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Autore: Ness by Moon    20/03/2019    2 recensioni
Si era innamorata di lei da quel giorno al Rabbit Hole, quando si era soffermata ad ascoltarla andando oltre ciò che la città le chiedeva di essere. Si era innamorata di lei per il modo in cui la faceva sentire, viva più che mai e immersa in un bagno di lava che le faceva bruciare il cuore. Si era innamorata dei suoi occhi, così maledetti scuri e sporchi, che la stendevano al tappeto al primo sguardo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Nuovo personaggio, Regina Mills
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi dispiace, sul serio. Purtroppo sta cominciando ad essere complicato scrivere e l'ispirazione spesso scarseggia. Comunque, se i miei conti sono esatti, siamo a -4 dalla fine. Spero che questa parentesi Kara non vi abbia annoiato, è stata creata per alleggerire un po' la tensione della condizione di Alexis. Con questo capitolo, torniamo all'ovile per così dire.
Spero vi piaccia, nel caso due parole sono gradite.
A presto, spero.
NbM




TRE ANNI E DUE MESI DOPO IL RITORNO
 Alexis non avrebbe mai creduto che studiare in biblioteca si sarebbe trasformato in un qualcosa di tanto appagante. Ricordava perfettamente i pomeriggi a consumarsi gli occhi tra gli scaffali di Belle, ma mai aveva studiato in quel luogo qualcosa di diverso dalla magia. Eppure, il silenzio di quelle mura traboccanti di libri normali, era un qualcosa che la faceva sentire una semplice universitaria. Di fronte a lei, Leopold giocherellava con una matita mentre leggeva attentamente il testo sotto ai propri occhi. Il ragazzo si accorse di essere osservato e quando alzò lo sguardo andò a sbattere contro gli occhi verdi della nipote.
Dal suo punto di vista, Alexis era rinata. Aveva di nuovo quella luce negli occhi che l’aveva sempre contraddistinta, il suo solito sorriso allegro e soprattutto la voglia di vivere. Certo, l’arpa batteva ancora contro il proprio stomaco ad ogni passo, ma poteva ancora concederglielo. Le sorrise di rimando e proprio mentre stava per tornare a concentrarsi circa la complessa politica atenese, il cellulare della ragazza si illuminò notificando un messaggio. Alexis si sporse appena per leggerlo e sospirò divertita prima di prendere l’apparecchio tra le mani e mostrarlo a Leopold.
-Che faccio, mi preoccupo? – gli bisbigliò.
Lui lesse corrugando le sopracciglia. Si trattava di un messaggio di Kara che la invitava a correre fuori l’edificio per una sorpresa. Si trattenne dallo scoppiare a ridere, Kara e sorpresa nella stessa frase potevano essere un connubio artefice di uno sterminio.
-Non è colpa mia se hai deciso di frequentare una pazza, io ti avevo avvisato-
Alexis lasciò roteare gli occhi ripetendo allo zio per la millesima volta la stessa frase.
-Io e Kara non ci frequentiamo. Siamo solo amiche-
-Amiche molto, molto intime- specificò Leopold.
La ragazza sbuffò per poi mettersi a raggruppare le proprie cose gettandole a casaccio nello zaino e avviarsi verso l’uscita. Con la coda dell’occhio vide Leopold seguirla sghignazzando.
Spiegare il rapporto che aveva con Kara era complesso, ma nessuna delle due aveva mai realmente richiesto un’etichetta o fare un passo successivo. Stavano bene in quella situazione di meravigliosa stasi in cui facevano sesso quando ne avevano voglia e studiavano insieme prima di qualche esame. Kara era stata un disinfettante inaspettato, piazzandosi nella propria vita con prepotenza, ma senza mai bruciare i bordi delle ferite aperte. Con lei era riuscita a parlare di qualsiasi cosa, ad aprirsi come non era mai riuscita a fare con nessuno, nemmeno con Gideon. Persino parlare di Laya era stato più facile, meno doloroso del previsto. Aveva finito per raccontarle ogni singolo dettaglio di lei, del modo in cui l’esasperava, di come l’avesse stregata e di tutto ciò che avevano passato assieme. Aveva per forze di cose mutato diversi episodi, come la sua scomparsa. Si era limitata a dire che Laya era andata via. Non avrebbe immaginato che Kara sarebbe stata una buona ascoltatrice, eppure la ragazza sapeva dosare alla perfezione momenti di serietà a quelli di ilarità. Con lei stava bene, con lei non era Alexis Swan-Mills, principessa di Storybrooke e di qualche reame andato perso, ma solo Alexis, ragazza di ventitré anni proveniente da un piccolo paesino del Maine.
Una volta fuori la biblioteca, trovò Kara seduta su una Vespa la quale aveva di certo visto giorni migliori, di un viola brillante orribile e il sellino marrone. Ma sul viso della ragazza c’era un sorriso tanto grande e luminoso, da fermare tutte le imprecazioni di Alexis.
-Che spettacolo, vero! –
I due ragazzi non seppero cosa rispondere perché le uniche parole che avrebbero potuto utilizzare, sarebbero state non esattamente carine.
-Quale diamine è il mio problema con le ragazze e i catorci? – domandò sarcastica al ragazzo.
Leopold alzò le spalle divertito ridendo di fronte al viso sconsolato della nipote.
-Dai andiamo a fare un giro! –
Kara corse verso i due, ma la sua attenzione era dedicata unicamente ad Alexis. La prese per un polso trascinandosela dietro fino al proprio giocattolo nuovo.
-Sei sicura che possa circolare questo scassone? –
-Non ti azzardare ad offendere la mia Vespa! –
Vedere Kara puntare un dito contro l’enorme petto di Leopold era come una bambina che se la prendeva con una montagna. Si alzò sulle punte per sembrare più minacciosa, ma proprio non le era possibile.
-Posso sapere perché hai comprato un motorino? – le domandò gentilmente Alexis.
-Vespa- precisò Kara -È un regalo di Caty, per celebrare le nostre origini italiane- rispose impettendosi.
-Kara il tuo trisavolo era forse italiano- la prese in giro Leopold.
La ragazza gonfiò le guance così tanto da far sollevare gli occhiali dal naso, al punto che persino Alexis scoppiò a ridere come una matta.
-Ti ci metti anche tu, Straniera? –
-Scusa- borbottò, ma senza smettere di ridere.
-Sali! Ora! – le intimò porgendole un casco.
E questa volta Alexis non se lo fece ripetere due volte, infilando il casco e salendo in sella e quella melenzana con le ruote.
