{ III ♦ … E dell’Ombra del Cuore }
8 Luglio 2003, principio del giorno.
La
pioggia scroscia sul vestito nuovo di Cleo, appiccicandole la stoffa
al corpo e facendola rabbrividire; nella parziale oscurità
che la
stringe come un manto, la strada di casa è smarrita e le
richieste
di aiuto si perdono quanto lei, lasciandole affrontare il temporale
da sola.
Il
mare tace, non è alle sue spalle così come non
appartengono al
borgo le mura urbane che si stagliano a breve distanza; torri
nascoste da alti roseti e nella sua memoria l’osservano
risalire il
ripido sentiero che su cui rischia di scivolare e precipitare di
sotto, nel bacino dove tutta l’acqua si sta riunendo e sale,
sale
apposta per afferrarla
più in fretta.
Inutile
correre, la ragazza sa che non farà mai in tempo a
raggiungere la
cittadina davanti a lei, né è sicura che questa
sia disposta ad
accoglierla; ma prosegue imperterrita, per non darla vinta facilmente
alle forze ostili, decisa a tentare anche l’impossibile per
salvarsi.
«Non
dovresti essere qui.»
Non
ha fatto in tempo a riconoscere il suono di passi in corsa e a
girarsi, che già un braccio forte l’ha presa per
la vita e
impedito di cadere; e anche se il volto è coperto dal
cappuccio di
un mantello blu e il fisico è più grande del
normale, nella figura
che la sorregge Cleo riconosce Socrate, così che
istintivamente
sorride e si stringe al suo braccio.
Il
ragazzo ha un ombrello con sé, ma l’acqua filtra
attraverso di
esso e li bagna comunque, spingendo lei a chiedersi il motivo di
ciò,
e anche perché l’amato non sorrida né
riveli il viso. Il suo
corpo è freddo, e non per la tempesta che soffoca le loro
parole;
no, è una condizione propria del giovane, il quale non si
anima
neppure quando Cleo prova a baciarlo.
«Mi
dispiace, sai», sussurra questi in risposta al tentativo, con
grande
tristezza, «mi dispiace tanto.»
Solo
a quelle parole lei si accorge del fango che le ha intrappolato i
piedi e dei roseti cresciuti davanti ai suoi occhi, le cui nere spine
hanno strangolato tutto i boccioli; ma ancora non comprende.
«Che
cosa dovrei mai perdonarti? Non hai fatto nulla di male.»
L’acqua
continua a salire e li ha ormai raggiunti, abbracciando le loro
ginocchia; tutt’intorno, solo il rumore di una lacrima che
cade.
«Mi
devi perdonare, invece, perché… perché
sono stato io a portare
questa pioggia, e non ti ho permesso di scappare. Non
dovevi morire anche tu.»
La
spinta che Socrate le dà la fa incespicare, quindi cadere; e
inutilmente la sua mano si tende verso quella del ragazzo,
perché,
ora lo sa, è sempre stata sola davanti all’onda
scura che non esita a ghermirla e trascinarla nel suo ventre, sempre
più giù.
…
Quando Cleo
balza a sedere nel
letto, la linea dell’orizzonte è già
percorsa dal chiarore del
primo mattino e la stanza è colma dei suoi respiri
affannati; le
dita tremano, volte
verso la parete opposta
come
per
fermare fantasmi sconosciuti, il sonno è
ormai
spezzato.
Ancora
troppo presa dalle immagini del sogno per riconoscere le forme della
realtà, la ragazza ricade lentamente sul cuscino e a lungo
osserva
il soffitto senza realmente vederlo; il cuore, invece, nonostante
ritorni al suo ritmo normale si fa pesante. In realtà,
qualcosa di
grande e diverso lo deve aver sentito davvero, se
la spinge anche a piangere per tutti gli istanti che la separano dal
pieno giorno.
La
spiaggia è deserta, dato che l’alba è
appena sorta; ma Cleo già
la riempie con le proprie orme, inseguendo il cammino
dell’onda. Ha
dormito poco ma non si sente stanca, perché i sogni
l’hanno
nutrita d’immagini e desideri, e le sue forze nascono in gran
parte
da questi. Così
è la tempra dei giovani,
sussurra qualcuno tra i più anziani con un sorriso,
guardandola
camminare in compagnia del mare, che
si nutre del proprio cuore e di quello che sente.
