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Autore: elerim    23/02/2019    7 recensioni
Rin doveva ammettere di aver investito una quantità di pazienza considerevole per conseguire quell'obiettivo. Quanti saluti ignorati, sospiri infastiditi, porte sbattute davanti al naso, occhiate arroganti aveva dovuto sopportare in risposta ai suoi tentativi – sempre allegri e garbati – di approccio? A palate.
Ma perché, poi? Eh. Qui si arriva al punto. Perché se lo fosse posto, l'obiettivo di andare d'accordo con Sesshomaru, era tanto semplice quanto sconcertante: Sesshomaru non era ignorabile.
Quando si chiude una porta si può aprire di nuovo
perché di solito è così che funzionano le porte.
Albert Einstein

PUBBLICATO EPILOGO A PARTE, RATING ROSSO!
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Slamming Doors'
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Capitolo quattro ovvero Panta rhei (*)

 

 

 

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume
e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato,
ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento,
essa si disperde e si raccoglie, viene e va.”
Eraclito

 

 

Stava traslocando per la terza volta in poco più di quattro mesi. Non che avesse grandi cose da impacchettare, il grosso era rimasto negli scatoloni dal primo trasloco; da Ayame aveva aperto giusto la valigia dei vestiti perché l'appartamento era piccolo e non voleva dare l'impressione di voler mettere radici, consapevole del saldo spirito di indipendenza della sua amica.

Ayame, la sua amica. Non le era mai capitato di pensare a lei con un senso di disagio, invece è questo che sentiva, ricordando come lei si fosse fatta carico della sua sofferenza, e come lo facesse ancora. Aveva sopportato i suoi pianti notturni – più di una volta l'aveva vista controllare i cuscini del divano al mattino e poi stringerli con una rabbia soffocata, scoprendoli sempre intrisi di lacrime; l'aveva sostenuta e spronata a continuare con la sua routine, ad andare a lezione e al lavoro con gli stessi ritmi di prima; l'aveva perfino cacciata fuori di casa un mattino, lasciandola inerme sul pianerottolo, per costringerla ad andare ad assistere ad un esame orale per il quale non si sentiva per nulla preparata.
«Avanti, Rin! Bisogna andare avanti a testa bassa, senza guardare troppo lontano. Le cose non stanno ferme e ti investono come autotreni.»
Con 'le cose' Ayame intendeva tutto: gli eventi, le persone, i sentimenti, la vita in generale; non si sentiva in grado ad affrontare un bel niente, ma naturalmente Ayame aveva avuto ragione e lei era andata avanti, lo sguardo ben fisso sui propri piedi.
«Quando ti sentirai pronta, alzerai lo sguardo.» le aveva anche detto, più di una volta.
Ma lei lo sguardo non l'aveva alzato, continuava a vivere a testa bassa ed era questo il maggior motivo del suo disagio nei confronti di Ayame. Quando, più di una volta, l'aveva sorpresa a scrutarle il volto per individuare la scintilla del cambiamento, si erano scambiate un sorriso mesto e avevano dissimulato entrambe e lei si era sentita invadere da uno strisciante senso di colpa misto a fastidio.
Non era più la Rin di qualche mese prima, non poteva più esserlo e non avrebbe nemmeno voluto. Non sapeva come definire la Rin di ora ma non le dispiaceva questa versione di sé stessa, più disillusa ma anche più concreta, meno sorridente e disponibile ma più decisa. Sapeva che Ayame rimpiangeva la Rin precedente e aspettava che lei 'tornasse', ma come poteva farlo? E tornare da dove poi? Non c'era nessuna Rin nascosta da tirare fuori, c'era solo una Rin cambiata, diversa. Cresciuta.
Già, era davvero cresciuta. Avrebbe dovuto ringraziarlo, quel bastardo? Si morse forte le labbra per ricacciare indietro i ricordi.

Il cellulare squillò, Kohaku era arrivato sotto casa. Si caricò di borsa e valigia e, senza rimpianti, si chiuse alle spalle la porta di dell'appartamento che l'aveva ospitata nell'ultimo mese e mezzo: una stanzetta angusta e anonima, scelta in fretta e a caso per evitare di vedere in Ayame il primo accenno di insofferenza. Lei stessa viveva con esasperazione i momenti in cui cedeva al peso dei ricordi – momenti in diminuzione per numero ma non per intensità – e mai avrebbe voluto vedere lo stesso sentimento sul volto di quella che era stata la colonna portante della sua vita da quando...
«Ciao bellezza, alla fine ti sei decisa!» Il sorriso aperto di Kohaku la trascinò indietro quando ormai aveva un piede già sull'orlo del burrone dei pessimi ricordi. Le stampò un bacio sulla guancia barcollando sotto il peso di uno scatolone e questo la fece sogghignare.
«Ridi, scema! Intanto il peso della tua cultura sfonda la mia colonna vertebrale.»
«Hai ragione» disse, riconoscendo lo scatolone in cui aveva stipato tutti i libri. Lo aiutò a sistemarlo, insieme alla valigia, sul sedile posteriore della piccola utilitaria strapiena e lo guardò negli occhi per esprimergli la più sincera gratitudine. «Grazie della disponibilità, Kohaku.»
Si guadagnò un altro sorriso e un buffetto sulla guancia.
«Quella roba però te la tieni in braccio» la minacciò scherzosamente valutando la mole della sua borsa, ricettacolo degli oggetti che non avevano più trovato posto in valigia.«Ho preso solo l'indispensabile, caro!» si atteggiò a vezzosa signorina. Lui rise, si sedettero e partirono.
Il viaggio fu rocambolesco quanto taumaturgico. Kohaku guidava con una mano sola, reggendo nell'altra una sigaretta e gesticolando ampiamente – per sua stessa ammissione, tre pessime abitudini, eredità del suo soggiorno nel sud dell'Europa. Così facendo sbagliava le curve e infilava una buca dietro l'altra e a lei non restò che prenderla sul ridere per scongiurare un principio di infarto. Ad ogni sobbalzo Rin picchiava il cranio sulla capotte o sui montanti e l'auto minacciava di aprirsi in due, ma Kohaku procedeva sereno, continuando a raccontarle aneddoti divertenti dei suoi viaggi. Fu come se le risa, l'aria che le sbatteva in faccia i capelli e l'andatura a singhiozzo si portassero via dolori e risentimenti e quando giunsero a destinazione lei era pronta a gettarsi tutto alle spalle e ricominciare.
Alzò la testa verso la bassa palazzina e Kohaku le disse, indicandola: «Vedi, è quella». L'ampia finestra della sua stanza che le aveva decantato per settimane, finché non si era decisa ad andarla a vedere.
«La scorsa volta era sera, ma oggi ti farà un'impressione ancora migliore. È piena di luce e si affaccia sul parco. Era un peccato lasciarla vuota ma, come ti ho detto, non trovavamo nessuno che ci andasse a genio.»
«Se ti piace tanto, perché non l'hai presa tu? O Kanna?»
«Naaah. La mia stanza è la più grande, non la cedo di certo. E Kanna è un'abitudinaria, ha le sue fisse. Ha scelto la sua tana e ci ha messo radici, chi la muove da lì? E poi, a spostare tutta le chincaglierie che ha dentro, ci vorrebbe una settimana.»
Rin sorrise ancora di gratitudine. Notò che Kohaku si stava mostrando più loquace e disinvolto di quanto fosse nella sua indole, probabilmente lo faceva per riguardo nei suoi confronti – un giorno avrebbero smesso di trattarla da malata terminale? – perché in generale era un personaggio pacato e silenzioso, una di quelle persone che preferisce ascoltare invece di parlare.
Tuttavia la pacatezza di Kohaku era nulla se confrontata con quella della sua futura coinquilina Kanna, un essere etereo e misterioso che pareva viaggiare a dieci centimetri da terra, tanto il suo atteggiamento di distacco dalla realtà traspariva da ogni movimento e ogni – rara – espressione.
“La Fata”, come la chiamava Kohaku, accolse il suo arrivo sollevando gli occhi dalla tazza da cui stava bevendo e abbozzando un cenno con la mano. Sentì le sue iridi glaciali piantate addosso per tutta la dozzina di volte che ripassarono, avanti ed indietro, davanti alla soglia della cucina, trasportando scatole e borse nella sua nuova stanza.
Notò con piacere che era stata pulita ed era davvero ampia e luminosa. Quando ebbero finito, Kohaku la salutò e la lasciò sola, mostrando una discrezione per cui gli fu nuovamente riconoscente.
I suoi nuovo coinquilini le erano parse due persone rispettose degli spazi e dei tempi altrui, con abitudini di vita a lei compatibili e una tendenza alla riservatezza che non guastava affatto. Si sarebbe trovata bene.

