Storie originali > Epico
Segui la storia  |       
Autore: CHAOSevangeline    06/02/2019    2 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
VI.
Apollo e Giacinto




«Hai intenzione di spiegarmi per bene cosa vuole quel tizio?»
Erano seduti nella macchina di Apollo da un po’, qualche bacio a scaldare l’atmosfera umida di quel piovoso pomeriggio. Lontano dal campus, lontano da tutto. Era accaduto giorni prima.
«Zefiro. Te l’ho presentato, no?»
«Hai capito che intendo.»
«È un amico.»
«Ah, davvero? Ti ostini a dirmi questo?»
E così Apollo aveva scoperto tutta la verità. Aveva scoperto di Zefiro, di come aveva conosciuto Giacinto, della sua capacità di trovarsi sempre casualmente nei paraggi a condizione ci fosse Giacinto.
Inquietanti coincidenze che al fidanzato avevano iniziato a stare strette.
«È solo questo, Giacinto?» aveva chiesto Apollo. «Ti senti minacciato per questo?»
Giacinto si era mordicchiato il labbro, aveva esitato.
«Una volta siamo usciti insieme e beh… credo pensasse che il nostro fosse un appuntamento?» aveva cominciato Giacinto. «Mi ha preso la mano, ma io non volevo e ho trovato ogni scusa per allontanarmi. Siamo anche usciti prima dalla sala e ho chiesto a Polybea di venirmi a prendere, di nascosto. Ma lui voleva accompagnarmi, voleva che rientrassi con lui.»
Giacinto ricordava ancora quella sera, la ricordava bene. Zefiro non si era mai reso conto di quanto lo avesse spaventato e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla per farglielo capire: aveva sperato che un cortese distacco sarebbe stato sufficiente, perché Giacinto era buono, era gentile e sapeva quanto Zefiro avesse sofferto; gli aveva raccontato dei bulli del suo passato e Giacinto stesso li aveva visti. Una volta aveva addirittura risposto male ad alcuni di loro, quando avevano urtato Zefiro con la spalla per fargli cadere dei libri.
«Siete dei bambini, quando crescerete?» aveva detto.
Lo aveva difeso perché non gli facevano paura, non come aveva iniziato a fare Zefiro.
Perché Giacinto avrebbe voluto essere solo amico di Zefiro.
Solo questo.
Eppure ricordava la mano del ragazzo che continuava a prendere la sua. Ricordava le sue invadenti domande quando Giacinto, agitato, era uscito dalla sala del cinema per prendere una boccata d’aria che, seduto sulle poltroncine, sembrava mancargli.
E ricordava quando aveva insistito perché salisse in macchina e nella testa di Giacinto erano comparsi i peggiori scenari. Polybea era arrivata appena in tempo, da quel momento Giacinto aveva cominciato a evitarlo.
Perché Giacinto stava lontano da Zefiro da molto prima di incontrare Apollo; da dopo quell’appuntamento.
Trovava i suoi messaggi, le sue chiamate. Trovava dei biglietti nei libri di scuola e non sapeva come fosse possibile, ma tutto si esauriva in quelle mura.
Gli stava lontano e si fingeva felice di vederlo perché temeva che altrimenti avrebbe incrinato un equilibrio sottile che il ragazzo manteneva per miracolo.
Giacinto non aveva bisogno di questo.
Giacinto aveva bisogno di Apollo. Aveva bisogno della luce, della dolcezza del ragazzo.
Perché era cortese Giacinto, era buono e Zefiro aveva sofferto. Ma non era una giustificazione, non era giusto costringersi ad avere paura per il suo bene, un bene falso che nemmeno lo avrebbe fatto crescere.
«Se dovesse importunarti ancora ci penserò io.»
«Non devi, Apollo! Davvero, va bene così.»
«No, neanche un po’. Non credevo stessi passando qualcosa di simile.»
Giacinto credeva di avere la situazione sotto controllo. Lo credeva davvero.