-Attenta che non arrivi con i piedi per terra, squilibrata- continuò a prenderla in giro Leopold.
Ma Kara non lo stette a sentire, partendo con fin troppo sprint e obbligando l’altra a reggersi ai suoi fianchi morbidi. Si strinse a lei ridendo, quello era proprio il genere di pazzie alla Kara, eppure era tanto speciale anche per quello. Non le chiese quale fosse la meta, non le importava. In quel momento, su una Vespa vecchia quanto il mondo stretta a Kara si sentiva bene. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal vento sulla faccia, dalla perenne sensazione di libertà che la vicinanza di Kara le riservava.
Si fermarono poco fuori città, in una zona di periferia. Kara spense il motore di fronte un parco alla fine di una strada piena di adorabili villette a schiera.
-Dove siamo? –
-In questo parco ci sono cresciuta-spiegò Kara- e avevo piacere di fartelo vedere-
La prese per mano accompagnandola all’interno e raccontandole di quella volta in cui era caduta da un albero, o di quando aveva cercato in ogni modo di trovare una tana di lucertole o ancora della sera in cui aveva fatto impazzire sua sorella Caty perché si era nascosta nella casetta del parco giochi. Tutto quello che Kara le raccontò, non la sorprese minimamente. Lei era energia, energia allo stato primordiale racchiuso in una ragazza troppo bassa. Stava per raccontarle di quando da bambina anche lei si era fatta chiudere nella libreria con Gideon, ma una ragazza richiamò l’attenzione della propria interlocutrice. Si voltarono entrambe e quando Kara riconobbe la persona che si sbracciava per farsi riconoscere, un enorme sorriso si sciolse sul suo volto.
-Ciao, Kara! Che ci fai da queste parti? –
Le due si abbracciarono come vecchie conoscenti, integrando anche Alexis solo dopo qualche attimo.
-Straniera, ti presento Stella. La mia ex ragazza-
All’appellativo usato da Kara, Alexis si fece attenta. Le due parlarono e scherzarono tra di loro e la bionda non riusciva a scacciare quell’assurda sensazione di fastidio allo stomaco. Si prese solo qualche secondo per decifrare i segnali del proprio corpo, perché lei sapeva benissimo di cosa si trattasse. L’aveva già provato, ogni qual volta qualcuno flirtava con Laya durante i suoi turni al Rabbit Hole. Non prestò attenzione a ciò che si dissero, piuttosto studiò Kara come se non l’avesse mai vista prima. Quando finalmente Stella si congedò, Alexis si ritrovò a rilasciare il fiato trattenuto fino a quel momento.
-Tutto ok? –
Kara si accorse di quel cambiamento repentino da parte della ragazza.
-Ti va di uscire con me, Kara? –
L’altra la guardò sorpresa, battendo più volte gli occhi da dietro le lenti.
-Usciamo già tutti i giorni- rispose confusa.
Alexis si passò una mano tra i capelli, esasperata. Era la prima volta che si ritrovava in quel genere di situazione, era stata a Laya a chiederle di uscire e lei si era limitata ad accettare. Ma in quel momento, si rese conto di quanto fosse complicato.
-Uscire davvero. Cioè… un appuntamento-
Kara tentò di non sorridere, ma per la prima volta in presenza di Alexis arrossì.
-Che c’è, la presenza di Stella ti ha spinta a marcare il territorio? –
Alexis sgranò gli occhi e la bocca, pronta per replicare. Ma il suo cellulare prese a squillare facendola sobbalzare. Lesse il nome sullo schermo e si sorprese a leggere quello di Regina. Si scusò con Kara, che la presa in giro definendola una mammona, e rispose.
-Mamma? –
-Alexis, sei da sola? –
La ragazza sentì il cuore schizzarle in petto. La voce di Regina era ferma e tesa, per di più non l’avrebbe mai chiamata a quell’ora del pomeriggio se non fosse qualcosa di importante.
-No. Aspetta-
Alzò un dito per far comprendere a Kara che aveva bisogno di allontanarsi e la ragazza glielo lesse negli occhi che qualcosa non andava.
-Mamma che succede? –
-Tesoro, devi tornare a casa-
-Mamma state bene? Che diavolo succede? –
-Torna a casa, è meglio. Teletrasportati qui quanto prima-
Quell’ultima frase, quella sola singola frase, fece comprendere ad Alexis che qualsiasi cosa ci fosse a casa sua, fosse davvero grave. Regina non le avrebbe mai detto di usare la magia. Tornò verso Kara provando a spiegarle che doveva andar via subito, non seppe se riuscì ad inventare una qualche scusa, ma corse via lasciandola lì in quel parco e trovando un posto isolato in cui usare la magia. Si infilò in un vicolo e solo quando fu certa di esser lontana da occhi indiscreti, ruotò il polso e si teletrasportò a casa.
 
-Mamme! –
La telefonata di Regina l’aveva terrorizzata, sua madre non le avrebbe mai permesso di utilizzare la magia a quel modo se non fosse stato per qualcosa di veramente importante. Si era materializzata all’ingresso di casa chiamando a gran voce la sua famiglia, eppure tutto taceva. Non avvertiva pericoli, grida o rumori che avrebbero ricondotto ad una lotta. 
-Alexis-
Regina le andò incontro dalla cucina, sul suo viso un’espressione preoccupata.
-Mamma che è successo? State bene? Dov’è Emma? –
-Respira, tesoro. Stiamo tutti bene-
La donna le prese il viso tra le mani cercando di regalarle un sorriso rincuorante, poteva vedere nei suoi occhi quanto fosse spaventata per quella chiamata improvvisa. La vide guardarla confusa, non poteva sapere quanto fosse difficile darle quella notizia.
-Voglio che ti calmi e che ti rilassi, ok? –
-Mamma che sta succedendo? –
Il cuore le batteva forte nel petto, tutta la sua concentrazione era incanalata nel palmo della mano destra, pronta a generare una palla di fuoco qualora fosse stato necessario. Poi alzò lo sguardo verso la persona che le stava raggiungendo e provò cosa significasse sentire il cuore smettere di battere senza alcun preavviso. La gola le si strinse, incapace di lasciar passare aria e parole. Gli occhi le si riempirono di lacrime senza darle alcuna possibilità di evitarlo. Regina si accorse in un attimo del suo cambiamento repentino, ma non le servì voltarsi per comprenderlo.
-Laya- balbettò appena la ragazza.
