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Autore: yonoi    25/04/2019    6 recensioni
Catena dell’Himalaya, tra il regno del Bhutan e il Tibet, a quota 7.570 metri: il Gangkar Punsum, la montagna dei tre Fratelli, è l’ultima vetta al mondo ancora inviolata. Un’improbabile spedizione composta da tre guide alpine, un’archeologa esperta di mummie, due giovani dal passato tormentato e uno studioso di buddhismo tibetano, parte per conquistare la vetta. Eppure il governo del Bhutan ha imposto ufficialmente il divieto di profanare la dimora degli spiriti celesti. C’è di più: a quanto riferiscono gli abitanti del luogo, pare che sia la stessa montagna a rifiutare di essere scalata…
Prima classificata al contest “Lavoratori allo sbaraglio” indetto da Laodamia sul Forum di EFP, a pari merito con "Pene d'amor perduto" di Amor31 e "Sottile come un filo di cotone" di Ayumu7.
Genere: Avventura, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Quando guardo le montagne ho i sentimenti delle montagne dentro di me:
li sento, come Beethoven che sentiva i suoni nella testa
quando era sordo e compose la Nona sinfonia.
Le rocce, le pareti e le scalate sono un’opera d’arte”

(Reinhold Messner)
 
“Quando gli uomini e le montagne s’incontrano,
grandi cose accadono”
 
(William Blake)
 