Credeva che Zefiro non avrebbe mai toccato Apollo e che pian piano si sarebbe semplicemente allontanato.
Quel giorno aveva ricevuto la conferma che le sue speranze erano state troppo rosee.
«Ehi, Giacinto!»
La voce di Zefiro lo raggiunse mentre attraversava il piazzale del campus per raggiungere il parcheggio. Gli venne spontaneo: si voltò, ma non smise di camminare.
«Ehi, Zefiro», ricambiò, nemmeno più servendosi del soprannome che usava di solito.
Da quando lo aveva visto presentarsi ad Apollo, Giacinto aveva compreso che doveva allontanarsi da quel ragazzo, che non c’era più nulla da salvare se non Apollo stesso. E Giacinto non sapeva spiegarlo, ma sentiva in cuor proprio che se fosse rimasto amico di Zefiro, se si fosse anche solo finto tale, Apollo sarebbe stato nei guai, ne avrebbe sofferto.
E Giacinto non voleva questo, non lo voleva per nulla al mondo.
Però anche Zefiro si era accorto di quel cambiamento nel suo tono, nel modo in cui lo aveva chiamato.
«Aspetta un attimo, Giacinto!»
Aveva accelerato il passo per raggiungerlo e Giacinto si disse che avrebbe solo dovuto camminare un poco più in fretta, che già vedeva il rosso scarlatto della carrozzeria dell’auto di Apollo.
Ma se lo avesse portato fin lì e fosse fuggito via, cosa avrebbe risolto?
Non sapeva cosa volesse Zefiro: se proporgli di uscire passando per la vittima ignorata della situazione, o cos’altro. Forse voleva rincarare a voce le calunnie inviategli per messaggio, su Apollo, perché era stato capace anche di questo, di inoltrargli una vecchia foto che ritraeva Apollo e una ragazza, e corredarla di una semplice domanda: «Credi che accadrà di nuovo?»
No, Zefiro non era la vittima e Giacinto era troppo buono.
Ma non era sciocco e doveva proteggere il ragazzo che amava.
Giacinto aveva ignorato, ignorato, ignorato. Aveva soprasseduto, ma solo in vista di un momento migliore.
Smise di camminare, prese un respiro e si voltò.
«Adesso basta.»
Giacinto era immotivatamente spaventato, perché nel parcheggio c’erano diversi ragazzi, persone che aveva incrociato e persone che non conosceva. Ma non era solo, di fronte a Zefiro.
Pensò ad Apollo, seduto nell’auto qualche metro più avanti e si sentì più forte.
Zefiro lo guardò, confuso.
«Che cosa…»
«Fa parlare me!» sbottò il ragazzo, nervoso. «Sono stanco… perché non capisci che devi smetterla? Potevamo essere amici, potevamo esserlo, ma continui a comportarti come se fossi la vittima quando invece non lo sei!»
Giacinto strinse le mani in due pugni duri, serrati.
«Sono felice con Apollo, sono davvero felice grazie a lui. E se tu tenessi a me come dici di fare, allora proveresti ad essere felice per me e non faresti… così.»
Zefiro aveva gli occhi sgranati, le labbra schiuse. Ma non c’era solo sorpresa, non sembrava essere solo scosso perché l’uccellino che credeva di tenere fra le proprie grinfie si stava ribellando, troppo forte persino per i suoi artigli acuminati. No: Zefiro era furioso. Furioso perché lui, i propri torti, non li vedeva.
Non vedeva il modo in cui aveva soffocato Giacinto.
Non vedeva il modo in cui lo stava spaventando e ferendo.
Non vedeva nulla perché Zefiro credeva di avere ragione. No, lui sapeva di averla.
Ed era colpa di Apollo. Era colpa di Giacinto.
«Quindi ora me ne vado e per favore, per favore, smettila di cercarmi. Non può funzionare per nessuno», spiegò. «E lascia fuori Apollo, non mi ha detto lui di parlarti in questo modo.»