 

 

***

 

 

Mai come negli ultimi tempi i pranzi domenicali dai suoi gli erano parsi un supplizio. La cadenza, rigorosamente mensile, che avevano mantenuto negli ultimi decenni, gli era sembrata adeguata mentre ora gli era appena tollerabile.
E lei, sua madre, che fosse dannata, lo sapeva perfettamente, mentre con studiata grazia gli reggeva la giacca, recitando la parte di chi fosse lì per premura, per salutare a dovere il proprio figlio che non avrebbe più visto – né sentito – per i seguenti trenta giorni.
Invece, lo sapeva benissimo, stava aspettando il momento perfetto per colpire.
Che fosse un'artista nello stanare le debolezze altrui e colpire il nucleo del dolore e del risentimento con lingua più tagliente di tutte le loro spade, l'aveva sempre saputo e, in fin dei conti, apprezzato. L'aveva fin ammirata quando i bersagli delle sue frasi affilate erano stati degli esterni – ipocriti e opportunisti dell'ultima ora che credevano di poter blandire, ricevere protezione o perfino ricattare la sua famiglia – e l'aveva rispettata, e temuta, quando l'aveva sentita tener testa a suo padre e ristabilire nella coppia un equilibrio di acciaio dopo la morte della sua amante umana. L'equilibrio che aveva permesso loro di sopravvivere in un mondo apertamente ostile.
Ma ora che rivolgeva questa sua arte contro di lui, ora che la sua incurante frase di commiato gli si artigliava al petto tutte le dannate volte, capiva perfettamente l'ira a fatica trattenuta che aveva visto emergere sul volto di suo padre, le sue spalle curve e contratte, la vena del collo pulsante.Quella frase gli stritolava le carni, gli estirpava ricordi, fomentava rancore, vergogna e il senso disperato di mancanza, di solitudine. Faceva appena in tempo a seppellire tutto, che ecco affacciarsi un'altra domenica e con essa la prospettiva che la ferita sarebbe stata riaperta con una nuova, chirurgica, stilettata.

Questa volta la frase non era ancora giunta e, mentre si allacciava le scarpe, confidava che forse l'avrebbe scampata. In fondo si era già presa la sua soddisfazione all'accoglienza.
«Oh, Sesshomaru...» aveva detto, osservando con accondiscendenza e una punta di sorpresa i suoi capelli accorciati, «è una forma di espiazione?»
Si era rivolta poi a suo padre appena sopraggiunto, che osservava con silente costernazione la chioma sfiorargli appena le spalle. «Suvvia caro» l'aveva superato con un piccolo buffetto sulla spalla, dirigendosi verso la sala da pranzo, «in fondo l'hai fatto anche tu, no?»
Correva voce che suo padre avesse adagiato una lunga ciocca dei suoi capelli sul corpo della sua amante umana, prima che richiudessero la bara.
Aveva incrociato lo sguardo di suo padre e si erano fissati per un lungo momento, entrambi con gli spiriti ribollenti, ma prima che avesse potuto cogliere ed elaborare tutte le sottili implicazioni delle parole di sua madre, la strega li aveva invitati a prendere posto con voce fresca e squillante ed avevano obbedito, come due tigri al suo guinzaglio di seta.
Si alzò da terra e con vigliacca speranza si apprestò ad infilare la giacca. Le aveva già dato le spalle quando sentì partire l'affondo.
«Non fa ormai troppo caldo per quella sciarpa?»
Il suo passo ebbe un'impercettibile esitazione ma poi riprese la sua avanzata verso la salvezza. Illuso.
«Chissà se anche lei porta con altrettanta dedizione i guanti che le hai regalato...» Gli mancò il respiro e, per un solo istante, anche il coraggio di replicare.
«Come lo sai?» espirò voltandosi, lo sguardo affilato.
«Sesshomaru!» si esibì in una risata argentina, con la mano davanti alla piccola bocca, vezzosa «Mi chiedesti un negozio di fiducia per 'guanti, borse e cappelli' e, santo cielo! confido di averti educato a sufficienza affinché tu non abbia scelto, come primo regalo ad una ragazza, un oggetto personale come una borsa o cappello!»
Lui si girò di scatto e infilò la porta senza un fiato, inseguito dal suo inutile «A presto, caro!»

Arrivato alla macchina appoggiò i palmi al metallo nero rovente e poco mancò che perdesse il controllo e ci affondasse dentro.
I suoi guanti, i guanti che le aveva regalato.
Ricordava con lucidi particolari il momento in cui aveva aperto la porta e si era trovato davanti la sottile signora cui sua madre aveva affidato la pulizia dell'appartamento lasciato vuoto. La donna gli aveva porto una scatola bianca, affermando di averla trovata sul tavolo della cucina e che «forse la signorina li aveva dimenticati. Può farglieli avere lei?»
Aveva soffiato un ringraziamento e richiuso la porta, reggendo la scatola su un palmo. Grave della sensazione di sapere cosa contenesse, gli sembrò pesante come un macigno. Aveva sollevato il coperchio e gli era bastato intravedere la carta velina verde e un angolo di tessuto per riconoscerli.
In poche falcate aveva raggiunto la sua camera e aveva seppellito la scatola nell'angolo più nascosto dell'armadio. Poi era tornato indietro, con l'intenzione di gettarla dalla finestra. Ma era rimasto fermo, con l'anta del guardaroba semi-aperta. Non si era voluto rassegnare, che anche quello diventasse spazzatura.
Con stizza si sfilò la dannata sciarpa e la gettò sul sedile accanto. Partì rombando, oppresso dai ricordi.