2. I custodi del Gangkar Punsum

 
Regno del Bhutan. Da Paro a Jakar, tra il 4 e il 5 aprile 2018
 
All’aeroporto di Paro il gufo l’aveva raggiunto all’ufficio della dogana, dove il Kaiser si apprestava a sborsare una tassa di quaranta dollari netti per importare cinque pacchetti di sigarette.
“In tutto il Bhutan è vietato fumare,” aveva gongolato l’uomo della Compagnia. “Se lei avesse letto con attenzione le nostre istruzioni, saprebbe che questo Paese è stato il primo al mondo a vietare il tabacco nei confini nazionali. Il fumo si trova solamente di contrabbando, ma la Compagnia, ovviamente, non la paga per dedicarsi a traffici abusivi.”
In perfetta tenuta da animatore turistico, cappellino e scarpe da tennis, cartellina con le prenotazioni alberghiere e bandierina per rendersi visibile nella ressa, il gufo s’era presentato fin dall’inizio con una faccia tosta che aveva dell’incredibile: più abusiva di quella missione che il Kaiser aveva accettato su due piedi, col naso che già fiutava l’aria tersa degli ottomila, in realtà non c’era nulla.
“Mi sta dicendo che, oltre a tutto il resto, mi toccherà anche smettere di fumare?”
“Lo consideri un amichevole consiglio.”
Una volta lasciato l’aeroporto al seguito del gufo, che pareva ben istruito sul percorso da seguire e invece si perse subito, il gruppo si trovò invischiato in un labirinto di vicoli e mercati, bancarelle di spezie, file di peperoncini e sacchi di riso rosso, pubblicità della locale birra Red Panda e neppure un caffè.
“L’espresso non esiste da queste parti,” precisò il gufo con evidente soddisfazione.
Zampetti era ottimista: “Negli hotel di turismo internazionale, l’espresso di solito c’è. Male che vada, avremo l’occasione per assaggiare il tè al burro di yak.”
L’albergo riservato dalla Compagnia ai suoi clienti era una sorta di pagoda a conduzione familiare, col pavimento in stuoie e terra battuta, ovunque statuine del Buddha e una morbida fragranza di incensi. L’espresso era praticamente sconosciuto. In compenso, sotto all’insegna decorata dalle solite bandierine di buon augurio, un enorme fallo dipinto con tutti i particolari sprizzava felicità con un tale entusiasmo che Rabauer mise da parte le sue inquietudini, Calzini il suo malumore, la biondina specializzata in esequie e cremazioni passò dal colorito cadaverico al viola e tutti scoppiarono a ridere stupefatti.
“Nel Bhutan, il pene è sacro,” spiegò il dottor Zampetti. “È un simbolo di protezione molto potente, in grado di scacciare gli spiriti maligni.”
“Allora io posso ritenermi fortunato,” sghignazzò Moroder, dando di gomito al Kaiser. “Ora capisco perché ci tenevi così tanto a farmi venire. Sarò il portafortuna ufficiale della missione.”
“Sappiate che in Bhutan esiste un piccolo santuario noto come il tempio della fertilità,” spiegò Zampetti, serissimo. “Presso questo santuario, le coppie che desiderano un figlio si recano in pellegrinaggio. Il lama del monastero benedice le donne colpendole sulla testa con un fallo di legno.”
Il giorno seguente, a bordo della corriera diretta a Jakar, la compagnia constatò che l’insolito amuleto campeggiava un po’ ovunque: sui muri delle case e all’ingresso dei negozi, decorato con nastri, simboli e una quantità incredibile di dettagli.
“Presso il tempio della fertilità di cui vi ho parlato,” raccontava Zampetti, “è custodito un esemplare dal manico d’argento. Si dice sia stato portato dal Tibet da Dukpa Kunley nel quindicesimo secolo. Dukpa Kunley era un monaco un po’ fuori dagli schemi: contrariamente a quanto sostenevano i maestri del tempo, riteneva possibile raggiungere l’illuminazione attraverso un’intensa vita sessuale. Molte donne lo cercavano al fine di ottenere la sua benedizione, al punto che il lama Kunley è noto anche come il santo delle cinquemila donne.”    
“Ho deciso,” rise Moroder, “diventerò anch’io un monaco buddhista.”
Paro li aveva accolti in una nicchia di colline e di brezza. Sulle alture si arroccavano templi dai tetti arcuati, decorati da bandierine che spargevano al vento le benedizioni compassionevoli del Buddha.
Jakar, ultima tappa prima della scalata, riservò al gruppo un benvenuto assai diverso. A metà strada la corriera rischiò il naufragio sotto a un rovescio di pioggia, accompagnato da fulmini talmente furibondi da far pensare a Rabauer che tutti gli spiriti del Bhutan si fossero dati convegno, allo scopo di incenerirli ancor prima di essere in vista dei Tre Fratelli.
La pioggia percuoteva i finestrini a secchiate, il buio era praticamente notturno e la vecchia corriera - un modello che in Occidente non si vedeva più dagli anni Settanta -  caracollava sulla sterrata, tra buche trasformate in pozzanghere così fonde che l’intero carrozzone finì per arenarsi.
Le ruote posteriori giravano a vuoto sollevando creste di fango, con l’unico risultato di affondare sempre più. A quel punto, l’autista spense il motore. Comunicò il guasto su una linea crepitante di interferenze, si voltò verso i passeggeri e annunciò imperturbabile:
“Fine corsa, signori.”
“Che ha detto?” Nonostante l’inglese da strapazzo del conducente, Rabauer aveva capito perfettamente ma si rifiutava di credere alle proprie orecchie.
“Qui è proprio come in India,” osservò Calzini sudati, sbracato nell’ultima fila. “Sai quando parti, ma non quando arrivi. Om shanti om.”
Calzini sudati si calò il berretto sul viso e si dispose a dormire come se fosse nel letto di casa sua. Zampetti fornì una dotta spiegazione delle ultime parole del nerd di Paperopoli: “Om shanti om è il mantra della pace. Pace nella mente, nel corpo e in ogni cosa. Jumping Frog ha ragione: mettiamoci tranquilli e qualcosa succederà.”
Nell’oscurità che aveva invaso la carrozza, il volto di Patchouli e quello della spilungona galleggiavano pallidi come fantasmi.
I passeggeri bhutanesi si erano già organizzati per trascorrere al meglio il tempo dell’attesa. Qualcuno, sull’esempio di Calzini sudati, ne approfittò per schiacciare un pisolino. Ad altri, evidentemente, la pioggia metteva appetito: qualche nonna previdente cavò da sotto allo scialle thermos caldi di tè e sacchetti di momo[1]. Persino i bambini sonnecchiavano quieti mentre dalla portiera d’ingresso, a cui mancava un’anta, entravano mulinelli e un gelo da pieno inverno. 
Del tutto impermeabile al clima rilassato, il Kaiser perse le staffe. Si voltò qua e là imbestialito, poi decise di prendersela con l’uomo della Compagnia:
“Ma io mi domando e dico, non c’era un cazzo di treno o un maledetto volo interno per arrivare a Jakar? A Jakar c’è un aeroporto e adesso voglio sapere, pretendo di sapere perché la Compagnia ha deciso di farci attraversare tutto il Paese in corriera, come se fossimo una cazzo di gita scolastica!”
“Non si scaldi, Rabauer,” replicò il gufo, flemmatico. “Il motivo è molto semplice, noi viaggiamo in incognito e occorre essere prudenti. Lei sa che il turismo in Bhutan è ammesso a condizione che sia presente un guida autorizzata dal governo? Il nostro uomo ci attendeva all’ufficio visti di Paro. Ha riscosso quel che la Compagnia gli ha offerto, ma posso garantirle che il sottoscritto ha sudato le proverbiali sette camicie per convincerlo ad accettare. Per questo e altri motivi che persino un montanaro come lei può intuire, non conviene viaggiare dando troppo nell’occhio.”
“Lei ha pagato la guida? E chi mi garantisce che quel tizio non sia andato dritto alla polizia non appena lei ha girato il culo?”
“Che fa, Rabauer, mi cade dalle nuvole? Non faccia il finto tonto, lei tutte queste cose le sapeva benissimo già prima di partire. Piuttosto, dia un’occhiata a questo fascicolo.” Il gufo cavò dallo zaino una serie di fotocopie tenute assieme da una spirale: “Legga e mi dica cosa ne pensa.”
Il Kaiser iniziò a sfogliare, senza riuscire a capire di che diavolo si trattasse. Il dossier era composto da una serie di stampe di pessima fattura, che appiccicavano alle dita un inchiostro come fuliggine. Fotografie sfuocate mostravano strane ombre sul crinale di una montagna, che non potevano essere alberi perché sull’Himalaya, oltre una certa quota, non cresce neanche un lichene. Parevano fantasmi o più probabilmente uomini armati. La temperatura corporea di Rabauer scese a picco sotto allo zero, come se già si trovasse coi piedi nella neve e una mitraglietta puntata nella schiena.
“Cos’è, un dossier sullo yeti?”
Il gufo non era mai stato così serio: “Si tratta del reportage dell’ultima spedizione che ha tentato la scalata al Gangkar Punsum, poco prima che entrasse in vigore il divieto. Pare che gli alpinisti si siano imbattuti in un gruppo di fanatici che li ha convinti, per così dire, a rientrare al campo base.”
“Un gruppo di che cosa?” sbottò Rabauer, svegliando di soprassalto tutti i bimbi presenti e attirandosi la riprovazione delle nonne bhutanesi. “Mi sta dicendo che, oltre a tutto il resto, rischieremo di essere attaccati dagli indiani come nei film western?”
L’uomo della Compagnia continuò: “Corrono molte voci su ciò che accade nei dintorni dei Tre Fratelli. Immagino ne sia a conoscenza anche lei.”
“Immagina male. Se avessi anche solo lontanamente immaginato, mi sarei ben guardato dall’accettare questa missione del…”
“Mi ascolti, Rabauer. Molti di quelli che hanno raggiunto il campo base anche solo per scattare qualche foto, riferiscono di avere assistito a fenomeni apparentemente inspiegabili: bussole che impazziscono, mappe che fanno perdere l’orientamento come se lo stato dei luoghi cambiasse all’improvviso, strani segni nel cielo. C’è chi sostiene di aver visto dei dischi luminosi entrare e uscire dal fianco della montagna. Fin qui si tratta di deliri da visionari, di disorientamento da carenza di ossigeno, per non parlare delle superstizioni della gente del posto.