Furono quelle ultime parole a far infuriare Zefiro. Lo resero la belva che temeva di diventare, ma che non aveva fatto nulla per soggiogare.
Ringhiò e iniziò a camminare verso Giacinto.
«Non sei tu che stai parlando, non ti rendi conto che è stato lui a farti diventare così?!»
Ormai erano quasi giunti alla macchina di Apollo.
«Finiscila!» rispose Giacinto, nervoso.
Diverse persone si erano fermate per ascoltare cosa stesse succedendo.
«Sei tu il problema, sei tu!» gridò ancora Giacinto.
Il rumore sordo di una portiera.
«Ehi!»
Apollo era sceso dall’auto perché Giacinto non urlava mai. Uno sguardo allo specchietto retrovisore era stato sufficiente per fargli capire che cosa stesse accadendo e la gravità della situazione. Si era gettato in soccorso del suo amato.
Giacinto si mise in mezzo, lungo il cammino di Apollo e poggiò le mani sul suo petto.
«No, no Apollo… lascia stare, ti prego. Andiamo via, è tutto risolto.»
Giacinto lo guardò, vide l’espressione rabbiosa sul volto del fidanzato e gli prese il viso fra le mani. Lo guardò negli occhi e provò a sorridergli.
«Va tutto bene, andiamo via.»
Apollo lo guardò qualche istante e in quegli occhi verdi ritrovò la ragione, il senno. Non c’era nulla che gli impedisse di spaccare la faccia a Zefiro se non Giacinto. Per lui Apollo avrebbe dato il peggio di sé, si sarebbe abbandonato ai flutti dell’ira. Ma per lui voleva anche essere migliore.
Si placò e annuì, accarezzando a propria volta il viso di Giacinto prima di sospingerlo verso l’auto, quasi lo stesse mettendo al sicuro.
Quando Apollo alzò il capo, Zefiro si fermò. Non perché avesse paura, non perché avesse visto Apollo scendere dall’auto e fulminarlo, dopo aver udito quel trambusto. Non perché lo aveva visto corrergli in contro in preda alla rabbia.
Ma perché Zefiro si convinse di aver visto sul suo viso un sorriso.
Era Apollo che aveva cambiato Giacinto, era stato lui.
E mentre lo guardava aggirare l’auto e far salire Giacinto, mentre lo portava via, Zefiro continuò a pensarlo.
Era tutta colpa sua.
 
 
Giacinto non avrebbe mai potuto dimenticare in fretta quanto era accaduto quel giorno nel parcheggio. Non avrebbe potuto dimenticare lo sguardo folle di Zefiro, la paura che Apollo scendesse dall’auto. Non avrebbe potuto dimenticare nulla per molto tempo, ma adesso andava tutto bene.
Giacinto si era tolto un peso e in cuor suo era certo che questo avrebbe reso molto più felici sia lui che Apollo.
Si era sfogato fra le sue braccia, in auto. Aveva tremato e aveva singhiozzato e ancora portava i segni di quelle lacrime, come piccole borse arrossate sotto i suoi occhi.
Ma andava tutto bene.
Apollo gli aveva sussurrato all’orecchio che era forte, che non avrebbe dovuto affrontare più nulla da solo. Gli aveva sussurrato che era il suo piccolo eroe coraggioso e Giacinto si era sentito invincibile.
Sarebbe andato tutto bene e Giacinto lo sapeva, lo sapeva perché in quel momento nulla poteva toccarli: Giacinto era stretto fra le braccia del suo Apollo, sul divano di casa. Stavano guardando uno sciocco programma televisivo mentre in casa non c’era nessuno; si scambiavano morbidi baci, qualche carezza maliziosa perché nessuno li avrebbe visti.
Giacinto ridacchiava e si sentiva al sicuro.
La storia che aveva raccontato ad Apollo in macchina giorni prima, Zefiro, le grida nel parcheggio, ogni cosa era chiusa fuori, lontana.