E
la sabbia danza con lei, penetrando tra le dita dei piedi; anche la
sua mente viene portata lontano, dove carne non è e la notte
non
scende mai.
Le
ginocchia sono leggermente sbucciate per aver passato quasi
un’ora
tra gli scogli e la spuma bianca, a osservare il mattino nascere
nell’acqua stessa; e tra le dita stringe conchiglie dalle
mille
sfumature, alcune di quelle che tante piaceranno a Socrate.
Anche
la schiena è segnata da qualche striatura rossastra;
tuttavia queste
non danno dolore, perché è stato il ragazzo
stesso a causarle
neanche un giorno prima, quando l’occasione l’ha
spinto a
intrappolarle le labbra e impeto e sorpresa l’hanno fatta
cadere e
graffiarsi contro gli stessi scogli. Un bacio appena accennato
seguito subito da uno più lento e lungo, sospeso tra il capo
del
mare e le sue profondità, tra i capelli di lei che hanno
coperto il
volto di entrambi come un velo, a proteggerli dal resto del mondo, e
i rispettivi corpi tesi a chiamarsi l’un l’altro.
«Quando
si ama si può perdere la testa… ma il resto
lasciamelo integro»,
ha detto lei con il sorriso del più dolce imbarazzo, mentre
il
giovane è arrossito e le ha sussurrato un
“perdonami” che le sue
labbra hanno subito accolto. Neanche il sale e il vento rovente sono
riusciti ad arderle la pelle con lo stesso impeto dei sentimenti, e
con grande fatica la spiaggia li ha visti separarsi davanti agli
occhi del bianco borgo; ma le cale celate allo sguardo sono molte e
altrettante le promesse che mormorano, è il posto migliore
per
osservare e raccontare i mutamenti del cielo, ballare e rincorrersi,
accarezzare la pelle dell’altra metà fino a
raggiungere ogni
cicatrice, angolo o imperfezione che semplicemente, dolcemente,
migliori la presenza, e poi diventare una sola cosa.
Per
questo bisogna essere in due, cosa che quel mattino non vede
accadere; tuttavia, i minuti volano comunque fino a raggiungere il
momento di incontrarsi davanti alla loro seconda casa e cadere nel
tempo di scoprire qualcosa di nuovo e conoscersi ancora, sempre di
più e in maggior profondità: così come
fanno con il corpo, anche
con l’anima.
Le
sue passeggiate sulla spiaggia sono note a tutto il borgo e ognuno sa
di poterla trovare lì, quindi non si stupisce quando vede la
figura
del signor Galileo venirle incontro; ma è il passo insolito
che le
frena un poco il sorriso, quel ritmo troppo lento per essere privo di
pensieri.
Inaspettatamente,
i piedi le impediscono di proseguire e la tengono ben ferma dove sta,
a percepire il vento cambiare e respirarne un ultimo alito prima che
si modifichi ancora, sempre più velocemente.
C’è qualcosa, questo
le suggerisce, che lei non può afferrare, né
cambiare.
«Sapevo
di trovarti qui, cara Cleo», le sussurra l’uomo
quando è
abbastanza vicino per essere udito, posandole una mano tra i capelli.
La
ragazza sorride, chiedendosi per quale motivo senta la
diversità
impossessarsi del mondo. «Buongiorno. Sto per raggiungere la
biblioteca, perché Socrate — Luca —
sarà già là ad
aspettarmi, e…»
«No,
non è là; se vuoi possiamo andarci, ma oggi
Socrate non ci sarà. A
dir la verità, lui non è nemmeno nel
borgo.»
La
giovane lo guarda sorpresa, senza sapere cosa rispondere: neanche
qualche ora prima si sono promessi una giornata insieme, senza che il
giovane facesse riferimento a una sua assenza; eppure neanche si
preoccuperebbe, visto quante volte gli imprevisti turbano i piani, se
non vedesse così tanta tristezza negli occhi di chi le sta
di fronte
e capisse che c’è qualcosa di più di un
semplice contrattempo.
«Signore…», sussurra appena, cercando di
spingere l’altro ad
aprirsi affinché le dica ciò che continua a
trattenere; e rimane
sorpresa quando questi le prende una mano e la guida con sé,
con
calma, lontano dalle onde e su un cammino dalla sconosciuta
destinazione. «Vieni, abbiamo alcune cose di cui parlare e
per la
prima volta non so bene come farlo. I tuoi genitori sono già
stati
avvertiti, e—»
Una pausa. «… E non c’è
più niente che possa rimandare il
momento.»
