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Autore: Koa__    19/04/2019    7 recensioni
Lestrade chiede a Sherlock di aiutarlo con un caso che vede alcune coppie scomparire misteriosamente nel nulla. Lui però non ritiene che queste sparizioni siano degne della sua attenzione, almeno fino a quando il cadavere di una donna non viene rinvenuto sulle rive del Tamigi. Per poter indagare su questo misterioso delitto, Sherlock e John si fingono fidanzati. Loro malgrado si ritroveranno vittime di un gioco che li costringerà a mettersi a nudo e, con la vita di entrambi in pericolo e il pensiero che Rosie possa perdere un altro dei suoi genitori, Sherlock si renderà conto di non poter più negare ciò che prova per John.
Partecipa alla Challenge “Easter Eggs” del gruppo Johnlock is the way, and Freebatch of course.
[Ispirata alla 8x05 di Smallville: Committed]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Committed
 
 
 
 
 


L’inguaribile ottimismo di Mrs Hudson





 
 “We've got secrets between us that
Nobody else would believe if we told them”
 



 
Era iniziato tutto un giorno del mese di aprile, quando già la primavera aveva inondato Londra di una piacevole aria frizzantina, che invogliava a sbottonarsi e a lasciar entrare quel lieve tepore fin dentro le ossa. Non che John Watson avesse il tempo per passeggiare o stare all’aria aperta; tra il lavoro allo studio, quello con Sherlock e Rosie a cui badare, non aveva la possibilità di fare un bel niente. Quel diavoletto biondo di appena tre anni era capace di risucchiare tutte le sue già scarse energie e se a lei si univa anche Sherlock Holmes, beh, era quasi arrivato al limite della sopportazione. E fu proprio per questo che quando Lestrade attraversò la porta della cucina, un mattino verso le sette e mezza, declinò immediatamente l’invito a seguirli in centrale. Aveva troppi pazienti da visitare, doveva parlare con le maestre di Rosie e poi avevano risolto moltissimi casi ultimamente, davvero troppi ed era indietro persino con le faccende di casa. Non aveva una reale idea del motivo, ma Sherlock pareva inarrestabile. Ne aveva presi diversi ma mentre alcuni li aveva risolti in poche ore e senza fare troppa fatica, per gli altri c’era voluto decisamente molto più tempo e soprattutto molte più energie.


«Devo portare Rosie all’asilo» rispose, forse un po’ troppo frettolosamente mentre saliva le scale sino a raggiungere la stanza al piano di sopra. Quella in cui lui e sua figlia dormivano e dov’erano un po’ stretti sì, ma per il momento non c’era altra soluzione. Per fortuna Mrs Hudson gli dava una mano con la bambina, spesso l’aiutava a vestirsi o le preparava la colazione. Questo però, e nonostante il prezioso aiuto della loro padrona di casa, era ugualmente una di quelle volte in cui John era troppo in ritardo per fare qualsiasi cosa.
«Ho alcune visite a domicilio da fare stamattina e pazienti in studio per il resto del pomeriggio. Quindi non posso venire, sempre che tu decida di accettarlo» specificò poco più tardi, intanto che ridiscendeva i gradini con Rosie in braccio e passo svelto. Si riferiva al fatto che era già la quarta volta che Lestrade provava a rifilargli quel caso, Sherlock lo aveva rifiutato per altrettante sostenendo che era alquanto noioso. Non sapendo ciò avrebbe deciso di fare, si ripromise di sentirlo più tardi e di rimandare a dopo le decisioni sull’aiutarlo o meno. In quel momento l’unica cosa che preoccupò di fare fu di salutare Greg, sebbene un po’ troppo frettolosamente, e di sincerarsi che il suo coinquilino avesse capito bene che se ne stava andando. Una manciata di attimi più tardi, stava scendendo di corsa i diciassette gradini del 221b di Baker Street. Doveva muoversi, era in ritardo e le maestre di Rosie non apprezzavano che i bambini arrivassero anche semplicemente cinque minuti dopo l’inizio delle lezioni. Per sua fortuna Sherlock aveva avuto la geniale idea di iscrivere Rosie a un asilo in Marylebon Road, [1] in pratica a un passo da Baker Street, il che gli permetteva di raggiungere la scuola a piedi. Ciononostante spesso si ritrovava a dover correre o a rischiare d’essere in ritardo e anche quella era una di quelle mattine. Eppure e con un piede fuori dalla porta d’ingresso, John si ritrovò a fare dietrofront. Da perfetto soldato qual era marciò con la bambina in braccio di nuovo su per i diciassette scalini, rintracciò Sherlock in soggiorno e, puntandogli il dito contro, se ne uscì con un: «Il fatto che io vada a lavorare non significa che non m’interessi il caso. Se lo accetti tienimi aggiornato e non fare cose pericolose» aggiunse, perentorio, facendogli stirare un ghigno storto e carico di furbizia. «Greg, per favore cerca di tenerlo fuori dai guai.» E una volta che ebbe detto questo lasciò il 221b. Era consapevole che il suo monito non avrebbe impedito a cotanto genio di agire di testa propria, ignorando Lestrade e l’intera Scotland Yard, ma perlomeno era sicuro che in caso di guai lo avrebbero chiamato. Per il momento, tutto ciò che fece fu accelerare il passo in direzione di Marylebon Road mentre Rosie, stretta tra le sue braccia, rideva divertita.
 
