Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    30/04/2019    2 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 7

Eren

02:17, macchina di Nick. Mi sta portando a casa, il finestrino del guidatore è completamente abbassato. L’aria fredda si insinua tra le fessure della mia felpa diffondendosi su tutto il corpo, facendomi rabbrividire. Nick non sembra notarlo e non ho davvero voglia di dire nulla al riguardo. La macchina è silenziosa, fatta eccezione per il basso volume della radio. È troppo bassa per me per capire che canzone sia. Appoggio la testa contro il finestrino del passeggero ed espiro sommessamente.

Nick finalmente si gira per guardarmi. Fingo di non notarlo fino a che non comincia a darmi fastidio.

“Cosa c’è?”

“Cosa vuoi dire con ‘cosa c’è’? Ti sto solo guardando.”

Schiocco la lingua e mi giro per guardarlo. Le luci dei lampioni causano delle ombre scure su tutto il suo viso, facendolo sembrare più vecchio di quanto non sia e la vista causa una strana sensazione di girare nella cavità del mio stomaco.

“Sei fottutamente inquietante,” dico e Nick sbuffa una risata.

“Già, come vuoi,” dice spensieratamente. Si sistema sulla sedia e canticchia con tranquillità. “Allora…”

Cosa?”

“Gesù, Eren, perché ti comporti così?” Solleva un sopracciglio.  “Sei peggio del solito.”

“Sono esausto, okay? Cosa vuoi che ti dica?”

“Uno 'scusa' sarebbe un inizio.”

“Non sono dispiaciuto.” Ruoto gli occhi e incrocio le braccia. “Fattene una ragione.”

“Gesù.” 

Quasi rido. Nick si definisce un devoto Cristiano, ma usa sempre il nome di Dio invano. Non so esattamente come funzioni la religione, ma sono piuttosto sicuro sia una brutta cosa. Però non ho mai detto nulla al riguardo; è divertente, in un certo senso.

“…Scusa.”

Nick sorride ampiamente. Gli do uno schiaffo sulla coscia e faccio una smorfia quando lui ridacchia rumorosamente.

“Idiota,” mormoro, senza alcuna stizza e Nick continua a ridere sotto i baffi. Passa la mano sulla mia coscia e la stringe. Sussulto e lui allontana immediatamente la mano. Mi sforzo di guardare di nuovo fuori dalla finestra.

Gira l’angolo per arrivare a casa e improvvisamente mi sento come se mi avessero dato un calcio nello stomaco. Prendo alcuni respiri profondi e cerco di fingere di non percepire le mani umide di sudore. Nick mi rivolge uno sguardo preoccupato, ma lo ignoro e asciugo le mani sui jeans.

“Sto bene.”

“Sembra che tu stia per vomitare,” dice Nick quando accosta sul marciapiede. Si avvicina fino a quando la sua faccia è la sola cosa che riesco a vedere. “Santo cielo Eren, sei fottutamente-”

“Lo so, dannazione,” dico, allontanandomi da lui. Non so nemmeno cosa stesse per dire. Semplicemente, non voglio sentirlo. “Mi uccideranno, ci scommetto.”

“Bella merda,” mormora Nick, guardando la porta di casa mia e poi me. “Non sapevo avessi paura dei tuoi genitori.”

“Non ho paura, dannazione,” sbotto. “Non sono loro il problema.”

Nick aggrotta la fronte prima di premere le labbra in una linea sottile e annuire.

“Jean, mi sbaglio?” Chiede semplicemente.

Un respiro tremante si fa largo nelle mie labbra e annuisco, premendo la testa contro il poggiatesta.

“Fa troppe domande,” dico. “Non so nemmeno che scusa inventarmi. Non ho nessuna storia programmata.”

“Cazzo.” Nick sbuffa e scuote la testa. “Non lo sa?”

“Nessuno lo sa,” dico.

Nick rotea gli occhi.

“Eccetto per il tuo amico, giusto?”

“Amico?” Mormoro. Mi ci vogliono alcuni secondi prima di realizzare che intendesse dire Levi. “Aspetta, noi non siamo amici.”