La
ragazza sente un improvviso vuoto scendere sul suo capo, come se
tutti i pensieri l’avessero abbandonata nello stesso istante;
quindi non si accorge di come la stretta sulle dita diventi
più
forte e a malapena la mente comprenda le parole che seguono, fino a
quando uno spiraglio di reazione la riscuote. «Luca ci sta
aspettando; ti sto portando da lui.»
Cleo
annuisce appena, quindi si blocca come in una consapevolezza
improvvisa. «Mi dica cos’è successo, per
favore. Con i suoi
tempi, ma non mi lasci… così.»
Perché
qualcosa è capitato, e lei ora lo sa, lo sente, che ancor
prima di
essere raggiunta dall’uomo la sua anima ha percepito il
mutamento —
come si accorge che niente, dall’istante che
seguirà quella stasi,
potrà ritornare come prima, né le
assicurerà che lei sia capace di
affrontarlo. «Per favore», ripete; ma no, non
è pronta alle
lacrime che vede solcare le guance del bibliotecario, né a
quelle
che istintivamente sorgono nei suoi occhi; e tuttavia attende una
risposta, con coraggio e una preghiera.
«Piccolina…
Luca deve assolutamente vederti, perché forse questa
sarà l’ultima
volta che potrete farlo.» Un sospiro che rivela tutto il
dolore e
l’empatia per entrambi loro, e un cielo troppo azzurro,
sbagliato
nella sua imperturbabile serenità. «Oh,
Cleo… ti sei innamorata
di un cuore che non è nato per vedere il mondo a lungo, e
che
tuttavia ha saputo prendere da esso la felicità; ma sono
sicuro che
gli anni più belli glieli abbia donati tu… ed
è per te che, ne
sono sicuro, sta ancora combattendo.
Andiamo
da lui: ora, ogni attimo deve essere solo vostro.»
•
«C’era
una volta un ragazzo: come tanti altri della sua età, con la
pelle
brunita dal sole e gli occhi buoni, con l’entusiasmo che
accomuna i
grandi sognatori e tutte le potenzialità per imparare a
correre
veloce quanto il vento. La natura era il suo dominio, il campo dove
potersi mettere alla prova e ridurre in ginocchio gli avversari, la
correttezza ciò che gli permetteva di saper riconoscere i
limiti tra
un’assoluta vittoria e quello che la coscienza avrebbe
reputato
giusto; e per questo si meritava ogni lode.
C’era
una volta un ragazzo che aveva tanto da dare e insegnare, che non
temeva di mostrare quanto amasse la vita e facesse ogni cosa per non
trascorrerla invano; e finché avrebbe avuto il cuore,
così credeva
nella sua innocenza, sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa.
Questo
stesso cuore, invece, doveva pensare totalmente l’opposto:
perché
un giorno invece di sostenerlo decise di tradirlo, rivelando la
propria debolezza e l’imperfezione e,
da quel momento, tormentandolo
per anni; stanotte
è
stato solo l’ultimo
caso.»
Il
corridoio dell’anonimo ospedale è riempito solo
dal suono dei suoi
passi, continui e cupi; la mente ignora
la famiglia di Socrate, seduta a distanza da lei,
ed
è tutta concentrata sul mondo che si apre al di
là della porta
serratamente chiusa e su una parte del lungo racconto fattole dal
signor Galileo, quella dove le lacrime hanno iniziato a sgorgare e a
unire la trama che ha coperto gli ultimi anni.
Cleo
non ha mai saputo prima cosa volesse dire piangere, farlo davvero,
sentirsi così smarrita da tremare pur nel ventre
dell’estate; ma, ora che conosce la storia che Socrate non ha
mai
voluto raccontarle — e che ha compreso anche il
perché di questo
—, il calore non è parte del suo corpo, e se le
sembra di
soffocare è per ben altri motivi. Tra le mura anonime
esterne a lei
e la sofferenza che prova dentro si chiede come non sia mai riuscita
a capire quella parte di verità, e si sente in colpa per
tutta la
spensierata, inconsapevole serenità che ha riservato nella
loro
storia: un’assenza di preoccupazioni che ha ignorato per
tanto
tempo il dolore e certamente non sarà riuscito a
confortarlo, che
non ha reagito agli stimoli che la colpivano.