 
 
 
*
 
 



La vedova Brown era un’arzilla artritica novantenne che era solita trattenerlo sempre per troppo tempo, molto più di quanto non dedicasse in media a ogni paziente. Fatto che da un lato lo innervosiva mentre dall’altro gli permetteva di tirar fuori il lato più tenero del suo carattere. Non poteva negare d’essersi affezionato a quell’anziana signora. Era sempre così gentile, tutte le volte che l’andava a visitare gli offriva tè e biscotti tenendogli compagnia con una qualche storia sul suo avventuroso passato di ricercatrice. Puntualmente, anche quel mattino, una semplice visita di controllo dopo una brutta influenza si era trasformata nel solito teatrino. Aveva tentato di svicolare, come faceva ogni singola volta, ma quella donna sarebbe stata capace di farla in barba persino a Mycroft Holmes. Proprio malgrado s’era lasciato cadere su quel graziosissimo divanetto a fiori, rispondendo alle consuete domande che Mrs Brown faceva riguardo la sua “Bella famigliola”.  Voleva sapere sempre tutto di Rosie e Sherlock, era anche convinta che loro due fossero sposati ma su quest’aspetto John si limitava a sorvolare. Una parte di sé riteneva perfettamente inutile ribadire che non era affatto così che stavano le cose, perché l’anziana Mrs Brown non ci stava più tanto con la testa (anche se non era del tutto vero). In realtà gli piaceva l’idea che qualcuno potesse scambiarlo per il marito di Sherlock. Un tempo si sarebbe infastidito, ma oggi era ormai troppo oltre per arrabbiarsi riguardo a simili sciocchezze. E poi, tutto ciò a cui aveva pensato nell’ultimo periodo, le riflessioni che aveva fatto su di loro andavano in un’unica pericolosa direzione. Quindi tacque anche quella volta, limitandosi a raccontare un paio di aneddoti divertenti sull’inusuale lavoro che facevano. Quando ne uscì, quasi un’ora più tardi, i pensieri non poterono far a meno di convergere su un unico soggetto, senza quasi rendersene conto si era ritrovato a pensare al suo pazzo detective. Era una sensazione strana che non sapeva descrivere con precisione, ma l’accettare in pieno quella nuova realtà che viveva tutti i giorni a Baker Street, si era rivelato più semplice del previsto. Era diventato facile come respirare. Facile e basta. Semplice tanto quanto era difficile l’idea di lui e Sherlock invischiati in una relazione sentimentale. Era difficile perché c’era un dettaglio che mancava in quel perfetto quadro che John dipingeva con dovizia di particolari a Mrs Brown, ovvero l’amore. Sherlock lo amava? Gli sembrava impossibile una cosa simile, neppure sapeva se gli piacevano le donne o gli uomini ed era quasi sicuro che fosse disinteressato al sesso. Di certo un genio del suo calibro non si sarebbe mai innamorato di un banale dottore con una figlia a carico e che svolgeva un lavoro noioso, come visitare vecchiette e curare raffreddori. Perché Sherlock era così incredibile in qualsiasi cosa facesse, che era impossibile si potesse innamorare di lui. Tante volte aveva pensato di allontanarsi definitivamente, sarebbe stato meglio per il suo cuore che avrebbe sofferto meno di quanto già non soffrisse. Tuttavia questo non succedeva mai, finiva sempre col cercarlo, col pensare a lui, finiva col fantasticare su come sarebbe stato se fossero diventati una coppia. Anche in quei frangenti, fermo sul marciapiede affollato e con i passanti che gli gettavano occhiatacce contrariate, si domandò che cosa stesse facendo Sherlock. Quel caso non l’aveva apprezzato subito, Lestrade andava e veniva da Baker Street da giorni, implorandolo d’accettare e beccandosi perennemente un rifiuto. Questa sarebbe stata la volta giusta? Oppure avrebbe detto di nuovo di no? Aveva bisogno di sapere, anche perché sul mistero in questione non ne sapeva poi granché. Aveva capito che alcune giovani coppie erano scomparse, ma non era sicuro di chi fossero o di chi potesse esserci dietro. Ma poi, lo voleva davvero sapere? Seriamente gli interessava? Preferiva quello alle visite a domicilio? Ovviamente sì. In un impeto afferrò il cellulare, non perse tempo a guardare l’orario né a riflettere sul fatto che fossero appena le undici e che aveva ancora una visita da fare lì in zona prima della pausa pranzo. Semplicemente gli scrisse.
 