“Uh-huh. Certo.”

“Perché lo stai dicendo in questo modo?” Chiedo. Nick sbuffa.

“Oh, andiamo,” grugnisce. “Stai scherzando, vero? Quel ragazzo mi odia con tutto sé stesso.”

“Sei un pezzo di merda. Persino io ti odio con tutto me stesso.”

“Davvero?” Chiede, arcuando un sopracciglio.

Premo le labbra assieme e decido di non rispondere. Nick torna al suo posto, sembrando soddisfatto.

“Non sa nulla,” dico, solo per avere l’ultima parola.

Nick annuisce e non risponde. Mi lecco l’angolo delle labbra secche e afferro la maniglia della portiera. Nick mi guarda in attesa fino a quando non prendo un respiro profondo e apro la porta. Tiro giù le maniche della felpa per coprire le dita fredde e mi giro per guardare Nick.

“Starai bene?”

“Sto bene,” rispondo. Vorrei sorridere, ma sento la faccia congelata. Mi limito ad annuire. “Seriamente, non preoccuparti.”

“Okay,” replica dubbioso Nick. Deglutisco a fatica.

“Grazie.”

“Già. Certo. Buona fortuna, Eren.”

Sbatto con forza la portiera dell’auto e raggiungo lentamente la porta di casa. Le tende del salotto sono leggermente aperte e posso vedere che le luci sono accese. Mi lecco ancora le labbra e prendo le chiavi dalla tasca dei pantaloni. Una volta aver girato al chiave nella serratura, rimango in piedi e fisso le mie scarpe. La maniglia è fredda abbastanza da farmi rabbrividire. Mi mordo il labbro inferiore e giro la manovella. La porta cigola mentre la apro. Faccio un passo all’interno dell’atrio e chiudo la porta dietro di me. Scalcio le scarpe per toglierle e faccio cadere le chiavi nella ciotola sul tavolo.

Mi faccio strada verso il salotto e mi fermo dietro il divano. Jean mi guarda con occhi vuoti dalla poltrona, una coperta gli circonda le spalle. Sembra più pallido di quanto sia mai stato e ha delle borse scure sotto gli occhi.

Non dice nulla e non lo faccio neanche io. Ci fissiamo fino a quando Jean non cambia posizione sulla poltrona, le molle scricchiolano sotto il suo peso. Il suono è ovviamente amplificato a causa dell’appartamento silente.

“Sei sveglio.” Lo guardo e aspetto una sua risposta. Apre la bocca e la richiude rapidamente.

“Hai idea di che ore siano?” Chiede finalmente.

“Sì.”

Si appoggia allo schienale della poltrona con un’espressione esausta in volto. Le mani finiscono dentro le tasche dei miei pantaloni e mi siedo sul divano.

“Dovrei chiederti dove sei stato?”

“Puoi. Ma non te lo dirò.”

La tensione nella stanza è palpabile. Deglutisco e osservo il tappetto sotto il tavolino. L’ho sempre odiato. Non è che abbia qualcosa di brutto in particolare, però. È semplice e piuttosto soffice. Ma qualcosa di quel tappetto me l’ha sempre fatto odiare. Non so esattamente perché.

“Anche i miei genitori sono svegli?”

“No.”

“Sapevano che non ero a casa?”

“Lo sappiamo tutti a questo punto, Eren. Lo sappiamo sempre.”

Incrocio le braccia al petto e lo sfido con lo sguardo.

“Cosa vuoi che ti dica?”

“Una spiegazione sarebbe più che gradita. Ma è chiederti troppo, giusto? Fai semplicemente qualsiasi cosa ti passa per la testa.”

“Beh, se lo dici in questo modo mi fai sembrare una testa di cazzo.”

“Bene. Perché lo sei. Sei un egoista.” Jean scuote la testa ancora e si passa le dita tra i capelli. “Un giorno potresti essere ucciso e nessuno lo verrebbe mai a sapere.”

Decido di non dirgli che ci ho pensato anche io parecchie volte. Non menziono nemmeno quanto io trovi allettante l’idea. Invece, sollevo un sopracciglio e mi appoggio ai cuscini del divano.