In
confronto al giovane, si vede terribilmente immatura e indegna,
infantile e meritatamente tenuta all’oscuro di fatti
così
importanti: come avrebbe potuto aiutare qualcuno, così
egoisticamente persa a cercare sempre il lato positivo della vita da
essere cieca? In
che modo qualcuno potrebbe legarsi a lei dandole completa fiducia,
sapendola incapace ad affrontare le sfide della vita? Forse
è proprio perché l’hanno compreso
subito che i genitori di
Socrate hanno sempre visto nella sua figura un fastidio, un danno.
Protetta
dal silenzio del ragazzo, tanto migliore di lei al punto da non
volerle dare alcun pensiero, si è attaccata alla pace che
lui le ha
offerto e ha chiuso gli occhi di fronte a tutto il resto, da vera
insensibile; e ora, il prezzo da pagare per questo è
crudelmente
alto, affossa ogni tentativo di reazione e aumenta la tristezza,
fondendosi con la certezza della propria inutilità.
Così stupida,
stupida!
Nonostante
la debole voce che le mormora anche
altro,
non riesce a trovare altra parola per descriversi; nonostante ciò
che
il signor Galileo, seduto a fissarla senza riuscire a consolarla, le
ripete, ogni istante è tortura.
Il
silenzio che proviene dall’altra
parte,
quindi, non è nemmeno la parte peggiore di tutta quella
vicenda.
«Non
tormentarti così, Cleo; non è colpa tua.»
«Ma
avrei dovuto capirlo che qualcosa non andava. Invece…
invece,
nonostante avessi la strada disseminata di prove, ho ignorato tutto e
pensato solo a me.»
Come
ho potuto farlo?
«Non
dire così…»
«Avrei
potuto prendermi cura di lui con più maturità!
Spendere il mio
tempo con serietà, conscia dei rischi… e se gli
ho fatto fare
qualcosa che ha peggiorato la sua situazione? Chi mi dice che non sia
stato male per colpa dei miei capricci? Che cosa potrei essere
stata…»
L’improvviso
sorriso dell’uomo è solo un accenno sul volto
teso, eppure lascia
trasparire una consapevolezza che la ragazza non sente più
sua. «Di
certo sei
stata,
siccome me l’ha
detto, la sua medicina migliore.»
Cleo
resiste
qualche attimo
quando l’altro
si alza e le si avvicina; ma
alla fine
si lascia abbracciare, e senza trattenersi oltre affonda il volto nel
torace del mentore
e si stringe più forte a lui. «Sono
ancora una
bambina…»,
mormora,
«una
bambina
ignara
di tutto.»
«A
diciassette anni è legittimo esserlo
ancora un poco, non credi?
A quell’età
non si dovrebbe pensare alla morte e alla sofferenza, né al
pericolo
di perdere chi si ama: perché è giusto essere
ancora spensierati,
appena prima che inizi un nuovo capitolo di vita.»
«Ma
Luca questa spensieratezza non l’ha
potuta avere, al contrario mio.»
«Ed
è qui che ti sbagli, cara Cleo: tu non sai davvero quanto
sei stata
importante per lui. Ti rammarichi per non aver saputo comprendere la
verità, per non aver sfruttato le occasioni insieme per
qualcosa di
serio; ma Luca aveva bisogno della tua innocenza, di una vita lontano
dalla tristezza che vede negli occhi di tutti quelli che tengono a
lui.» Una pausa che
sospende il respiro della giovane, resa più attenta dalle
profonde
parole dell’altro.
«Luca ti ha taciuto la
sua malattia perché tu potessi stare al suo fianco senza
pianto,
perché lui potesse fare
la stessa cosa con te,
la ragazza che
non gli ha fatto
dimenticare la normalità,
la libertà di non dover spiegare nulla, la consapevolezza di
non
essere solo
un imperfetto che rischia di morire a ogni respiro. Tu gli hai fatto
un dono importantissimo: amandolo e facendoti
amare, hai allontanato da
lui la paura di non poter dare al mondo altro che dolore, e
per quanto possa essere
breve, una vita passata con qualcuno capace
di fare ciò è già
abbastanza.