 
Hai accettato il caso?
E se sì, a che punto stai?
Qualcosa d’interessante?

Cadavere. Barts. Sto andando ora.



È di una delle persone scomparse?
 
Ovvio.
Raggiungimi lì se puoi.
Se non puoi vieni lo stesso. SH

 
 
Quella frase, oh, John l’amava. In effetti non avrebbe dovuto, perché era uno di quegli ordini perentori che lo sentiva sbraitare un giorno sì e l’altro pure. Se ci pensava meglio si rendeva conto che era anche offensiva perché passava sopra, come sempre del resto, ai suoi impegni e a tutte le questioni importanti che doveva sbrigare al lavoro. Non avrebbe dovuto amarla come in realtà faceva, eppure era un dolce ricordo legato al loro primo incontro. Uno studio in rosa, come aveva titolato il loro primo caso risolto insieme. Una serie di omicidi, un tassista pazzo, il nome di Moriarty pronunciato per la prima volta e una donna vestita con un’improbabile tonalità di rosa. Ci si era affezionato, era uno di quei casi che di tanto in tanto tornava a leggere. Le prime volte l’aveva fatto per tentare di capire se tra le sue stesse parole ci fosse nascosto un qualche indizio. Quando si era reso conto di essere innamorato di Sherlock, più precisamente dal giorno in cui lo aveva ammesso nello studio di Ella, aveva cominciato a rileggere i suoi vecchi articoli del blog per tentare di comprendere se quel sentimento fosse nato da poco oppure se fosse lì da sempre. Uno studio in rosa era il suo preferito. Era andato a vivere con lui dopo neanche un giorno che s’erano conosciuti e tutti se n’erano stupiti, e John per primo, ma la verità era che si erano piaciuti subito. Era scattato qualcosa, quel giorno al Barts, che non aveva mai sentito per nessun altro. Nemmeno per Mary, che comunque aveva sposato. Due giorni e si era trasferito, due giorni e aveva ucciso un uomo a sangue freddo per salvargli la vita. Due giorni ed erano usciti a cena due volte. Due giorni e Sherlock gli aveva già dato più ordini del suo caporale quand’era nell’esercito. Era per questo che lo aveva adorato fin dal primo momento, per il modo di fare e per la maniera in cui sapeva essere diverso da tutti, ma incredibilmente adatto a lui. Quella notte, una delle prime trascorse a Baker Street, aveva pensato che era stupendo aver trovato un altro alieno. Una persona così diversa da lui eppure così simile, da somigliare incredibilmente a un’anima gemella. Ciò che però ogni volta gli dava da pensare era che da quel punto non si erano ancora mai mossi. La loro amicizia era diventata più profonda, questo doveva riconoscerlo, ma erano ancora anime gemelle? E poi, lo erano mai stati? Ma soprattutto, avrebbero potuto condividere qualcosa in più dell’amicizia?