 

***

 

 

Non riusciva a scacciare l'inquietudine, mentre legava la bicicletta al palo che l'aveva ospitata così tante volte. Razionalmente si ripeteva che fosse una scelta sensata: era lì vicino ed era di fretta, conosceva bene le corsie di quel supermercato ed avrebbe risparmiato tempo prezioso nel cercare i prodotti.
Ci passava vicino quasi tutti i giorni, perché il suo vecchio quartiere era vicino alla nuova abitazione e le toccava attraversarlo per raggiungere l'università; preferiva di gran lunga allungare un po', nella zona del supermercato appunto, piuttosto che affrontare le vie dalle quali si sarebbe potuta anche solo intravedere la suacasa.
Si guardò intorno ansiosa mentre infilava nella tasca dello zaino gli auricolari. Non doveva da preoccuparsi, non c'era nulla di cui preoccuparsi. Erano le quattro del pomeriggio di venerdì, figuriamoci se sarebbe mai andato al supermercato a quell'ora. E poi, in un quarto d'ora sarebbe stata fuori. Nessun problema.


 

La percepì chiaramente, era nell'altra corsia, proprio al di là dello scaffale. Il suo odore annebbiò tutte le altre percezioni. Si scoprì incatenato in un vortice di emozioni, che maiaveva provato così forti e tutte insieme.
Aveva sperato che un giorno accadesse – di incontrarla per caso e poterle parlare, anche solo una volta – e ora lei era lì, a neanche un metro di distanza. Avrebbe potuto aggirare la corsia e raggiungerla in pochi passi.
La tristezza che lo ammantava da molti mesi divenne dolorosa consapevolezza, quando realizzò che lei non ne sarebbe stata felice: l'avrebbe guardato con paura e disprezzo e sarebbe andata via prima che lui fosse stato pronto a pronunciare la prima parola.
Fu allora che il suo inconscio attuò una soluzione egoistica quanto – se ne rese conto troppo tardi – incauta. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente.
Si inebriò dell'odore di lei, ne colse la familiare struttura portante e si soffermò su variazioni e sfumature, si dispiacque di sentire più accentuate le note amare e si adagiò in quel sottobosco di serenità e fiducia che, sebbene nascosto, continuava a costituire la base del profumo di Rin.
Fu strappato dal suo idillio sensoriale da un suono acuto e dall'intensità del dolore si accorse di aver lasciato espandere i suoi sensi demoniaci oltre la soglia di sicurezza... e che quello che suonava, dannazione, era un allarme.
«Gentili clienti»comunicò l’altoparlante «il nostro sistema di sorveglianza ha individuato un'aura demoniaca. Vi preghiamo di mantenere la calma e dirigervi nella Sala d'Attesa indicata dalle frecce luminose, affinché il personale si accerti che non sia stata commessa alcuna infrazione. La verifica richiederà non più di dieci minuti. I clienti che non vogliono attendere potranno uscire dagli ingressi principali esibendo volontariamente la loro Carta di Identità Razziale.»
Imprecò mentalmente e si diede dell'imbecille: far scattare un allarme, lui!Da secoli allenato a celare la sua natura così come celava le sueemozioni! Per giunta per un motivo così futile. Maledì quegli idioti Demoni Corvo. Tre mesi prima si erano resi responsabili di un attentato sanguinoso in un locale del centro e da allora i sistemi di individuazione dei demoni negli esercizi commerciali, negli uffici e perfino nelle scuole si erano moltiplicati e scattavano alla minima traccia di attività demoniaca. Per i cuccioli con forte presenza di sangue demoniaco – sempre più rari, invero – e per le loro famiglie, la vita in questa nazione si stava facendo impossibile.
Ma non era affar suo, in questo momento ancora meno. Si concentrò per contenere al massimo la propria aura, perché gli scanner presenti nelle cosiddette Sale d'Attesa avevano fama di essere particolarmente sensibili.
Si avviò seguendo le indicazioni e fu allora che la vide, a pochi metri di distanza, intenta a cercare qualcosa nello zaino, probabilmente i documenti. Era incolonnata per uscire dalla porta principale, quella per chi, come aveva detto la voce all'altoparlante, «aveva fretta». In realtà, era l'uscita privilegiata per chi vantava sangue al cento per cento umano e in quanto tale non aveva nulla da temere nel mostrare la propria Carta di Identità Razziale.
Mentre la osservava, un donnone affannato e scomposto che si trascinava dietro un bimbo mingherlino la urtò pesantemente e la minuta figura di Rin rovinò a terra.
Le fu a fianco in due falcate, di nuovo l'istinto aveva preso il sopravvento. La grossa signora non si era accorta di nulla, continuava a respirare ansante stringendo a sé il bimbo e sembrava sull'orlo di una crisi di panico. Se avesse saputo che aveva accanto uno dei demoni più letali del pianeta, probabilmente sarebbe morta sul colpo.
Rin, frastornata, afferrò la mano che gli aveva porto senza alzare lo sguardo.
«Grazie mille, la gente dev'essere ammatt...» ecco, ora l'aveva guardato.
Spalancò gli occhi e ritrasse immediatamente la mano. Aprì la bocca per parlare ma la richiuse subito dopo, poi finalmente farfugliò uno stentato ed interrogativo «Sesshomaru...?»
Già, era diverso. Per i capelli corti, forse anche per il colore degli occhi, che il contenimento estremo dell'aura avrebbe potuto rendere più scuri. Il dubbio era lecito, ma lo irritò comunque. «Stai bene?» le chiese. Una domanda senza senso, per mascherare il tumulto.
«Tutto bene, signorina?» la voce di un sorvegliante, piazzato davanti alle casse a controllare i documenti, spezzò l'atmosfera di disagio.
Lei si voltò. «Sì, tutto bene, grazie!»
Il guardiano lo fissò un po' più a lungo del dovuto ma Sesshomaru non lo considerò un problema. Che gli venissero pure tutti i dubbi concepibili, non aveva ancora nessuno strumento per obbligarlo a mostrare la sua Carta e per nessun motivo lui l'avrebbe mostrata volontariamente.
Piuttosto si concentrò nuovamente su Rin, che aveva raccattato la sua esigua spesa e si guardava intorno con la palese intenzione di dileguarsi il prima possibile.
Fastidio e imbarazzo, ecco quello che la sua presenza generava in lei. Si voltò senza una parola e si diresse verso il posto destinato a quelli come lui. Non potè fare a meno di notare, che lei non fece nulla per fermarlo.

Cercò di utilizzare i minuti che doveva trascorrere nella Sala d'Attesa per indagarne la struttura, nel caso gli ricapitasse di finirci intrappolato. Era una specie di bunker affiancato all'edificio principale, allestito in tutta fretta per far fronte all' “emergenza terrorismo”. Non vi erano sorveglianti all'interno, quindi era certo disponesse di armi automatiche pronte a far fuoco se gli scanner avessero evidenziato un'attività demoniaca sospetta. Se fosse stato padrone di sé avrebbe potuto trarre informazioni indagando le reazioni degli individui trattenuti con lui, ma il tentativo di condurre i propri pensieri su solchi sicuri e razionali era corrotto dalle immagini del volto di lei, quando aveva sollevato lo sguardo e l'aveva riconosciuto.
Era uno sguardo pieno di stupore, meraviglia e una buona dose di timore, sentimenti intensi e senza filtri, come si ricordava. Ed era bella, molto bella, molto più di come si ricordava. Forse un po' più magra. Al contrario di lui, aveva lasciato crescere i capelli, che le scendevano ben oltre metà schiena, raccolti sopra l'orecchio destro da un anonimo fermaglio. Indossava uno scamiciato rosso con piccoli fiori gialli sul contorno del collo e sull'orlatura e pantaloni neri aderenti fin sotto il ginocchio, scarpe da tennis nere e l'immancabile zaino. Tenuta da bicicletta.
Si forzò a cacciare via l'immagine, a ignorare quanti particolari avrebbe ancora potuto elencare e soprattutto a dimenticare la velocità con la quale lei aveva ritirato la mano dalla sua, come se scottasse. I suoi tentativi furono vanificati da una memoria che sembrava prendersi gioco di lui e che gli restituì, limpido, il ricordo della sua voce.
Aveva dimenticato come potesse suonare dolce il suo nome, se modulato dall'emotività umana.