Tuttavia, i componenti dell’ultima spedizione hanno parlato di attrezzature scomparse e in seguito ritrovate in fondo a un burrone, di slavine cadute sopra alle loro tende mentre il resto del campo si conservava intatto, addirittura di suicidi sospetti: gente che fino al giorno prima sembrava avere tutte le rotelle a posto, e dalla sera al mattino è stata trovata con un cappio attorno al collo. Qui non è certo il caso di tirare in ballo gli ufo, gli spiriti o chissà che altro. 
Piuttosto, abbiamo fondati motivi per ritenere che questi fatti siano opera di un gruppo organizzato, di cui le autorità sono a conoscenza per non dire che lo appoggiano. Il Bhutan non crede al business turistico, preferisce proteggere il proprio patrimonio piuttosto che sfruttarlo. Un concetto che, a quanto pare, è ampiamente condiviso da questo signore.” Il gufo girò le pagine, trovò un primo piano perfettamente a fuoco seguito da una serie di ingrandimenti sgranati, che ritraevano verosimilmente lo stesso individuo: “Ho il piacere di presentarle il Signore del Drago,” annunciò con lo stesso tono con cui, in un tempo che pareva lontano di secoli, il caimano dell’ufficio aveva messo sotto al naso di Rabauer le foto delle tre cime.
“Lei saprà certamente che la denominazione ufficiale del Bhutan è il Paese del Drago Tonante. Pare che questo nome derivi dal fragore che provocano le tempeste quando si scagliano contro i bastioni delle montagne. Detto questo, quattro spedizioni hanno tentato di raggiungere la vetta, prima che fosse dichiarato il divieto. La prima non è neppure arrivata al campo base: non si sa come, ma non sono riusciti a trovare la montagna. L’ultima è quella che ha redatto il nostro reportage, mentre altre due sono sparite letteralmente nel nulla. Non si conosce l’identità di questo Signore del Drago, ma secondo fonti sicure - ossia in base alle ricerche eseguite dalla Compagnia – potrebbe trattarsi di uno degli alpinisti scomparsi. Uno a cui l’aria dell’Himalaya deve aver dato alla testa, altrimenti non si spiegherebbe questo.”
Il gufo voltò un’altra pagina. La foto di due mani mozzate e piantate nella neve scolorì di almeno due toni la faccia del Kaiser. 
“Invece di fare vetta, a un certo punto il nostro uomo avrebbe preso coscienza, o almeno questo è ciò che sostiene. Insieme ad altri della sua spedizione si sarebbe assunto il compito di difendere la dimora degli spiriti, il dominio della natura contro i tentativi di sfruttamento dell’Occidente, e via delirando. Si fanno chiamare i custodi.”
Il Kaiser si rese conto di non avere neppure la forza per protestare. Avrebbe voluto dire che a quel punto lui si tirava indietro, che per affrontare un plotone di guastatori la Compagnia avrebbe fatto meglio ad assumere un sicario professionista, forse più d’uno, invece di coinvolgere un povero alpinista prossimo alla pensione; che era sua intenzione rientrare in Italia a costo di farsela a piedi e sotto l’acqua, perché desiderava finire i suoi giorni non con le mani mozze ma presso l’alberghetto dei suoi in Val di Fassa, a far da guida ai turisti in giro per i rifugi, a fare il pieno di spätzle e a fotografare mucche. Quanto alla Compagnia, si sarebbero rivisti soltanto in Tribunale perché lui, Rabauer, avrebbe fatto passare l’anima dei guai a tutti quanti, a cominciare dal gufo per finire col caimano che l’aveva abbindolato facendogli firmare un contratto nullo e che dico nullo, un vero e proprio suicidio redatto per iscritto.
In mano ai suoi avvocati, l’intera vicenda avrebbe fruttato un risarcimento sufficiente a trasformare l’Enzian in un resort a cinque stelle, con annessa pista da sci, praticello per il golf e centro benessere.
Tutto questo e molto di più avrebbe voluto dire il Kaiser all’uomo della Compagnia.
Eppure sulla rabbia prevalse la curiosità, o piuttosto una sorta di fascinazione. Non riusciva a staccare gli occhi dal misterioso alpinista che invece di conquistare la montagna dei Tre Fratelli si era assunto il compito di renderla ancora più inaccessibile.
Nonostante la pessima qualità della foto, lo sguardo in primo piano catturava l’osservatore e pareva leggergli dentro. Quegli occhi penetravano in profondità come uno scandaglio e il Kaiser si ricordò di quando, da bambino, s’era convinto che le persone alla televisione potessero vederlo, come se la tivù fosse il tramite tra due mondi.
Complice una fantasia un po’ troppo visionaria, il piccolo Rabauer temeva per le sorti dell’uomo in ammollo, imprigionato del cestello della lavatrice e pronto a decollare a quaranta gradi in centrifuga. Era terrorizzato dal Caballero e Carmencita, due coni di cartone senza gambe né braccia che pubblicizzavano una marca di caffè con due spaventosi occhi sporgenti. Ma il più terrificante era l’uomo del telegiornale: ogni sera alle venti, un tale dagli occhiali cerchiati di nero sedeva alla scrivania su uno sfondo di guerre, attentati e sequestri. Dava una scorsa ai fogli che teneva davanti e poi fissava lui, lo fissava per tutto il tempo. 
A due anni quasi tre, Rabauer capiva poco e niente di quello che diceva il tizio del notiziario: ma quando si trovava al cospetto dell’uomo del telegiornale non riusciva neppure a muoversi, mentre di notte si dimenava in preda agli incubi.
La faccenda andò avanti fino a che frau Rabauer non collegò i pianti notturni del figlio col notiziario delle venti: una volta fatta la scoperta entrò in salotto, puntò in direzione dell’uomo del telegiornale e molto semplicemente lo spense.
A distanza di cinquant’anni, il Kaiser si sentiva regredito allo stadio di pupo di tre anni mentre lo sguardo del Signore del Drago lo passava da parte a parte, irradiando un carisma a cui persino quelle fotocopie scadenti rendevano giustizia: senza dubbio, quel tizio non doveva aver faticato per convincere i suoi a seguirlo, visto che lui per primo non riusciva a staccarsi da quegli occhi che foravano la pagina come un oscuro richiamo.
“Come fate a sapere per cosa lotta quest’uomo?” domandò al gufo, lasciandosi portare dalla curiosità. “Qualcuno ci ha parlato?”
“Quello non lotta, è un pazzo,” precisò l’uomo della Compagnia. “Si sente così invincibile che è arrivato al punto di farsi intervistare da una radio locale. Nel dossier abbiamo il testo integrale tradotto. Una buona lettura per ingannare il tempo, nell’attesa che finisca questa maledetta pioggia.”
Mentre il Kaiser annaspava in cerca dell’intervista, il gufo proseguiva con le sue spiegazioni: “Col tempo, il nostro uomo ha radunato attorno a sé un certo numero di locali. Non sappiamo quanti sono. Si sa solo che stazionano tra il campo base e la foresta più a valle. È chiaro che qualcuno ha interesse a finanziarli, e non credo si tratti dei quattro straccioni che tirano a campare nei villaggi vicini. Ci servono delle prove,” e a questo punto il gufo diede un colpetto significativo alla sua videocamera, “delle prove che attestino che il gruppo è numeroso e ben organizzato, e che il governo è a conoscenza delle sue attività. A quel punto ci penserà la Compagnia a trovare un accordo, a meno che il Bhutan non desideri che l’intera faccenda, mani mozze comprese, finisca in pasto alla stampa internazionale.”
Il Kaiser non rispose. Ancor prima di iniziare a scorrere l’intervista, qualcosa dentro di lui si era mosso. Una volta di più, si domandò per quale ragione fosse andato a invischiarsi in una missione non solo illegale, ma che contrastava con tutti i valori di una guida che si rispetti.
Ricordò i suoi inizi, quando già a sette anni aveva cominciato a scalare e suo padre gli aveva insegnato il rispetto per la montagna: “La montagna non si sfida, si ascolta,” diceva Rabauer senior. “Anche se sei in cordata con altre trenta persone, in parete sei solo. Di fronte a te ci sono le tue paure, le tue debolezze. Se hai orecchi per ascoltare, la montagna ti rivela a te stesso.”
Chissà cosa gli avrebbero sussurrato all’orecchio i Tre Fratelli al momento della scalata. Di nuovo provò disagio all’idea di salire per conto di una società di ricattatori professionisti, che mirava a trasformare l’ultima vetta incontaminata del mondo in un business da milioni di dollari.
Se proprio doveva scegliere tra la Compagnia e quel matto che si era arroccato sul Gangkar Punsum per difenderlo, non aveva alcun dubbio: non poteva che parteggiare per quel misterioso Signore del Drago.
Mentre il Kaiser si dibatteva tra mille turbamenti, la pioggia era cessata. L’autista comunicò che il carro attrezzi inviato da Jakar era rimasto impantanato a sua volta, sicché occorreva arrangiarsi. Con l’aiuto di un paio di cunei e soprattutto grazie alle spinte dei passeggeri - Rabauer si sentì scardinare una spalla - rombando giri a vuoto e levando chili di fango, la corriera riuscì a rimettersi in carreggiata. Sul bordo della strada si animò una piccola festa: l’autista diede fondo a una cassa di Red Panda custodita gelosamente sotto al sedile, i bambini si rincorrevano tra le pozzanghere, le nonne s’inchinavano in segno di rispetto. Moroder scattò una foto che ritraeva gli uomini nelle inedite vesti di lottatori nel fango e persino Calzini sudati sorrideva, rivolto alla spilungona che si voltò a guardare se per caso il ragazzo non stesse rivolgendosi a qualcun altro.
Il lascito della pioggia fu un tramonto infuocato, che si posò sulla strada rendendola simile a una passatoia di fiamme. Il viaggio proseguì in completo silenzio: immersi in una luce sfolgorante, i passeggeri videro le montagne aprirsi lentamente dietro ai tornanti.
 