John avrebbe dovuto camminare, muovere un passo avanti all’altro e procedere in direzione del Barts, ma al contrario non si mosse di un millimetro. La sua mente fluttuava su questioni che per troppo tempo aveva tenuto nascoste dentro di sé e che non si era mai deciso ad affrontare con serietà. Per quanto avesse tentato faticosamente di restare ancorato a una vita il più possibile normale, fatta di semplice quotidianità, Sherlock gli ricordava costantemente che in realtà era proprio questo che amava fare. Seguirlo a orari impossibili, discutere di cadaveri e al punto da scandalizzare la gente che, per caso, spiava le loro conversazioni. E ancora, prendere in giro i poliziotti e ridere di clienti un po’ bizzarri. John adorava il loro lavoro, lo scrivere di quei casi più interessanti ed era proprio per questo che era tornato a casa (come in fondo aveva sempre definito i suoi alloggi a Baker Street). Quelle stanze, in fondo, non avevano smesso di racchiudere il suo punto di arrivo. Era quel luogo del mondo che avrebbe sempre identificato con la casa, con il calore e le risate. C’era stata anche sofferenza e incomprensioni, tra quelle quattro mura, ma erano stati capaci di risolverle e di andare avanti. Ora, lui e Rosie occupavano la stanza al piano di sopra e per quanto John la ritenesse una soluzione temporanea, perché prima o poi sua figlia sarebbe cresciuta abbastanza d’aver bisogno di una camera propria e a quel punto avrebbero dovuto parlare con Mrs Hudson di problemi logistici, ancora non aveva fatto niente per introdurre il discorso con Sherlock. Che rimandasse il tutto era ormai più che ovvio. Da tempo infatti viveva in una sorta di stallo, piuttosto scomodo a dire il vero, dal quale temeva addirittura di muoversi. Perché c’era una soluzione a tutto quello, una che lo allettava e che non avrebbe risolto soltanto un problema di camere da letto, ma che avrebbe cambiato radicalmente la sua vita. E non aveva idea di come sarebbe potuta andare a finire o cosa sarebbe accaduto a quel punto, perché qui stava il problema maggiore. John se ne rendeva conto ogni giorno con un po’ più di forza: si stava innamorando di Sherlock e non c’era niente che potesse fare per seppellire quel sentimento dentro di sé. Dio solo sapeva se già non l’aveva negato abbastanza. Ora doveva soltanto accettarlo, perché Sherlock Holmes era l’unica traccia di famiglia che gli era rimasta ma soprattutto era il solo con cui gli andasse di stare. Non usciva più neppure con le donne, semplicemente non gl’interessava farlo. All’inizio era stato per via del lutto e della morte di Mary ancora troppo fresca per poter concepire altre relazioni, poi, dopo esser tornato a vivere al 221b, la sua non voglia di andare a letto con qualcuno aveva assunto ragioni differenti. Ci aveva provato una mezza volta o, meglio, una collega gli aveva chiesto di uscire e sapeva benissimo come sarebbe andata a finire se le avesse detto di sì. Sarebbero finiti a letto e non che un po’ di sesso gli avrebbe fatto male, ma più semplicemente non lo desiderava. Non voleva andare a letto con nessuno, voleva tornare a casa da Sherlock e sentirlo raccontare di com’era andata la sua giornata. Voleva prendere in braccio Rosie e ascoltare con lei quel violino che la faceva addormentare puntualmente prima delle otto. Desiderava stare con quella che ormai considerava la sua famiglia, e se n’era reso conto in quel momento. Con la sua collega a guardarlo speranzosa, aveva capito che pensava a Sherlock come un qualcuno da cui tornare. Non era un concetto nuovo in effetti, fin da quel giorno in cui il 221b era saltato in aria per via di Eurus e dei suoi sadici giochetti, Sherlock lo considerava parte della propria, di famiglia. Ma non solo non ne avevano mai parlato seriamente, John non aveva neppure avuto la possibilità di dire che quel sentimento era ampiamente contraccambiato. Il problema era gigantesco perché si stavano comportando come una coppia quando, una coppia, non lo erano affatto. Non si erano mai parlati apertamente, anzi, raramente discutevano di qualcosa. Aveva anche pensato di confessargli che ultimamente aveva capito determinati fatti riguardanti se stesso, ma ogni volta ci rinunciava. Il problema era semplice e non c’entravano affatto i suoi dubbi riguardo la sessualità di Sherlock: era sicuro di non essere ricambiato. Magari gli voleva anche bene, ma di certo non in quel senso. Forse lo vedeva come un caro amico e certamente teneva a Rosie, ma era davvero tutto qua. Anzi, ancora si domandava come fosse possibile che lo avesse accettato di nuovo a casa, dopo tutto quel che era successo sarebbe stato naturale ricevere una porta in faccia e tanti saluti. E invece ne avevano discusso, per la prima volta in vita loro avevano parlato con il cuore in mano e si erano perdonati a vicenda. Da quel giorno erano andati avanti con un peso in meno a gravare sul cuore e non che fosse stato semplice o poco doloroso, ma era stato quello che Mrs Hudson aveva definito un: “Male necessario”. Un dolore che si deve provare prima di iniziare a sentirsi meglio. E così era successo perché, ovviamente, lei aveva ragione. Mrs Hudson in effetti aveva ragione su molte cose o, almeno, su quasi tutto. Per esempio, era sicura che Sherlock provasse dei sentimenti per lui, ma su questo John aveva dei seri dubbi. Perché tanta certezza nasceva da un fanciullesco quanto inguaribile ottimismo, era convinta che si potesse superare tutto semplicemente parlando, ma non era affatto così che stavano le cose. E ora, dopo mesi di tormenti, discorsi franchi con se stesso e tentennamenti, era arrivato alla conclusione che non voleva pensarci. Ogni giorno rimandava la decisione, dicendosi che se ne sarebbe preoccupato un’altra volta, probabilmente convinto che col tempo avrebbe certamente capito che cosa doveva fare o, meglio, che cosa provasse Sherlock per lui. Finora nessuna delle due cose era mai avvenuta.
 
