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Autore: Ryo13    24/02/2019    7 recensioni
La vita di Kaylee Turner subisce un brusco cambiamento: costretta a contare sulle sue sole forze per tirarsi fuori dai guai in cui si ritrova a causa dell'ignobile patrigno, forgia il proprio carattere per diventare una regina oscura, ed ottenere una posizione dalla quale può auspicare di gestire la propria esistenza. Ma quando si stringe un patto con le forze del male non tutto va come si desidera: ci potranno essere cose che non valgono il prezzo di un'anima.
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "Miglior dialogo" al Contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La regina nera'
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AVVISO: Questo capitolo può contenere un linguaggio crudo

 

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AGGIORNAMENTO DEL 31/08/2020: Ho pubblicato una shot su Kaylee e Sergej che si posizione tra il primo e il secondo capitolo. Se sei curioso, leggi  La regina nera: La promessa che ti ho fatto
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Capitolo II

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I contorni dell’incubo si fecero sfumati mentre Kaylee si svegliava tremando, in un bagno di sudore. Qualcuno l’aveva toccata: si accorse della piccola mano posata sul suo avambraccio e sollevò gli occhi a fissare quelli scuri e seri di un bambino di non più di cinque anni. Per un momento tentò di ricordare il suo nome, sebbene lo conoscesse piuttosto bene, ma il terrore che le aveva lasciato addosso il sogno lottava contro la lucidità che ritornava.

«Gabriel», sussurrò, «che ci fai qua?»

«Hai gridato e sono venuto» spiegò in breve il piccoletto. «Era il mostro?»

Kaylee si tirò su e scosse la testa, scostandosi dal collo i capelli incollati alla pelle. «Non quel tipo di mostro… ma tu? Non dormivi?»

Gabriel fece una smorfia.

«Ti va di stare un po’ qui con me? Ci facciamo compagnia.»

Il bambino si arrampicò sul letto, l’espressione sollevata. Kaylee se lo sistemò vicino, cingendo con un braccio il piccolo corpo. Si accorse che tremava leggermente. «Anche tu hai fatto un brutto sogno?» lo interrogò lisciandogli i capelli e accarezzando leggermente una guancia. Lui annuì.

«C’era… c’era il signore cattivo e faceva del male al mio papà e… n-non potevo fare niente.»

«Shh...» lo tranquillizzò, «sai che non può farti nulla. Ti proteggerò io, Gabe.»

«Ma...»

«Nessun ‘ma’... fai quello che ti dico e ti terrò al sicuro.»

«Voglio il mio papà», piagnucolò.

Kaylee immaginò come poteva essere avere qualcuno da amare e da cui essere protetti senza condizioni. «Lo so, Gabe. Vedrai che lo rivedrai presto. Adesso cerca di dormire.»

Gli baciò la fronte e nel buio cominciò ad ascoltare il respiro sempre più regolare e tenue del bambino che sognava la sua casa. Gabriel era figlio di Pablo Gutierrez, un trafficante argentino che aveva dato alcuni problemi a Rafail: circa due mesi prima, quindi, era stato rapito per tenere suo padre in pugno. Kaylee si era ritrovata ad accudirlo e provava per quel piccoletto sentimenti di tenerezza e protezione che non aveva mai conosciuto per nessuno.

Ricordava ancora quando era arrivato alla villa pallido e tremante, stringendo convulsamente un orsetto. Dovevano averlo preso di notte, dal suo letto. Uno degli uomini di Rafe l’aveva mollato nell’ingresso senza perderlo d’occhio. Rafail, vedendola in cima alle scale,  le aveva rivolto un sorriso storto. «Perdona la mancanza di preavviso, mia cara. Ti ho portato un cucciolo», aveva annunciato ilare. 

Aveva ancora addosso la sua tenuta da combattimento, quella che indossava sempre quando partecipava a qualche incursione coi suoi uomini. Si era avvicinato slacciandosi il giubbotto antiproiettile, apprezzando con un’occhiata la leggera sottoveste che indossava, prima di baciarla. Kaylee aveva percepito su di lui l’odore di sudore, e sotto quello della sua pelle, e si era lasciata trascinare a contatto del suo corpo che emanava una particolare vibrazione. Vibrazione che gli trasmise spudoratamente con un massaggio un po’ rude dei fianchi. 

«Occupati del bambino. Ti aspetto di sopra». E lei si era avvicinata a quell’esserino smorto che aveva sussultato quando gli aveva rivolto con gentilezza la parola. 

C’era voluto un po’ di tempo prima che riuscisse a calmarlo abbastanza da fargli dire il suo nome; continuava a portare gli occhi nella direzione da cui era salito Rafail, chiaramente temendo il suo ritorno: dopotutto, era il ‘mostro’ che l’aveva trascinato giù dal letto e lontano dalla protezione della propria casa e della famiglia. Gli aveva dato da bere un po’ di latte con un leggero sedativo, prima di sistemarlo in una camera vicina alla sua e lasciarlo alla custodia di una delle cameriere della magione. Poi era tornata da Rafail.

Mentre rifletteva su tutto questo, la porta si schiuse facendo penetrare un raggio di luce che l’abbagliò; tutto tornò buio quando venne richiusa e percepì passi felpati avvicinarsi al letto. Lei si scostò da Gabriel, il corpo teso in avanti a protezione del piccolo contro “l’uomo cattivo”. 

Rafail grugnì leggermente infastidito. «Non avevo pensato che l’avresti avuto sempre appiccicato addosso quando l’ho portato», commentò. «Non sono sicuro che la cosa mi piaccia.»

Kaylee lo blandì: «Non sei certo in competizione con lui per le mie attenzioni».

Rafail fissò per un momento la sagoma immobile dall’altro lato del letto, poi le afferrò una spalla spingendola e sussurrandole all’orecchio: «Hai ragione. Non sono in competizione con nessuno, perché tu mi appartieni». 

Avrebbe dimostrato coi fatti che poteva fare di lei ciò che voleva. La schiacciò quindi sulle coperte, scivolandole tra le gambe e in pochi secondi la penetrò con foga. Kaylee soffocò un gemito sulla sua spalla: non voleva rischiare che il bambino, svegliandosi, li sorprendesse.

Il fiato di Rafail sulla sua guancia sapeva di whisky mentre il suo odore era quello del dopobarba. Si mosse con la consueta sicurezza di ottenere ciò che voleva, ma c’era nella forza delle sue spinte qualcosa che Kaylee non sapeva definire: stava marcando il territorio. Non ci volle molto tempo prima che lei rispondesse contraendosi, nonostante la situazione, e poco di più prima di sentire in profondità il calore del seme versato tra gli spasmi dell’uomo. Prendendo dei brevi respiri si tirò fuori e si sedette sul letto, riallacciandosi i pantaloni. Kaylee rabbrividì intimamente al contatto dell’aria fresca sul sesso caldo e lo toccò sulla spalla, richiamandone l’attenzione.

«Hai fatto piuttosto tardi» disse mentre tornava a respirare normalmente.

Rafail si passò una mano tra i capelli e si voltò a guardarla. «Sì, ma abbiamo concluso l’affare a Dallas.»

Ne fu sorpresa. «Devi essere contento allora… ha richiesto più tempo di quanto avevi previsto all’inizio, no?»