-Ciao, Lex-
Si concesse diverso tempo per esaminarla da lontano, aveva sognato troppe volte quell’incontro e troppe volte le era corsa incontro per poi stringere il nulla. Ma c’erano le sue labbra, le sue mani, la sua pelle abbronzata, il suo naso imperfetto, i suoi occhi. Neri e carichi come lo erano sempre stati da quando si erano conosciute, belli, immensi e capaci di farla affogare nel petrolio. Cadde al loro interno senza nemmeno accennare un vago tentativo di salvataggio, voleva sprofondare anche solo per esser certa che lei fosse lì. Sua madre le mise una mano sulla spalla chiamando il suo nome, ma non riuscì a sentirla. Nella sua mente non c’era altro che quel nero opprimente. Le gambe si mossero da sole, compiendo piccoli passi verso di lei e sperando di non toccare solo aria. Le sembrava così distante, eppure era solo a qualche metro. Tentò in ogni modo di comandare ai propri arti di sbrigarsi a portarla da lei, ma questi non l’ascoltavano allungando la sua tortura. 
Giunta alla meta, Laya non sparì.
Laya era realmente lì e la stringeva. Le braccia erano attorno alla sua schiena, poteva sentirne il calore e l’intensità. Nascose il volto nel suo collo respirando l’odore che le era così tanto mancato, quel profumo che aveva cercato di ritrovare sui suoi capi o nella sua stanza, quando Phoebus non poteva vederla. Lo stesso che ora le violentava le narici e che permetteva al suo corpo di urlare che era vero, Laya era proprio lì avanti a lei. Si concesse di dar libero sfogo alle lacrime, ai singhiozzi e ai brividi che aveva gelosamente custodito aspettando quel momento. Perché per quanto la sua razionalità le imponeva la ormai collaudata assenza di Laya, il suo cuore non aveva mai smesso di credere che prima o poi sarebbe tornata a casa. Sarebbe tornata da lei.
-Lex, smettila di piangere- 
Le aveva parlato all’orecchio, sussurrando appena quelle parole. Non poteva pretendere di più da sé stessa, ogni sua fibra esigeva solo il contatto con l’altra nonostante i suoi sentimenti contrastanti. La prese per le spalle, obbligandola a staccarsi da sé per guardarla negli occhi. Brillavano di lacrime e di felicità.
-Perché non ci sediamo? – 
Era necessario parlare, troppe domande ronzavano nella mente di entrambe e attendevano da troppo tempo di ricevere una risposta. Emma e Regina le avevano lasciate sole, consce che le due avevano bisogno di un po’ di spazio.
Laya era strana, se ne accorgeva solo in quel momento che stava tonando a respirare. Nel suo sguardo era cambiato qualcosa, i suoi occhi non erano più luminosi come solo pochi attimi prima. Si era accomodata distante da lei, le mani poggiate sulle ginocchia e le labbra ridotte ad una linea sottile. I muscoli del corpo tesi, non lasciavano presagire nulla di positivo. Alexis poté notare solo in quel momento l’arpa che pendeva al suo collo. D’istinto strinse la sua e allungò una mano per sfiorare l’altra.
-Hai incontrato Henry- 
Un sorriso malinconico nacque sul suo viso. Il ragazzino le mancava, ci si era affezionata nonostante tutto.
-Si, è venuto a cercarmi poco dopo che la maledizione si è spezzata-
“Bravo, nanerottolo”
Stava per risponderle, ma quando incontrò il suo sguardo non ebbe la forza di fare nulla. Sul suo viso, una maschera di rabbia e delusione aveva preso il posto della gioia di poco prima. Proprio come nei suoi incubi. Allungò ancora le dita verso di lei, ma Laya alzò una mano per fermarla.
-Perché è stato quel bambino a darmela, Lex? –
La minore corrugò le sopracciglia, non comprendendo quel nuovo atteggiamento.
-Io ho dovuto… -
-Andar via? – la interruppe l’altra- Lo so, me ne sono accorta quando ho dovuto sovrapporre Hannah a me stessa-
Alexis continuava a fissarla non riuscendo a seguire cosa le ronzasse in testa.
-Lay, cosa stai dicendo? –
-Sto dicendo che mi sono risvegliata e tu non c’eri! Quando ho avuto bisogno di te, ero sola, Alexis! –
Laya era scattata in piedi, i pugni chiusi lungo i fianchi e le gote rosse per la rabbia. Nella mente ancora nitida quell’orribile sensazione di smarrimento provata non appena la maledizione era stata spezzata. Si era ritrovata a fare i conti con una vita che non le apparteneva e che le era stata imposta, una vita dove Alexis non era stata altro che una comparsa amichevole. Aveva cercato la ragazza per tutta Storybrooke, pregando che il ricordo della sua partenza non fosse veritiero. Poi aveva incontrato Henry, e d’un tratto era stato tutto chiaro. 
-Avevo fatto un casino, non potevo restare. Ho provato a tornare da te innumerevoli volti, ma non ci sono mai più riuscita-
Si alzò anche lei, cercando di afferrare le mani di Laya invano.
-E quanto ci hai provato? Sei rimasta solo tre mesi e non ti sei più fatta vedere. Avevi giurato di ritrovarmi ed io ti ho aspettata per più di un anno prima di riuscire a tornare, ma tu non sei mai venuta-
-Io ti ho aspettata per più di quattro anni, Laya! Quattro anni in cui ti ho riavuta con me solo per qualche minuto! –
Lacrime calde e dolorose scesero sulle guance della minore andando ad imprimersi negli occhi sgranati dell’altra. Emma e Regina erano accorse, pronte a sostenere la figlia qualora avesse avuto bisogno di loro.
-Cosa? Non è possibile-
-Sei sparita quattro anni fa, Laya. Ho tentato in ogni modo possibile di raggiungerti, ma ci sono riuscita solo dopo sei mesi. Quando sono arrivata, ho conosciuto Hannah-
Laya ancora non poteva credere alle sue parole, come poteva essere passato tutto quel tempo senza che lei se ne accorgesse? Come poteva accettarlo sapendo ciò che aveva lasciato nell’altra Storybrooke? Guardò Regina, in attesa di risposte. Era l’unica che poteva fornirgliele, dopotutto era il suo sortilegio.
-Alexis, hai detto che Emma è andata via da Storybrooke. Ed è per questo che sei dovuta tornare, giusto? –
La figlia annuì. La donna guardò l’altra ragazza, in attesa che anche lei confermasse la versione dei fatti. Solo dopo l’assenso di Laya, riprese la sua spiegazione.
-È possibile che lasciando la città… -
-Il tempo abbia smesso di scorrere di nuovo- concluse Emma.