 

 
*
 



Il caso in questione era molto più semplice di quanto non sembrasse a un prima impressione, almeno stando alle parole che Sherlock gli aveva scritto tramite messaggio. Il tragitto che dalla piccola casetta di Mrs Brown lo avrebbe portato al Barts, era stato piuttosto lungo e noioso. Aveva scelto un taxi, ma considerato che l’auto aveva impiegato fin troppo per svicolare nel traffico cittadino e che John si sentiva agitato da una certa frenesia mista a fretta, aveva abbandonato la macchina per la metropolitana. Non che questo avesse in qualche modo abbreviato il percorso, ma almeno non avrebbe speso una fortuna. Fatto stava che per tutto il tempo non aveva fatto altro che messaggiare con Sherlock, anche lui bloccato nel traffico del centro.
 

Prima il caso non t’interessava, ora invece sì.
È perché adesso c’è un morto?

 
I morti rendono tutto più interessante, John.
Dovresti saperlo.
E comunque sì, naturalmente avevo intuito che le coppie fossero state uccise.
Nessuno scompare nel nulla in questo modo.

 
A parte te, Mr genio.
 
Il punto, John è: chi le rapisce e perché le uccide?
 
E poi che movente ha?

Bravo, John, vedo che inizi a fare le domande giuste.
Il movente mi sembra più che ovvio.
Ma ce ne preoccuperemo a tempo debito.
Ora andiamo a vedere questo cadavere.
Sbrigati.

 
 
Per tutto il tempo aveva avuto un gran sorriso stampato in volto, un sorriso un po’ idiota in effetti. E se una volta simili reazioni gli venivano naturali senza che se ne accorgesse, adesso sapeva perfettamente di quella sua faccia da scemo. Perché era diventato consapevole di tante aspetti del proprio essere innamorato. Quel sorriso che elargiva con così tanta facilità faceva anche un po’ male e, in quel tardo mattino dei primi di aprile, si spense in un moto di amarezza. A cosa serviva avere tutta quella coscienza di sé, se non aveva neppure il coraggio di confessargli ciò che provava? A nulla. E nella sua infinita codardia, anche allora, mentre s’incamminava fuori dal tunnel della metro con le mani strette a pugno, lo sguardo dritto e il portamento vagamente marziale, volle coscientemente accantonare quei ragionamenti. Non era quello il momento adatto, aveva bisogno di calma per decidere cosa fosse meglio fare anche in virtù della presenza di Rosie a Baker Street, fattore di certo non secondario e che contribuiva di molto a dare quel senso di unità familiare dentro la quale si crogiolava spesso e volentieri. Forse però era più saggio non pensarci sopra adesso.
 