Apollo aveva detto che lo avrebbe protetto e Giacinto sapeva che sarebbe stato così, che lo avrebbe fatto. Perché lui avrebbe fatto lo stesso.
Lo aveva visto scendere dall’auto appena qualche ora prima, fiero come un angelo della guerra. Aveva intimorito Zefiro solo con gli occhi.
Giacinto sentì un lieve solletico sulla pelle, colpa delle labbra di Apollo che stavano soffiando sul suo collo.
«Non stavamo guardando la televisione, mhn…?» domandò sottovoce Giacinto.
«Io non la stavo guardando…»
Giacinto ridacchiò, sollevando la coperta per avvicinarsi al fidanzato e rubare un bacio alle sue labbra. I loro respiri scaldavano il piccolo ambiente protetto dalla lana, mentre le loro labbra schioccavano le une sulle altre. Era maggio inoltrato, ma da qualche giorno pioveva o minacciava sempre di farlo, il vento spazzava gelido le strade.
Giacinto carezzò il viso di Apollo, saggiò quei lineamenti decisi che tanto amava e si sentì come il primo giorno in cui aveva iniziato a vivere quel sogno.
Nemmeno il trillo del campanello riuscì a rovinare quella sensazione.
«Chi è che rompe a quest’ora?» bofonchiò Apollo contro le morbide labbra di Giacinto.
Il ragazzo fece saettare lo sguardo verso il portoncino d’ingresso.
«Non so…» confessò, ancora distratto dal bacio di Apollo.
«Non andare ad aprire…» protestò Apollo, spostando i baci sulla guancia di Giacinto.
Il giovane ridacchiò, accarezzandogli i morbidi capelli biondi. Parve rinsavire.
«Dovrebbe essere Polybea, mi ha scritto che aveva dimenticato le chiavi e che sarebbe rientrata presto», spiegò, tentando di alzarsi.
«Se è Polybea non posso più starti appiccicato!»
«Stai forse suggerendo che dovrei lasciare mia sorella sotto il portico perché tu vuoi starmi appiccicato?» gli domandò divertito.
«Vuoi la verità? Sì.»
Giacinto sfuggì alla presa di Apollo e gli lanciò contro un cuscino, ridendo.
«Lei andrà in camera e sarò tutto tuo, non hai nulla di cui preoccuparti», lo rassicurò. «Basta che ti comporti bene e mi lasci fare piano…» aggiunse malizioso.
Si chinò e gli rubò un altro bacio prima di avviarsi verso la porta.
Apollo lo guardò andare, il cuscino che Giacinto gli aveva tirato stretto al petto.
Sentì la porta aprirsi.
In qualche modo gli parve di sentire dell’esitazione dall’uscio.
«Che ci fai qui…» cominciò. «… Zefiro?»
L’aria gelò.
Dal divano Apollo non poteva vedere l’ingresso della casa, ma captò la preoccupazione nella voce di Giacinto e immaginò che il ragazzo avesse parlato per metterlo in guardia.
Che diavolo ci faceva lì quell’idiota?
Giacinto sentiva freddo. Sentiva il sangue ghiacciare nelle vene come tutte le volte che aveva Zefiro di fronte, ormai. Era come se un vento freddo gli frustasse il viso, il corpo. Mordeva la pelle e lo faceva soffrire.
«Ero da queste parti e ho pensato di passare a scusarmi. Sai, per oggi nel parcheggio», disse il ragazzo.
Sapevano entrambi che era una bugia. Sapevano entrambi che se Zefiro era lì era solo perché voleva essere lì e non di certo perché si era ritrovato casualmente nei paraggi, essendo casa sua discretamente lontana.
Giacinto reggeva saldamente la maniglia della porta. Avrebbe potuto sbattergliela in faccia. Avrebbe dovuto.
«Scuse accettate. Ma quello che ti ho detto non cambia», rispose deciso Giacinto. «Ora scusa, ma… ci sono dei parenti e non è un buon momento.»