“Sei ridicolo,” dico. “Uscire ogni sera non mi farà uccidere. Nessuno mi aspetta in un vicolo per picchiarmi a morte. Non verrò di certo corteggiat-”

Mi fermo prima di finire la frase. La mascella di Jean si spalanca, come se fosse sorpreso dalla mia intraprendenza, ma poi sospira sommessamente.

 “Porca puttana, Eren.”

“Scusa. Non avevo intenzione di…” mi interrompo. Mi schiarisco al gola e provo ancora. “Mi dispiace.”

Jean serra gli occhi e si avvicina, la testa tra le mani. Lo osservo, indeciso se dovrei continuare a parlare o no. Ogni volta che cerco di parlare, tendo inasprire la situazione, quindi alla fine decido di tenere la bocca chiusa.

“Dov’eri?”

“Pensavo che non avresti chiesto.”

“Non l’ho mai detto.”

Mi mordo l’interno della guancia e medito sul fatto di dirglielo o meno.

“Con un amico.”

“Questo amico ha un nome?”

“Ovvio.”

“Hai intenzione di condividerlo?”

“No, non proprio. Che cosa importa? Cosa hai intenzione di fare, urlare contro anche a lui?”

“Non sto urlando.”

“Non ancora.”

Jean serra fermamente le labbra in una linea sottile e mi guarda. Mi sento a disagio, quindi giro lo sguardo verso le tende. Abbiamo le stesse da quando ci siamo trasferiti in questa casa. Mia madre non le mai cambiate. Non penso nemmeno di possederne altre. Probabilmente sarebbe una buona idea comprarne di nuove. Ma non sono poi così preoccupato per le tende. Sono carine, immagino-

“Eren.”

“Hm?” Guardo Jean.

“Ho parlato con i tuoi genitori,” dice. “Abbiamo deciso che dovresti tornare in terapia.”

“Terapia,” ripeto lentamente; quasi rido. “Sì, okay.”

“Sono serio.”

“Uh-huh.”

“Eren, smettila.” La sua voce è tagliente. Deglutisco e faccio un cenno di assenso con la testa.

“Okay. Quindi mi rimanderete in terapia.”

“Questo è il piano, sì.”

“Buona fortuna. Mio padre aveva smesso di pagare, ecco perché non ci sono più andato.”

“Non è un problema. Ho già detto che ci avrei pensato io.”

“Mi stai prendendo per il culo, vero?” Chiedo, alzandomi di scatto dal divano.

“No,” constata semplicemente Jean. Scuoto la testa.

“Questo è un fottuto scherzo,” provo ancora.

“No,” ripete, più pazientemente questa volta. “Penso tu abbia bisogno di aiuto, Eren.”

“Sto bene,” dico. Ma Jean mi guarda con un’espressione stanca.

So che lui sa non essere vero. Sono piuttosto sicuro che chiunque abbia degli occhi ci riesca. Ma non voglio tornare indietro. Non che io abbia qualcosa contro la terapia. So che aiuta molte persone ed è veramente un’ottima cosa e tutto il resto. Semplicemente, non è qualcosa adatto a me. Andare in terapia significa essere onesti. Funziona solo se sei sincero con te stesso e con il tuo terapista, ma onestamente l’essere onesti non è un mio grande punto di forza.

“Okay,” dice e mi sento esausto tutt’un tratto.

Aspetto che mi dica di essere in punizione o qualcosa del genere. Aspetto che mi dia un coprifuoco o dirmi di tornare dritto a casa da scuola. Non lo fa, però. Mi guarda e basta e mi ci vogliono alcuni secondi per realizzare che la tristezza nei suoi occhi è probabilmente a causa mia.

Mi siedo di nuovo sul divano perché mi sento come se mi avessero appena dato un pugno sullo stomaco. Deglutisco a fatica il nodo alla gola e il mio stomaco si contorce a disagio. Mi sento a corto di fiato e non so nemmeno il motivo.