Dal canto proprio, John non era poi molto sicuro che fosse un caso semplice così come Sherlock aveva paventato. Anzi, era più che convinto che per Lestrade e i suoi uomini non fosse neppure lontanamente ovvio. Sapeva che delle persone erano scomparse, giovani coppie di fidanzati o sposini. Sherlock doveva aver dedotto che questo fosse il punto che avevano in comune e che ci fosse una sorta di legame, come dei luoghi che avevano visitato o persone che avevano conosciuto mentre organizzavano le rispettive nozze. A lui il legame pareva quasi scontato, ma il movente non lo era affatto. Per quale ragione quelle persone erano sparite e come mai una era stata ritrovata sulla riva del fiume mentre le altre no? Certo il Tamigi non resistiva tutto ciò che ingurgitava e questo chiunque a Londra lo sapeva, ma era stato davvero soltanto un colpo di fortuna oppure l’assassino aveva commesso un errore?

 
Fu soltanto dopo che ebbe finalmente intravisto Sherlock, chinato sul cadavere con la sua lente d’ingrandimento sguainata al pari d’una spada d’un cavaliere, che il suo cervello si spense nuovamente. Una parte di lui era fortemente tentata di fargli presente che di ovvio non c’era proprio niente, tuttavia non si soffermò a specificare che non tutti erano dei geniali consulenti investigativi. Semplicemente gli permise di accorgersi della sua presenza e di salutarlo con uno dei suoi adorabili sproloqui. In effetti, John amava ascoltare Sherlock parlare, sarebbe stato a sentirlo per delle ore intere senza smettere mai nemmeno per un attimo. Adorava il tono baritonale della sua voce o la maniera appassionata con cui sapeva spiegare le cose. Amava sentirlo raccontare di questo o di quell’argomento, perché c’era sempre quel qualcosa di straordinario che riusciva a carpire attraverso i suoi discorsi. Ma se qualche volta le sue impressioni si soffermavano sulla meraviglia di una deduzione geniale, piuttosto spesso ciò che John si ritrovava a notare era la passione. Sherlock ne aveva tantissima, la dedicava tutta quanta al proprio lavoro, però c’era. Perché amava fare il consulente investigativo, amava risolvere misteri più o meno complicati, amava dedurre le persone o svelare la soluzione di un intricato puzzle. Lo amava sì e lo si percepiva chiaramente dalla luce che gli brillava negli occhi le volte in cui si trovava di fronte a un caso difficile o quando, come in questo delitto, aveva davanti a sé una persona la cui morte era ritenuta da lui interessante. Ed era anticonvenzionale, forse strano e questo era vero. Ma a John piaceva, in effetti gli piaceva tutto di lui. La diversità, la stramberia e l’eccentricità, che poi era una delle sue caratteristiche principali. Di lui amava la curiosità, la mente scientifica che gioiva le volte in cui apprendeva un qualcosa di cui prima non era a conoscenza. E ogni singola emozione appariva e scompariva su quel volto perennemente perfetto e fintamente annoiato. Si trattava sempre di dettagli, di sfumature appena percettibili ma che aveva ormai imparato a riconoscere.
 

