suo bisogno di amare qualcuno del suo stesso sesso, ma quell'anno di lontananza da Liam li aveva posti di fronte alla possibilità di perdere anche lui. E non potevano permetterlo: non potevano rischiare di essere abbandonati e odiati dal loro primo figlio; per questo cercarono di accettare quella situazione, per questo non lo fecero mai rinchiudere nel penitenziario. Lo amavano molto. 

Non mi disse mai dove aveva cominciato a ricostruirsi da solo, e io non glielo chiesi.

Per un paio di mesi - forse tre - ci incontrammo tutte le sere lì dove ormai viveva da solo. Gli raccontai tutto quello che era cambiato nella mia vita da quella notte: la mia abitazione, la mia posizione sociale, le mie disponibilità. Non accennai mai, in quei mesi, ai miei sentimenti; certo, non potei evitare di tirare fuori dalla bocca tutta l'angoscia e il malessere che provavo da quando don Federico era morto e la piacevole tranquillità che Gracia o Alicia erano capaci di regalarmi per qualche ora, ma tacqui sempre quando i suoi occhi, ancora dolci e sempre irresistibili, mi domandavano di aprirmi completamente. Non gli dissi che lo amavo ancora, non ne vedevo il bisogno: sapeva che non avevo dato peso alla richiesta contenuta in quella lettera, glielo avevo confessato il giorno del funerale; che senso avrebbe avuto ripetermi? Cosa sarebbe cambiato se gli avessi ribadito che non avevo smesso di amarlo? Che non avevo dimenticato niente di noi due, dei mesi trascorsi insieme, i più belli di tutta la mia vita, che non avrei mai avuto il coraggio di cancellare i nostri ricordi. Lui sapeva, me lo dicevano i suoi occhi, e in fondo andava bene così.

Era, quella, una fase di stallo all'interno della nostra storia: ci mancavano le forze per compiere dei passi, avanti o indietro che fossero. E sapevamo entrambi che prima o poi quel precario equilibrio sarebbe scoppiato perché non ce l'avremmo fatta più a farci bastare quella quiete neutra e imbarazzata, eppure lasciavamo correre. Credevamo che il tempo avrebbe messo a posto tutto, che le cose sarebbero cambiate. Ingenuamente, avevamo fiducia nel cambiamento.

Fu un duro colpo accettarlo, per me. Il mio animo ribelle, quello che mi aveva fatto abbandonare casa mia, mia madre e la mia città, era tornato sotto metri di cenere, assopito, quasi privo di sensi, prossimo alla morte probabilmente. Non ero più io, perché mi ero abbandonato alla non vita per troppe volte: forse non meritavo più di sperimentare i brividi mozzafiato.

Ero cosciente di quanto fosse pericoloso il riavvicinamento mio e di Liam, molto più di lui. Lui che, nonostante avesse subito di più, nonostante fosse stato privato perfino della sua dignità, aveva avuto la forza e la voglia di ricominciare, di andare avanti. Un ingenuo. E io un idiota, perché, sebbene sapessi che niente sarebbe cambiato, continuavo a sperarci.

Lo facevo per Liam. O forse, egoisticamente, lo facevo per me, perché ero stanco e avevo urgenza di aggrapparmi a qualcosa che non fosse la mancanza. 

Arrivammo al punto di non ritorno a Luglio, quando mi chiese di accompagnarlo a Montjuïc perché aveva bisogno di parlare con Andrés. Diedi di matto e non fui capace di trattenere nulla: gli riversai addosso tutta la mia infinita tristezza, la mia furia, la mia rabbia. 

Se ci ripenso adesso, so quanto io sia stato illogico, ma all'epoca ero accecato, immerso fin troppo in quella faccenda, ed essere arrabbiato con Liam sembrava essere l'unica valvola di sfogo funzionante. Perciò sì, ero profondamente arrabbiato con lui: perché diceva di amarmi ma andava via, perché non mi era stato accanto nei mesi infernali in cui stavo per perdere l'unica persona che si fosse mai davvero interessata a me e al mio benessere, perché non c'era quando la nebbia mi opprimeva i pensieri e la pioggia batteva così forte da farmi tremare di paura.

Sbottai alla sua richiesta e non me ne pentii in quel momento. Lo accusai di avermi sempre mentito, di essersi preso gioco di me, di avermi abbandonato e di essere tornato solo per distruggermi ancora. Gli dissi che sapevo che aveva capito che lo seguivo nelle sue passeggiate l'anno prima e che il fatto che lui non si fosse mai voltato per sorridermi o salutarmi o invitarmi a camminare al suo fianco confermava tutto ciò che stavo dicendo. Sputai veleno dalla mia bocca, e lui me lo lasciò fare. Perfino quando pronunciai di essere andato a trovare Andrés in quei due anni e di essermi pentito di avergli chiesto perdono per aver fatto del male all'uomo che amavo, perfino allora non mi tappò la bocca.

Mi ascoltò mentre impazzivo dal dolore e mi dicevo felice perché lui era tornato. Non mi interruppe nonostante stessi buttando fuori frasi contrastanti. Rispettò la mia sofferenza e mi permise di sfogarla tutta.