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Verso il villaggio di Thangbi, 6 aprile 2018
 
Da Jakar, immersa in una valle dai toni grigi e azzurri, la spedizione iniziò la marcia che li avrebbe condotti ai primi contrafforti del Gangkar Punsum. Il sentiero saliva in quota attraversando un bosco fitto di pini e ombre, chiudendosi alle spalle la città dalle porte finemente intagliate, le finestre a forma di loto, le ruote di preghiera da scorrere con la mano. Oltre agli immancabili falli esultanti, i muri delle case erano decorati con draghi serpeggianti, figure mitologiche, iscrizioni dai testi sacri.
Appena fuori dall’abitato, un muretto s’inoltrava nei campi tra festoni di bandierine multicolori: in cima, piccoli vasi di terracotta occhieggiavano in file ordinate.
“È quello che ci vuole,” brontolò il Kaiser che quegli strani oggetti, nei luoghi dell’Himalaya, li aveva visti spesso. “Iniziare a salire in compagnia dei morti.”
Quella parola ebbe l’effetto di richiamare dal limbo la spilungona, che dall’inizio del viaggio non aveva ancora detto una sola parola: “I morti? Questo è un piccolo cimitero di urne?”
Le bandiere tibetane cominciarono a stormire forte, nel vento che portava l’aroma del fieno, dei peperoncini che seccavano al sole, di un gruppo di vacche e yak che pascolava poco lontano.
“Non sono solo urne.” Rabauer allontanò la mano della ragazza, che già si allungava obbedendo a un richiamo irresistibile. “Quei piccoli chorten sono fatti con le ceneri dei defunti. Mescolate all’argilla, naturalmente. Sono una sorta di offerta, di memoriale o non so che altro. Per farla breve, è meglio lasciarli dove si trovano.” Al Kaiser sembrò eccessivo aggiungere “cerchiamo di non attirare altra scalogna oltre a quella che abbiamo già.”
Di tutt’altro avviso era la ragazza della funeraria: “I morti portano serenità e consiglio. E sono così soli. Forse dovremmo adottarne uno e portarlo con noi, ci sarà di aiuto.”
QQuesti mi sembrano tutti in buona compagnia,” tagliò corto Rabauer, che di bizzarrie ne aveva già piene le tasche. Una strana atmosfera dimorava in quel luogo, come se mille occhi fossero lì a fissarli. Fosse realtà o suggestione, qualcosa di opprimente cominciava a farsi sentire. Ecco cosa succede quando si parla troppo di spiriti e simili fesserie, pensò tra sé la guida. Di seguito, annunciò:
“A questo proposito, lo dico una volta per tutte: ogni bagaglio superfluo lo lascerete al campo base. Che nessuno si sogni di salire portando del peso inutile. Non voglio vedere un solo cestino di bambù,” e qui fissò Patchouli, che aveva fatto incetta di cianfrusaglie al bazar, “né oggetti che ci possano far passare dei guai. Guai con la gente del posto, intendo,” si affrettò ad aggiungere, lanciando un’occhiata torva a Calzini sudati che per compiacere la spilungona stava già soppesando la più graziosa tra le piccole urne.      
“In quota, farete fatica a mettere un piede dietro l’altro,” proseguì, “quindi non vi conviene trascinarvi dietro della zavorra. Faremo una sosta di almeno dieci giorni nell’ultimo villaggio che troveremo prima della salita vera e propria. Al campo base, altre quattro settimane di acclimatamento per consentire al vostro organismo di abituarsi all’altitudine. Se qualcuno non è d’accordo,” e il Kaiser lanciò al gufo un’altra occhiata che non ammetteva repliche, “ebbene, questo qualcuno sappia che il mal di montagna ha fregato alpinisti più in gamba di lui.”
Più tardi, mentre la comitiva si addentrava nel bosco, il gufo affiancò Rabauer: “Alla Compagnia preme che riusciamo a far vetta nel minor tempo possibile.” Contrariamente al solito, il tono era dimesso fino quasi a un sussurro: “La prego di ricordare che la spedizione non è autorizzata, e soprattutto il contenuto di quel fascicolo. Più tempo passiamo qui…”
“La sua Compagnia, evidentemente, non ha la più pallida idea di cosa significhi scalare un ottomila,” tirò dritto Rabauer. “Quanto a lei, passerà guai peggiori, anzi l’anima dei guai se qualcuno dei clienti ci lascia le penne.”
Di lì a poco, la foresta si chiuse in una cupola oscura. Anche gli ultimi sprazzi di luce e di cielo che filtravano a stento cedettero il passo a una penombra muscosa. Il sentiero si strinse fino a ridursi a un viottolo, i cespugli s’impigliavano negli zaini con lunghe mani di rovi.
Un tappeto di pigne scrocchiava sotto ai passi, ed era l’unico rumore nel raggio di chilometri.
“Sembra di essere dalle nostre parti.” Moroder respirava a pieni polmoni: “Scommetto che alla prima radura troveremo un maso, con tanto di mulino e una birra in ghiaccio per il sottoscritto.”
“Hai già fatto fuori tutte quelle del nostro autista.” Rabauer si guardava intorno diffidente, ma non voleva darlo a vedere. “Non credere che non l’abbia notato.”
“Quelle Red Panda erano acqua fresca,” rise il collega. “Non scherziamo su queste cose, la birra è una cosa seria. Piuttosto,” osservò circospetto, “non ti pare che qui ci sia troppo silenzio? Possibile che in mezzo a tutta questa verdura non si senta neanche un uccello?”
“Di quelli, ne abbiamo visti abbastanza giù in città. Jakar è a quota 2.600, è probabile che in queste zone ci siano poche specie. Più avanti, forse avvisteremo qualche rapace.” Rabauer era consapevole di aver appena detto un’enormità: in alta montagna, anche a duemila metri almeno un gracchio c’è sempre, mentre in quella foresta tutto faceva credere che le uniche forme di vita animale fossero le tre guide e i loro clienti.
 “Sarà, ma qui c’è il bosco e non vola neanche un passero. Di più, non vola una mosca. A me pare molto strano.”
Moroder scosse il capo, infilò i pollici sotto agli spallacci e prese a camminare di buon passo.
Gli altri condividevano la medesima inquietudine. In retroguardia, l’uomo della Compagnia si guardava le spalle come se temesse di essere inseguito. Zampetti consultava una mappa spiegazzata e un vecchio cipollone, che non era un orologio ma una bussola dotata di una strana antenna.
Patchouli si guardava attorno con occhi umidi, di un celeste così acquoso che pareva sul punto di mettersi a piangere. Anche se la temperatura era scesa notevolmente, sudava a larghe macchie sotto allo zaino: sudava dalle treccine che sembravano anch’esse antenne circospette, persino dalle lentiggini che solitamente le donavano un’aria allegra e disordinata, mentre ora parevano più simili allo sfogo di una strana malattia.
Calzini sudati si sforzava di vincere il senso di soggezione che incuteva quel luogo tentando di abbordare la spilungona. 
“Come mai una ragazza carina come te lavora alle pompe funebri?”
Approccio banale, ragazzo. Puoi fare di meglio, pensò il Kaiser che tendeva l’orecchio e i nervi al minimo rumore. L’idea che il Signore del Drago in persona potesse tendergli un’imboscata dietro al prossimo cespuglio non gli sembrava poi così fantasiosa.
“Mi piace stare con loro,” osservò la spilungona, neutra. A differenza degli altri, pareva a suo agio in quell’angolo di mondo in cui non soffiava un alito, non si muoveva un ramo e più in generale non c’era alcun segno di vita.
 Probabilmente il buio e l’immobilità le erano congeniali.
“Ti riferisci ai parenti?” continuò Calzini sudati, deciso a non mollare. “Certo non dev’essere facile, quando hai appena perso qualcuno...”
“Mi riferisco ai morti,” lo interruppe Leina. “Ai morti solamente.”
Calzini rise, nervoso. “Ma non ti fa impressione lavorare con…?”
Leina era distante, immersa nei suoi pensieri. Ripercorreva le sale ammobiliate di legno lucido, i pesanti tendaggi che assorbivano i rumori, i corridoi che odoravano di gigli e cera d’api. Tutto ciò le ispirava una calma profonda.
“Io mi occupo dei trattamenti conservativi,” si limitò a dire.
“Sarebbe?” s’incuriosì Calzini
Sarebbe? gli fece eco il Kaiser, ma solo col pensiero. Più s’inoltravano in quella foresta intricata, più il sentiero si riduceva a una traccia che si distingueva a fatica. Come se non bastasse, la sera avanzava rapida come accade solo in montagna. Una foschia nebbiosa saliva dalla terra e iniziava a sfumare i contorni delle cose: ancora pochi minuti e la visibilità si sarebbe ridotta a zero.
“Faccio imbalsamazioni.”
Dietro di sé, Rabauer sentì il ragazzo inciampare.
“Per prima cosa, si tratta di aspirare il più possibile i liquidi e di sostituirli con particolari sostanze.” Il timbro solitamente piatto di Leina crebbe fino a diventare quasi allegro. Era chiaro che l’argomento l’appassionava e ci teneva a fornire una spiegazione esauriente. Risentiva l’odore delle miscele di alcool e formalina, dei coloranti che, una volta iniettati, simulavano nei corpi la naturalezza del sonno. Solamente al pensiero, il suo volto recuperò vivacità, lo sguardo si fece attento: anche se quel che vedeva non era il tavolo del suo laboratorio sbiancato dalle alogene, ma un viottolo sepolto nell’oscurità del crepuscolo.
 “… e dimmi, perché hai deciso di partecipare alla spedizione?” Calzini troncò il discorso, precipitoso. “Hai l’hobby della montagna?”
Non si interrompono le signore, maleducato, sghignazzò il Kaiser. Nemmeno lui, in realtà, aveva voglia di approfondire certi dettagli. Piuttosto, da un po’ di tempo aveva l’impressione che quel sentiero sempre più impervio, sul quale erano in cammino già da parecchie ore, girasse su se stesso riportandoli sempre nel medesimo punto. Quei due alberi che crescevano allacciati, con i tronchi legati da una spirale di edera, era sicuro di averli già incontrati più volte.   
“Mio padre è sempre stato un amante della montagna.” Dietro di lui, la voce di Leina si era di nuovo assestata su un tono monocorde. “Alla mia famiglia non piace quello che faccio. Così ho deciso…”
Svolazzando nel suo giaccone d’alta quota, Zampetti raggiunse il Kaiser con la mappa sotto un’ala e il cipollone che tintinnava in preda all’agitazione:
Capo! Capo! È da più di tre ore che stiamo girando in tondo. Questo sentiero non è segnato sulla mappa. Anzi, secondo la carta non esiste nemmeno.”
“Come sarebbe a dire che non esiste, se ci stiamo camminando sopra?”
L’intervento di Zampetti causò uno sbandamento dell’intera comitiva. Rompendo le righe, la spedizione si radunò intorno al Kaiser. La spilungona ne approfittò per scrollarsi di dosso Calzini, mentre l’uomo della Compagnia continuava a guardarsi attorno con l’aria di chi si attende un agguato da un momento all’altro.
Zampetti spiegò la mappa, mise a fuoco i fondi di bottiglia che teneva sul becco, non capì un accidente di quel che stava guardando, girò la mappa una volta e poi un’altra ancora, fino a che finalmente riuscì a raccapezzarsi: “Guarda qua, capo. Il percorso comincia appena fuori città, poi s’inoltra nel bosco”. Con la punta dell’ala, o meglio del dito, Zampetti seguì la linea tratteggiata in azzurro, che a un certo punto spariva tra le macchie grigioverdi delle aree montuose. “A questo punto il sentiero s’interrompe. Dopo, non c’è più niente.”
“Evidentemente, dottor Zampetti, la sua carta non è particolareggiata.” Il Kaiser cominciò a frugare nello zaino con tutti i nervi tirati: “Se la confronta con la mia, vedrà che il sentiero non solo è segnato, ma secondo i miei calcoli dovremmo essere a Thangbi tra meno di mezz’ora.”
Rabauer si guardò bene dal dire che stando alla sua personale tabella di marcia avrebbero dovuto trovarsi al villaggio già da due ore. Spiegò la mappa a sua volta, e vuoi per l’oscurità vuoi per la stanchezza - non aveva mai provato prima d’allora un simile sfinimento, e sì che lui ne aveva scalati, di ottomila - non riuscì a rintracciare il sentiero.
“La mia bussola non prende,” osservò Zampetti, allarmato.
“Ci credo che non prende.” Calzini approfittò della sosta imprevista per togliersi le scarpe, col rischio di soffocare l’intera foresta. “Qui non si vede un accidente.” 
“Non diciamo sciocchezze,” replicò Zampetti, risentito. “Questa è la mia speciale bussola spirituale, mica una cianfrusaglia qualsiasi.” Gettò uno sguardo sconsolato al suo marchingegno, poi cominciò a scuoterlo con l’unico risultato di fare impazzire l’ago una volta per tutte.
Rabauer non fece neppure in tempo a chiedere cosa diavolo fosse una bussola spirituale.
Un trapestio improvviso, di passi che si avvicinavano di corsa, calamitò l’attenzione di tutti: a Rabauer la mappa si accartocciò tra le mani, Calzini recuperò in fretta le scarpe, l’uomo della Compagnia sbiancò come un morto e solo la spilungona rimase indifferente, piantata tra le frasche come se ci fosse cresciuta.
Zampettando veloce, Patchouli li raggiunse: “Che fate tutti qui? Poco più in là c’è un bivio e in fondo alla discesa addirittura un villaggio. Chissà se c’è anche una doccia, ne avrei un bisogno enorme.”
Gli altri la guardarono come se avesse due teste al posto di una e su ciascuna un mucchio di treccine fulminate. Moroder la raggiunse, trafelato: “Direi piuttosto, chissà se c’è una birra in ghiaccio per il sottoscritto. Anche una Red Panda a questo punto ci starebbe a pennello.”
 