«Ho bisogno di un tuo parere medico.» Fu soltanto allora che ricordò dove si trovava. La brutalità con cui venne strappato fuori dalla propria mente e dai pensieri che, come la piena di un fiume, spesso lo rapivano, si era interrotta bruscamente. Non ne fu troppo dispiaciuto, solitamente restava a rimuginare tanto da farsi venire i crampi allo stomaco per il nervosismo e poi era andato sin lì per seguire un caso di omicidio.
«Devo sapere di cosa è morta questa donna, è fondamentale farci un’idea precisa.»
«Credevo l’avessi già» replicò, con una punta di sottile ironia nel tono di voce. Un piccolo sorriso gli era spuntato più o meno inevitabilmente in viso, non era riuscito a trattenersi dal punzecchiarlo un pochino, era anche divertente se si considerava quanto spesso si vantava di sapere già tutto. «Anzi, ero convinto che avessi capito ogni cosa. Come hai detto prima? Ah, sì: “Il movente mi sembra più che ovvio”.»
«Ho detto che il movente lo era, ma ci sono ancora troppe cose che non sappiamo» mormorò, usando quel modo di parlare che sottolineava quanto idiote fossero simili puntualizzazioni. «Comunque, questo cadavere è stato trovato sulle rive del Tamigi. Esattamente così come lo stai vedendo, aveva i vestiti perfettamente in ordine. Anelli, collane, orologio tutto quanto.»
«Quindi non è stata una rapina o una violenza finita con un omicidio» osservò John, senza distogliere lo sguardo da alcuni segni all’altezza del petto, che avevano attirato la sua attenzione. Ce n’erano due in particolare, due cerchi di piccole dimensioni e molto ben definiti. Ma non solo, la pelle ne aveva di simili all’altezza del polso sinistro e dello sterno, probabilmente dove la vittima portava dei gioielli. Non c’erano dubbi, la donna era morta dopo esse stata fulminata. Una rapina non lo era stata davvero.
«Ovviamente non lo è» annuì, con sufficienza mal celata. «In primo luogo perché un assassino che ha il tempo di gettare un corpo in un fiume ne ha anche per togliere gioielli e orologio, e poi perché non ha segni di strangolamento, violenza sessuale né ferite da coltello o arma da fuoco.»
«Questi lividi all’altezza del polso sono la prova che è stata legata con qualcosa di pesante come una corda grossa o una catena» fece notare John, sottolineando un segno violaceo su entrambi i polsi. «Sappiamo come si chiamava?»
«Sì, non aveva portafogli con sé, ma aveva una tessera nelle tasche dei pantaloni. Era una di quelle tessere fedeltà ed era di una profumeria del West End, è grazie a quella che l’abbiamo riconosciuta. Il su nome è Jane non so cosa, è scomparsa assieme alla sua futura moglie più o meno una settimana fa.»
«Quindi qualcuno ha rapito lei e sua moglie e poi che ha fatto? Le ha uccise entrambe e si è liberato di un solo corpo nel fiume?»
«Di tutti quanti in effetti, Jane e sua moglie e anche le altre coppie sparite. Io credo che siano morti tutti, ma rinvenire un corpo nel fiume… è stato un colpo di fortuna averla trovata, soltanto così riusciremo a capire come ha fatto. Allora, John, com’è morta?» Fu soltanto a quel punto che si arrese, dandogli definitivamente retta. Era arrivato sin lì per aiutarlo e perché amava l’avventura, ma voleva anche tenersi aggiornato su quello che stava facendo. Perché aveva sempre il timore che lo lasciasse indietro e che si dimenticasse di lui, finendo col mettersi nei guai. In effetti, di questo, John era discretamente terrorizzato ma preferiva non darlo troppo a vedere. Faceva parte di quei discorsi taciuti e mai detti che avrebbero finito con l’allontanarli sempre di più.
«Sicuramente è stata in acqua per più di cinque o sei giorni, il che non facilita le cose. Ma direi che è morta in seguito a una forte scarica elettrica, e non naturale. Cioè non è stato un fulmine o un fenomeno accidentale come un filo della corrente o le dita in una presa, per intenderci.»
«In pratica l’hanno fulminata.»
«L’hanno legata a polsi e caviglie e credo le abbiano attaccato dei morsetti qui e qui» annuì con fare grave, indicando al contempo i cerchi sul petto. «La pelle biancastra è la prova evidente che le hanno attaccato un elettrodo di qualche tipo che le ha dato la scarica, ci sono tracce anche dove portava la collana, l’orologio, i braccialetti e gli anelli. Molly ti dirà sicuramente che è morta a seguito di un arresto cardio circolatorio.»
 