Mentì con il sorriso più convincente di cui disponeva. Zefiro pensò che fosse bello, anche se sapeva che gli stava mentendo: aveva visto la macchina di Apollo sul vialetto e non sentiva alcun vociare dall’interno della casa.
E come conferma lo vide comparire alle spalle di Giacinto.
Apollo, in tutta la sua statuaria bellezza, i capelli biondi sciolti a incorniciare il viso cesellato.
Ecco, Giacinto avrebbe voluto che non accadesse. Non avrebbe saputo come gestire una rissa, era il suo terrore più grande da quando Apollo aveva scoperto di Zefiro: non voleva che Apollo si facesse male e nemmeno che finisse nei guai a causa sua, non voleva comprometterlo in nessun modo. Temeva davvero ciò che Zefiro sarebbe stato in grado di fare e per la verità quando aveva detto il suo nome, con sforzo enorme, lo aveva fatto sperando che questo avrebbe tenuto Apollo saldamente ancorato al divano.
Si sbagliava.
Forse il fidanzato sentiva ancora il desiderio impellente di colpire la faccia di Zefiro, come gli aveva garantito che avrebbe fatto e come gli era stato negato di fare quel giorno nel parcheggio.
Giacinto era riuscito a fermarlo quel pomeriggio, non era certo di poterci riuscire di nuovo.
«C’è qualche problema?» domandò Apollo, raggiungendo il fianco di Giacinto. «Ah, ciao, Zefiro.»
Lo disse come se avesse avuto la conferma di un problema e quel problema stava esattamente dirimpetto a loro, sull’uscio di casa.
Zefiro voleva strappargli quel sorrisetto dalla faccia.
Il sorrisetto che era convinto di aver visto, quello strafottente e di scherno.
Ma lo vedeva solo Zefiro, perché Apollo era serio e non avrebbe mai osato sorridere, non a lui. Non voleva schernirlo, metterlo in ridicolo.
Il vecchio Apollo lo avrebbe fatto, quello che aveva conosciuto Giacinto, che era cresciuto grazie a lui invece no, perché era migliore.
Voleva solo che Zefiro se ne andasse e li lasciasse in pace, che smettesse di terrorizzare Giacinto.
«Ciao Apollo.»
Apollo vide Giacinto tremare appena e portò una mano sulla sua spalle.
Poi realizzò qualcosa, qualcosa che Zefiro non aveva mai fatto prima, nei suoi confronti: aveva sorriso.
Un sorriso malato, inquietante.
Capiva perché Giacinto tremasse.
«Siamo impegnati, ti dispiacerebbe…»
«Non così in fretta.»
Un rumore metallico e Apollo si trovò a fronteggiare la canna di una pistola puntata esattamente verso di lui.
«Zefiro, no! Cosa stai--»
Giacinto provò a intromettersi, ma Zefiro aveva gli occhi puntati in quelli di Apollo. Toccarlo avrebbe potuto significare farlo sparare.
«Non sei più così sicuro di te adesso, eh? Non sei più così strafottente», ringhiò. «Non mi dici più di levarmi dai piedi!»
Apollo lo fissò negli occhi. L’istinto primario era stato di tirare Giacinto dietro di sé, ma era più al sicuro lì, fuori da quello scontro, a qualche passo da loro. Preoccuparsi per lui lo aiutò a mantenere il sangue freddo.
Alzò appena una mano.
«Stai fermo!» sbottò Zefiro.
«Voglio solo far allontanare Giacinto», gli spiegò, con calma. «Sei qui per me, no? Non vuoi che lui si faccia male.»
Zefiro sussultò e annuì appena.
«Ma Apollo…» tentò di protestare Giacinto.
Il ragazzo gli fece cenno con il capo di allontanarsi e sperò, sperò che capisse davvero la sua idea.
«Sono stanco di vederti… il ragazzo perfetto che ha ogni cosa. Giacinto non era… così. Lo hai reso diverso… lo hai rovinato.»