Quando, con una profusione di scuse e ringraziamenti, l'altoparlante annunciò che la situazione era “sicura e regolare” e potè guadagnare finalmente l'uscita, l'odore di lei era ancora intenso, tanto che poteva percepirlo anche con i sensi menomati. Comprese il perché quando voltò l'angolo e la trovò lì, con la fedele bici, ad aspettarlo.

 

 

Rin, letteralmente sconvolta dall'incontro, si era attardata alla cassa: portafoglio, monete, la spesa stessa, tutto le era sfuggito di mano in rapida sequenza, tanto che arrivare a varcare la porta del supermercato le era parsaun'impresa eroica.
Quando era giunta alla bicicletta, le era sembrato che i muscoli avessero rallentato i movimenti appositamente, come a volerla trattenere lì il più possibile. Non era stato necessario un grosso sforzo di fantasia, piuttosto di onestà, per ammettere a sé stessa che stava attendendo che lui uscisse.
Non era uscito mostrando la propria Carta, l'aveva notato. Forse per evitarle l'imbarazzo di attendere in coda insieme? Oppure avevadegli antenati demoni, era possibile; aveva sentito dire che abbinamenti insoliti del colore degli occhi e dei capelli fossero indice di tali ascendenze, tuttavia non aveva mai notato in lui atteggiamenti sospetti.
Dopo tutto, non è necessario essere demoni per essere delle infime carogne.
Quindi, perchéancora lo aspettava? Solo perché si era mostrato gentile? O pereducazione, poiché non l’aveva salutato? O per dirgli tutto quel che aveva masticato in questi mesi sul suo conto? No, il rancore era vivo ma seppellito sotto strati di grigia insicurezza, non sarebbe emerso così facilmente.
Forse lo aspettava perché prima o poi avrebbe dovuto accadere e allora, che accadesse. Che si liberasse dell'ennesimo fardello, che il timore di incontrarlo non le fosse più d'ostacolo.

Quando apparve, le riuscì solo di incespicare su sé stessa, ogni risolutezza sovrastata dal suono di un cuore rimbombante come una grancassa.
BUM BUM BUM BUM.
«Ciao»
«Ciao»
BUM BUM BUM BUM.
Incrociarono gli sguardi e vi trovò l’imperscrutabilità di sempre, la freddezza di chi ha il tempo e la sfacciataggine di attendere che sia l’altro a risolvere l’impasse.
Lo vide posare lo sguardo sulle sue scarpe e poi sulla bici, la sua solita, vecchia bici, anonima ed inadeguata come lei.
Fu improvvisamente molto triste e molto stanca, nulla era cambiato e lei doveva solo fuggire il più lontano possibile da quel carico di sofferenza.
Si costrinse ad un piatto e formale: «Volevo solo ringraziarti per la cortesia, buona serata» di commiato e si volse per andarsene.
«Rin» si sentì chiamare piano. Fece finta di non aver udito e montò in sella.
«Rin» la chiamò ancora, con un’inflessione quasi accorata.
Non si voltò ma il piede le rimase fermo sul pedale.
«Vorrei poterti parlare, un giorno.»
Lo guardò, per essere certa che non fosse una presa in giro. Lui distolse lo sguardo per qualche istante e le parve un gesto così strano, così inusuale per lui.
«Posso invitarti a prendere un caffè?»
Continuò a fissarlo con sospetto.
«Il mio numero è sempre lo stesso» acconsentì infine e spinse decisa sui pedali. Via di qua, si disse, e velocemente.

 

***

 

 

Maledirsi giornalmente non le fu di alcun conforto. Poiché, come è ovvio, il messaggio si era fatto attendere tanto quanto, se non più, lei l'aveva atteso. Quando infine era giunto, a dieci giorni esatti dal loro incontro, era già risoluta a non rispondergli affatto, e l'aveva cancellato quasi senza esitazione.
Non potè di conseguenza evitare di considerare uno sgradevole scherzo del destino il fatto che uno dei relatori del seminario che avrebbe dovuto seguire per l'intera giornata fosse proprio Sesshomaru. Doveva aver sostituito qualcuno all'ultimo momento, perché era assolutamente certa di non aver letto il suo nome nella mail di presentazione.
Era arrivata per tempo, nell'aula conferenze c'erano pochi gruppetti sparsi. Lui, naturalmente, era solo e non notarlo sarebbe stato impossibile: adagiato con noncurante eleganza sulle poltrone del palco, immobile tranne per le dita della mano che tracciavano piccoli segni sulla superficie lucida del tavolo, era di una bellezza severa ed eterea. I loro sguardi si erano incrociati prima che avesse potuto trovare il modo di nascondersi e il movimento della sua mano si era bloccato a mezz'aria.
Per fortuna la sala si era riempita con velocemente ed era riuscita a sedersi dietro un suo compagno, un ragazzo russo largo come un armadio.
«Rien, dietro me nuo vede nienti!»si voltò lui, con il suo largo sorriso. Yuri era attento e premuroso senza essere invadente, tutte caratteristiche che glielo avevano reso simpatico dal primo giorno di corso.
«Tranquillo, a me va benissimo così»lo rassicurò. Lui le rivolse un occhiolino d'intesa e riprese posizione; probabilmente avrebbe pensato che fosse lì solo per dovere di rappresentanza e che le servisse una copertura per studiare o scrivere: poco male, era più importante rendersi invisibile.
Ascoltò gli interventi iniziali con uno strisciante senso di angoscia, amplificato dal fatto che le poche volte in cui osò sbirciare oltre la muraglia offerta dalla schiena di Yuri, trovò sempre il suo sguardo ad attenderla.
Quando toccò a lui parlare, non ascoltò neanche una frase. Il suo pensiero si era cristallizzato su come uscire da lì durante la pausa senza essere intercettata. Avrebbe potuto appendersi alle spalle del russo e farsi trasportare fuori: ricordava vagamente un racconto in un libro di miti occidentali che aveva da bambina, in cui l'eroe fuggiva dalla caverna del mostro aggrappato alla pancia di una pecora. Sorrise. Yuri almeno aveva il vantaggio di non puzzare.