Sì,
Cleo, tu sei abbastanza per lui: non devi cambiare il tuo amore in
nulla, ma continuare a stargli vicino come hai sempre fatto.
Me
lo prometti, piccola? Mi prometti di non perdere la tua allegria e di
restare genuina e dolce come sei, pur sapendo la verità?»
Mentre
guarda il signor Galileo inginocchiarsi ai suoi piedi, qualcosa che
finora ha messo da parte torna a farsi sentire: la memoria di non
molte sere prima, di una confessione che ora comprende appieno
—
che, ora se ne rende conto, in realtà ha accettato fin da
subito.
E
se tu dovessi lavorare su questo telescopio, scoprire ciò
che non
funziona ma non poterlo riparare, per qualche ragione… che
cosa
faresti allora? Lo metteresti da parte, dimenticandotene? Lo
getteresti?
Ha
risposto senza esitazione in quel momento; e anche oggi i suoi
pensieri non sono cambiati, perché anche se da una parte
è convinta
di non aver dato a Socrate tutto quello che avrebbe meritato, dentro
di sé è sempre stata sicura della scelta di
rimanere al suo fianco.
Quindi
forse già avevo intuito e, inconsciamente, ho lottato anch’io?
Quelle sensazioni… e
quelle parole, che ho pensato veramente.
«Non
potrei mai abbandonarlo…»
Non l’ho
mai fatto. «…
perché il mio cuore, così
com’è,
è stato plasmato da lui. Una volta non amavo il mondo come
ora,
ma Socrate ha portato così
tanta bellezza che alla fine ho iniziato a vederla anch’io,
e se me ne andassi ora, se
perdessi quella parte di me che tanto ha protetto…
Io,
semplicemente, non voglio che accada. E ora che so la verità
non
posso che amarlo ancora di più, e cercare di donargli il
doppio di
quella serenità che non gli ho mai fatto mancare; questo
è quello
che sento.
Se
sono riuscita ad aiutarlo almeno un poco, come sostiene lei…
non posso che proseguire.»
L’uomo
sorride a quel discorso, quindi si rialza. «E tu saresti
immatura?»,
mormora, per poi accarezzarle il capo e abbracciarla di nuovo.
«No,
tu non sei infantile: non lo eri più da tempo, ma in una
sola
giornata sei cresciuta ancora, più di quanto si possa
immaginare.»
Un’altra
ora passa, lenta ma inesorabile, nel reciproco calore di chi aspetta,
di chi va, di chi sempre rimane; e
in quei momenti, un nuovo fiore sboccia, e una promessa viene mantenuta.
Una
volta mi hanno detto che l’amore
non è cosa che nasce con l’età: diventi
grande e così ti
innamori, inizi a comprendere e allora puoi sentire anche
ciò che il
tuo cuore vuole...
No,
non è proprio questo il suo modo di funzionare.
Non
potrei mai dirti quando è iniziato il mio: forse, dentro me,
già
davvero
sapevo
ciò da cui mi volevi proteggere, oppure forse in qualche
modo ti
avevo già conosciuto, e a priori avevo deciso di restare al
tuo
fianco.
Ma,
qualunque sia la risposta, alla fine è questo ciò
che è più
importante: che tu non sia solo, che riesca sempre a sentirmi. Io
l’ho
chiamato
l’amore dei ragazzini, sprovveduto, incosciente e intenso
quanto
loro; ma, ora lo so,
in
verità è molto più
di questo.
Ricordi?
Una volta mi hai chiesto un nome, una parola che potesse
corrispondere solo a me e da sussurrare tra mille libri e sotto
stelle di metallo; e ora
ti imploro di tornare,
di
ritrovare
la strada che porta da me e chiamami, anche per una volta soltanto,
Agape: mi troverai accanto
a te,
dove sono rimasta
dalla prima volta che mi hai guardata, dove ho imparato a essere me
stessa.
Se
lo farai, la tua sorte sarà meno pesante, la condividerai
con me: e
sappi che il tuo cuore malato non mi spaventa, perché mi ha
dato
solo un motivo in più per amarti.
Come ben sai, è difficile lasciarmi indietro.
Chiamami
Agape: amare senza condizioni, fino al sacrificio di sé,
come tu mi
hai insegnato a fare; come io ti mostrerò, per tutto il
tempo che
sarà ancora nostro.