Le quattro si guardarono, ognuna crucciata per un qualche personale motivo. La prima a riprendere la parola, fu Laya.
-Tu… mi hai cercata per tutto questo tempo? –
Il suo sguardo mutò ancora, il cuore prese a batterle furiosamente nel petto. Sarebbe stato più semplice se l’avesse dimenticata, sarebbe stato meno doloroso per entrambe.
-Ho smesso… circa otto mesi fa. Non ce la facevo più, mi stava uccidendo e…- le sue parole furono rotte da nuove lacrime.
-Dio, Lex, non devi giustificarti- 
Laya passò più volte le mani sul volto, sconvolta da quell’informazione. Era sempre stata certa che Alexis non avesse mai smesso di cercarla, ma il non aver mai avuto alcun tipo di segno l’aveva segnata profondamente. In quel momento, si rese conto che l’avrebbe devastata con le parole che sapeva doverle dire.
-Adesso non ha più importanza, sei tornata. Non me ne importa quanto a lungo sei stata via, ora sei qui! –
Quelle gemme verdi, cariche di speranza e felicità, le laceravano l’anima più di qualsiasi altra cosa avesse fatto prima di quel momento. Sapeva che l’avrebbe distrutta, sapeva le avrebbe spezzato il cuore più di quanto non avesse già fatto. Si allontanò di qualche passo da lei, dandole le spalle. Provò a respirare ma i polmoni sembravano punirla per il male che stava per infliggere. 
-Lay, che c’è? –
Tornò a guardarla e per un solo attimo vide la dolce e ingenua sedicenne che le aveva stregato il cuore. Alle spalle le sue madri la fissavano interrogative e accigliate.
-Io non resterò, Lex-
Le sembrò quasi di sentirlo il suo cuore scricchiolare sotto i colpi delle sue parole. Vide nitidamente la speranza scivolare via dai sui occhi, incupendoli. 
-Cosa? –
Fu un sussurro, un suono fioco e debole come un fruscio di vento.
-È meglio se ti siedi-
Allungò le mani verso di lei, tentando di portarla nuovamente verso il divano, ma ricevette in risposta solo un brusco allontanamento.
-Non dirmi cosa fare, Laya! Spiegami! –
Le era impossibile spiegarsi quello scatto, non poteva sapere quante volte in quei quattro anni le era stato detto cosa fare e cosa non fare, come comportarsi, cosa provare. Non poteva sapere quanto a fondo fosse caduta nel baratro e quanto ci avesse impiegato per risalirne anche solo in parte.
Implorò con lo sguardo la collaborazione di Emma e Regina. Quest’ultima comprese, invitando la moglie e la figlia a sedere accanto a lei. Laya prese un profondo respiro prima di cominciare a parlare.
-Quando sei tornata a casa, Hannah ha ripreso la sua vita di tutti i giorni. Non so quanto tempo sia passato dalla tua partenza a questo punto, ma lei… -
Si fermò ancora, le corde vocali si erano aggrovigliate impedendole di completare il discorso. Il viso dell’altra era una maschera di cera, inespressiva e corrosa da nuove lacrime. Laya infilò una mano nella tasca dei pantaloni prendendo qualcosa.
-Ha sposato Jonas- disse tutto d’un fiato mostrando una fede nuziale.
Alexis rimase immobile, incapace di emettere anche un semplice fiato. Il battito si fermò ancora una volta, ma nel petto si allargò un dolore enorme. Quel dolore che aveva imparato a riconoscere e a sopportare, quel dolore che rappresentava un'altra crepa sul cuore. Quel dolore che sapeva di Laya.
-Tu hai…- 
Non riusciva a pronunciarle quelle parole, le sembravano fin troppo inverosimili. Un peso enorme premeva sulle spalle, impedendole di scattare in piedi. Avrebbe voluto urlare, sbraitare e dare di matto, ma il suo corpo si era paralizzato a tal punto da non comprendere se stesse ancora respirando o meno. Leggeva sul volto dell’altra la profonda consapevolezza di sapere quanto quelle parole pesassero su entrambe. Boccheggiava, sperando di sentir venir fuori dalle sua labbra un qualsiasi suono riconducibile a frasi di senso compiuto. Regina le strinse una mano ed Emma le cinse le spalle, ma sembrava non accorgersene.
Laya tremava, non aveva mai visto Alexis tanto sconvolta in tutta la sua vita. Diverse volte, durante la comparsa di Odette e Frollo, la ragazza aveva mostrato le sue debolezze e le sue paure, ma mai quella maschera di dolore si era impossessata del suo viso. Avrebbe voluto restarsene zitta, ma Alexis doveva sapere. Era un suo diritto e per quanto ad ogni parola una lama si conficcava nelle loro carni, si obbligò a continuare. 
-Non è tutto-
-Che altro, Laya- 
Il tono della minore risultò completamente atono, come se provenisse da un corpo privo di vita. Non aveva la forza di guardarla, quell’ultimo brandello di razionalità che le era rimasto, sapeva sarebbe morto se avesse incontrato i suoi occhi. Ma questo Laya non poteva immaginarlo, interpretando il suo sguardo basso come un chiaro segno di distaccamento. 
-Lex...-
-Non chiamarmi così. Non voglio sentirlo dalle tue labbra, adesso- ringhiò a bassa voce.
Laya si passò le mani tra i capelli, stava provando con tutta sé stessa a non scoppiare in lacrime avanti a lei. Quello fu un colpo doloroso, era solo un diminutivo, ma sapeva il valore che aveva per lei. Si obbligò ad ingoiare un groppo di saliva, tentando in ogni modo di ritrovare il coraggio di parlare ancora. 
-Io...-
-Che cosa, Laya! Cosa diavolo c’è ancora? Mi dirai che sei incinta adesso? -
Alexis era scattata in piedi mostrando una rabbia rimasta dormiente fino a quel momento. Le parole le avevano graffiato la gola con forza lasciandola in fiamme. Alzò lo sguardo furente verso l’altra e se ne pentì all’istante. Laya era pallida, la sua espressione sconvolta e terrorizzata. 
-Stai scherzando, vero? -
Dall’altra parte vigeva un assordante silenzio colpevole.
-RISPONDIMI, LAYA! -
Le pareti di casa Swan-Mills tremarono, alcune finestre andarono in frantumi. Regina fu in un attimo al fianco della figlia cingendole le spalle e intimandola al controllo, Emma lanciò uno sguardo affilato all’altra ragazza consigliandole di rispondere prima di incappare in seri guai. Laya abbassò lo sguardo, si morse un labbro prima di mettere in moto le corde vocali. 