Delirava, pareva un folle. E mentre Giacinto provava l’impulso di intromettersi, di tentare almeno di calmare Zefiro, Apollo sosteneva quello sguardo pazzo con occhi gelidi, ma fieri.
Era questo che Zefiro odiava di lui: la fierezza.
Perché era così?
«E pensi forse che sparandomi risolverai le cose? Pensi che lui ti vorrà a quel punto?»
«No! Non lo penso, ma almeno ti avrò tolto di mezzo!»
Il dito di Zefiro tremava sul grilletto.
Doveva prendere tempo, prendere tempo. Ogni secondo.
Giacinto stava lasciando parlare lui, mentre arretrava. Poi Apollo vide che aveva capito: si era avvicinato alla centralina dell’allarme.
Un piccolo cenno e il rumore assordante dell’antifurto risuonò per tutta la casa.
Zefiro si voltò verso Giacinto, un’espressione tradita in volto. Fu un istante utile per Apollo, che afferrò il braccio di Zefiro per fargli lasciare la pistola.
Ma maledizione, aveva una stretta di marmo intorno al calcio dell’arma.
«È finita Zefiro, lasciala andare!» gridò. «La polizia sarà qui fra poco!»
Ciò che ottenne in risposta furono dei ringhi sommessi, indice di tutto lo sforzo che Zefiro stava mettendo nel vano tentativo di caricare il suo corpo per fare in modo che lo lasciasse.
Non sembrava più nemmeno umano.
Apollo tentò di tenere il suo dito lontano dal grilletto in ogni modo.
Un colpo esplose verso l’alto.
Dov’era Giacinto, dov’era?
Non lo vedeva più.
Poi lo intercettò: si era avvicinato all’armadio dell’ingresso dove sapeva che suo padre teneva i ferri da golf.
Solo qualche istante e con un colpo Zefiro sarebbe stato a terra.
Apollo doveva solo dargli tempo.
Si ritrovò premuto contro la parete con tutto il peso di Zefiro e poi a spingerlo contro l’altra parete.
In preda alla disperazione Zefiro morse il suo polso, per fargli lasciar andare la presa sulla sua mano. E maledizione, fu una trovata geniale perché i nervi di Apollo risposero involontariamente al dolore, allentando la morsa sulle dita di Zefiro.
Con un calcio venne allontanato e fece giusto in tempo ad afferrare di nuovo il braccio di Zefiro per far cambiare traiettoria al proiettile della pistola. Lo avrebbe colpito se solo non fosse riuscito a deviarlo.
Un gemito.
Apollo sgranò gli occhi.
Giacinto si era spostato, non era più di fronte al salotto.
Era davanti alla porta d’ingresso ancora aperta nella fretta, dopo averli aggirati attraverso la cucina.
Nel caos della colluttazione, Apollo non lo aveva visto.
Il manico nella mano di Giacinto cadde a terra e tintinnò mentre una macchia rossa si spandeva sul petto del ragazzo.
«No… no… no!» gridò Apollo, precipitandosi verso di lui prima che cadesse.
Lo strinse fra le braccia e lo accompagnò sul pavimento freddo mentre il corpo molle di Giacinto si accartocciava al suolo. Ed era un po’ come se anche Apollo stesse crollando, sprofondando, insieme a lui.
Gli accarezzò il viso.
«Ehi… ehi… va tutto bene, andrà tutto bene», tentò di rassicurarlo.
Lo stava facendo per lui o per sé stesso?
«Dio… cosa ho fatto?»
Non gli importava che Zefiro fosse dietro di lui con una pistola, non gli importava nulla. Poteva anche ammazzarlo, a quel punto.
Nemmeno l’aveva sentita cadere al suolo, l’arma, il ragazzo pietrificato per ciò che aveva fatto alle sue spalle. Era in stato confusionale sul pavimento, mentre fissava le dita che prima impugnavano la pistola. Riusciva ancora a biascicare di non avere colpe, che era stato Apollo.