Lui sbuffò. «Niente che non avessi messo in conto, in realtà. Ma è fastidioso dover risolvere i problemi che creano gli incompetenti». Rafail non sopportava gli incapaci: era solito guardare chi era meno intelligente di lui con rassegnazione, perché da tempo aveva capito che non avrebbe potuto evitare la noia di attendere che le persone arrivassero alle conclusioni che lui aveva già tratto; ma pur tollerando l’idea di essere circondato da gente non troppo brillante, tuttavia, non soffriva di avere a che fare quozienti intellettivi persino al di sotto della media. Era rigido negli affari: raramente lasciava spazio di manovra alla controparte, arrivando anche ad adottare misure estreme, come il rapimento.

Kaylee percepì un ansito alle sue spalle e voltandosi vide Gabriel agitarsi per un sogno che lo turbava. «Lo riporto in camera», disse.

Alzandosi, andò dall’altra parte del letto e si chinò sul bambino, sussurrandogli rassicurazioni e sollevandolo al contempo in braccio, nonostante il peso. Gabriel aveva un velo di sudore sulla nuca e lei lo baciò di nuovo. 

Sulla porta che separava la sua camera da quella del bimbo, Rafail la fermò. 

«Ho dimenticato di dirti che a breve Sergej sarà di ritorno.»

L'osservò assorbire l’inaspettata notizia, mentre cercava di valutarne le implicazioni. Kaylee tentò di sciogliere la tensione sulle spalle senza riuscirci del tutto. 

«Farò preparare una camera per lui allora», rispose sparendo dietro la porta.

♛♚♛   

Il quartier generale di Rafail aveva lo stesso maestoso aspetto di sempre: a una decina di chilometri dalla città di Mosca, sorgeva l’abitazione di duemila metri quadri su un terreno di quasi seimila, che si affacciava su uno splendido lago. La struttura in mattoni chiari era un composto armonico di scalinate, balconi e finestre su un’altezza di tre piani, fino al tetto scuro punteggiato da guglie che ne delimitavano il profilo.

Sergej era fermo sul giardino di fronte l’entrata: aveva attraversato i controlli al cancello senza alcun problema, ovviamente... del resto, era cresciuto in quel posto. Tuttavia non si decideva ancora a entrare. “Tutto questo è ridicolo!”, pensava irritato con se stesso. “Questa è più casa mia che sua!”. Fissava le finestre per percepire qualche movimento all’interno dell’abitazione, ma tutto sembrava tranquillo. Sospirò, arrendendosi all’inevitabile, e si diresse verso la porta. 

Non aveva messo piede alla villa da più di due anni: solo tre anni prima erano tornati dall’America in pianta stabile: gli affari andavano tanto bene da permettere di lasciarne la gestione dei centri maggiori a personale di fiducia. 

Non essendo costretti a vigilare costantemente sull’andamento delle cose, la Belaya Smert aveva permesso loro di ritirarsi. Per la precisione, Rafail stesso si era autorizzato: asceso all’elite del gruppo, grazie ai proventi dei progetti che aveva portato avanti con tanta solerzia, ora poteva fare ciò che più gli aggradava. Ma Sergej conosceva bene il cugino: sapeva che non avrebbe rinunciato all’azione per nulla al mondo. L’esercizio del potere, del resto, era una delle poche cose che riuscissero ad appassionare un uomo come lui. Dunque erano tornati alla casa paterna, a Mosca, con Kaylee la quale, nel frattempo, aveva finito il liceo e si apprestava a entrare all’università in Russia.

Il pensiero della ragazza gli strinse un nodo allo stomaco, come di consueto. 

Sergej colpì lo stipite della porta, contrariato che quella donna avesse un simile potere su di lui, dopo tutti quegli anni. 

All'inizio aveva provato il brivido della sfida: era una ragazzina magrolina ma con un carattere di ferro che si scorgeva attraverso gli occhi caparbi. Aveva anche tentato di spaventarla, cercando di portarsela a letto appena dieci minuti dopo il loro primo incontro. Era stata fin troppo furba nello sfidarlo a metterle le mani addosso, dimostrando l’autocontrollo di un bruto, per poi vendersi al cugino e conquistare una posizione da cui non avrebbe più potuto essere toccata. E toccarla lo aveva desiderato davvero, ogni giorno, con sempre più forza. 

Oh, era bastato poco per far fiorire da lei una sobria bellezza: un po’ di cibo, una relativa stabilità e abiti migliori… e d’un tratto la sua figura si era ammorbidita, mostrandone tutta la grazia. Non era bella in modo classico: non aveva tratti speciali o colori di tonalità esotiche, eppure i piccoli seni e la pelle morbida gli mettevano il fuoco addosso. Poi c’era il suo atteggiamento: freddamente vagliava il mondo giudicandolo e misurandone gli elementi che potevano tornare utili, mentre ergeva un muro di silenzio.

Sergej si era trovato ben presto a chiedersi che cosa celasse al di là: cosa pensava quando lo guardava? E quando stava con Rafail, o lui la portava a letto? 

Poteva solo immaginare di vederla rabbrividire in preda all’orgasmo, l'espressione finalmente turbata, il respiro rotto… “Vot der'mo!” Doveva assolutamente tenere sotto controllo i propri istinti. Non poteva ridursi a scappare di nuovo, come aveva fatto un paio d’anni prima, quando la tensione dentro di lui era arrivata al punto che l’avrebbe aggredita, pur di averla.

Rafail doveva essersi accorto del tormento che stava vivendo: a quell’uomo di rado sfuggiva qualcosa, ma non si era preoccupato di intervenire in alcun modo; anzi, c’era una buona probabilità che l’intera situazione lo divertisse, tanto da stare a vedere se crollava.

Era sicuramente contento di possedere Kaylee perché si era rivelata davvero un acquisto interessante e, per di più, riusciva anche a tormentare l’intelligente e vanesio parente. 

Sergej non si faceva illusioni al riguardo: poteva darsi che Rafail godesse nel vederlo preda del desiderio per lei, ma se l’avesse toccata gliel’avrebbe fatta pagare cara. É la natura stessa del potere a esigerlo: si può mostrare ciò che si possiede per scatenare la sete altrui, ma al contempo bisogna impedirne l’accesso a tutti. 

Adesso l'affare a Dallas era concluso e non poteva rimandare oltre il ritorno all'ovile.

«Ti dico che c'è un uomo qui fuori!»

Sergej sobbalzò nel sentire la voce di un bambino vicino l'ingresso.

«Sta fermo senza fare niente.»

«Gabe, sarà uno dei giardinieri, lascia stare… andiamo piuttosto a farci un panino, che ne dici?»

«Ma io non l'ho mai visto! Dici che è uno  nuovo?»

La tentazione del panino non aveva vinto la curiosità.

«È possibile. Lo sai che la casa è grande.»

D'improvviso gli venne in mente che il bambino Gabe doveva essere Gabriel Gutierrez: alcune settimane prima Rafail gli aveva accennato di avere preso in custodia il figlio del trafficante argentino, suo noto rivale. Ad attrarre la sua attenzione però fu sentire il suono della voce di Kaylee con una nota insolitamente calda, persino allegra. 

La porta si aprì rivelando la figura di un bimbetto smilzo e scuro ma dai vivaci occhi verdi.

«Sei il nuovo giardiniere?», chiese, studiandolo.

«No» rispose. «Sono il padrone di casa. Fammi passare.»