“Okay,” dico e la mia voce si spezza nel bel mezzo della parola. “Okay, come vuoi. Non m’importa.”

Jean aggrotta la fronte, ma non dice nient’altro. Si alza in silenzio, raccogliendo la coperta. Si ferma quando raggiunge il divano e penso stia per dire qualcosa. Non lo fa, però, ed è solo quando la porta della sua stanza si chiude che riesco di nuovo a respirare.
 
***
 
Lunedì, 09:18. Sono nella classe di inglese, scarabocchiando pigramente il mio quaderno. Non sono un così bravo artista. A essere onesti, non so disegnare proprio niente. Ma fingere di essere interessato agli scarabocchi è un’alternativa migliore rispetto al guardare il professor Smith fino a che non mi comincia la lezione.

La porta si apre e altri studenti varcano la soglia, ma io resto concentrato sui miei disegni. Sento alcune paia di scarpe sgocciolare sul pavimento, ma le ignoro; piove da quando mi sono svegliato e so che oggi sarà orribile camminare tra i corridoi.

Un’ombra appare sul mio banco. Non alzo lo sguardo perché so già di chi si tratta. Aspetto che dica qualcosa, anche solo un semplice saluto, ma non dice nulla. Lo sento sedersi sulla sedia e comincia a sfogliare il suo quaderno. La mina della matita si spezza. La guardo con stupore e realizzo quanto forte la stavo stringendo. La lascio cadere sul banco e lancio la punta spezzata per terra. Premo la parte superiore in modo che esca il piombo e sospiro tranquillamente.

La campanella suona e deglutisco il gusto aspro che sento in bocca. La lezione del professor Smith sembra non passare mai. Non so se è perché l’argomento mi annoia terribilmente o per via degli occhi che sento puntati su di me, ma mi ritrovo a guardare l’orologio più spesso del solito. Voglio solo che la lezione finisca.

Quando finalmente accade, metto il quaderno nello zaino e mi alzo in piedi. Levi mi intercetta velocemente e si ferma di fronte a me in modo da impedirmi di raggirarlo. Sollevo un sopracciglio e aspetto che parli.

“Dobbiamo parlare,” comanda.

“Perché dici?” Chiedo. È più facile per me fare il finto tonto. Fingere permette alle persone di evitare un confronto. Sono un grande fan di questa tecnica, anche se irrita terribilmente chiunque.

“Parliamo,” risponde con calma Levi.

“Okay,” dico, sorpassandolo. Lo sento seguirmi dietro di me. “Parliamo.”
 
***
 
Io e Levi ci incontriamo durante educazione fisica. Vedo Marco e alcuni altri ragazzi dedicarci strani sguardi quando ce ne andiamo insieme, ma li ignoro e guido Levi verso il retro del campo.

Finiamo attaccati dietro le tribune. Fa troppo freddo per restare all’esterno, ma non abbiamo altra scelta. Non ci sono posti dove un diciassettenne può restare da solo. Se non ci sono i genitori, allora ci sono insegnanti e amici e dio solo sa chi altro.

Appoggio la testa contro le tribune e sento l’improvviso bisogno di fumare una sigaretta. Non ho mai fumato in vita mia, in parte perché odio l’odore e in parte perché tutti romanticizzano il fumo fino a farlo risultare ridicolo. Non è proprio l’azione di fumare in sé che voglio, ma più che altro l’avere qualcosa in bocca. Non posso dire nulla di stupido se fumo. Mi dà qualcos’altro da fare piuttosto che dare via libera alla mia bocca. A volte dico delle cose davvero stupide. Sarebbe carino smettere, immagino.

Levi interrompe il filo del mio discorso schiarendosi rumorosamente la gola. Alzo lo sguardo verso di lui e noto che la ricrescita non si nota più così tanto.

“Ti sei tinto i capelli,” dico. Mi dedica uno sguardo perplesso e indico la sua testa. “Non si vede più la ricrescita.”

Levi sbatte le palpebre lentamente prima di sbuffare.

“Sei letteralmente l’unica persona che puntualizzerebbe una cosa del genere.” Scuote la testa; io sollevo le spalle.