Era Zefiro il responsabile, eppure Apollo sentiva che era colpa sua. Quel proiettile era per lui.
Era per lui.
Pressò una mano sulla ferita.
Ora Apollo aveva paura, più di quanta non ne avesse provata di fronte alla canna della pistola che Zefiro gli aveva puntato contro.
«Resta sveglio, Giacinto… resta sveglio…»
Era vicino al tavolino dell’ingresso, dove si trovava il telefono. Compose il numero delle emergenze mentre il telefono squillava.
Giacinto gli sorrise.
«Va tutto bene, Apollo… va tutto bene», sussurrò, mentre alcune lacrime si formavano agli angoli dei suoi occhi.
Era spaventato, aveva paura. Provava dolore.
«Non è colpa tua…» esalò.
Una voce metallica rispose dalla cornetta.
«Mi serve aiuto, un ragazzo è stato ferito con un’arma da fuoco…»
Giacinto gli sussurrava di ascoltarlo, mentre Apollo parlava. Sembrava lucido, ma lo sembrava e basta.
Mentre balbettava l’indirizzo, Apollo sentiva le dita bagnarsi di sangue e lo vedeva dilagare sul pavimento. Sembrava una palude cremisi che voleva inghiottire il suo Giacinto.
«Dio, no… Giacinto, ti prego tieni gli occhi aperti…»
Si chinò sul suo viso. Lo vide sporgersi poco, come se volesse chiedergli qualcosa e Apollo gli andò incontro. Lo baciò, con tutta la disperazione che aveva in corpo.
Sentiva il metallo sulla lingua.
E quando si allontanò, le lacrime agli occhi proprio come Giacinto, vide uno splendido sorriso sbocciare sulle sue labbra. Anche se era pallido, anche con il volto imperlato di sudore, anche con il sangue che arrossava i suoi denti.
Giacinto era bellissimo.
«Ti amo, Apollo…»
E sussurrò ancora che non era colpa sua, mentre si aggrappava con le dita alla camicia del fidanzato. La strinse forte, con tutta la forza che aveva.
Ed era poca, maledizione. Era poca.
Aveva paura, Apollo glielo leggeva negli occhi. Era terrorizzato eppure cercava di essere forte, per lui.
Il suo Giacinto cercava di fare del proprio meglio, anche in fin di vita.
Il suo piccolo, coraggioso eroe.
«Ci ritroveremo, vedrai…»
Le palpebre gli pesavano sugli occhi vitrei, le labbra ancora sorridenti. La sua linfa vitale sul pavimento e l’ultimo respiro fuori dalle sue labbra.
Non si era dato alcuna speranza.
Apollo lo stringeva, stringeva la ferita dicendo che sarebbe guarito. Ma lo aveva appena visto andarsene.
«No… no ti prego Giacinto, non mi puoi lasciare… non posso… io non posso…»
Singhiozzò. E le lacrime scesero, copiose, lungo le sue guance.
Le sirene in fondo al vialetto, della polizia o dell’ambulanza.
Apollo gridò.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Gridò così forte da farsi male alla gola, ai polmoni.
Gridò il proprio dolore e più gridava, più ne sentiva nascere.
Si accasciò sul corpo esanime di Giacinto, le lacrime che si mescolavano al suo sangue.
Il pavimento era rosso scarlatto.
E non volle lasciarlo andare, nemmeno con i paramedici intorno, nemmeno con i poliziotti che bloccavano Zefiro.
Si rivide seduto sul letto di Giacinto, mentre gli baciava le spalle e il viso caldo, roseo, vivo.
«Il Giacinto ha tanti significati, sai, Apollo?»
Lo ricordava.
«Dolore è solo uno dei tanti.»



----
Non mi dilungo in queste note. Vi aspetto nell'epilogo, già pubblicato dopo questo capitolo.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: CHAOSevangeline