Ma il bambino non si spostò di un centimetro. «Io conosco il padrone di casa: i-il signor Rafail», annunciò deciso, pur oscurandosi al pensiero di quell'uomo. «Non puoi essere tu il padrone», concluse con logica.

«Invece sì. Rafail è mio cugino, nanerottolo. Spostati.»

Avanzò con decisione lasciando all’altro di scegliere se essere travolto o se spostarsi. Il bambino scelse saggiamente: si scostò appena in tempo, rivolgendosi verso Kaylee, dalla quale cercava appoggio e protezione.

Era rimasta alle sue spalle per tutto il tempo, riconoscendo la voce dell'uomo alla porta, ed era rimasta indecisa su cosa fare. Aveva di nuovo le spalle tese ma non poteva negare che la situazione fosse divertente: Sergej alle prese con un bambino col quale si contendeva il territorio. Quell'idea le fece piegare le labbra in un sorriso, che si congelò quando l'uomo, avanzando, le fu di fronte.

«Ecco la reginetta della casa», disse Sergej fissandola col consueto scherno.

«Quale sarebbe di conseguenza il tuo titolo? Il principe  ereditario?»

Sergej grugnì in un modo che lo rendeva pericolosamente simile al cugino. «Avrei davvero belle gatte da pelare a ereditare te, Lee.»

La ragazza rabbrividì al pensiero di cosa avrebbe potuto farle se gli fosse appartenuta: anni di acrimonia e desiderio negato avrebbero potuto esplodere con effetti devastanti per entrambi. Kaylee non ebbe il tempo di pensare a una risposta da dargli perché Gabriel la strattonò per una manica, chiedendo con insistenza il panino promesso.

«Va bene, va bene… adesso andiamo a mangiare. Vai da Marta e dille di tirare fuori i condimenti.»

Gabriel, dopo un'ultima occhiata al nuovo arrivato, corse via.

Kaylee tornò alla conversazione. «Ti ho fatto preparare una stanza di sopra.»

Lui sollevò un sopracciglio. «Non mi avrai sistemato accanto alla camera padronale, voglio sperare.»

«No. Ti ho messo in stanza con Gabriel.»

«CHE COSA?!», gridò allarmato. Quando vide le spalle di Lee tremare da risate appena trattenute, si rese conto dello scherzo. Perplesso e spiazzato, sbuffò, agitandosi sul posto. 

Alla fine sorrise lui pure. 

«Se volevi che mi sbarazzassi del moccioso, dovevi solo chiedere, devushka.»

«Gabriel non si tocca», rispose secca, ma sollevata di essere riuscita a rompere il ghiaccio. Magari avrebbero potuto trovare un modo per superare i loro contrasti. 

«Vieni, ti accompagno sopra.»

Mentre percorrevano i corridoi familiari, Sergej si accorse che erano stati apportati diversi cambiamenti: dovevano essere opera della ragazza. Arrivarono alla porta della camera che gli avevano destinato, della sua vecchia stanza non c’era più traccia. Entrando, lasciò cadere per terra il pesante borsone e si guardò intorno. Era tutto piuttosto semplice, ma raffinato: i colori scuri coordinati tra loro. 

Pensava che Kaylee se ne fosse andata silenziosamente, come era solita fare, ma si accorse che invece era entrata: gli stava persino indicando dove avesse fatto sistemare i vari articoli di toeletta, pantofole e accappatoi compresi. Rifletté sul fatto che era cambiata: che fosse semplicemente l’età o l’effetto della lontananza, c’era qualcosa di diverso.

L’osservò muoversi da perfetta padrona di casa nella sua camicetta azzurro pallido e la gonna al ginocchio beige, da donna morigerata. Le fissò la vena azzurrina sul collo, lì dove una ciocca dei capelli scuri la sfiorava. Adesso che gli si era fatta vicina, riuscì a percepire persino il suo odore di fresia.

Kaylee sollevò lo sguardo su di lui con un’espressione interrogativa. Sergej pensò che probabilmente si aspettava una risposta su quanto gli aveva illustrato, ma lui era preda di una sete potente quanto improvvisa, che l’aveva paralizzato.

«O bozhe...», soffiò tra i denti.

La ragazza si accorse della tensione nei suoi lineamenti. Sbatté le palpebre, tentando di rompere la tensione che si era creata. I suoi occhi scivolarono verso la porta, indecisa se scappare all’istante. Doveva continuare a fingere ignoranza? In passato aveva adottato questa strategia con ben poco successo: l’attrito tra loro si era solo esasperato. Dire qualcosa avrebbe potuto aiutare?

Sergej si era aspettato di vederla guadagnare la porta: l’aveva sorpresa a sbirciarla. 

Lei non si mosse, così allungò una mano posandole le dita alla base del collo, appena sopra la clavicola. Percepì il battito accelerare e vide le sue pupille dilatarsi: chissà, forse per la paura. 

Apprezzò il calore e la sericità della pelle, facendo scorrere il palmo lungo la giugulare, fino a circondarle la nuca. Si chinò su di lei senza spezzare il contatto visivo, i loro respiri che si mescolavano nei pochi centimetri che li separavano.

Sergej corrugò la fronte, socchiudendo le palpebre: le stava silenziosamente chiedendo il permesso. 

Kaylee si rendeva conto di trovarsi a un’impasse perché se da un lato una inaspettata voglia di abbandonarsi tra le sue braccia si stava facendo largo con prepotenza dentro di lei, dall’altro, non poteva dimenticare di appartenere a Rafail: qualsiasi contatto proibito avrebbe potuto avere conseguenze gravissime, non ultima quella di perdere la propria posizione. Nondimeno, non c’era solo questo a farla titubare: anche Sergej sarebbe stato in pericolo. Rafail, infatti, non avrebbe tollerato nemmeno dal proprio sangue una sfida alla propria autorità.

Sergej era sul punto di lambirle le labbra, ma Kaylee poggiò le dita sulla sua bocca, impedendogli di andare oltre.

«Perché mi fermi?», le chiese con voce roca.

«Lo sai il perché», rispose, respirando il suo fiato.

La grande mano calda di Sergej si tese, poi scivolò pian piano verso il basso, carezzando spalla e braccio, fino a fermarsi sul polso. Lo circondò senza intrappolarlo, mentre col pollice prese a disegnare lenti cerchi. Era riluttante a interrompere il contatto, nonostante il bacio negato. Serrò gli occhi con forza, tentando di dominare il proprio desiderio.

«Come farò a stare in questa casa?», domandò a se stesso. 

Contrasse la mascella e la fissò di nuovo. «Pensavo saresti scappata.»

«Non credo si possa più fare finta di niente. Me ne rendo conto, però...», si interruppe per osservare le loro mani unite, sospese nello spazio tra i loro corpi.

«Però cosa?»

«Vorrei che non litigassimo per ogni cosa.»

Sergej sorrise senza umorismo: avrebbe voluto dirle che, quantomeno, ora che aveva riconosciuto il suo desiderio, anziché fingere che non esistesse, sarebbe potuto essere più facile per lui, ma si rese conto che quella situazione era nuova per entrambi e che non potevano prevedere quali sarebbero state le loro reazioni. 

Le sfiorò il dorso della mano con un piccolo bacio, che le fece correre dei brividi lungo la schiena, tanto giunse inaspettato, e rispose: «Si potrebbe tentare».