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Villaggio di Thangbi, quota 2.800 metri, 6 aprile 2018
 
Gli abitanti di Thangbi, l’ultimo insediamento prima del campo base, ignoravano l’esistenza non solo della Red Panda ma della birra in genere. La doccia invece c’era, ma poiché nel minuscolo bagno il getto era collocato esattamente sopra a un viluppo di cavi elettrici, neppure Patchouli ebbe il coraggio di infilarcisi sotto.
L’hotel convenzionato era una costruzione a ridosso di un altro muro di chorten, il che suscitò una nuova inquietudine nel Kaiser, mentre la spilungona sentì aria di casa. Lo stesso edificio, in realtà, somigliava a un chorten dipinto a colori vivaci, con due sole stanzette separate da tramezze di bambù. Capre e galline entravano e uscivano a piacimento. In un cortile interno, uno yak grattava gli ultimi fili d’erba e pareva che il buio fosse una grossa gobba che ruminava lenta.
Con sollievo di tutti, Calzini preferì avvolgersi nel sacco a pelo sotto alle stelle.
“La fortuna è dalla nostra,” osservò Moroder, maligno. “Non ci toccherà dormire con le bombole dell’ossigeno attaccate.” Si voltò verso l’oscurità fitta del cortile, dal quale provenivano zaffate di selvatico: “Molto meglio avere lo yak a portata di naso. Sicuro che non ne vuoi?”
 Rabauer diede un’occhiata al piatto che l’amico teneva sulle ginocchia, un intingolo a base di peperoncini, cipolle e salsa speziata, riso rosso come contorno. Il Kaiser aveva cavato il famoso fascicolo dallo zaino e se lo rigirava con l’intento più che evidente di parlarne al collega.
“La mia gastrite ringrazia. Solo a sentirne l’odore mi sale l’acidità.” Rabauer mise da parte la propria cena, una scodella di riso semplice, e accese una sigaretta. La sua scorta di pacchetti si stava assottigliando con una rapidità preoccupante.
“Zampetti dice che l’ema datshi è il piatto nazionale, da provare assolutamente. Qui il peperoncino lo usano come verdura. Da quando hai la gastrite?”
“Da quando ti conosco, o meglio da quella volta in cui ti ho visto ingurgitare quarantacinque würstel nel giro di un mezz’ora.”
“Quella era una gara e io l’ho pure vinta.” Incuriosito, Moroder buttò un occhio alle pagine che il Kaiser continuava a sfogliare soprappensiero: “Che cos’è quella roba?”
Si allungò per guardare meglio, cadendo esattamente sulla foto delle due mani mozze: “Quello è un fotomontaggio, e fatto pure da cani. Cos’è, un catalogo di articoli per Halloween?”
“Quella specie di gufo che la Compagnia ci ha attaccato ai garretti è convinto che nei pressi del campo base ci sia qualcuno pronto a fare tutto pur di impedire la scalata ai Tre Fratelli. Non sappiamo quanti sono, ammesso che saperlo conti qualcosa.”
“Comunque, quell’affare piacerebbe a mio figlio. L’anno scorso è andato in giro a fare dolcetto o scherzetto tirandosi dietro un piede legato a una catena. Le mani, però, allo spaccio non le abbiamo trovate. Da noi, le novità arrivano sempre tardi.”
Vuoi starmi a sentire?” Rabauer alzò la voce, da un sussurro a un ringhio per non svegliare gli altri. Da dietro il tramezzo provenivano il respiro regolare di Leina e l’olezzo di Patchouli, che prendeva alla testa più del fetore di Calzini sudati. L’uomo della Compagnia era mummificato nel sacco a pelo: una porzione abbondante di ema datshi l’aveva colpito e affondato in un sonno di pietra.  
“Ti sto ascoltando, certo,” confermò Moroder, serio. “Stai dicendo che al campo base incontreremo la banda Bassotti pronta a tagliarci le mani. E tu, naturalmente, ci credi.”
“Il gufo ci crede eccome. Quanto a me, posso anche pensare che siano tutte balle. Però mi pongo il problema: che diavolo facciamo se ci troviamo davanti un gruppo di teste calde armate fino ai denti?”
“Ci toccherà chiamare il commissario Basettoni.” Moroder ingurgitò l’ultimo boccone e cominciò a stiracchiarsi insonnolito: “Andiamo, vecchio: sull’Himalaya abbiamo sentito storie di ogni genere e questa non mi pare migliore delle altre. C’è gente che sostiene di aver visto gli ufo sul Gangkar Punsum, non so se mi spiego. Scherzi dell’ipossia. A proposito,” e qui iniziò a trafficare col sacco a pelo, “non vorrai veramente trascorrere dieci giorni in questo buco dimenticato da Dio, dagli uomini e dalla birra? Gli altri mi sembrano ben acclimatati con l’altitudine.”
Rabauer non rispose. Continuava a sfogliare quel fardello di fotocopie ritornando, a intervalli, sul primo piano del Signore del Drago. Non riusciva a staccare gli occhi da quello sguardo che ogni volta lo inchiodava alla pagina.  
“Pronto? C’è nessuno in casa? ”
“Tu per cosa sei qui, Peter?”
Finalmente il Kaiser arrivò al punto: “Sai che se riusciremo a fare vetta la Compagnia metterà in piedi un business come quello dell’Everest? Tu cosa ne pensi?”
“Penso che domani avrò emorroidi così grosse che potrò appoggiarci lo zaino.” Moroder prese ad agitarsi nel sacco a pelo, ma solo perché era in preda a un attacco di prurito formidabile. Di nuovo, si fece serio: “Il campo base dell’Everest sembra un villaggio turistico per ricconi con l’hobby dell’alpinismo. Se proprio vuoi saperlo, mi dispiace pensare che i Tre Fratelli faranno la stessa fine. Dev’essere il destino dei luoghi belli della terra.”
“E quindi noialtri che ci facciamo qui?” Rabauer chiuse il fascicolo e spense la lucerna che, più che illuminare, ombreggiava la stanza. Malgrado il viluppo di cavi che penzolava dalla doccetta, nell’hotel convenzionato come del resto in tutto il villaggio la luce elettrica non esisteva.
“Questo lo saprai tu. Sei tu che hai firmato il contratto e poi sei venuto a frantumarmi le gonadi perché partecipassi. Cima Rabauer e ferrata Moroder, se non ricordo male. Passare alla storia dell’alpinismo e avere l’albergo pieno in saecula saeculorum.”
“Francamente, non so più se ne vale la pena.”
Moroder si rigirò trovando finalmente una posizione comoda: “Allora vorrà dire che una volta al campo base faremo fare una passeggiatina ai tuoi clienti, pianteremo due bandierine per ricordo e torneremo a valle come da piano B.”
“La Compagnia non me la farà passare liscia. Se proprio vuoi saperlo,” precisò il Kaiser vuotando il sacco col favore del buio, “quelli là mi preoccupano molto più dei custodi della montagna.” Rabauer accennò in direzione del gufo, che ronfava beato e imbalsamato nel sacco a pelo. “Se al ritorno trovassi l’albergo dei miei bruciato fino alle fondamenta, non ne sarei sorpreso.”
“A questo mondo, vecchio, non si dà mai niente per niente,” brontolò Moroder, già sul punto di sprofondare nel sonno. “Alla tua età, dovresti saperlo da un pezzo.”
 