La soluzione che le si presentò fu assai più piacevole e dignitosa: non appena il moderatore annunciò il coffee break, la testa rossa di Ayame fece capolino dalla porta e lei si affrettò a raggiungerla.
«Ehi, sei venuta a scroccare?»rise e l'amica le rispose con un occhiolino di conferma.
Con lei c'era anche Koga e questo la rassicurò ulteriormente: l'istinto le diceva che Sesshomaru non le si sarebbe mai avvicinato vedendola in compagnia. Ultimamente Ayame e Koga erano molto spesso insieme. Non era affatto convinta che Koga ricambiasse i sentimenti dell'amica, ma era molto protettivo nei suoi confronti e Ayame, quando era con lui, sprizzava gioia da tutti i pori.
«Forza, vai a prenderci qualcosa»l'invitò Ayame, spudorata.
«Puoi anche venire con me»rispose, timorosa. Non sapeva come dirle di Sesshomaru.
«Ma no, che figura ci faccio, vedono subito che non ho ilcartellino. Dai, muoviti, che finisce tutto!»
«Le persone nei rinfreschi sono peggio di un esercito di cavallette»confermò Koga, con tono distaccato. Continuava a guardarsi intorno e questo la rese ancor più nervosa.
«E tu sei il primo!»sentì Ayame schernirlo, mentre si allontanava rapidamente.
Individuò la sagoma di Sesshomaru, intento a parlare con due luminari; le dava la schiena. Si diresse dritta al bancone e ordinò tre caffè e mentre attendeva chela hostess li versasse accumulò dolcetti a caso su un piatto; se avesse fatto in fretta probabilm…
«Rin. Posso parlarti?»
Si irrigidì e non osò voltarsi, non che ve ne fosse bisogno per determinare l'identità dell'interlocutore.
«I suoi caffè, signorina»la richiamò la hostess.
Realizzò di non aver modo di prendere i tre bicchieri con una sola mano e, mentre cercava con lo sguardo un posto dove posare il piattino con i dolci, lui le venne in soccorso prelevando i caffè dalle mani della cameriera.
«Mi domando cosa pensi di farne di tutta questa roba» osservò.
«Mica è tutta per me» rispose piccata prendendo un piatto vuoto dalla pila sul tavolo e porgendoglielo con gesto imperativo.
«Mi sembra evidente» rispose lui, appoggiando con attenzione i bicchieri sul piatto «Mi riferivo all’ingombro, non alle quantità.»
Drizzò la schiena reggendo i piatti, a dimostrazione di essere perfettamente in grado di cavarsela da sola.
«Hai altro da dirmi o vuoi continuare con banali tentativi di conversazione?»
Sesshomaru indugiò per qualche istante.
«Vorrei parlarti.»
«L’hai già detto. Si raffreddano i caffè» ribatté astiosa.
«Dopo.»
«Dopo cosa?»
«Dopo la conferenza. Ti aspetto all’uscita sul cortile interno. Se vuoi.» Aveva parlato in fretta, come se avesse voluto buttar fuori le parole prima che fosse troppo tardi.
Sospirò e si guardò le scarpe, consumate sulla punta per il continuo impatto sui pedali. Le sue rilucevano di vera pelle. «Non so se ho voglia di dedicarti ancora del tempo, Sesshomaru. Credo che me ne pentirei.» Vide in lontananza Ayame che li fulminava con lo sguardo e Koga che la tratteneva dall’avambraccio. «Devo andare» lo liquidò e si incamminò, prima che la sua amica perdesse definitivamente il controllo.
«Ripensaci.»
La sua invocazione la inseguì e le si piantò dentro, da qualche parte. In qualche modo, lui riusciva sempre a raggiungerla.

 

 

Ayame era su tutte le furie. Rin aveva minimizzato, ‘Non è successo niente, ci siamo incrociati e mi ha salutata’ ma lei non si era tranquillizzata affatto, anzi.
Era un relatore della conferenza, Rin le aveva assicurato che non ne era al corrente quando si era iscritta: meglio per lei o le avrebbe torto il collo. Ma ora era di lui che si voleva occupare. L’aveva visto dirigersi verso il bagno e si era allontanata dagli altri con una scusa, non prima di aver intercettato un’occhiata di sospettosa preoccupazione di Koga.
Ora lo attendeva nello stretto corridoio, in preda ad una rabbia a malapena contenuta. Sentiva in bocca il sapore del sangue e sapeva di essere vicina a superare il limite, ma l’idea che lui si fosse avvicinato ancora a Rin e che questo le avesse causato anche solo la minima sofferenza, le era insopportabile. Per mesi l’aveva vista disperata come mai prima: lei, la migliore amica che avesse mai incontrato, una perla rara e preziosa, calpestata come l’ultimo degli stracci.
Lo vide varcare la porta e gli fu davanti in un attimo.
«Tu!» lo aggredì con il dito puntato: «Non ti permettere mai più di avvicinarti a lei o io…»
Non fece in tempo a finire la frase che incassò un colpo sullo sterno. Fu sbalzata indietro contro una porta, che si aprì e lei rovinò all’interno, impattando con violenza contro un armadio in metallo. Stracci e materiale di pulizia le piombarono addosso. Quando riuscì a liberarsi il volto, lui le era già sopra.
Si sentì sollevare da terra come fosse un pupazzo, venne afferrata sotto la mandibola e inchiodata al muro fra due scaffali. L'altro suo avambraccio le premeva il diaframma, così forte che la gabbia toracica le tendeva la pelle al limite della lacerazione. Respirare le era impossibile. Caricò un calcio ma lui premette una coscia conto le sue, immobilizzandola completamente.«Lupa, sei stolta ed incauta! L'università pullula di Cacciatori. Ritira i tuoi canini o ti apro il ventre.»
Boccheggiò, cercò aria invano e lo guardò in faccia, pronta a implorare pietà. Niente nel suo viso rivelava un cambiamento, i caratteri demoniaci erano perfettamente celati e la sua aura era appena distinguibile. Doveva essere un demone dal potere spaventoso.
Le fu chiaro che tutte le sue parole corrispondevano a verità e che aveva ben poche possibilità di salvare la pelle. Convogliò le esigue forze rimaste nel riacquistare il controllo sulla propria aura e la stretta sul suo collo cessò facendola precipitare al suolo.
Stordita e ansante, inspirò troppo e troppo velocemente e tossì fra le lacrime, congestionata. Non riusciva a capacitarsi della rapidità con cui era stata completamente sopraffatta. Veloce, preciso, letale. Se lui l'avesse voluto, sarebbe morta senza neppure accorgersene.
«Ma tu... chi sei?» balbettò con voce roca, l'aria le bruciava la gola come fuoco.
Lui la guardò con severità e palese disprezzo.
«Non ti impicciare, Lupa, e non metterti mai più sulla mia strada.»
Un ultimo, terribile dubbio le si affacciò alla mente.
«Cosa vuoi da lei? Non ti permetterò di farle del male!» Doveva saperlo. Si sarebbe opposta fino alla morte.
Sembrò incerto se rispondere, ma poi lo fece. «Non voglio il suo male. Tu e il tuo Lupo invece» concluse in un sibilo sdegnoso «vedete di starne fuori.» Poi si voltò e con uno scatto secco si chiuse la porta alle spalle.
Ayame prese fiato ed espirò lentamente, e ripetè l'operazione diverse volte di seguito. Era viva.
Si massaggiò il collo e trattenne un gemito nello sfiorare l'articolazione della spalla, forse fratturata. Aveva ancora troppa adrenalina in corpo per provare dolore, ma sarebbe arrivato di lì a poco: avrebbe dovuto trovare al più presto un luogo sicuro per rigenerarsi.
Tuttavia, nonostante le ferite e l'umiliazione, si scoprì animata da una risolutezza nuova. Koga non era 'il suo Lupo', purtroppo, ma di certo lei non ne sarebbe stata fuori.