♛♚♛  

Le prime settimane passarono in relativa tranquillità. Kaylee e Sergej avevano trovano un certo equilibrio, per quanto entrambi fossero consapevoli della sua precarietà, ma era altresì certo che non potessero fare di meglio.

Rafail aveva accolto la nuova situazione apparentemente con lo stesso atteggiamento impassibile con cui aveva tollerato, negli anni passati, il loro antagonismo: tuttavia, quando doveva assentarsi per le sue missioni, non lasciava il letto di Kaylee prima di avere affermato con irruenza il proprio dominio sul suo corpo.

Era ormai pieno inverno e la luce cominciava a morire mentre Kaylee studiava in biblioteca. Gabriel stava facendo un sonnellino pomeridiano nel salottino limitrofo, da dove poteva raggiungerla facilmente. Seppur ancora sofferente a causa del rapimento, non aveva quasi più incubi durante la notte. 

Kaylee sollevò il capo dal testo di economia internazionale e si perse nei propri pensieri, contemplando lo spettacolo mozzafiato del paesaggio fuori dalla grande vetrata, dalla quale si scorgeva un mondo incantato, placidamente vivo nel candore della neve che ricopriva ogni cosa. Osservava gli aghi dei pini di un verde smorzato sotto al bianco del ghiaccio e immaginava di vivere quel momento per sempre.

Il contrasto tra il gelido scenario e il calore del camino alle sue spalle le dava brividi di beatitudine: sentiva ristorarsi il proprio spirito, provato e inaridito da anni di vita vissuta a metà.

Kaylee aveva ottenuto esattamente quello che si era prefissa, guadagnando comfort, sicurezza e persino quel rispetto che aveva preteso dal patto con Rafail, ma da allora aveva attraversato l'esistenza come in sonnambulismo: l'anima, piagata dai peccati che si accumulavano, languiva dentro il suo cuore, accusandola giorno e notte per le atrocità che non solo aveva commesso, ma che aveva anche tacitamente accettato. Quei brevi momenti di pace erano perciò preziosi come gocce di rugiada nel deserto dell’anima.

Credendo vuota la biblioteca, Sergej aprì la porta scorrevole. Quando si accorse che Kaylee era lì pensò di ritirarsi silenziosamente trovarsi soli non era raccomandabile, soprattutto perché Rafail era fuori per un affare in Argentina ma si bloccò, scorgendo un luccichio sul profilo della sua guancia. 

Ristette, assalito dalla curiosità e da un'emozione più profonda che non riusciva a definire. Percepiva una stretta al petto, era turbato da quelle lacrime e preoccupato del motivo che le aveva provocate.

Tutta la sua figura era composta: se non fosse stato per quel pianto, dubitava si sarebbe mai accorto che qualcosa non andava. Desiderava avvicinarsi, prenderla tra le braccia e baciarle via i lucciconi… ma sapeva che sarebbe stato respinto.

Del resto, aveva ragione lei: era troppo rischioso giocare col fuoco, solo per tentare di vincere una sfida che gli aveva lanciato sei anni prima. Si ripeteva che era da sciocchi attaccarsi con tale insistenza al proprio orgoglio, che doveva sforzarsi di abbandonare ogni pensiero che la riguardava ma ne era attratto in maniera viscerale. 

Non capiva perché funzionasse in quel modo: nessuna donna lo aveva mai tenuto in un simile assoggettamento. Poi, un infido sospetto gli si impose nella mente: una parola, che aveva sempre disprezzato, fece capolino, facendosi beffe di lui.

“Possibile?”, si domandò inebetito. Ebbe un moto di naturale ribellione, quasi volesse respingere quella possibilità, ma era come affondare le mani in un muro di nebbia: l’inquietante ipotesi permaneva, tanto da essere costretto, suo malgrado, a considerarla.

“Possibile?!”, ripeteva.

Era un sentimento che non aveva mai compreso, qualcosa di cui ridere, che non avrebbe mai potuto vincere una mente superiore come la sua. Aveva canzonato colleghi e sottoposti, sfruttato in ogni modo quella comune debolezza contro i nemici, pur di ottenere ciò che voleva e avere successo. 

Com’era possibile, dunque, che adesso si trovasse davanti a uno specchio che gli restituiva un’immagine di se stesso tanto distorta da non parere più nemmeno la propria?

Erano considerazioni, queste, tanto più spaventose e allarmanti quanto più lo esponevano a una vulnerabilità sconosciuta. Si dominò semplicemente perché non poteva tollerare di mostrarsi meno che sicuro.

Con caparbietà avanzò nella biblioteca, fiocamente illuminata, per testare la sua presunta forza.

«Perché piangi?», chiese a bruciapelo, cogliendo Kaylee di sorpresa.

Con un sussulto, si accorse che Sergej la fissava serio. Automaticamente portò una mano sul viso per cancellare le prove della sua momentanea debolezza, ma non riuscì a formulare una risposta.

Scrollò le spalle, lasciando che il silenzio dicesse per lei quanto poco fosse disposta a discutere la faccenda.

Sergej si era avvicinato e seduto sul bordo dell’enorme scrivania, proprio al suo fianco.

La scrutava dall’alto, e fu irritato di vederla chiudersi nel suo guscio. Non era certo una novità per lui, ma stava affrontando una tempesta emotiva, e sentirsi tagliare fuori l’ennesima volta istigò la vecchia violenza. La spinse bruscamente sullo schienale della poltrona, bloccandole le spalle. 

Kaylee spalancò gli occhi.

«Rispondimi», le ingiunse seccamente.

«Cosa vuoi che ti dica?», domandò con una punta di esasperazione nella voce.

Rinserrò la presa, facendole un po’ male. «No. Non voglio una risposta a modino che ti cavi come al solito dagli impicci, chert voz'mi! ». In un angolo della sua testa, capì che spaventarla non sarebbe servito se non a ottenere l’effetto opposto, ma era furente, quindi la lasciò andare senza però smorzare il tono della voce. 

«Sei un muro impenetrabile: questo ha sempre reso le cose piuttosto interessanti, complimenti! Ma è anche decisamente snervante! Non capisco mai quello che pensi… chi sei tu veramente?» le chiese sospettoso. «A volte guardi il mondo con gli occhi di un robot e sei imprevedibile: non riesco mai a capire cosa pensi realmente delle persone… e io non sono abituato a non capire, yebat'! »

Kaylee ascoltò il suo sfogo divisa tra sbalordimento e disappunto. 

Si alzò in piedi per fronteggiarlo quando gli rispose a tono: «Ah, tu non capisci?! Non capisci?!  Ma certo che non capisci… stupido!»

L’insulto le esplose sulle labbra, non più trattenuto. 

Aveva le guance paonazze, non abituata com’era a mostrare le emozioni più violente, tuttavia quella sera era stata presa in contropiede: le settimane passate nella costante tensione per la presenza di quell’uomo così irritante tanto vicino, senza che potesse dare un nome al proprio turbamento interiore, l’avevano logorata; o forse era stata la domanda troppo intima che le aveva posto, troppo vicina al nocciolo di tutto quanto fondava la sua costante disperazione, a destabilizzarla tanto.

«Dici che non vuoi una risposta a modino, ma cosa vuoi veramente? Perché ti interessa sapere certe cose?»

«Perché a te interessa invece non farle sapere?», le rigirò la domanda, nel tentativo di vincere quella gara di logica.

Lei lo schernì con un verso. «Ma che razza di domanda! Tu sei il nemico, Sergej. Davvero non ci arrivi?»