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Il mattino seguente, il gruppo fu destato da urla terrorizzate che provenivano da dietro al tramezzo. Moroder fece capolino dal sacco a pelo con un paio di occhiaie da cattiva digestione e la testa gonfia di sonno, il gufo non si accorse di nulla e continuò a ronfare, Zampetti svolazzò rapido dietro al Kaiser per vedere cosa accadeva nella zona riservata al gentil sesso.
Una grossa bestia gibbosa, una sorta di incrocio tra un bue a pelo lungo e una capra, si aggirava indifferente a tutto quel trambusto, evidentemente in cerca di qualcosa da brucare: aveva occhi dolci, brevi corna ritorte e un muso a froge larghe, fatte apposta per infilarsi negli zaini alla ricerca di qualcosa di appetitoso. Superato un primo momento di smarrimento, prese coraggio e frugò nel bagaglio di Patchouli. Cavò fuori il famoso cestino di bambù e si mise a sgranocchiarlo di buona lena.
“Una zavorra in meno,” commentò il Kaiser sbalordito sulla soglia. “Qualunque cosa sia quell’affare, lo nomino seduta stante mascotte ufficiale della spedizione.”
“È un takin,” osservò Zampetti, aggiustandosi gli occhiali sul becco. “Sono stato diverse volte in Bhutan, ma non ne avevo ancora mai visto uno.”
 “Un tacchino?” domandò Patchouli con l’ultimo filo di voce che ancora le restava, le treccine a mezz’aria. Le grida di spavento erano tutte sue: la spilungona si limitava ad assistere alla scena come se fosse al cinema, seduta di fronte a un film particolarmente noioso.
Un ragazzo del posto arrivò trafelato, armato di una verga sottile da pastore. Riuscì a condurre fuori quella bizzarra creatura a patto di concederle il cestino come merenda. 
 “Il takin è l’animale simbolo del Bhutan, una specie in via di estinzione. Francamente, non sapevo che fosse addomesticabile.” Zampetti seguì con lo sguardo il giovane pastore, che sulla piazzetta di fronte all’hotel era intento a radunare un normalissimo gregge di capre. “Le origini del takin ci riportano di nuovo al lama Kunley, il santo delle cinquemila donne.”
“Quello che le benediceva con un colpo di verga in testa?” intervenne Moroder, ben sveglio ma ancora lievemente confuso.
“Si dice che quando Drukpa Kunley giunse in Bhutan per donare gli insegnamenti del Buddha, la popolazione gli offrì un banchetto. Il santo lama consumò un’intera vacca e una capra, lasciando solo le ossa. Infine, posò la testa di capra sui resti della vacca, schioccò le dita e ordinò alla bestia di alzarsi e andare a pascolare sulle montagne. Una strana leggenda.”
“Qui è tutto molto strano” brontolò il Kaiser, che da un rapido sopralluogo nel minuscolo hotel si era accorto che non c’era più traccia dei proprietari. La sera precedente, una coppia di anziani dai sorrisi sdentati li aveva accolti, aveva preparato per loro l’ema datshi, posto una statuina del viaggiatore sull’altare del Buddha, preparato i giacigli sgombrando sacchi di riso e fascine di legna dal pavimento. Cerimoniosi e schivi, ogni volta che s’imbattevano in uno di loro sorridevano, chinando il capo in segno di rispetto per gli ospiti.
Ora però dei due anziani e dei loro variopinti abiti tradizionali non c’era neanche l’ombra. Rabauer aveva sbirciato nella minuscola cucina a legna, nel cortile dello yak, persino nel pollaio. Infine, aveva stanato fuori dal sacco a pelo il gufo ancora immerso nel suo sonno di piombo:
“Dove sono finiti i vecchietti di ieri?”
“Quali vecchietti?” L’uomo della Compagnia si guardò intorno intontito.
“I due dell’albergo. A parte noi, qui non c’è più nessuno.”
Il gufo era schizzato fuori dal sacco a pelo come se l’avesse destato il Signore del Drago in persona. In breve recuperò lo zaino, arrotolò coperta e materassino, infilò giacca e calzoni e sulla zucca un berrettone di lana: nel giro di pochi minuti, era già pronto a darsela a gambe.
Al Kaiser scocciava ammetterlo, ma di fatto condivideva lo stesso presentimento.
Magari i due vecchietti erano semplicemente andati alla pagoda: appena fuori dal paese, la sera prima si erano imbattuti in un gruppo di monaci che potava i bambù davanti a una capanna. Un paio di bimbetti con la testa rasata e il saio rosso e giallo giocavano a rincorrersi tra le ramaglie, altri più grandicelli tiravano calci a un pallone di stracci.
Magari, invece, i due nonni sono andati a Jakar ad avvisare la polizia, o addirittura i famosi custodi. Direi che a questo punto non c’è tempo da perdere.
Rabauer riunì i clienti e li informò dell’improvviso cambiamento di programma: “Se siete tutti in forma e il takin vi ha svegliato a dovere, propongo di partire subito in direzione del campo base. Ci vorranno un paio di giorni e le soste vi permetteranno di abituarvi all’altitudine.”
Salvo dover scappare a gambe levate più o meno come adesso.
“Pretendo che il minimo malessere, vostro o di altri, mi venga segnalato immediatamente,” proseguì il Kaiser, “Ricordate che quando saremo al campo base potremo contare soltanto su noi stessi. A parte noi, lassù non ci sarà nessuno.”
O almeno speriamo.
Uscendo dal paese non incontrarono anima viva: né i vecchietti di ritorno dalla pagoda, né il pastore di capre e takin e neppure uno degli abitanti delle piccole case decorate con falli infiocchettati. Persino le galline che avevano visto scorrazzare fin dentro all’hotel erano letteralmente scomparse.
Intorno, non si muoveva un alito di vento.
Il muretto di chorten guidò la comitiva fino a un bivio. Da lì partiva il sentiero che li avrebbe condotti attraverso altipiani, pendici e contrafforti fino al Gangkar Punsum.
“I morti ci accompagnano”, notò la spilungona.
“Questo sì che è un buon segno,” brontolò il Kaiser in preda a sentimenti contrastanti. Non l’avrebbe mai ammesso ma di fatto desiderava più che mai incontrare il Signore del Drago, l’alpinista dissidente che era diventato, quanto meno per lui, la vera meta del viaggio.   
 
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Verso il campo base del Gangkar Punsum, 7 aprile 2018
 
