Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
FUMARONO INSIEME LA
PRIMA SIGARETTA
Faceva
tremendamente caldo e i capelli le
si appiccicavano al collo e alla fronte sudata. Con uno sbuffo
esasperato Elena
si passò la mano sul viso per scostarsi le ciocche ribelli e
raccoglierle in un
disordinato e arruffato chignon. Poi, facendosi aria con la mano, si
diresse
all’uscita.
Sperava
in una brezza che stemperasse
almeno un poco quell’afosa giornata di giugno. In teoria,
durante l’orario di
lavoro, non avrebbe potuto prendersi una pausa, ma prima di tutto
necessitava
disperatamente di una sigaretta che rendesse sopportabile quelle ore
insostenibili. In quei momenti di sconforto si domandava sempre come
facesse
sua sorella, come suo padre sopportasse quella vita.
E
si odiava, perché lei non ce l’aveva fatta.
Ed
odiava tutto, perché lei non avrebbe
voluto comunque farcela, avrebbe voluto solo poter scegliere.
Oltrepassò
la porta scorrevole e si addossò
al muro con la sigaretta appoggiata alle labbra, ancora spenta, e gli
occhi
chiusi.
Sussultò
quando si ritrovò la fiammella di
un accendino sospesa davanti al viso, come una richiesta di permesso
inespressa. Cercò un volto dietro alla mano pallida e la
sigaretta quasi le
cadde di bocca nell’incontrare due occhi obliqui ornati da
pesanti ciglia
bianche, di un rosa ghiacciato come ricoperto di brina, che risaltavano
ancora
di più perché il destro era contornato da un
enorme livido viola intenso.
La
bocca del ragazzo era piena e il labbro
inferiore, più grande e carnoso, spaccato al centro da un
taglio vermiglio,
dava l’impressione di un perenne, costante broncio.
In
realtà non stava contraccambiando la sua
curiosità, lui, fissava lontano, oltre
la siepe del cortile interno dell’ospedale. La sua era una
cortesia
disinteressata, anzi, l’avrebbe definita pure annoiata. Come
se l’avesse preceduta
perché lei non gli chiedesse l’accendino, per
evitare di doverle rispondere, di
doverle parlare.
«Grazie»
disse abbozzando un sorriso.
Il
ragazzo scosse le spalle e, dopo averle acceso la sigaretta, se ne
portò una
alle labbra martoriate e ripeté il medesimo gesto. Poi, si
lasciò andare contro
il muro, con stanchezza.
Era
un ragazzino curioso.
Non
fosse stato per il suo fisico ancora infantile -non era troppo alto, le
spalle
non si erano ancora aperte e il volto efebico e pulito non accennava a
nessuna
imperfezione che delimitasse nettamente la sua mascolinità-
avrebbe pensato che
fosse più grande. Almeno quindici, sedici anni.
Probabilmente
per la profondità dei suoi occhi.
Erano
gelidi e inquietanti, distanti, eppure inghiottivano. Come le stelle
che
brillavano da lontano di luce debole ma rapivano comunque
l’attenzione e
l’anima dell’osservatore. Si era incantata a
fissarlo, senza neanche troppo
pudore, e aveva dimenticato la sua sigaretta, ormai un bastoncino di
cenere che
si sosteneva per miracolo.
Marisa
come aveva detto che si chiamava?
Non
riusciva a ricordarlo.
In
ogni caso, sotto le sue attenzioni, il ragazzino non era tanto
tranquillo
quanto voleva manifestare. Ad un tratto sollevò il cappuccio
della felpa
smanicata che stava indossando e sprofondò le mani nelle
tasche. Gridava
ostilità, ma Elena riuscì solo a sentire una
profonda tenerezza per lui.
Non
aveva mai visto un albino da vicino, si chiese a quale ramo
appartenesse la sua
patologia e se fosse lecito chiederglielo, ma lui fumava indifferente
nonostante il volto contuso e, quando finì, gettò
a terra il mozzicone, lo
pestò con il tacco dell’anfibio, le
lanciò una gelida occhiata di disprezzo e
rientrò, lasciandola fuori, sola e basita.
Probabilmente
non aveva apprezzato le attenzioni che aveva riversato su di lui, ma
era
difficile non guardarlo, non solo per la sua aura astiosa che causava
disagio,
o per il suo aspetto delicato e frustrato.
No,
c’era di più.
C’era
una bellezza appassita prima ancora di venire alla luce che risvegliava
in lei
il desiderio di parlargli, di vedere un po’ più a
fondo.
Di
vedere se davvero era morto dentro come sembrava fuori.
ANGOLO
AUTRICE
Ripescare
questa storia,
rileggerla e rileggere i miei vecchi appunti a riguardo, mi sta
mettendo di buon
umore. Ricordo che una cosa che mi era piaciuta particolarmente, era
vedere
come fossero i miei cuccioli nel loro passato, perché
saperlo non è lo stesso
che scriverne e vedere nero su bianco come si sono evoluti nel tempo.
Anche
se il mio stile è cambiato,
niente, non ci riesco, per me Demian resterà sempre un
adorabile senza speranza…!
Ma sono la mamma, sono di parteXD
Le
mie vecchie note tra l’altro
mi informano che la colonna sonora di questa storia nella sua stesura
è stata “Phone
Call” di Jon Brion, e quindi nulla, mentre rileggo e correggo
qualche errore sfuggito,
la ascolto, per cercare di ritrovare lo stesso mood.
Sono
l’unica psicopatica
che fa cose di questo tipo?
Sono
giustificata, sono
già trascorsi quattro anni!
Giuro
che non romperò più,
a presto!