“Stai bene. I capelli biondi ti donano.”

“Sono biondo da un po’ ormai, sai.”

“Vero, ma mi piace ancora.” Scrollo le spalle e allungo le gambe.

Levi mi guarda per un po’ di tempo prima di girare la testa altrove. Le mani sono intrecciate sulle ginocchia e, quando lo osservo più da vicino, noto quanto forte le sta stringendo. Non so perché, ma mi ritrovo ad allungare la mano per toccarle. Le sue dita sono fredde come il ghiaccio, anche se sono sicuro che le mie non sono molto meglio al momento. Sciolgo le dita tra loro fino a quando le sue mani non allentano la presa sulle ginocchia.

Non dico niente e nemmeno lui.

“Mi dispiace.”

Mi giro con sguardo confuso.

“Per cosa?”

“Per venerdì. Per come mi sono comportato, voglio dire.” Si gratta il collo. “Non so spiegare perché mi sono comportato in quel modo. Mi dispiace tanto.”

“Non devi scusarti. Ma va bene, accetto le tue scuse.”

Preme le labbra in una linea sottile e non risponde subito. Le sue sopracciglia sono solcate e lo guardo alzare una mano per passarsela sui capelli. Lo fa molto spesso. Immagino sia un’abitudine o qualcosa del genere.

“È stato molto infantile da parte mia,” continua e ho la distinta impressione che voglia dire qualcos’altro, ma non sa come potrei reagire.

“Vuoi chiedermi qualcosa.”

“Beh, sì, voglio chiederti molte cose,” risponde. “Ma non sembra tu voglia rispondere neanche a una domanda.”

“Risponderò.”

“Non ti credo.”

“Lo giuro,” dico, avvicinandomi in modo da poterlo guardare senza farmi venire il torcicollo. “Lo giuro su dio.”

“Questo non significa niente.”

“Va bene, lo giuro sulla mia vita,” dico. Gli allungo persino la mano affinché la stringa. “Ti lascerò chiedermi quello che vuoi e io ti risponderò in modo soddisfacente.”

“Allora va bene.” Afferra la mia mano per stringerla in modo svelto. “Qualunque cosa, giusto?”

“Questo è ciò che ho detto, sì.”

“Bene.” Annuisce e si lecca una volta le labbra. “Quanti anni ha?”

“Nick?” Quasi rido, ma poi decido che non sarebbe andata a finire bene se lo avessi fatto. “Ti piace molto questa domanda.”

“Porca puttana Eren-”

“Che c’è? Ora rispondo.” Ruoto gli occhi e ignoro lo sguardo irritato che ha sul volto. “Ventiquattro.”

“Ventiquattro?” Esclama Levi. “Mi stai prendendo per il culo, vero?”

“No. Ho detto che ti avrei risposto onestamente,” dico come nulla fosse .

“Porca miseria.” Levi scuote la testa. Ora mi ricorda Nick, ma decido di tenermi il pensiero per me stesso. “D’accordo. Prossima domanda.”

“Spara.”

“Come l’hai conosciuto?”

“Era un amico di mia sorella,” rispondo. Non è una bugia.

Levi assottiglia gli occhi.

“Non sapevo avessi una sorella.”

“È morta.”

“Merda, scusa.”

“Non preoccuparti. Anch’io ho detto così di tua madre. Siamo pari ora.”

“Non me lo ricordo.”

“Non importa, allora. Prossima.”

“Hai mai… voglio dire, voi due…” Levi ora è arrossito e questo rende la situazione piuttosto esilarante. È raro vederlo arrossire. È calmo e composto per la maggior parte del tempo. Mi scrivo una nota mentale di imbarazzarlo di più d’ora in poi.    

“Se abbiamo scopato?”

“Non era quello che volevo chiedere,” dice, sembrando irritato.

“Okay. Se stiamo insieme?” Provo ancora. Levi preme le labbra in una linea sottile e rimane in silenzio. “No, non lo siamo.”

Sembra rilassarsi ora. Lo fisso per un paio di minuti prima di sbuffare.

“Ti dà fastidio?”