Quasi improvvisamente, la foresta s’era tirata indietro e aveva ceduto il passo a una gola in cui camminava soltanto il vento. Intorno a loro, il mondo s’era mutato in un mare di roccia: qua e là una vegetazione brulla, cespugli che s’impigliavano ovunque senza riuscire a raggiungere il sole.
Bastioni forati dai nidi dei rapaci incombevano sopra agli escursionisti e parevano appoggiarsi alle loro spalle.
Più oltre incominciava il dominio delle nevi, preannunciato da qualche deposito accumulato in molti inverni, che resisteva nei punti più freddi e immersi nel buio.
In quella regione immobile, dove solo di rado si udiva uno scricchiolio, forse un uccello o solo un arbusto nel vento, tutto faceva credere che da tempo non si fosse avventurato nessuno. Non uno yak, non un takin, non un essere umano.
Un sentiero vero e proprio non esisteva: si poteva soltanto percorrere quella gola che a tratti si apriva in un crocevia di passaggi stretti tra i contrafforti, scarpate e vicoli ciechi che non portavano da nessuna parte. 
Rabauer si fermò per l’ennesima volta, mappa alla mano, nel tentativo di rintracciare il percorso: all’uscita da Thangbi avevano seguito la direzione segnalata da un bivio, ma le indicazioni sulla carta non tenevano conto della natura di labirinto del luogo. Il Kaiser ricordava che i primi esploratori avevano dovuto rinunciare alla scalata perché non erano riusciti a trovare la montagna. Adesso quella faccenda non gli sembrava più così strana.
Da un certo punto in poi, si erano affidati alle bussole: quella tecnologica del Kaiser e il cipollone vecchia maniera di Zampetti. Questo, in particolare, era stato modificato in modo da captare, secondo lo studioso, eventuali segni di attività paranormale.
La bussola spirituale dell’ineffabile dottor Zampetti, così detta per la sua supposta capacità di intercettare gli spiriti, aveva suscitato gli sghignazzi di tutti contribuendo ad alleviare la tensione.
C’era nervosismo nel gruppo. Man mano che avanzavano avevano l’impressione di sprofondare in un tunnel, un sotterraneo in grado di evocare pensieri opprimenti e ogni sorta di paure.
Questo accadeva soprattutto di notte, quando la gola si riempiva di scricchiolii e colpi di vento, di rumori di passi anche se poi là fuori, nello spazio attorno alle tende, non c’era nessuno.
In varie occasioni gli uomini avevano perlustrato i dintorni armati di torce, senza scoprire nulla. L’ago della bussola spirituale di Zampetti girava all’impazzata, ma Rabauer aveva preferito tagliar corto come al solito:
“Sarà un altro tacchino in cerca di cibo,” aveva concluso, prima di ordinare al gruppo di infilarsi nei sacchi a pelo senza farsi turbare da cose che non esistono.
In quelle notti inquiete, tuttavia, strane angosce assalivano le guide e i loro clienti.
Rabauer continuava a sfogliare il dossier, nel tentativo di appisolarsi con la lettura di ciò che ormai conosceva a memoria. Puntualmente, l’insonnia veniva a visitarlo con lo sguardo enigmatico del Signore del Drago e le parole dell’intervista che quel tizio aveva rilasciato a una radio di Thangbi. Già era inquietante il fatto che a Thangbi, in quel villaggio fuori dal tempo e dall’allacciamento elettrico, ci fosse addirittura una stazione radio. Ma ciò che era sconcertante era soprattutto il contenuto dell’intervista.
Ogni volta che il Kaiser tornava a rileggerla, aveva l’impressione di trovarsi a penzolare sull’orlo di un precipizio.
“La dimora dei Tre Fratelli non vuole essere scalata,” affermava il Signore del Drago. “Secondo una tradizione antichissima, solo ai puri sarebbe concesso di salire sulla montagna: alle anime dei defunti e ai pochi che custodiscono in sé l’infanzia del mondo. Tutti gli altri vengono immancabilmente respinti.”
Il Kaiser ripensò alle due missioni scomparse. Chissà se quelli avevano ottenuto il permesso di salire quanto meno sotto forma di puri spiriti. Quanto all’infanzia, forse quel bambinone entusiasta di Zampetti aveva qualche possibilità.
“Cos’è l’infanzia del mondo?” proseguiva il Signore del Drago, “non è certo il denaro, la volontà di sfruttamento, il desiderio di dare il proprio nome a una vetta.”
Probabilmente quel tizio era davvero un pazzo visionario, ma su questo punto il Kaiser non poteva dargli torto: anche suo padre, in fondo, era sempre stato dello stesso parere.
“Noi non siamo i semplici custodi della montagna. Siamo i custodi del terrore che si nasconde dentro a ognuno di voi.”
Il terrore?
“Il terrore, sì… non sono io ad infonderlo, siete voi a scoprirlo quando trovate finalmente il coraggio di guardare dentro a voi stessi. Quando vedete il marcio e non riuscite a sopportarne la vista. È così che la montagna vi respinge, vi scaccia, vi seppellisce. Voi perdete la sicurezza, la strada, l’orientamento. E se questo non basta, allora arriviamo noi.”
Il Kaiser doveva ammetterlo: ultimamente la notte non gli portava consiglio, ma sensi di colpa in grado di tener sveglio un morto. Molte cose che credeva di avere sepolto per sempre nella memoria, dentro a qualche cassetto per non sentirle pungere, avevano cominciato a riaffiorare da quando si trovava in quella maledetta foresta.
I pensieri che il Kaiser rigirava nel sacco a pelo come sullo spiedo riguardavano la sua ex moglie, il divorzio provocato dal suo amore irriducibile per la montagna. Erano anni che non vedeva più i figli. Non che prima li vedesse più spesso: a ogni compleanno, saggio di pattinaggio o gara di sci dei bambini, lui si trovava puntualmente in cordata dall’altra parte del mondo. Aveva perso primi giorni di scuola e prime comunioni, esami di terza media e di maturità, era mancato a tutti gli appuntamenti con la famiglia e infine aveva perso per strada anche il suo matrimonio. Il Kaiser aveva dedicato la sua vita alla montagna e ora aspirava all’ultima meta per un alpinista, dare il proprio nome a una cima. Non gli sarebbe rimasto nient’altro, dopo che tutto il resto aveva fatto naufragio. Anche il Gangkar Punsum, anzi l’intero Bhutan, quell’isola ancora intatta di spirito e natura, sarebbe naufragato in mano alla Compagnia e ai suoi concorrenti. Pure quello, in fondo, sarebbe stato un tradimento, l’ultimo.
Il Kaiser non era l’unico a trascorrere notti insonni. 
Spiando dalla tenda, la spilungona bionda vedeva scaturire piccole fiamme azzurre che ardevano senza fuoco e presto si spegnevano per riapparire altrove. Da quella combustione emanava un aroma dolciastro che Leina Morgagni era in grado di riconoscere senza alcun dubbio.
“Sarà qualche carcassa mangiata dai rapaci,” le aveva detto Patchouli. “Oppure, può trattarsi di semplice suggestione. Qui c’è troppo silenzio.”
A Leina, però, quell’odore putrido ricordava ben altre cose. A forza di guardare, una notte le parve di scorgere un corpo umano, composto tra i decori funebri dei fuochi e sul sudario di muschio di un tronco caduto, come se fosse nella camera ardente dell’Ars moriendi.  
Lo riconobbe subito per via della giovinezza, i capelli ravviati più e più volte, il volto restituito a una parvenza di vita dai trattamenti: si trattava di uno degli ultimi clienti della funeraria, quello con cui Leina aveva vissuto un lungo mese di follia ossessiva.
In quel periodo, Leina Morgagni aveva messo a punto una miscela in grado di favorire una resa migliore rispetto alle tecniche normalmente utilizzate.
Il suo giovane cliente era stato il primo a beneficiarne.
Dopo il trattamento, il corpo di lui era risultato più armonioso e splendido di quando era vivo.
Al pensiero di riconsegnarlo per le esequie, Leina aveva cominciato a soffrirne.
L’idea di separarsene era diventata ormai insopportabile, quando una temporanea assenza del titolare le offrì quell’occasione che, come è noto, fa l’uomo ladro. Con una tranquillità che non ritrovò mai più, convocò i familiari per riferire che il trattamento non aveva sortito alcun esito e il corpo aveva cominciato a deteriorarsi, sicché era opportuno rinunciare ad esporlo. Consegnò per le esequie una bara piena di terra e all’ora di chiusura caricò un involto in macchina e lo portò a casa sua.
La sua gioia finì insieme con gli effetti della nuova miscela.
Grande fu lo sconcerto di Leina Morgagni nel constatare che quell’intruglio aveva inizialmente donato luminosità ai lineamenti del suo spasimante trapassato: ma a differenza delle miscele consuete, non era stata in grado di contrastare in modo efficace i processi naturali.
Sotto la pelle di colui che pareva immerso in un sonno profondo, ribolliva un’attività che di lì a poco iniziò a manifestarsi con macchie ed esalazioni sempre più ripugnanti. In capo a tre settimane, il piccolo appartamento si riempì di un fetore che suscitò dapprima lo sconcerto, poi il timore e infine l’allarme dei vicini.
La signorina della funeraria si era barricata in casa senza dare altro segno di sé: una volta sfondata la porta, i vigili del fuoco la trovarono distesa accanto al defunto, ridotto a una poltiglia ma col volto ancora terso come alabastro. Accanto a quel relitto, Leina Morgagni galleggiava nella sua bava dopo aver ingerito una quantità di sonniferi in grado di seppellire l’intera funeraria, attiva da tre secoli e cinquanta generazioni.
Dopo essere passata attraverso la strettoia delle inevitabili conseguenze - la perdita del lavoro, un processo in Tribunale e il disprezzo di mezzo mondo - Leina aveva esperito un ultimo tentativo per riconquistare l’affetto dei suoi. Suo padre era stato alpinista da sempre: da bambina le aveva fatto scoprire la montagna nei tempi favolosi delle vacanze scolastiche, abituandola a salite sempre più impegnative mentre il resto della famiglia bivaccava a fondo valle.
Conquisterò l’unica vetta su cui nessun uomo ha mai messo piede, si era detta Leina entrando, volantino pubblicitario alla mano, nella succursale della Compagnia a pochi metri da casa. Era la prima volta che trovava il coraggio di mettere il naso fuori dopo tutta la tempesta che le era passata sopra. Mio padre capirà che non sono più quella di prima, che posso tornare a essere la sua piccola aquila delle vette.
Si sentiva spezzata, Leina Morgagni, e da quel viaggio si attendeva una riparazione.
La vicinanza di Calzini sudati e i suoi maldestri tentativi di abbordaggio non l’avevano entusiasmata: quel tizio puzzava più di qualsiasi cadavere e nulla in lui evocava quella compostezza serena che da sempre l’affascinava. Ma per lo meno era un’anima viva con cui parlare.
Forse tu puoi ripararmi e io riparerò te, pensava Leina durante le lunghe ore di cammino tra le rocce, con Calzini che si ostinava a tenerle la mano. In qualche modo intuiva che anche quel ragazzotto inselvatichito aveva i suoi cocci da rimettere insieme.