«Il nemico?», ripeté, spiazzato. «Credevo che ormai fossi diventata una di noi, o non è così? Trami forse alle nostre spalle?»

«Per essere una persona intelligente, fai delle domande veramente sciocche...», sbottò esasperata. 

«Sei tu che dici delle cose senza senso!»

«Niente affatto, cavolo! Perché non ci pensi?», gli chiese, spintonandolo con un breve colpo per fare entrare di forza la risposta in quella mente cocciuta. 

«Voi mi avete comprato! Io mi sono venduta a Rafail con un patto! Credi che non sappia che genere di uomo sia lui? O che genere di persona sia tu?!», ansimò con le lacrime agli occhi. «Siete uomini pericolosi, volete potere su tutti: a gente come voi non interessa conoscere il contenuto dei pensieri di chi vi sta attorno, se non per prevederne le mosse nel corso di una trattativa; a voi non interessa nessuno che non sia in grado di mantenere desto il divertimento, o di rendersi utile in qualsiasi modo!»

Sergej era ammutolito e affascinato da quello sfogo così singolare: per la prima volta scorgeva un frammento dei suoi pensieri, valicava la barriera inespugnabile della sua impassibilità. Ma prima che riuscisse a dire alcunché, lei continuò, la voce ridotta a un sussurro.

«Sei il nemico», ripeteva, rabbuiata. «Nel momento in cui mi conoscessi tutta, non sarei più nulla ai tuoi occhi… e diventerei eliminabile.»

Sergej si rese conto della verità di quelle parole: forse adesso le cose erano cambiate, ma non poteva negare che era sempre stato così. Gli enigmi lo entusiasmavano, ma una volta risolti, il suo interesse evaporava come acqua al sole. Se lei non si fosse mostrata così tenace, l’avrebbe avuta una notte magari due e poi l’avrebbe gettata via, come aveva fatto con molte altre donne prima. 

Erano stati il tempo, l’esasperazione e un gioco all’altezza del migliore degli strateghi ad avere creato le condizioni per un’ossessione prima, per una cocente curiosità poi. 

A cosa aveva portato tutto questo? Ne era innamorato? Certo, guardandola sentiva con forza il desiderio, la curiosità… persino la voglia di vincerla, però non voleva più spezzarla; al contrario, anelava ad andare più a fondo nella sua anima, per comprenderla.

Non poteva credere di pensarlo veramente, ma voleva ottenere la sua fiducia.

«Non voglio eliminarti», disse, placato.

Lei lo fissò scettica. «Non hai mai potuto soffrirmi.»

Sergej sorrise. «Questo perché eri troppo testarda.»

«No… è perché non tolleravi di perdere la partita: “un giorno sarai mia”», scimmiottò. «Dovevi realizzare quelle parole a ogni costo, o sbaglio?»

«Te ne ricordi ancora, eh?», mormorò, apertamente divertito.

«Tendo a non scordare le minacce che mi si rivolgono, sai? Questo tipo di memoria serve a tenerti in vita.»

«Touché», ridacchiò. 

«Tu che ammetti una sconfitta?»

«Solo per questa volta… anche se devo dire che sbagli su una cosa.»

«Cioè?»

«Non sono il nemico. Non più, almeno.»

Le portò i capelli dietro le spalle, e prese a sfregarle leggermente le braccia coi palmi, su e giù, come per trasmetterle tranquillità. 

«Non intendo distruggerti se mi mostri quello che provi e se ti riveli più umana di quello che sembri. Prometto di rispettare la tua vulnerabilità, d’accordo?»

Kaylee era confusa, ma fece cenno di sì col capo. Lui la trascinò vicino al suo corpo per depositarle un bacio leggero sulla fronte e poi sulla sommità delle guance, lì dove aveva desiderato asciugarle il pianto poco prima.

L’abbracciò strettamente, respirando l’odore dei suoi capelli e assaggiando la pelle tenera sotto l’orecchio. Kaylee si tese come una corda, arrossendo e rabbrividendo suo malgrado, ma trovando estremamente confortevole quel calore: lei che non era mai stata abbracciata, si ritrovò a tremare mentre teneva il viso premuto sul petto e ne respirava a sua volta l’odore di uomo.

Le sfuggì un piccolo gemito che si trasmise con velocità sorprendente al suo uccello, facendolo irrigidire con uno spasmo. 

Sergej non resistette oltre e si chinò a baciarla. Trovò le labbra già socchiuse, il respiro caldo che si infrangeva sui suoi denti: l’assaggiò e prese un piccolo morso, per poi tornare di nuovo ad assaporarla.

Aveva un gusto dolce, di mele, che gli fece venire l’acquolina in bocca e la tentazione di approfondire ulteriormente quel bacio.

Kaylee non lo stava respingendo, tutt'altro: aveva portato le braccia al collo, carezzandolo sulla nuca e graffiandolo fino a strappargli degli ansiti. 

Quando le strinse una mano sul seno dovette scostare il viso dal suo, presa da una violenta sensazione: non portava reggiseno sotto il leggero maglioncino e la carnalità del gesto le aveva provocato contrazioni nel profondo.

La mano, nel frattempo, era scesa sulla gonna, sollevandola e intrufolandosi in cerca di un contatto ancora più appassionato.

Sergej percepì coi polpastrelli l’estremità della autoreggenti: gemette per la sensualità di quelle cosce calde ornate di pizzo e del calore liquido in cui si immerse poco dopo. Kaylee boccheggiava senza fiato, ondeggiando i fianchi. 

Quando tutto fu semplicemente troppo, venne sollevata di peso e depositata sul tappeto di fronte il camino, ai piedi della scrivania. Sergej prese a baciarla in preda di un desiderio spasmodico: ogni bacio anziché estinguere la sua sete, l’intensificava. 

«Lee, Lee...», sussurrava piano al suo orecchio. «Ti desidero… devo averti», le diceva, scosso da tremori.

Le carezze tra le gambe le stavano rendendo impossibile pensare a nient'altro che non fosse l’appagamento del suo bisogno, tanto che, quando le scivolò dentro con un colpo deciso, nessuna considerazione delle conseguenze potè distoglierla dal piacere che provava.

Si mossero insieme, come se avessero fatto l’amore da tutta la vita, dimentichi di ogni cosa al di fuori di quella piccola, fragile bolla che avevano creato.

♛♚♛  

Furono svegliati dall'allarme dell'abitazione: un suono acuto che percuoteva l'aria come una frustra. Sergej fu il primo a saltare in piedi, all'erta, perché conosceva bene il sistema. Kaylee si guardò attorno confusa. 

«Svelta, rivestiti. Qualcuno ha violato i  confini della villa.»

L'aiutò a tirarsi su e a indossare il maglione. Quando cercò di parlare, le fece segno di tacere. «Cerca di non fare rumore. Se siamo sotto attacco, non sappiamo da dove potrebbero sbucare», le sussurrò con urgenza.

«Gabriel...», sussurrò lei con angoscia. «Devo prenderlo!»

Fece per voltarsi e uscire dalla stanza, ma venne trattenuta per un polso. Sergej voleva andare avanti. Prima però, si avvicinò allo scaffale di una libreria e tirò fuori una pistola nascosta.

Nel corridoio nulla si muoveva, ma non c'era garanzia che gli intrusi non avessero già raggiunto la casa. In ogni caso, sarebbero arrivati molto presto.