Quando arrivò Koga, era ancora accasciata a terra e non potè dissimulare l’accaduto. Fu anche costretta ad ammettere di essere stata lei ad aggredire e di essere stata talmente infuriata da perdere il controllo sulla propria aura.
«L’ho sentita» ringhiò lui: «E ho sentito la sua. È un dannato Cane, di sangue dannatamente puro.»
«È molto potente Koga. Mi ha presa alla sprovvista, è vero, ma mi avrebbe uccisa comunque» ammise ad occhi bassi, attendendo l’esplodere della sua collera, che non tardò.
«Potevi essere morta, stupida!» La frase le avrebbe scaldato il cuore, se non fosse stata espressa con una foga che non lasciava intendere alcun sentimento d’affetto: «Ma come fai a non capire? Siamo rimasti in pochi, dobbiamo difenderci, sopravvivere! Il nostro clan è decimato! Che lo vogliamo o no, prima o poi io e te…» Koga scaricò un pugno sul muro facendo tremare gli scaffali e interruppe la frase, ma non le fu difficile intuire l'ovvia conclusione.
Fu oppressa da un dolore lucido che la soffocò più dell’aggressione del demone.
Era dunque per quello che lui le si era avvicinato negli ultimi tempi: proteggeva il suo clan, anzi, proteggeva il futuro del suo clan. Lui era destinato alla guida del branco, lei discendeva da una famiglia di basso lignaggio ma di sangue puro. Avrebbero fatto il loro dovereper la sopravvivenza dei Demoni Lupo.
«Rischi la vita per cosa poi? Per prendere le parti diun'umanache se sapesse cosasiamo di certo ci volterebbe le spalle!» Le urlò ancora addosso e lei voltò la faccia contro il muro, offesa e ostinata. «I tempi sono cambiati, Ayame, dobbiamo guardarci dagli umani, dobbiamo difenderci per sopravvivere!» tuonò ancora. «Dovete uscire dal vostro mondo fatato, tutte e due! Dovete crescere!»
Quella frase le risuonò in testa come un campanello d'allarme di notevole potenza e la sua frustrazione ruppe gli argini. Ne aveva letteralmente piene le palledi maschi che volevano insegnare loro “come si vive” a suon di umiliazioni e dolore. Avrebbe potuto essere così come diceva Koga, ma non ci voleva credere. Lei e Rin erano state tutto, l'una per l'altra, e questo non sarebbe cambiato: se c'era qualcosa di cui era sicura, era che Rin non l'avrebbe mai rifiutata.
Forse non era «crescere» e di certo non era l'evoluzione che Koga avrebbe auspicato, ma ebbe l'impressione che, proprio in quel momento, le si fosse squarciato dinnanzi il proverbiale velo e ciò che intravide fra i brandelli pose tutto in una prospettiva diversa.
Stava inseguendo un sogno, ed era il sogno sbagliato.
Inspiegabilmente, fu meno faticoso ammetterlo di quanto fosse stato nascondere a sé stessa la verità per tutti quegli anni. E no, non provava dolore. Anche quello, sarebbe arrivato più tardi.
Si alzò rifiutando la sua mano, si aggiustò i capelli fulvi dietro le orecchie, liberando il viso e gli occhi per mostrare la sua anima con fierezza.
«Non serve crescere per capire che ci considerate come vostre pedine, in questo gioco che vi fa sentire grandi ed importanti. Non lo siamo e non lo siete, almeno non più.» Lo aveva guardato fisso negli occhi, la costernazione per quella svolta inaspettata l'aveva bloccato sul posto. Ne approfittò e si diresse verso la porta ostentando sicurezza e stringendo i pugni per celare le fitte di dolore alla spalla.
«Gira alla larga da me», rincarò la dose sull'uscio, «e trovati un'altra cagna da inseminare.»



 

***

 

 

Ci era venuta, nel cortile interno. Ovviamente. E invero ci era ancora, giacché il proprio subbuglio interiore le impediva di prendere qualsiasi decisione operativa, che fosse alzarsi e andare finalmente a casa, per lanciarsi sul letto e restarci fino alla mummificazione, o bere dalla bottiglia, per dare sollievo alle labbra diventate cartavetro a forza di tormentarle coi denti.
Invece, sedeva su una panchina da almeno un'ora, incapace di mettere ordine nel guazzabuglio di pensieri scaturiti dall'incontro con Sesshomaru. Con il demoneSesshomaru.
Gliel'aveva detto lui.
Le aveva rivelato la propria natura e l'inesperienza a rapportarsi con gli esseri umani, come se potessero essere una giustificazione.
Non riusciva nemmeno a ricordare tutto quel che avessero detto o fatto, flash e sensazioni apparivano all'improvviso e lei era frastornata.
«Quindi i demoni sono soliti sfruttare e poi calpestare i sentimenti altrui? Avete imparato questo in secoli di vita? Bel traguardo» aveva ribattuto, arrabbiata con lui e con sé stessa, per essersi prestata all'ennesima presa in giro.
«Dobbiamo difenderci» aveva affermato lui fra i denti.
«Difenderti? Ma da cosa? Da chi?» aveva allargato le braccia, si era guardata i vestiti semplici e la borsa dei libri consumata, si era figurata la propria capigliatura, raccolta in una coda sconnessa. «Da me, dovevi difenderti da me?»
Ecco, era quello il momento di cui non riusciva a liberarsi, continuava a riviverlo da molteplici angolature ma era come essere presa in un vortice e alla fine precipitava sempre nelle stesse conclusioni.
Lui l'aveva guardata davvero, aveva abbracciato la sua figura con uno sguardo sofferente. Non di sdegno, non di indifferenza, non di superiorità. E aveva detto: «Ci ho provato.»
Aveva abbassato le braccia e pigolato un «cosa?», per poi lasciarsi cadere sulla panchina alla quale era tutt'ora inchiodata
Per quanto cercasse di vedere altri significati, quella frase e quell'espressione appartenevano ad una persona combattuta, che in quei mesi, come lei – no, non come lei – aveva sofferto e che si sentiva in colpa. Non se l'aspettava.
Poi le aveva chiesto perdono.
Aveva usato una formula che le era suonata arcaica, ma della quale aveva intuito la solennità e che, per il modo in cui l'aveva cacciata fuori dalle labbra strette, doveva anche essergli costata parecchio.
Piacendo agli dei, nelle lune a venire, possa tu concedermi il perdono”.
In piedi davanti a lei, il busto rigidamente piegato in pronunciato inchino, aveva atteso qualche secondo. Infine si era sollevato e congedato con un altrettanto formale “Con permesso” e lei era rimasta lì, ad annaspare.
Non se l'aspettava. Di vedere una persona tanto altera, superba, sicura di sé, così esposta. Di percepirne l'insicurezza, il desiderio di essere compreso e insieme l'incapacità di esprimersi.
Altro che demone, le era sembrato assai umano.
Ecco palesarsi il peggior tranello, la trama ordita dalla sua mente di bambina buona, alla costante ricerca cerca di motivazioni e giustificazioni nell'agire di tutti, che si muove a compassione nel percepire un sentimento autentico. Si era trovata invischiata nella possibilità di accettare le sue scuse. Non che l'avesse fatto, certo che no, non era pronta. Ma la possibilità si era insinuata, pericolosa come la goccia che penetra e fessura la pietra.
Gli aveva permesso di rientrare nella sua vita, di tornare ad occupare tempo e spazio nella sua mente. Il lavoro di costruzione della Grande Muraglia di Contenimento del Dolore, in cui tanto si era impegnata negli ultimi mesi, era già sospeso e nella barriera si intravedevano pericolose fenditure.
Guardò il cielo terso, il giardino curato nonostante l'arsura estiva, percepì il ronzio degli insetti e il rombo del traffico oltre il confine del campus e si scoprì sollevata. Non avrebbe saputo come spiegarlo diversamente. Gran parte del rancore era scivolato via ed era stato gratificante ricevere la richiesta di perdono, ora si sentiva riconosciuta, riportata alla dignità che sapeva di avere. Restava il dispiacere per il sentimento rifiutato, il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non era stato, il rimorso per quello che avrebbe potuto capire e non aveva capito - erano davvero diversi, non sapeva nemmeno quanto – ma tutto questo le sembrava più facile da accettare. Una delle lacerazioni principali si stava chiudendo, col tempo si sarebbero cicatrizzate le ferite più piccole.