-Ho una bambina di un anno- sussurrò.
Il gelo calò nella stanza avvolgendo tutti i presenti. Laya coprì la faccia con le mani, tentando di nascondere la vergogna che provava. Emma rimase immobile, incredula. Si era affezionata a quella ragazza, adorava come rendesse felice sua figlia e la luce che quest’ultima aveva avuto negli occhi quando era in sua compagnia. Eppure era stata capace di ucciderla troppe volte in quegli anni. Si voltò a guardarla, sbiancando di fronte allo sguardo distrutto della sua bambina. La vide provare a respirare senza riuscirci, a parlare tenendosi aggrappata alle braccia di Regina. Poi corse via, diretta vero il bagno e seguita da sua moglie. 
-Lex- sussurrò Laya muovendo qualche passo verso di lei.
La donna le si parò avanti, alzando una mano all’altezza del petto per impedirle di proseguire.
-Ferma. Hai sganciato una bella bomba, ora dalle tempo-
-Io non ho tempo! Ti prego, Emma, devo parlarle-
Era conscia di averla ferita profondamente e che probabilmente ci avrebbe impiegato mesi a riprendersi, ma aveva bisogno di lei e di darle delle spiegazioni. 
-Adesso devi andartene e lasciare che mia figlia metabolizzi-
-Emma per favore...-
-Fuori da casa mia, Agnès! -
Laya strinse i denti, ma non controbatté ulteriormente. Prese la sua giacca e lasciò l’abitazione. 
Solo quando fu certa che la bruna fosse andata via, Emma corse dalla sua famiglia. Sua figlia era piegata in due sulla tazza del water, vomitando dolore e lacrime. Regina, al suo fianco, le teneva i capelli e le massaggiava la schiena. I suoi occhi erano umidi e il viso contratto per sforzarsi a non cedere alle ferite di Alexis. L’arpa batteva contro la ceramica della tazza, scandendo in qualche modo, la sofferenza della ragazza. Quando fu certa che non aveva null’altro da buttar fuori, si lasciò cadere in terra, esausta. Regina le era accanto, cercando di placare le sue lacrime.
-Non è possibile, mamma! Non può avermi fatto questo-
-Tesoro, adesso calmati-
-Io l’ho cercata per tutto questo tempo, mentre lei si è sposata e ha costruito una famiglia, capisci? Io sono rimasta qui a piangere ogni notte per un suo ritorno concedendomi solo un briciolo di tregua-
Alexis non sapeva per cosa essere più incredula, se per il fatto che solo poco prima stava chiedendo a Kara di uscire di lei o tutto quello che Laya le aveva gettato addosso.
Regina strinse forte la sua bambina, lasciando che si sfogasse sulla sua spalla e sulla sua pelle. Anche le sue guance si inumidirono, incapace di controllarsi ancora per molto. Alzò per un solo attimo lo sguardo su sua moglie, lieta di trovarla di fronte a sé e che le loro divergenze si fossero appianate del tutto, ormai. Bastò quello a spingere Emma a chinarsi sulla sua famiglia e stringerla forte tra le sue braccia. Avrebbe fatto di tutto per proteggerle e se questo significava allontanare per sempre il vero amore di sua figlia, lo avrebbe fatto senza remore. 
 
Laya era rimasta diversi minuti fuori il viale del numero 108 di Mufflin Street, sperando di veder correre la sua ragazza verso di lei. 
Sua.
Poteva ancora definirla così? Era sposata, aveva una bambina, eppure non riusciva a non pensare a lei. Quando l’aveva vista, nel portico di casa sua, le si era fermato il cuore. Era cresciuta così tanto, nei suoi occhi aveva visto una maturità tutta nuova mista a troppa sofferenza e lei ne era stata la causa. Alexis era diversa, aveva lasciato una ragazzina di diciannove e si ritrovava di fronte una donna di ventitré. Era sempre bellissima e la nuova maturità che aveva sviluppato le donava alla perfezione. Rivederla le aveva fatto male, più di quanto si sarebbe aspettata. I suoi occhi, tanto verdi quanto pieni di lacrime, le avevano bruciato il cuore conficcandoci all’interno una lama di fuoco. Quando aveva sentito la sua voce chiamare le sue madri, un vuoto allo stomaco aveva preso possesso di tutto il suo corpo, imponendole in un solo attimo, tutta la mancanza che aveva provato in quel periodo lontana da lei. Non poteva nemmeno immaginare cosa avesse passato in quei quattro anni. Ricordava così bene il disgusto che aveva provata Hannah quando l’aveva baciata, quanto l’avesse ferita con le sue parole. E lei avrebbe solo voluto urlarle di tacere, che quella ragazza era il suo vero amore, l’unica cosa che era riuscita ad insinuarsi così tanto in lei da mutarla nel profondo. Ma non poteva fare nulla, non era altro che il ricordo di una persona che non c’era più. Quando la maledizione si era spezzata, Alexis era stata la prima persona che avrebbe voluto stringere e che avrebbe voluto vedere. Invece aveva trovato Jonas, o meglio Albert, e una gravidanza al settimo mese. Si era ritrovata in casa con un perfetto sconosciuto che era il padre di sua figlia, e con il cuore diviso in due. Hannah amava profondamente Jonas, lo amava in un modo così puro e sincero da farla sentire in colpa. Aveva parlato a lungo con lui, lasciando che Laya conoscesse Albert e viceversa e scoprendo di essere persone completamente diverse da quelle che si erano innamorate e sposate. Eppure c’era la bambina a cui pensare e per quanto i suoi genitori fossero due impostori, lei non aveva colpa di nulla. Lei meritava tutto l’amore che avrebbe potuto darle ed era stato questo ad impedire a Laya di rubare il primo fagiolo e tornare da Alexis. Non avrebbe lasciato che sua figlia vivesse in una famiglia a metà, non avrebbe replicato gli errori di sua madre. La piccola non sarebbe cresciuta da sola continuando a chiedersi quale colpa avesse commesso per essere abbandonata senza alcuna spiegazione da uno dei suoi genitori. Per cui aveva atteso che nascesse e fosse abbastanza grande da poter vivere qualche giorno senza di lei. Albert era un padre meraviglioso e i suoi genitori adoravano la loro nipotina, persino Laurel e Malcom si erano affezionati a lei e alla piccola. Non avrebbe sottratto tutto ciò a sua figlia per il proprio egoismo, nemmeno se dall’altra parte c’era Alexis.