La casa era deplorevolmente sprovvista di guardie lungo il perimetro, perché Rafail aveva portato con sé il grosso della squadra.

Sergej tirò fuori il satellitare e mandò un messaggio conciso al cugino. Con Kaylee alle spalle, raggiunse il salottino dove Gabriel si era addormentato, ma lo trovò vuoto. 

«Dove sarà andato, santo cielo?!»

Sergej provò a farla ragionare, calmandola. «Di solito cosa fa quando si sveglia?»

«Se ha fame, va da Marta per farsi preparare qualcosa.»

«Proviamo in cucina allora. Tu stammi dietro e non fare nulla di avventato.»

Riuscirono a percorrere metà dell’abitazione senza incontrare nessuno. Poi sentirono un crepitio di vetri infranti e delle grida. Kaylee riconobbe la voce di Gabriel e gridò il suo nome. Sergej dovette premerle il palmo sulla bocca per obbligarla a tacere. 

«Sei impazzita? Vuoi farci  ammazzare?», la rimproverò aspramente.

«S-scusa...», mormorò, cercando di ricomporsi.

Era sconvolta per gli ultimi eventi. Capì all'improvviso che la vicinanza di Sergej la rendeva vulnerabile e sensibile a qualsiasi stimolo: dopo anni di repressione e isolamento interiore, il primo contatto umano spontaneo, non suggerito dalla sua mente analitica, l'aveva resa fragile e suscettibile. 

L’incapacità di prevedere gli eventi, la rendeva nuovamente preda del terrore viscerale per la propria esistenza, minacciata da forze oscure, che andavano al di là del suo controllo. 

C'era anche la paura che provava per il piccolo Gabriel: quel bambino rappresentava quanto aveva perduto. La sua innocenza le aveva donato una calda speranza: aveva amato prendersene cura.

In Gabriel vedeva se stessa: entrambi strappati prematuramente dal proprio mondo e gettati in pasto ai lupi, per gli interessi di uomini potenti. Il signor Gutierrez faceva sicuramente parte del mondo che li aveva resi prigionieri, ma del resto anche Ian, il patrigno di Kaylee, a modo suo vi era appartenuto. Come lei, anche Gabriel stava subendo una sorte che non aveva meritato, se non per discutibili diritti di nascita. 

Non era il momento di cadere in pezzi, o di lasciare che la sua rabbia divampasse, bruciando inutilmente: era imperativo trovare il bambino e metterlo in salvo. Non voleva che tutto si trasformasse in un bagno di sangue com'era successo a New York.

Sergej si diresse furtivamente verso la cucina. Kaylee si armò di una statuetta di ferro esposta nel corridoio, la mente nuovamente concentrata sul problema da affrontare.

Incrociarono tre delle guardie al servizio dei Kudryashov. Evitarono in tempo uno scontro accidentale, grazie ai riflessi pronti degli uomini. Con semplici segnali, Sergej prese il comando, lasciando nelle retrovie un uomo a coprire loro le spalle.

La guardia più vicina a Kaylee, col volto coperto, le allungò una pistola di piccolo calibro. La prese con la scioltezza di chi era abituato a maneggiare un'arma e gli fece un cenno di ringraziamento. 

Marc Jacobs si occupava da sempre di controllo e sicurezza al servizio di Rafail e lo seguiva praticamente ovunque: quando si era reso necessario impartire lezioni di autodifesa a Kaylee, Aleksandr Suvorov si era rifiutato di perdere tempo con una femmina, così Marc aveva preso il suo posto di istruttore, facendo un lavoro egregio. 

Avendo la propria allieva dimostrato sin dall'inizio uno spiccato istinto di sopravvivenza e una mente pronta, non si era limitato a impartirle esclusivamente insegnamenti di base ma anche di strategia e attacco.

Al poligono Kaylee aveva totalizzato un ottimo punteggio ma, pur avendo imparato a usare un gran numero di armi diverse, le sue preferite rimanevano quelle semplici e facili da maneggiare.

Tra lei e Marc si era creato cameratismo e, da quando si erano trasferiti alla villa di Mosca, era accaduto spesso che lui rimanesse a protezione della casa anziché seguire il capo all'estero.

Quando arrivarono alla porta della cucina, si disposero ai lati degli stipiti e rimasero in ascolto. Sentirono brevi borbottii intervallati dai gemiti angosciati di Marta. Sergej fece un gesto: presto avrebbero fatto irruzione.

Marc e la seconda guardia guadagnarono l’accesso sul corridoio, in maniera tale da non lasciar loro scampo.

Appena prima che entrassero in azione, una figura robusta di donna si lanciò inaspettatamente fuori, in un tentativo di fuga, ma venne trapassata più volte alla schiena da proiettili silenziosi: il corpo di Marta ondeggiò per le stilettate, piombando pesantemente a terra con un ultimo, flebile singhiozzo. 

Fu il segnale che scatenò lo scontro: volarono colpi ciechi per impedire l’avanzata di entrambe le fazioni.

Kaylee udì distintamente le grida di Gabriel e gli urlò di nascondersi sopra il frastuono.

Non riuscivano a capire quanti uomini ci fossero, né la loro disposizione. La situazione rimase in stallo per alcuni minuti, fin quando un movimento rapido ai limiti del campo visivo di Sergej non lo spinse di riflesso a fare fuoco, riuscendo così a centrare uno dei nemici il quale, cadendo, bloccò la porta, permettendo una visuale migliore.

Gli uomini di Kudryashov irruppero usando l’isola della cucina come scudo, da cui proseguirono con la loro offensiva.

Kaylee, da uno degli angoli, vide un avversario trascinare il bambino verso la porta del corridoio, dove le altre guardie li attendevano. Spaventata per Gabe, si gettò di lato sul pavimento, esponendo testa e spalle al fuoco nemico, e sparò un colpo che centrò l’uomo al capo: questi stramazzò a terra liberando la sua preda.

Sergej e gli altri nel frattempo finirono il lavoro, liberandosi degli intrusi.

Quando la situazione tornò sicura, Kaylee corse da Gabriel, inginocchiandosi sul pavimento, incurante del sangue che le macchiava le gambe, e lo abbracciò con forza, costringendolo a chiudere gli occhi davanti a quella carneficina.

Gli uomini organizzarono un controllo sistematico della casa e uccisero altre due persone al piano di sopra. Avevano perso solo un paio di uomini che erano stati colti di sorpresa al cancello.

Sergej dispose che ammucchiassero i corpi vicino l'entrata e procedette a scoprire i loro volti per l'identificazione.

«È probabile che siano uomini di Pablo», commentò dopo averli osservati. «Hanno tratti latini e i tatuaggi sul collo sembrano quelli del suo gruppo.»

«Pa-papà?», balbettò Gabriel, sollevando la testa dalla spalla di Kaylee. Lei lo trattenne per le spalle, mentre gli assicurava che suo padre non era morto. Il bambino scoppiò a piangere sconsolato. 

«Portalo di sopra, Lee», disse seccamente Sergej. Aveva già tirato fuori il cellulare per mettersi in contatto con Rafail e offrire un resoconto completo degli ultimi avvenimenti.

Quando interruppe la chiamata si accorse che la ragazza lo fissava. Il pianto di Gabriel, nel frattempo, si era ridotto a un flebile singhiozzo.

«Sei ancora qui?»

«Cosa dice Rafail?»