“Cosa? Che state insieme?”

“Non stiamo insieme,” ripeto. “E no, intendevo dire se il mio leccare cazzi fosse un problema.”

“Hai praticamente detto che saresti venuto a letto con me. Pensavo di aver già chiarito il fatto che ti piaccia il cazzo.”

“Ehi, ho detto che avrei voluto portarti a letto finché non ti ho conosciuto. Questo vuol dire che l’offerta ormai è scaduta. Non dimenticartene,” gli ricordo, sorridendo. Levi rotea gli occhi.

“Santo cielo, sei pazzo.”

“Ci provo,” dico. Mi distendo sulla schiena e osservo il cielo. È grigio e nuvoloso; mi chiedo se pioverà di nuovo. L’erba è bagnata e posso sentire l’umidità impregnarmi i vestiti. Chiudo gli occhi e lascio che l’aria fredda mi solletichi il viso.

“Okay. Questo era tutto quello che volevo sapere.”

Spalanco gli occhi per guardarlo. Sta fissando qualcosa in lontananza.

“Sei sicuro?”

“Sì.”

“Okay,” dico. “Non aspettarti che una cosa del genere succederà di nuovo. Accade solo una volta all’anno.”

“Come preferisci,” risponde e c’è una strana nota nella sua voce che mi fa sollevare la testa per vederlo meglio. “Cosa c’è?”

“Nulla. Quindi, qual è la tua storia?”

“Di che cosa stai parlando?”

Sollevo le spalle e torno a distendermi.

“Sto solo dicendo che non è giusto che sia solo tu a fare delle domande.”

“Questa cosa non riguardava me.”

“Ma potrebbe,” dico, alzando un sopracciglio. “A meno che tu non sia così insipido da non avere nemmeno una storia succosa da raccontare.”

“Non tutti bevono birra con un ventiquattrenne e sgattaiola di casa ogni sera.”

“Ooh, abbassa la cresta, amico.”

“Non chiedo scusa.”

Sorrido e mi siedo, spingendo il suo piede con il mio. Quando alza un sopracciglio verso di me, mi protendo in avanti.

“Non preoccuparti. So mantenere un segreto.”

“Ne sono sicuro,” annuisce, appoggiando indietro la testa e chiudendo gli occhi. Sembra sereno, totalmente in pace con il mondo.

Lo osservo per un po’ di tempo fino a quando non apre lentamente gli occhi.

“Tre domande. È tutto ciò che ti concedo.”

“Tre? Sei serio?”

“Due ora.”

“Non fare lo stronzo, questa non conta.” Dico, spingendolo. Lui ridacchia e gira lo sguardo verso di me.

“Ti ho fatto tre domande e quindi tu puoi chiedermene tre. Sbrigati prima che cambi idea.”

Tre domande, d’accordo. Mi appoggio ancora all’indietro e ci penso seriamente per un momento. Cosa esattamente voglio sapere? Non lo conosco bene abbastanza da chiedergli qualcosa. Non abbiamo mai parlato delle nostre vite personali o cose del genere. Finalmente mi viene in mente qualcosa.

“Ti ricordi quando ti sono venuto addosso in strada?” Chiedo. Levi corruga le sopracciglia prima di annuire lentamente.

“Quando ti sei grattato il mento e stavi sanguinando ovunque?”

“Esatto,” rispondo, ruotando gli occhi.

“Oh, allora sì,” replica. “Cosa c’è?”

“Chi ti ha fatto il succhiotto?” chiedo.

“Succhiotto?”

“Già, avevi un succhiotto,” sostengo. “L’ho notato, ma non ho detto niente.”

“Seriamente? È questo quello che vuoi sapere? Pensavo fosse un’offerta scaduta.”

“Non sono geloso, amico. Voglio solo saperlo.”

“Marco,” risponde finalmente. I miei occhi si spalancano.

“Whoa, davvero? Marco è l’ultima persona sessuale che conosco.”

“Non siamo andati a letto insieme!” Chiarisce Levi velocemente. Si schiarisce la gola e abbassa la voce. “Era un obbligo di Reiner. Eravamo ubriachi.”