Era stata dura resistere alle tentazioni, specie quando il giovane Henry Mills l’aveva trovata. Le aveva dato l’arpa e un biglietto, spiegandole che era tutto ciò che Alexis aveva potuto lasciarle. Il ragazzino le aveva raccontato ogni cosa da quando aveva conosciuto l’altra ragazza a quando era andata via, ogni più piccolo dettaglio. Qualcosa lo ricordava anche lei, momenti che aveva passato nelle vesti di Hannah e che ora risultavano dolorosi. Ricordava come le avesse parlato di quella ragazza che le aveva rubato il cuore, e delle sensazioni futili provate dall’altra sé stessa. Quella che non aveva compreso una sola parola di quanto riferitole da Alexis e tantomeno i suoi gesti e i suoi comportamenti. Henry raccontò di quanto fosse disperata prima di obbligarsi ad infilarsi nel portale per la sua Storybrooke e di quanto anche lui si era sentito triste ed inutile. Dopo il loro incontro, era tornata a casa sua, quella che aveva comprato con Jonas, e aveva pianto tutta la notte. Non aveva mai versato tante lacrime in vita sua. Quando i singhiozzi le lasciavano spazio per altro, tornava a legger quelle poche righe lasciatole da Alexis fino ad impararle a memoria. Anche in quel momento, mentre camminava per le strade della sua città, le ricordava come se le avesse avanti gli occhi in quel preciso momento.
Laya, se stai leggendo queste parole significa che la maledizione si è spezzata. Perdonami, non sono riuscita a fare un bel nulla se non incasinare ancora di più le cose. Mi dispiace amore, sono costretta ad andar via e a lasciarti qui. Ma ti giuro che ti ritroverò, la mia famiglia si ritrova sempre e tu ne fai parte.
Ti amo, Lay, ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Aspettami,
Lex”
Ricordava perfettamente dove fossero cadute la lacrime di Alexis e dove le sue, ogni macchia impressa sul foglio e ogni piega che aveva assunto la carta dopo le innumerevoli volte che l’aveva maneggiata. Ricordava dove l’orribile scrittura di Alexis tremava e il calco fosse più profondo. Aveva sfiorato con le dita mille volte i loro nomi e i due “ti amo” presenti nel biglietto.
Non era a quel modo che aveva immaginato il loro incontro, non con quella rabbia e quel dolore. Nei suoi sogni, avrebbe semplicemente stretto Alexis a sé e l’avrebbe baciata a lungo. Sarebbe andata con lei a prendere le sue ciambelle preferite e poi si sarebbero rifugiate nel bosco, dove erano solite passare i loro pomeriggi. La routine con lei le mancava da morire, anche litigare per sciocchezze come era capitato per Liam Jones Jr, per la sua ossessione di volerla immortalare in una fotografia o la repulsione per il cellulare. Aveva accettato ancor prima di partire l’idea di arrivare a Storybrooke solo per ucciderla, era preparata a cosa sarebbe accaduto e sapeva che sarebbe andata via lasciandola a terra e piena di ferite. Continuava a sperare che Alexis la odiasse, che la smettesse di guardarla con quell’espressione così dannatamente innamorata. Quando le aveva riferito che la sua concezione del tempo passato era errata, una parte di lei aveva pregato affinché la distruggesse dicendole che no, non aveva continuato a pensare a lei e non attendeva ancora invano un suo ritorno. Che Alexis fosse andata avanti nella propria vita e che avesse trovato una persona capace di darle tutto ciò che lei le aveva strappato. Ma la sola immaginazione di lei tra le braccia di qualcuno al di fuori di sé stessa, le dava il voltastomaco. Aveva tentato infinite volte di ripetersi che ciò che aveva fatto era sbagliato, che sarebbe stato un errore ripiombare nella sua vita come un fulmine a ciel sereno e poi lasciarla sotto un temporale. Ma il bisogno di rivederla, di dirle che stava bene e che non aveva smesso di amarla nemmeno quando era stata sconfitta da Hannah, aveva avuto la meglio su ogni altro pensiero razionale. Eppure avrebbero dovuto dimenticarsi, avrebbero dovuto fingere di aver scelto di rinunciare a quella loro meravigliosa vita insieme. Avrebbero dovuto dimenticare la sintonia, l’affinità, i baci, le carezze, le risate, il sesso. Forse ci sarebbero riuscite prima o poi, forse sarebbero arrivate a quel punto in cui pensare l’una all’altra non era impossibile. Avrebbero trovato quella monotonia dove ignorarsi era solo difficile e non una pugnalata al cuore. Ma la realtà era che Alexis per lei sarebbe sempre stata l’unica e l’ultimo vero amore che avrebbe provato. 
Sentì le lacrime rigarle le guance mentre bussava alla porta di casa sua dopo quattro anni di assenza. Quando questa si aprì e Fleur-de-Lys incontrò il suo sguardo, si portò le mani alla bocca riuscendo solo a sussurrare il suo nome prima di gettarle le braccia al collo e stringerla forte. Nonostante non ci fosse alcun legame genetico, Laya era sua figlia.
-Ma come… che… -
-È una lunga storia, Fleur. Dov’è papà? –
La donna corse al telefono componendo il numero di Phoebus e attendo con ansia che questo rispondesse. Non riuscì a parlare molto, si limitò a ripetere più volte il nome della ragazza e che era a casa. Poi nulla più ed entrambe compresero che l’uomo stava corredo da loro. Si riavvicinò a Laya, tenendole il volto tra le mani ed esaminandolo.
-Sei proprio tu? -
-Si, sono io-
Si abbracciarono ancora, incredule.
-Tuo padre impazzirà di felicità-
Provò ad immaginare il suo volto quando gli avrebbe detto che era diventato nonno di una meravigliosa bambina. Non voleva dirlo ancora nemmeno a Fleur, volava che apprendessero insieme la notizia e ammirare le loro reazioni. La donna non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, immensamente felice di rivedere finalmente la ragazza a casa. Le chiese se fosse già passata a salutare Alexis, nei suoi occhi la gioia di chi era all’oscuro del dolore che aveva già causato. Laya si limitò ad abbassare il capo, rivelando che c’era stata una brusca lite tra di loro.
-Mi dispiace, tesoro. Vedrai che si sistemerà tutto, voi due siete fatte per stare insieme-
Quelle parole distrussero l’ultimo pezzetto di resistenza che era riuscita a tenere. Scoppiò a piangere, liberando finalmente tutta la tensione che aveva accumulato.
-Laya, che succede? –
Fleur le strinse una spalla, tentando di consolarla e di comprendere cosa fosse accaduto. Non ebbe il tempo di approfondire l’argomento, la porta di casa si aprì bruscamente.