Sergej trasse un respiro, indeciso se rispondere alla domanda. Rivide la maschera impenetrabile di sempre: della donna che, appena un'ora prima, l'aveva avvolto in un abbraccio di fuoco non c'era traccia. Fu irritante eppure stranamente confortevole.

«Ha detto che è quasi di ritorno», disse. Poi proseguì la spiegazione in russo, per non fare agitare il moccioso: «Si trova a Mosca perché ha capito che l'incontro in Argentina era un diversivo e che c'era sotto qualcosa di losco. È riuscito a intercettare uno dei due convogli che erano  diretti qui per suo figlio, in missione di salvataggio. Ha preso il padre del piccoletto, ma non è riuscito a fermare i suoi uomini, né ad avvisarci in tempo del pericolo...»

La vide impallidire e si bloccò.

«Che succede? Perché fai quella faccia?», chiese sottovoce. Poi un’idea lo colpì. 

Comandò alle guardie di controllare il giardino e la zona attorno alla casa e di tornare a riferire se qualcosa non andasse. 

Quando rimasero soli, le si avvicinò.

«Hai paura del ritorno di mio cugino? Per quello che è  successo tra noi?»

«No», rispose piano. E ripeté più sicura: «No… dobbiamo dimenticare quello che è  accaduto!».

«Dimenticare!»

«Ma certo! Pensi che potrei dividermi tra voi due? O che lui potrebbe non accorgersi di niente?! Saremo già tremendamente fortunati se non viene a scoprire che sono stata con te!»

«Non ho mica intenzione di fargliene parola! Non vedo come…!»

«Oh, tu non vedi come! Lascia che te lo spieghi io, allora: hai sempre fatto fatica a nascondere l'irritazione per non avere vinto la fantomatica gara contro tuo cugino, su chi deve possedere questo giocattolo», proruppe puntandosi il dito addosso. «Non appena mi si avvicinerà, so già che ti metterai a ringhiare, proprio come stai facendo in questo momento!», lo accusò.

«Io non sto ringhiando!», negò, i denti stretti.

Lei lo fissò impassibile, in attesa che tornasse alla ragione.

Sergej sbuffò, passandosi nervosamente le mani sui capelli. Lottava interiormente per non cedere all’evidenza, ma col passare dei secondi dovette riconoscere che Kaylee non aveva torto, e che avevano un problema. Il solo pensiero che Rafail la toccasse lo mandò su tutte le furie, ma cercò di dominarsi.

Credette di esserci riuscito quando tornò a parlarle. «Va bene. Che si fa allora?»

«Assolutamente niente», rispose lei, prima di piantarlo all’ingresso, col mucchio di cadaveri. 

Salì di sopra con Gabriel e giocarono per distrarsi. Quando venne sera, lo fece mangiare e lo mise a letto. Kaylee vegliò su di lui a lungo: era preoccupata di cosa Rafail avrebbe fatto del bambino ora che suo padre aveva tentato di raggirarlo con quel raid alla villa.

Era stato questo pericolo a farla impallidire, di sotto: il ricordo del sesso clandestino con Sergej completamente accantonato. Ma quando lui glielo aveva riportato alla mente, si era sentita anche peggio: non soltanto doveva escogitare un modo per tenere il suo piccolo amico al sicuro, ma avrebbe dovuto anche mentire sulle circostanze, e Rafail era maledettamente perspicace!

A notte inoltrata, udì dei parlottii e vide all’esterno dei fasci di luce. 

Lasciò Gabriel sul letto e tornò al piano inferiore dove si erano riuniti Sergej, con le guardie di casa, e Rafail, coi suoi uomini di scorta.

C'erano quattro prigionieri. Tra questi, riconobbe Pablo Gutierrez. Aveva il viso congestionato dalla rabbia, pure imbavagliato emanava un’aura di forza e autorità. Si guardava intorno alla ricerca del figlio, sebbene doveva sapere di non avere molte speranze di fuga.

Ci fu una discussione animata: Rafail ristabilì presto l’ordine e comandò che i prigionieri venissero sorvegliati, in attesa che decidesse cosa farne di loro.

«E non intendo decidere alcunchè se non mi sarò fatto una doccia!», concluse, prima di lasciare ognuno al proprio compito.

Quando vide Kaylee, le fece cenno di seguirlo. Si diressero nella camera padronale di Rafail, dove Kaylee lo aiutò a spogliarsi e lo seguì sotto la doccia.

Rafail era silenzioso e aveva i muscoli contratti. Lei prese una spugna e cominciò a lavargli via il sangue rappreso sulla schiena, tacendo a sua volta. 

Quando ogni traccia di sapone scivolò via dal suo corpo, si voltò a fissarla. «Ѐ andato tutto bene mentre non c’ero?»

Kaylee sollevò un sopracciglio, reprimendo un sorriso.

«Intendo dire prima della visita a sorpresa.»

Lei fece cenno di sì e gli diede un piccolo resoconto degli avvenimenti dal proprio punto di vista.

«Sicché eri in biblioteca con Sergej quando vi hanno attaccati», commentò tagliente.

Lei non provò a negare: sarebbe stato inutile. Da tempo aveva imparato che per mentire in maniera convincente doveva mantenersi il più fedele possibile alla verità, modificando solo quello che andava tenuto nascosto.

«Sì. Ero sul testo di economia… avevo difficoltà col… col Modello di Heckscher-Ohlin e Sergej mi stava dando una mano a tradurre un passaggio. I termini tecnici russi mi risultano ancora un po’ ostici.»

Rafail ridacchiò. «Che sorpresa che tu possa trovare qualcosa difficile… ti destreggi così elegantemente nella vita che si direbbe niente possa metterti in ginocchio.»

«Oh, ma il russo, per quanto difficile, non potrebbe mai piegarmi...», commentò, «mentre mi risulta che tu mi abbia messa in ginocchio più di una volta.»

Gli strappò una risata tutta mascolina, le mani che scendevano a carezzarle il costato scivoloso di sapone. «Se ce ne fosse il tempo, mi piacerebbe metterti in ginocchio subito. Purtroppo non è possibile.»

Con una pacca sul sedere la lasciò e andò a vestirsi. Anche Kaylee lo fece, lasciando, nella fretta, i capelli umidi: non voleva perdere tempo perché Rafail avrebbe disposto della vita e della morte delle persone riunite in quella casa.

Raggiunsero gli altri nello studio, dove Rafail assunse la consueta posizione di comando, alla scrivania. I suoi uomini scortarono i prigionieri nella stanza facendoli inginocchiare in fila.

Kaylee cercò Sergej ma non lo vide.

«Bene, bene… eccoci tutti qui. Signor Pablo, se volevate un invito in casa mia, non avreste dovuto fare altro che chiederlo.»

Quando Marc gli tolse il bavaglio, il signor Gutierrez esplose: «Non dovevi permetterti di rapire mio figlio, hijo de puta de un ruso!»

«Non ci siamo, non ci siamo. Non è questo il modo di parlare al vostro ospite, Pablo. Dove è finita la vostra educazione?»

«Pelotudo», insultò per tutta risposta.

Rafail si avvicinò rapidamente e lo colpì alla bocca con un pugno. Dal labbro spaccato sgorgò sangue che finì sulla camicia e sul pavimento.