Nel gruppo, Calzini sudati era il più taciturno: in realtà aveva iniziato a parlare spedito, con tutti i congiuntivi infilati al posto giusto, ancor prima di imparare a reggersi sulle gambe. A otto anni arrancava sotto al peso di occhiali grossi come binocoli ma in compenso era in grado di risolvere equazioni e problemi di algebra mentre i suoi compagni della scuola elementare recitavano in coro due per due quattro, quattro per quattro sedici e inciampavano puntualmente sulla tabellina del nove. A dieci anni aveva già superato quattro interventi oculistici e l’esame di terza media, a tredici la maturità presso una scuola per bambini dotati nella più cupa brughiera d’Inghilterra, dove malgrado la padronanza della lingua non era riuscito a farsi neppure un amico. Nella sua stanzetta del college, viveva tra tornei di matematica sul web, libri universitari che gli bastava scorrere per sapere a memoria e lunghe passeggiate solitarie sulle colline.
Fu durante uno di quei pomeriggi all’aria aperta che s’imbatté in Jumping Frog sulla riva di un lago di canne fitte: in una pozza d’acqua, un girino isolato dal resto della nidiata agitava una coda trasparente e piccole onde di fango.
A Calzini piacevano quelle creature che di solito fanno schifo un po’ a tutti.
Trovava divertenti i pipistrelli arruffati che al crepuscolo entravano attratti dalle lampade e prendevano a vorticare come pazzi. Provava una particolare simpatia per i bruchi che passeggiavano sazi tra i cavoli dell’orto e a un certo punto sparivano, per ritornare sotto forma di farfalle candide.
Amava soprattutto le creature in trasformazione: perché anche lui, che all’anagrafe era registrato come Lucia Conti, si sentiva una crisalide goffa destinata a sbocciare in qualcosa di diverso. 
Aveva cominciato a firmarsi Luca da quando era piccolo, con la maestra che si premurava ogni volta di aggiungere una i là dove mancava - l’unica correzione che ebbe mai in vita sua - mentre i suoi genitori non davano importanza a quella stramberia infantile. Non ebbero da ridire neppure quando la figlia si tagliò le treccine con le forbici da cucito della nonna, pensando si trattasse di una semplice protesta contro la noia delle lezioni di ricamo e uncinetto.
Il carattere introverso del futuro Calzini e la sua intelligenza fuori dall’ordinario lo relegavano in un mondo a parte, al riparo dalla curiosità dei suoi, semplici operai che di fronte a quella figlia così dotata si sentivano in soggezione. La stessa soggezione la provavano gli insegnanti e persino i bulli scolastici lo lasciavano in pace, sebbene Calzini fosse quattrocchi e secchione, con un fisico esile che non era né carne né pesce. Era più che evidente che a casa come a scuola, Calzini era un corpo estraneo.
 Al college, i compagni erano dotati di quozienti di intelligenza da fantascienza ed erano troppo impegnati a esplorare nuovi linguaggi matematici, a riempire lavagne di equazioni e integrali per fare caso a lui, uno dei tanti.   
Pareva che soltanto la natura si fosse presa la briga di tenergli compagnia: i passeri al mattino si posavano sul suo davanzale per beccare le briciole, i pipistrelli venivano a visitarlo nelle sere d’estate, Jumping Frog cresceva nel sottovaso in cui Calzini aveva creato per lui un ambiente adatto, con l’acqua del lago e qualche sassolino dietro cui andare a nascondersi.  
I guai arrivarono il giorno in cui Calzini infilò in mezzo ai libri di una compagna un biglietto che fu prontamente intercettato dalla persona sbagliata: la sera stessa vennero nella sua stanza in quattro e Calzini riuscì a restituire indietro almeno la metà dei cazzotti che prese, come e meglio dell’uomo che avrebbe tanto desiderato essere. In compenso, l’amico Jumping Frog subì una fine indecorosa giù per lo scarico, proprio nel tempo in cui la coda era quasi scomparsa e la piccola rana, fedele al proprio nome, aveva già imparato a saltare.
Da quel momento in poi, Calzini tagliò gli ultimi esili ponti che lo tenevano in contatto con il resto del mondo: completò gli ultimi esami e discusse la tesi da solo, senza fotografie, parenti e festeggiamenti. A casa spedì due righe insieme alla pergamena, starò via per un po’. Il giorno del suo diciottesimo compleanno partì con lo zaino in spalla per il suo master in vagabondaggio e vita nella natura.
Un anno dopo, insegnava matematica in un villaggio vietnamita sperduto tra i bagliori accecanti della risaie, dove si arava ancora coi bufali e si faceva scuola in mezzo ai pantani, con le sanguisughe che si appiccicavano alle gambe. I profili delle montagne che affioravano all’orizzonte lo avevano spinto verso i reami delle altezze. Aveva trascorso un altro anno nel Nepal intrecciando canestri ai piedi dell’Himalaya, osservando le carovane di escursionisti percorrere i sentieri diretti all’Everest.  
Rientrato in patria solamente per ripartire, aveva prosciugato il conto corrente destinandolo in parte ai suoi bambini vietnamiti. Con i soldi rimasti si era iscritto alla spedizione, attirato dal fascino della montagna inviolata.
Ora però, non era più così certo di stare facendo la cosa giusta: aveva l’impressione di essere finito in un ingranaggio che puzzava di svendita, quattrini e sfruttamento.
Ma non si trattava soltanto di questo.
Al posto dei fuochi fatui di Leina Morgagni, nel fruscio del vento che percorreva la gola a gran velocità risentiva le risate della compagna a cui aveva scritto il famoso biglietto, e di seguito gli sghignazzi di tutto il college. Ma quando si avventurava fuori dalla sua tenda per inseguire quelle voci, non trovava nessuno. Più di una volta rischiò di smarrirsi lontano dall’accampamento: puntualmente le risate cessavano con uno scroscio, identico a quello che aveva accompagnato l’ultimo salto di Jumping Frog in fondo allo scarico. 
Solo Moroder riusciva a prender sonno senza essere tormentato dai propri scheletri nell’armadio. Da bravo valligiano, credeva solamente a quello che vedeva: se l’avesse destato il Signore del Drago in persona, gli avrebbe domandato qual era la via più breve per salire al Gangkar Punsum, oltre a fargli notare che quel fotomontaggio delle due mani mozze era fatto da cani e non c’era da sperare che qualcuno ci cascasse.
A differenza di Moroder che russava pacifico come uno yak, il gufo sfogliava un’immaginaria margheritona mentale dove al posto del m’ama non m’ama sbocciavano ogni sorta di angosce. Più che altro era convinto che le prossime mani che avrebbero fatto capolino nella neve sarebbe state le sue.
Nell’insonnia del campo, Zampetti si aggirava con la sua bussola spirituale alla mano, tentando di intercettare segnali di un altro mondo e restando puntualmente con un pugno di mosche. L’ago roteava come fosse sul punto di entrare in orbita: eppure, a parte il vento non si udiva nessuna voce, nessun barlume faceva capolino in quel buio da sepoltura, così fitto da far dubitare di essere ancora al mondo.
Patchouli era afflitta da dolori di ogni genere - alla schiena, alle gambe, al collo e allo spirito - e sinceramente temeva di non riuscire a fare vetta senza lasciarci le penne.
Quando la montagna non vuole essere scalata, te lo fa capire ed è molto meglio ascoltarla, le avevano insegnato i nativi delle Ande. Patchouli aveva fatto esperienza diretta della saggezza indios quando, tra i nevai della Cordigliera, la sua équipe aveva rinvenuto mummie di giovinette e bambini in abiti principeschi, inviati dagli antichi popoli inca in veste di messaggeri nelle dimore degli dei: prima di quel fortunoso ritrovamento, i ricercatori si erano persi quattro volte lungo i crinali, uno di loro era franato dentro a un burrone e l’avevano recuperato a stento e per i capelli, tutti avevano rischiato di morire assiderati e addirittura un fulmine li aveva mancati di poco.
Di fronte al successo di quell’impresa, Patchouli o meglio la dottoressa Elena Cohen, esperta di fama mondiale in materia di mummie, era giunta alla conclusione che anche se la montagna qualche volta rifiuta di essere scalata, tentare vale sempre la pena.
Ora però, mentre di giorno arrancava sotto a una cappa che appiccicava alla fronte i capelli e le idee, incominciava ad avere qualche dubbio. Lo zaino pesava sempre di più, come se ci fosse qualcuno accovacciato sopra, qualcuno che evidentemente era più ciccione di lei. Ogni passo le costava una fatica enorme e il fatto che lei era grossa e quindi le toccava sudare più degli altri - la solita storia che si sentiva ripetere fin da ragazza - stavolta non c’entrava, non c’entrava per nulla.
Era come se si trattasse di vincere una forza contraria.
Dopo anni di studi, aveva raccolto sufficienti informazioni per sapere che sul Gangkar Punsum si trovavano le grotte dei lama santi: là i monaci si sottoponevano alla pratica che li avrebbe condotti alla mummificazione da vivi, segno del loro passaggio dall’esistenza materiale al nirvana.
Aveva deciso di partecipare alla spedizione con l’intento di effettuare un sopralluogo e magari giungere a qualche clamoroso ritrovamento. Dopo il netto rifiuto opposto dal governo del Bhutan al suo progetto, si trovava a sperimentare l’inedita sensazione di essere respinta anche dalla montagna.
Di giorno camminava opponendosi a quella strana forza di resistenza, di notte non riusciva a prendere sonno per il male alle ossa, e come tutti gli altri non aveva il coraggio di rivelare le sue angosce per il timore di esser presa per visionaria.
Accadde infine qualcosa che consentì a guide e clienti di lasciarsi alle spalle incubi, rimpianti e tutti i dubbi: una mattina, poche ore dopo aver lasciato l’ultimo bivacco, quella catena di bastioni simili a una muraglia si aprì, lasciando intravedere un orizzonte di vette immacolate e immerse nel più completo silenzio.
A oriente i Tre Fratelli, avvolti nei loro manti tinti di rosa e cenere nella prima luce del giorno, scrutavano quelle minuzie che erano arrivate fin lassù in fila indiana e ora si stringevano attorno alle guide.
“Ci siamo”, disse Rabauer. Lo disse in un sussurro, perché malgrado avesse più di trent’anni di montagna alle spalle, ogni volta quello spettacolo riusciva a emozionarlo. Tutti gli altri, persino il gufo, erano talmente impressionati da non riuscire a parlare.
Dritto verso di loro, un gruppo di bandierine segnalava il prossimo arrivo al campo base, a quota 4.970 metri.
 
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[1] I momo sono ravioli di carne o verdura e spezie tipici della cucina tibetana e nepalese, diffusi anche nelle regioni himalayane dell’India e nel Bhutan.
  
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