L'unico vero problema, e al solo pensiero le tremarono le gambe, sarebbe stato confessarlo ad Ayame ad affrontare la sua ira funesta!

 

 

Si erano date appuntamento a casa di Ayame ed ora sedevano sul divano a gambe incrociate una di fronte all'altra, brandendo ciascuna l'arma – un brillante cucchiaino in puro acciaio inox – con la quale avrebbero affrontato i rispettivi problemi su un ormai collaudato campo di battaglia: la vaschetta da un chilo di gelato al cioccolato.
L'urgenza-gelato si era palesata durante la brevissima conversazione telefonica della sera prima:
«Ciao...»
«Ciao!»
Pausa imbarazzante.
«Aya, devo dirti una cosa...»
«Anche io...»
Pausa imbarazzante.
«Quando?»
«Domani pomeriggio da me.»
«Prendo il gelato...?»
«Eh. Sì.»

Si erano scrutate di sottecchi e scambiate convenevoli standard mentre si salutavano e portavano il necessario in salotto, ma era evidente che le danze si sarebbero aperte solo quando fossero state pronte e in posizione.
«Fazzoletti?» chiese Ayame.
«Abbondanti» rispose lei indicando la confezione ai piedi del divano. «Cellulare?»
«Spento» confermò l'altra, e poi la prevenne con la fatidica domanda: «Chi inizia?»
«Io ho portato il gelato...» provò lei.
Ayame grugnì e assentì con una linguaccia. «Ho diritto al primo colpo, vero?» e senza attendere l'ovvia risposta affondò il cucchiaino nella cremosa delizia posta fra loro, riempiendosi la bocca e assaporandola.
Quando ebbe finito il rituale iniziale incominciò a parlare e solo allora Rin si concesse la prima, abbondante cucchiaiata.
«Ho scaricato Koga» esordì l'amica e Rin, con l'arma ancora in bocca, fece tanto d'occhi e mugugnò un “mmh” di stupore.
«E ho fatto a botte con il tuo ex-vicino» continuò e questa volta Rin quasi si strozzò.
«Coosa? Ma...» esordì incredula, ma Ayame la stoppò subito.
«Zitta e mangia. E ascolta. Non proprio botte, lui mi ha stesa in quattro e quattr'otto»
Rin non riuscì a trattenere una smorfia di orrore e disgusto al pensiero che luiavesse osato alzare le mani sulla sua indifesa amica – che proprio indifesa non era, giacché praticava assiduamente e con indiscussa abilità diverse arti marziali – ma ancora una volta Ayame interruppe la corsa dei suoi pensieri sventolando in aria il cucchiaino.
«Frena. Aveva tutte le ragioni, l'ho aggredito io, alla conferenza» abbassò lo sguardo e la voce «vi ho visti parlare e ho dato di matto. Volevo spaventarlo, volevo ti stesse alla larga.»
Entrambe ingurgitarono una dose massiccia di cioccolato.
«E invece mi ha stesa lui. È... molto forte.» concluse affranta.
«È un demone» le uscì fuori prima di aver tempo di pensare.
Ayame restò interdetta per qualche istante, poi fece due più due.
«E tu come lo sai?» le chiese assottigliando gli occhi.
«Me l'ha detto lui» pigolò, colpevole. “L'altro ieri” lo omise: in fondo non era ancora il suo turno.
«E cosa aspettavi a dirmelo?» chiese l'altra, che dovette intuire qualcosa di losco dietro il suo infilarsi prontamente mezz'etto di cioccolata in bocca perché impugnò il suo cucchiaio a due mani e lo affondò nel gelato, per poi rigirarvelo dentro più volte con impeto, manco fosse una vera spada nel petto di Sesshomaru.«Comunque» riprese Ayame a testa bassa «anche io sono un demone.»
Rin aprì la bocca e la richiuse. «E cosa aspettavi a dirmelo?» la scimmiottò, ma si pentì immediatamente, perché la sua amica teneva la testa bassa e giochicchiava col gelato.
Non si era mai interrogata veramente sul problema razziale che tanto infervorava i media, tuttavia era consapevole che non fosse una questione di poco conto e che per un demone, di questi tempi, esporsi così apertamente fosse un grosso rischio.
Picchiettò il proprio cucchiaino contro quello di lei e le rivolse un «Ehi» di incoraggiamento, attendendo che continuasse quel racconto assurdo. E lei che aveva paura di estrarre il suo scheletro dall'armadio! Dilettante! Ayame ne stava tirando fuori un intero esercito!
L'amica sospirò, poi sollevò il suo sguardo di smeraldo e attaccò a raccontare.

Aveva tirato avanti con foga per cinque minuti buoni. Sulla parte in cui Sesshomaru l'aveva messa a tappeto aveva sorvolato forse un po' troppo – ma ci sarebbero ritornate, eccome – mentre nel racconto della scoperta delle vergognose mire di Koga e di come lei l'avesse liquidato, Ayame aveva impresso così tanta fiera decisione che se Rin avesse avuto Koga fra le mani l'avrebbe strozzato lei stessa.
«Ma che concezione assurda! Che esseri orribili! Oh, scusa» esplose Rin, correggendosi subito.
«Mi sembrava di sentir parlare mio nonno» convenne Ayame, archiviando le scuse con un gesto. «Figurati se mi sposerei con lui solo per mandar avanti la specie! Se siamo sopravvissuti in così pochi ci sarà un motivo, no?»
«In che senso dici?» Rin ora era curiosa. Si stava rendendo conto con dispiacere di aver archiviato la questione “demoni&terrorismo” in un angolo della mente, insieme a tutte le problematiche scomode e delicate dalle quali ci si può ritenere sufficientemente – e vigliaccamente – estranei, ma ora che si era scoperta coinvolta le sembrava doveroso approfondire e cercare di capire. In fondo tre delle persone che più aveva frequentato negli ultimi mesi, si erano rivelate essere dei demoni: così pochi non dovevano essere. O li aveva calamitati tutti lei? Ma che fortuna.
«Quando dici “pochi” cosa intendi?» si decise a chiedere.
Ayame ci pensò su un poco, mentre ingurgitava gelato a ripetizione. Era suo diritto: in tutti quei minuti di filippica, Rin ci aveva dato dentro, l'amica doveva riportarsi in pari.
«Guarda, di famiglie di Lupi ne conosco quattro o cinque, sparse per tutto il Giappone, sostanzialmente parenti miei o di Koga. Ce ne saranno altre, ma non so. Non molte altre. Non più di una trentina di individui. E siamo fra le comunità più numerose, perché i nostri clan sono molto tradizionali»
«Ho sentito anche parlare dei Corvi» chiese lei.
«Sì, anche loro sono parecchi e si sono concentrati tutti in città. Vivono in gruppi più numerosi e» fece una smorfia disgustata «stanno cercando di conquistare questo territorio.»
«Conquistare? Anche con la violenza?» osò lei.
Ayame alzò gli occhi al cielo. «Ma certo! Siamo demoni, mica principesse Disney!» sbuffò, sentenziando così l'ennesima verità cosmica.
Rin riempì un'abbondante cucchiaiata e buttò lì con indifferenza: «E i Cani?»
«I Cani» pronunciò Ayame come se avesse la bocca piena di vermi, «sono bestie rognose come il tuo vicino, altezzosi figli delle cagne loro madri. Le nostre specie si detestano da sempre.»
«Ah, mi pareva.»
«Non fare ironia. Grazie agli dei, credo ci sia solo più la famiglia del suo vicino qui in città. Anche loro vivono in piccoli gruppi.»
«Lui però vive solo...» osservò Rin.
«Già» assentì Ayame e restarono qualche secondo in silenzio, sovrappensiero.
L'affondo dell'amica, nel gelato e nei suoi confronti, la riportò alla realtà, facendola sobbalzare «E adesso tocca a te, piccolo serpentello! Cosa mi nascondi?»
Prese tempo, fingendo di essere impegnata a leccare il proprio cucchiaino con assoluta devozione ma poi si arrese: era ora di vuotare il sacco.