Solo quando il pianto divenne troppo forte per farmi proseguire mi abbracciò. Mi accarezzò la nuca e il collo e ricordo di non aver capito più nulla in quel momento, perché Liam era lì, accanto a me, e mi aveva ascoltato e non era scappato di nuovo, era rimasto e mi stava abbracciando. 

«Perché non volevi che ti chiedessi di restare quando ti ho portato qui?», mi domandò tempo dopo. Sentivo il suo sguardo insistente addosso, come se volesse assicurarsi che stessi bene, che non crollassi ancora. Mi dissi che non me lo meritavo, né lui né il suo amore. Eppure ce li avevo entrambi.

«Perché sarebbe stato sbagliato», risposi con un filo di voce.

«Cosa, passare la notte con me?»

Annuii e «Tu hai sofferto a casa mia, Liam, e anche la tua famiglia», continuai. «Non potevo- io non posso permettere che accada ancora.»

«Anche io ho fatto soffrire te.»

«È stata una conseguenza. Ho cominciato io. E tu dovresti odiarmi.»

«Invece continuo ad amarti, Zayn.»

Non risposi. Lasciai che il silenzio reagisse alla sua dichiarazione e sperai che capisse che in quel momento non mi sentivo in grado di reggere oltre. Andai via e trascorsi la notte a riflettere, a ripercorrere mentalmente la nostra conversazione. Mi pentii di averlo accusato ed ebbi l'istinto di tornare da lui e implorare il suo perdono, ma mi sforzai di restare lì dov'ero: dovevo fare pace con me stesso prima di commettere qualsiasi altra azione.

Capii che lui si era ricostruito da solo e che, se aveva detto di amarmi, lo aveva fatto perché aveva abbastanza coraggio per farlo, perché era cresciuto, era diventato un uomo e non faceva schifo come tutti gli altri, come me. Piansi perché lo avevo offeso e invece avrei solo dovuto complimentarmi.

Aveva affrontato un processo di conoscenza di se stesso che io mi stavo proibendo, ed era stato proprio questo a salvarlo. 

Avrei dovuto andar via anch'io? Magari tornare in Inghilterra, da mia madre, e ripresentarmi a Liam una volta ripreso possesso di me. Ma a cosa sarebbe servito trascorrere del tempo nella mia vita del passato, lontano dai fantasmi di Barcellona? 

Mi sentivo un fallimento. 

Avevo abbandonato mia madre per inseguire degli ideali che non avevano trovato la vittoria. Non avevo impedito la morte di un ragazzino innocente che cercava sua madre e piangeva perché aveva paura. Avevo vissuto per strada e nelle celle putride del carcere, divorato dalla vergogna verso me stesso. Ero stato violato, umiliato, picchiato, messo all'angolo e mai difeso. Avevo trovato protezione in un uomo per bene che mi aveva fatto conoscere l'amore e mi aveva regalato un futuro che stavo ingiustamente sprecando. L'avevo perso. E insieme a lui avevo perso ogni voglia di lottare, di credere in qualcosa, anche solo in me stesso. Non avevo impedito che facessero del male all'uomo che amavo. Non lo avevo cercato quando era andato via. Non gli permettevo di tornare davvero.

Ed ero profondamente infelice.

Alle otto del mattino, stremato dai troppi pensieri, chiesi a Gracia di farmi un caffè e, dopo averlo bevuto, uscii di casa. Non guardai negli occhi la gente con cui mi scontravo, non salutai nessuno, non respirai nemmeno quasi.

Mi concessi di crollare ancora solo quando arrivai in cima, più vicino al cielo, sul Tibidabo

Per diverso tempo guardai le attrazioni e il parco popolarsi, sforzandomi di non pensare a quando c'ero stato con Liam e fallendo miseramente. Non riuscii a impedire alla mia mente di farmi rivedere quei momenti, come fotogrammi felici di una vita passata e già finita, incastrata in un intervallo troppo breve per poter essere mai considerata dagli altri. 

Barcellona splendeva sotto il cielo luminoso di quella bellissima giornata di Luglio, e osservavo la sua perfezione dall'alto della mia nullità, nel punto esatto in cui prima mi sentivo il padrone del mondo. Non avrei mai avuto l'opportunità di essere qualcuno, per il mondo: troppo vigliacco, troppo egoista, troppo poco incline a vivere per davvero.

Sarebbe stato facile farla finita da lassù, ma non ci pensai nemmeno per un secondo.

Mi avvicinai alla fila per la ruota panoramica. I bambini saltellavano eccitati e battevano le mani, non vedevano l'ora di salirci e di stare così in alto. Sorrisi quando uno di loro si mise a sedere e, con occhi grandi e sognanti, chiese alla sua mamma di affiancarlo. C'era tanta vita lassù.

Mi sentii toccare una spalla e mi voltai. Non per curiosità, perché sapevo già chi fosse, ma perché volevo vederlo.

«Vieni con me», mi disse.

Avevo il cuore spaccato a metà, sapevo di dover fare qualcosa per tornare a stare bene e che sarebbe stato meglio rifiutare e andarmene. Ma «Come farai a convincermi?», mi ritrovai a chiedere.

Vidi il suo sorriso ingrandirsi e i suoi occhi illuminarsi. «Ti darò una rosa», promise.

   
 
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