Sherlock non rispose a quell’ultima affermazione, ma John capì immediatamente il motivo del suo non parlare. Taceva così come spesso era solito fare quando stava pensando a qualcosa. Era logico ipotizzare che anche alla moglie della donna, così come a tutti gli altri scomparsi, fosse successa la stessa identica cosa, ma non aveva idea di chi potesse anche solo pensare a una cosa simile e per quale ragione. Fu in quel momento, mentre lo vedeva riflettere con le mani giunte sotto al mento che il telefono prese a squillare. Era quello di Sherlock che vibrava insistentemente nella tasca della giacca. John roteò lo sguardo al cielo, conscio che non avrebbe mai risposto e che sarebbe quindi toccato a lui farlo. Con delicatezza recuperò il cellulare, notando immediatamente che si trattava di Lestrade. E ora, cos’altro era successo?
«Greg!»
«John, sei tu?» 
«Sì, Sherlock è nel suo palazzo mentale» disse, sperando che Greg sapesse di che stava parlando. «Siamo al Barts, la donna è morta per una scarica elettrica e pensiamo che anche a tutti gli altri che sono scomparsi sia successa la stessa cosa.»
«Lo so già.»
«Aspetta, come fai a saperlo?» ribatté, con fare sorpreso. Era difficile, rarissimo in effetti che Lestrade o più in generale Scotland Yard arrivasse a una soluzione prima di loro. Che cosa gliel’aveva fatto capire così velocemente?
«Perché gli Smith, la coppia sparita un paio di giorni fa, sono stati ritrovati vivi e in buone condizioni. Dicono di esser stati rapiti da un uomo che non hanno saputo riconoscere. Li ha attaccati alla macchina della verità e ha fatto loro delle domande personali, domande intime, John, sul loro rapporto e sui segreti e le bugie. Il marito ha ricevuto una scarica, ma sta bene. Abbiamo provato a fare un identikit del tizio in questione, ma non sembrano ricordarsi di niente d’importante. La sto trattenendo qui nel caso in cui vogliate far loro delle domande.»
«Non mi serve» disse Sherlock, strappandogli il telefono di mano «ho già capito tutto. Resta in attesa, ti faremo sapere.» E una volta che ebbe detto questo roteò su se stesso e sparì nel corridoio. John sentì appena la voce timida di Molly che chiedeva loro se volevano una tazza di caffè, perché già gli stava correndo dietro. Come faceva sempre del resto. Sì, pensò mentre lo seguiva con passo accelerato e adrenalina che pompava nelle vene, una persona che lo lasciava indietro in questo modo e che non aggiungeva niente dandolo per scontato, non poteva amarlo. Mrs Hudson era proprio un’inguaribile ottimista.
«Muoviti, John» lo sentì dire, il sorriso che gli esplose in volto fu immediato.
 
 

 
Continua
 
 
 
 
[1]Marylebon Road è una strada piuttosto trafficata che è molto vicino a Baker Street. Ovviamente il fatto dell’asilo me lo sono inventata.
 
Note: Questa storia partecipa alla challenge Easter Eggs del gruppo “Johnlock is the way, and Freebatch of course”. Nel mio uovo c’erano diverse canzoni, ma io ho scelto Alien Like You, dei The Piggott Brothers, a cui questa storia si è ispirata e il cui testo è citato in alto alla pagina. Come accennavo anche nell’intro, la storia ricalca più o meno fedelmente l’episodio 8-05 di Smallville, Committed.
 
Ringrazio Susanna per i consigli di medicina che mi ha dato, semplificandomi la vita e la persona che ha scelto questa canzone stupenda. Il fatto che questa storia sia qui pubblicata è una specie di miracolo perché meno di tre settimane fa ho perso tutto ciò che avevo sulla mia usb. E di questa storia mi era rimasto soltanto metà del primo capitolo. Ho dovuto riscrivere tutto quanto partendo da zero e non è stato semplice e in meno di tre settimane, a oggi non posso dirmi pienamente soddisfatta del risultato finale. Il fatto di averla dovuta riscrivere mi ha provocato molti problemi durante la stesura.
Ringrazio tutti coloro che decideranno di seguirla e chi è arrivato fino in fondo.
Koa
 
   
 
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