Le aveva raccontato tutto. Dall'incontro al supermercato, al messaggio tanto atteso, a quello che le aveva detto al buffet della conferenza, a ciò che era accaduto nel cortile. Le aveva confessato la sua vergogna per aver in un certo senso ceduto, acconsentendolo a rivederlo, ma anche il sollievo che aveva provato nel sentire le sue scuse accorate. Non aveva taciuto nulla, perché se c'era una persona che meritava la sua sincerità, questa era Ayame.
Come lei prima, l'amica l'aveva ascoltata in silenzio, stranamente pensierosa.
Quando finì, il silenzio cominciò fra loro a pesare e Rin fu assalita dal terrore di aver deluso la sua amica e di aver suscitato il suo disprezzo. Quante volte aveva raccolto le sue lacrime? Quante volte aveva arginato la sua disperazione? Avrebbe pensato che erano bastate due moine a farle dimenticare tutta la sofferenza? Che sciocca!
«Ayame...» sussurrò, sull'orlo delle lacrime, gli occhi piantati sul proprio ombelico, «Ti chiedo scusa, io...»
«Sfcufa?» le arrivò la voce incredula dell'amica, «Ma fcufa di cofa?»
Rin alzò lo sguardo e Ayame si levò il cucchiaino dalla bocca, mantenendo un'espressione stupita da attrice professionista.
«Per non avertelo detto...»
«Rin, ma che dici!» la interruppe l'amica, «Era una decisione tua, scegliere di ascoltare cosa aveva da dirti.»
«Sì, ma ho deciso di incontrato di nuovo dopo che mi ha fatto tanto male...»
«Guarda che se permetterai che ti faccia ancora male, dovrai chiedere scusa solo a te stessa» sentenziò Ayame con semplicità.
Rin sbattè gli occhi, sbalordita. «Cotanta saggezza. Si vede che sei vecchia.»
«Cosa?» sbraitò Ayame. caricando il lancio del cucchiaino come fosse un freccetta. «Dillo ancora e ti infilzo come un'oliva. Vecchia sarà quella zoccola della madre del tuo Cane, iosono una demone giovane
Rin si riparò dietro un cuscino e rise fino alle lacrime (in qualche modo doveva pur liberarle).
«Che scema che sei, solo tu potevi pensare che me la sarei presa con te. È lui che deve guardarsi le spalle.»
«Perché, in un combattimento di fronte le prenderesti di nuovo?»
«Non scherzare» la fulminò Ayame con uno sguardo terribilmente serio, «tu non sai di chi stiamo parlando. Per oggi non voglio rovinare il tuo bel castellino in aria 'Oh il bastardo del mio ex-vicino ha un cuore', ma tra due giorni torni qua e ti becchi una bella lezioncina sui demoni.»
«Oh, ne sarei felice!» esclamò entusiasta.
«Bleah, sei così zuccherosa che mi viene il vomito!»
«Eddai, sono mesi che mi dici 'tornerai a sorridere'»
«Ri-bleah!»
«Finisco io il gelato? Ti vedo provata.»
«Sì, ho un principio di iperglicemia.»
Rin rise ancora, portandosi in grembo la vaschetta e accarezzandola come fosse un gattino. Ayame la guardò con affetto e Rin fece lo struzzo nella vaschetta per dissimulare la commozione. Basta lacrime.

 

Ayame provò un moto di vera tenerezza. Quel pomeriggio aveva ritrovato una parte di Rin che tanto le era mancata, era davvero felice per lei.
“Io adoro la Rin che è felice di non provare rancore, e la ammiro. Questa sei tu, questa è una delle parti più belle di te.” Avrebbe voluto dirglielo ma lo tenne per sé. Che si facesse bastare il fatto che non l'avesse mandata a casa a calci nel culo. Accettare le scuse di quel Cane rognoso... ma quando mai! Era evidente che certe reazioni umane – che Rin praticava in maniera eccelsa, ben più di molti della sua specie – le erano precluse: tolleranza, comprensione, perdono... Tri-bleah.
Poteva concedere a quel Cane una minuscola percentuale di beneficio del dubbio riguardo alla sua sincerità, poiché in effetti il comportamento che Rin le aveva descritto era perlomeno anormale, considerata la storia – su cui si era documentata – della famiglia di Inu-Yokai più antica del Giappone e ancor più in specifico il carattere sanguinario ed antisociale del giovane rampollo. Ma era più propensa a pensare che il bastardo nascondesse un secondo fine, o più semplicemente desiderasse prendersi ancora gioco di Rin.
Osservò l'esile figura sul divano, intenta a ripulire di nascosto la vaschetta con il dito. Un assurdo concentrato di vita ed entusiasmo.
Sbattè con rabbia il cucchiaino nel lavandino.
L'avrebbe stanato a forza. Se le avesse fatto ancora male, l'avrebbe ammazzato con le sue stesse mani, ad ogni costo.
Doveva intensificare gli allenamenti, troppi elementi annunciavano che i tempi stessero per cambiare.



 

 

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(*) Panta rhei, tutto scorre. La frase si attibuisce ad Eraclito ma probabilmente fu una sintesi del suo pensiero elaborata dalla tradizione filosofica successiva.

Buongiorno e bentrovati!
Doveva essere un capitolo di chiusura invece è un capitolo di passaggio e per certi versi di apertura. In una trama che inizialmente si concentrava su un'esperienza intima, si inseriscono elementi esterni, sociali, politici. Non si darà loro grande spazio - resteremo ancorati alla storia d'amore che sì, lo sapete, si sta ripresentando – ma non sono riuscita a mantenere fuori un contesto che spingeva per entrare.

Anche Ayame ha preteso spazio. Ho inserito due suoi pov perché mi serve una voce della coscienza, un elemento di disincanto che contrasti Sesshomaru e renda combattuto il suo riavvicinamento a Rin.

Credo sia un racconto disomogeneo, ci sto mettendo troppo a scriverlo e cambia forma sotto le mani. Spero possiate goderne ugualmente.
Il prossimo capitolo sarà davvero l'ultimo e sarà pubblicato l'ultimo weekend di marzo (di quest'anno :D ), poi seguirà un epilogo pubblicato a parte. Rosso, ovviamente ;P

Vi abbraccio e vi ringrazio, siete eroici a leggere ancora. 

elerim

   
 
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