«Adesso ascoltami attentamente, mati tvoyu. Ti trovi nel mio territorio, in casa mia, e ho tuo figlio. Immagino che per il tuo piccolo cervello potrebbe essere difficile comprendere in che razza di situazione ti trovi, ma credi che ti convenga continuare a insultarmi? So che voi galletti latini vi insultate per dar prova di essere veri uomini, ma io sono un “ruso hijo de puta”, come dici tu, e qui da noi esigiamo rispetto. Mi intendi?»

Gutierrez sputò per terra, rabbioso, ma non aggiunse altro.

Come se nulla fosse successo, Rafail tornò alla farsa della cortesia: gli piaceva innervosire gli avversari, confondendoli con modi piacevoli, ma questa volta calcò la mano perché sapeva di irritare l'argentino.

«Mi rincresce che i nostri accordi siano saltati. Vi avevo assicurato l'incolumità di vostro figlio, a patto che seguiste docilmente le mie indicazioni. Adesso mi avete messo in una posizione difficile: dovrei punirvi, ma se mi libero di voi rischio di lasciare un vuoto pericoloso a Córdoba.»

In quel momento entrò Sergej, l’atteggiamento apparentemente disinteressato di quanto avveniva. Lanciò un'occhiata prima a Rafail, poi a Kaylee, notando immediatamente i loro capelli umidi e contrasse il viso in una smorfia.

Kaylee trattenne il fiato ma lui distolse lo sguardo, e per fortuna Rafail era tanto concentrato sulle decisioni da prendere da non aver notato nulla. 

I cugini confabularono in un angolo: Rafail assentì col capo a una domanda di Sergej. Questi fece un cenno a uno dei suoi uomini, il quale lasciò la stanza.

«Ecco adesso cosa faremo», cominciò, tornando ai suoi ospiti. «I tuoi uomini moriranno qui mentre tu resterai sotto il mio controllo.»

Ci fu un agitarsi di corpi all'annuncio dell'imminente morte.

Le guardie, allenate da anni di servizio, si portarono alle spalle di ciascuno dei nemici perfettamente in sincrono e puntarono le pistole alla loro nuca, sparando come un sol uomo. I corpi caddero, privi di vita.

Il frastuono e la rapidità d'azione lasciarono sorpresa persino Kaylee la quale, in passato, aveva pur assistito alla sua dose di violenza: sapeva che Rafail teneva in modo particolare alla vendetta, e studiava sempre il modo più efficace di infliggerla, per costituire un esempio per gli altri.

Pablo non batté ciglio, continuando a fissare con odio profondo Rafail, davanti a lui: se gli dispiaceva per i propri uomini lo nascose molto bene. 

La porta si aprì un'altra volta e Kaylee vide entrare un Gabriel dal visetto assonnato, che stringeva al petto il suo orsetto di peluches.

«Dal momento che ti avevo avvisato», proseguì Rafail nel silenzio della stanza, «sai già che cosa capiterà a tuo figlio.»

Quando il bambino riconobbe il padre, lo chiamò a gran voce, cercando inutilmente di raggiungerlo. Pablo si irrigidì tutto, l'espressione del viso sconvolta da emozioni tanto intense e viscerali da non avere nome.

Kaylee sentì il proprio sangue congelarsi nelle vene e fermò la mano armata di Rafail, che si era sollevata in direzione del piccolo. Gli si parò davanti, proteggendo col proprio corpo la figura minuta di Gabriel.

«No!» esclamò. «Ti prego, Rafail, risparmia la vita  al bambino. Lui non ha colpe!»

L'uomo accolse quella protesta prima con sorpresa, poi con fastidio, ma lo celò prontamente dietro un'espressione di calcolo predatorio. 

«Ma il padre sì», disse, la voce bassa ma ben udibile a tutti. «I termini che avevo posto erano la sua obbedienza in cambio dell'incolumità di suo figlio.»

«Lo capisco, ma ti chiedo comunque di fare un'eccezione...»

«Questa decisione non è negoziabile!»

«Ma...»

Rafail afferrò il braccio della ragazza con una presa ferrea che le avrebbe procurato un livido. Kaylee contrasse il viso ma non gemette e rimase a fissarlo negli occhi attraverso un sottile velo di lacrime trattenute.

«Ti stai forse ribellando ai miei ordini, Kaylee?», ruggì, assottigliando lo sguardo.

Pur tremando sotto quell'esame, lei non demorse. Abbassando il tono della voce per renderlo il più ragionevole possibile, si giocò il tutto per tutto.

«Non è mia intenzione ribellarmi ai tuoi ordini,  Rafail. Però ti chiedo di non uccidere il bambino a causa dei peccati del padre. Dato che sono la regina al tuo fianco, mi puoi accontentare?»

Rafail la studiò a lungo, soppesando le sue  parole. «Una richiesta da parte delle mia regina, eh? Non ne avevi mai fatta una che annullasse una mia decisione, specie in ambito di affari», commentò.

Kaylee rimase rigida al suo fianco, il braccio dolente nella morsa della sua mano, nonostante avesse allentato un po’ la presa. 

Dopo un momento, la lasciò lentamente e disse: «E sia. Esaudirò la tua richiesta: non ucciderò il bambino a causa del peccati del padre».

Kaylee tremò di sollievo nella frazione di un secondo, il cuore che le batteva all'impazzata. Si girò con un sorriso verso Gabriel, per poterlo prendere tra le proprie braccia.

Il bambino aveva il visino corrucciato nello sforzo di seguire la conversazione tra gli adulti. D'improvviso spalancò gli occhi per lo shock. Abbassando lo sguardo sul proprio petto, scorse una macchia cremisi allargarsi: non sentì le urla di suo padre e di Kaylee, perché aveva le orecchie attutite dall'esplosione dell'arma. Non si accorse neppure di cadere, ma vide che il suo orsetto si era sporcato di sangue. Riuscì solo a sussurrare: «Papino?», prima di abbandonarsi al freddo abbraccio della morte.

Kaylee si gettò sul corpicino, sollevandolo sulle ginocchia, senza badare alle grida isteriche del signor Gutierrez, il quale insultava Rafail con tutto il fiato che aveva in corpo. Uno degli uomini dovette tramortirlo con un colpo alla nuca per farlo tacere.

Rimase con il suo dolore: gli occhi pieni di quella morte che aveva portato via l'ultima luce al suo spirito.

Carezzò per l'ultima volta il viso pallido del bambino e lo cullò al proprio petto, mentre lacrime silenziose piovevano sui morbidi capelli scuri.

«P-perché?», chiese con voce roca, sollevando lentamente la testa verso Rafail. «Avevi detto che non lo avresti fatto.»

«Ho acconsentito a non ammazzarlo per i peccati del padre», spiegò granitico. «L’ho fatto per punire la tua disobbedienza.» 

Consegnò la sua pistola a Marc e si diresse verso l'uscita dello studio, trattenendosi all'ultimo per aggiungere: «Non dimenticare mai più che sopra la regina c’è il re!».




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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
Вот дерьмо, Vot der'mo = Oh, merda;
девушка, devushka = Ragazza;
О боже, O bozhe = Oh, Dio;
черт возьми!, chert voz'mi! = Dannazione!;
ебать!, yebat'! = Cazzo!;
Hijo de puta de un ruso = Figlio di puttana di un russo;
Pelotudo = insulto dello spagnolo argentino che si potrebbe tradurre con  “Stronzo” o “Coglione”;
Mati tvoyu = “Testa di cazzo”;
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