-Laya! –
Phoebus si precipitò in casa invocando a gran voce il nome della figlia. La ragazza, in risposta, balzò dal divano per corrergli incontro.
-Papà! –
Saltò tra le braccia dell’uomo come quando era bambina e lui la sollevò stringendola senza alcuno sforzo. Notò subito di come fosse dimagrito, quasi riusciva a cingergli tutto il corpo con le braccia.
-La mia bambina. La mia adorata bambina-
Si staccò dalla ragazza per guardarla in viso e leggere tutti i tratti che aveva cercato in ogni persona per i precedenti quattro anni. Passò una mano sulla faccia, per tentare di asciugare le lacrime che scendevano copiose andando a morire nella sua barba.
-Papà, non piangere-
-Sei tu che stai piangendo-
Fleur-de-Lys li guardò piena di felicità, sembravano due ragazzini che facevano una gare per stabilire chi fosse più forte. L’uomo resistette ancora qualche attimo, poi riprese la ragazza tra le forti braccia e la strinse ancora a sé. Laya non pose alcuna resistenza, lasciandosi sollevare e stringere.
-Papà, vi devo parlare-
-Certo scoiattolina, tutto quello che vuoi-
La famiglia si accomodò sul divano, Phoebus non si staccò un solo secondo dalla figlia temendo di vederla sparire da un momento all’altra. Di nuovo. Laya frugò all’interno della sua giacca e ne estrasse una fotografia porgendola alla coppia. I due la guardarono mostrando un’espressione perfettamente speculare l’una dell’altro. La ragazza sorrise nell’ammirarli, preparandosi a rispondere quando i loro sguardi avesse posto quella silenziosa domanda.
Raccontò brevemente loro della maledizione, della Storybrooke diversa, di Jonas e di Hannah.
-Lei è mia figlia- concluse poi.
L’uomo sgranò gli occhi voltandosi verso la compagna e specchiandosi nella sua stessa sorpresa. La foto rappresentava una bambina seduta in un prato, la pelle chiara risaltava sotto il vestitino giallo e bianco. Un paio di luminosi occhi verdi spiccavano sul suo volto sorridente, un verde che Phoebus trovò identico a quello della madre di Laya.
-Oh mio Dio Laya, sono nonno-
-Si papà, sei nonno-
La ragazza non riusciva a non sorridere di fronte l’emozione del padre.
-Come si chiama? – le chiese Fleur-de-Lys.
-Esmeralda-
Phoebus sollevò il capo di colpo, piantando i suoi occhi castani in quelli oscuri della figlia.
-L’hai chiamata come tua madre? –
Nella sua voce non c’era più né felicità né gioia, il suo tono era irato e deluso. Vide Laya annuire e quel gesto lo fece innervosire ancora di più.
-Hai chiamato tua figlia come la donna che ti ha abbandonata? –
-Phoebus- lo redarguì Fleur-de-Lys.
-Scusate-
L’uomo si alzò dirigendosi verso la sua camera da letto senza rivolgere un solo sguardo alle due.
-Papà-
Fleur-de-Lys alzò una mano, invitandola a non continuare quella conversazione. Attese di sentire la porta della camera chiudere prima di tornare a parlare con la ragazza.
-Non le ha mai perdonato di averti lasciata. È una ferita tanto vecchia quanto ancora aperta-
Laya abbassò lo sguardo, delusa da quell’atteggiamento. Aveva sperato che almeno a casa sua sarebbe stata bene e felice.
-Non ti preoccupare, tesoro. Ci parlo io appena si sarà calmato, ok? –
 
Phoebus batté le mani sul comò tentando di sfogare almeno in parte la rabbia che stava provando. Rivedere Laya l’aveva reso l’uomo più felice del mondo e la notizia di essere diventato nonno era riuscita a farlo volare dal divano, ma sua figlia aveva scelto quel nome. Poteva capirla, in cuor suo riusciva a darle una giusta motivazione, ma quella donna non meritava un tale privilegio. Non si era mai più fatta sentire, né aveva chiesto in tutti quegli anni come stesse sua figlia. Aveva abbandonato una bambina di meno di due anni a qualcuno che non era nemmeno la sua famiglia, non curandosi se lui e Fleur-de-Lys se ne fossero presi cura. Aveva giocato con la sua vita e non glielo avrebbe mai perdonato. Si era dato un gran da fare per lei e per sua figlia. Aveva lasciato Parigi per cercarla, aveva dovuto accettare l’esistenza della magia e di viaggiare attraverso portali. Aveva vissuto in un mondo a lui sconosciuto ed era rimasto vittima della maledizione pur di seguirla. L’unica cosa che non gli aveva permesso di impazzire assieme a Esmeralda, era stata la gran fede che Fluer-de-Lys riponeva in lui. Lo aveva accompagnato senza mai chiedere nulla in cambio e lui le aveva donato tutto l’amore che non aveva dato alla bambina. Laya era diventata tutta la sua vita, una bambina talmente bella, buona e sveglia, tanto da conquistarli con un solo sorriso. Aveva cominciato a chiamarlo papà, nonostante non lo fosse e lui non glielo aveva mai negato. Perché si sentiva tale ormai.
Aprì l’ultimo cassetto del suo comodino, frugò sotto le camicie fino a trovare il pacchetto che cercava. Lo tenne per qualche attimo tra le mani, soppesandolo. Poi lo rimise al suo posto senza aprirlo. L’unica eredità che Esmeralda aveva lasciato a Laya e che lui non aveva mai consegnato a sua figlia.
 
-Devi smetterla, Esmeralda. Hai delle responsabilità, quella bambina non ha nessun altro al di fuori di te! –
Phoebus rincorreva la donna fuori il portone di casa, era la terza volta quella settimana. Esmeralda gli camminava avanti, una borsa a tracolla e nient’altro se non il tramonto alle spalle.
-Io non ce la faccio più, Phoeb! Questa città mi opprime, mi sento in trappola qui. Possibile che tu non lo capisca? –
-No, non lo capisco. Tutto ciò che so è che stai abbandonando tua figlia per tornartene a fare la vagabonda-
La donna si fermò, voltandosi con sguardo infuocato negli occhi verdi. Phoebus deglutì con fatica, come tutte le volte che lo guardava a quel modo. Era per quello sguardo che era finito in quella terra e in un numero indefinito di guai, era per quello sguardo che il suo caro amico Quasimodo era morto. Avevano seguito Esmeralda per accertarsi che lei e la bambina stessero bene, ma si erano ritrovati in un mondo che non gli apparteneva.
-Forse se avessi passato la metà di quello che ho passato io, capiresti-
-Io ti ho accolto in casa mia dopo che hai rovinato la vita a me e ad altre persone a me care! Ho accolto te e tua figlia senza alcuna remore perché non avevi nessun posto dove andare e questo è il ringraziamento? –
-Non mi sembra ti sia dispiaciuta così tanto la mia compagnia, capitano-
L’aria spavalda con la quale affrontò l’uomo, avrebbe fermato un intero esercito. Esmeralda sapeva fin troppo bene come raggirare Phoebus de Chateaupers e nonostante gli anni passati a mangiare erba e belare, non aveva perso il suo fascino gitano e ribelle. Era grazie a quello che aveva trovato un posto sicuro dove lasciar crescere la sua bambina. Ma ormai non riusciva più a fingere di star bene con se stessa e con l’unica forma di famiglia che aveva trovato. I ventott’anni passati sotto l’effetto della maledizione, l’avevano segnata nel profondo ampliando il suo desiderio di libertà. Non aveva mai avuto radici, l’unico posto che aveva chiamato casa era la Corte dei Miracoli e le strade di Parigi. Poi Claude Frollo le aveva rovinato la vita, violentandola e lasciandola incinta. Era scappata da Parigi con un fagiolo per ritrovarsi solo in una gabbia più grande. Non aveva chiesto a nessuno di seguirla, tantomeno a Phoebus e alla sua amante. Era stata una scelta dell’uomo seguirla e condividere lo stesso fato, a spingerlo, il vecchio amore che aveva provato per la gitana. Amore ormai completamente scomparso.
-Non fare la stupida, torna in casa e prenditi cura di quella bambina-
Alle loro spalle era arrivata anche Fleur-de-Lys, i due vennero attirati dal pianto della bambina. La donna la stringeva al petto tentando di calmarla, in attesa che la madre la prendesse. Ma lei non si muoveva.
-Laya piange e non hai nemmeno la voglia di prenderla in braccio? È tua figlia, maledizione! –
-Smettila di dirmi cosa devo o non devo fare! Voglio sentirmi libera di agire come meglio credo! –
-Lei non ha colpe, non merita di pagare per ciò che è accaduto a te. È solo una bambina, per l’amor del cielo-
Restarono a guardarsi, due sguardi carichi di rabbia incastonati nella convinzione di aver ragione. Laya continuava a piangere dimenandosi tra le braccia di Fleur-de-Lys, incapace di tranquillizzarla. La prima a muoversi fu Esmeralda, rientrò nel palazzo portando la bambina con sé. Non appena fu tra le sue braccia, ben arrampicata alla sua maglia, la piccola smise all’istante di piangere riconoscendo la madre.
-Phoebus, dovete trovare un punto d’incontro. Non potete continuare con questa storia per sempre-
-Lo so, Fluer. Lo so-
Rientrarono anche loro. L’uomo si assicurò che madre e figlia fossero al sicuro poggiando l’orecchio contro la porta della loro camera. Esmeralda stava cantando per la bambina, probabilmente per farla addormentare. Cenarono in silenzio, solo loro due e allo stesso modo andarono a dormire. L’uomo non riuscì a prender sonno nemmeno provandoci con tutto sé stesso, Esmeralda lo preoccupava. Sapeva di non aver voce in capitolo nella vita di Laya, ma teneva molto a lei e non avrebbe permesso alla donna di trattarla come un incidente. Non era mai stata una persona facile e devota, ma non riusciva ad accettare il suo completo disinteresse verso la figlia. Proprio come in quel momento. Laya piangeva già da un po’, costringendolo ad alzarsi per andare a controllare.
-Ci penso io, torna a dormire-
Fleur-de-Lys gli poggiò una mano sul petto invitandolo a tornare a letto. L’uomo la vide lasciare la loro stanza e sparire in quella dove la bambina piangeva disperata.
-Pheobus! –
Il tono della donna fu allarmante, obbligandolo a lasciare il suo giaciglio per correre dalla compagna. Una volta nella stanza, vide la bambina arrampicarsi sulla culla e nessuna traccia di Esmeralda. Nelle sue mani, una busta col nome della figlia scritto di suo pugno.
-Se ne è andata-
L’uomo sgranò gli occhi, nelle orecchie il pianto incessante della bambina. Si avvicinò a lei prendendola in braccio e tenendola stretta al petto cullandola.
-Tranquilla piccolina, ci sono io qui con te-
Guardò Fleur-de-Lys, alla ricerca di un consenso circa quanto aveva già deciso. La donna si limitò a carezzare il capo di Laya che si era calmata e a sorridergli.
Tornarono nel proprio letto, la bambina incollata al petto di Phoebus si era riaddormentata con le labbra leggermente aperte e i pugni chiusi. Solo allora si concesse di aprire il pacchetto di Esmeralda. All’interno vi trovò una lettera e la mappa della città che aveva regalato a Quasimodo. Il gobbo glielo aveva a sua volta riconsegnato in punto di morte. Sollevò il ciondolo, passò le dita sulla croce che simboleggiava la città e gli venne da sorridere ripensando a quel buffo battibecco avuto con l’amico circa la decifrazione di quell’oggetto. Prese poi la lettera, aprendola per leggerla. Laya si mosse appena e Phoebus si paralizzò sperando che non ricominciasse a piangere, ma la bambina sospirò, fece un adorabile suono facendo schioccare le labbra e riprese il suo sonno tranquillo.
 
“Laya, non so se puoi sentirmi o se ti soffermerai mai suoi miei pensieri. Sai che sono una gitana e non oso chiedere altro dalla vita se non essere libera e me stessa. Qui, con te, non posso farlo. Mi hai rinchiusa in una gabbia fin troppo piccola ed io voglio solo evadere. Tu, Laya, sei una parte della mia vita che voglio dimenticare per sempre, ed è per questo che ho deciso di andar via. Ho bisogno di ritrovare ciò che sono sempre stata e tu sei un peso per me. Quando ti guardo, non vedo altro che il frutto dello stupro di Frollo. Ti lascio a Phoebus e Fleur-de-Lys, ma ricorda che potrai scappare da loro quando vorrai, non sono niente per te. Sii te stessa, così come farò io.
Esmeralda”
Phuebus strinse con rabbia la lettera della donna. Non solo era andata via ma aveva definito Laya uno sbaglio e una prigione.
Non avrebbe mai potuto perdonarla per quello.
Ed era stato in quel momento che aveva deciso che per Laya sarebbe stato più di un padre, più di qualsiasi altra cosa.
  
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