Annuisco, soddisfatto.

“Okay, domanda numero due.”

“Sono pronto.”

“Cos’è successo a tua madre?”

Levi mi guarda velocemente. Lo guardo anch’io, aspettando una sua risposta. Stringe la mascella e abbassa la testa verso l’erba.

“Cos’è successo a tua sorella?”

“Te l’ho chiesto prima io.”

“Non voglio rispondere.”

“Okay,” dico, decidendo che fosse meglio non insistere. Mi sento una merda per aver rispolverato l’argomento. È un argomento molto personale, ma non ci avevo pensato chiaramente. Vorrei prendermi a pugni in faccia, ma forse non è una buona idea. “Penso di aver finito.”

Levi sembra sollevato dall’affermazione. Mi mordo il labbro e scuoto la testa.

“Mi dispiace. Non volevo.”

“Tranquillo,” risponde, ma la sua voce è ancora dura. Si alza in piedi e si pulisce i jeans con la mano. “Coraggio, andiamo. Sono sicuro di avere le palle congelate.”

Mi alzo lentamente e strofino le mani per generare un po’ di calore. Levi prende lo zaino e lo mette sulla schiena. Seguo il suo esempio e cammino dietro di lui, cercando di capire come si sente. Sembra a posto, ma so meglio di chiunque altro che le persone cercano sempre nascondere i loro veri sentimenti.

Mi costringo a distogliere lo sguardo e infilo le mani nelle tasche, sentendomi sempre più uno schifo a ogni passo.
 
***
 
Martedì, 14:23.

Sono davanti al mio armadietto in procinto di mettere via la roba quando vedo Bertholdt nel corridoio con la coda dell’occhio. Sembra diverso, ma non so dire esattamente il perché. Fisicamente è lo stesso di sempre. È sempre alto e sembra che possa svenire da un momento all’altro. Ma nonostante questi segnali di apparente normalità, c’è definitivamente un’aria differente attorno a lui e mi chiedo se ha qualcosa a che fare con il suo ritiro dalla squadra di football.

Mi muovo prima di potermi fermare.

“Ehi,” dico casualmente.

Bertholdt sembra sorpreso di vedermi. Si guarda attorno prima che i suoi occhi si fermino su di me.

“Ciao, Eren,” mi saluta lentamente. Infila nello zaino il suo libro e continua a guardarmi incredulo. “Che succede?”

“Non molto,” rispondo onestamente. “Ti ho visto e ho pensato di salutarti.”

Bertholdt chiude il suo armadietto gentilmente e alza lo sguardo verso il mio.

“Levi te l’ha detto, giusto?”

“L’ha fatto,” rispondo.

“…È arrabbiato?”

“Non con te,” dico velocemente, notando quanto siano tese le spalle di Bertholdt. “È solo arrabbiato perché non se n’è accorto prima.”

“Nessuno ci sarebbe riuscito,” risponde Bertholdt e mi accorgo della nota amara che ha assunto la sua voce. “L’ho nascosto bene.”

“Va tutto bene, sai,” dico, allungando il braccio per stringergli fermamente la spalla. “Sono fiero di te.”

Bertholdt abbassa gli occhi verso di me con un’espressione che non riesco a decifrare prima di ridere sommessamente. “Diciamo che mi hai ispirato.”

“Lo vedo. Sono contento che tu abbia seguito il mio consiglio,” dico. “Ehi, ti va di andare da qualche parte?”

“Andare da qualche parte?” Ripete Bertholdt, spalancando gli occhi. “Intendi dire adesso?”

“Già. A meno che tu non abbia altri piani.”

“Non ne ho,” risponde. Dà un colpetto alla tasca dei suoi pantaloni. “Non ho la macchina, però.”

“Nessun problema. Mi piace camminare,” dico. Decido di non menzionare che qualche volta non sopporto andare in macchina.

Bertholdt annuisce ancora e si sistema lo zaino. Usciamo dell’edificio e verso la strada. Oggi non piove e l’aria è leggermente più calda. Noto che le foglie stanno cambiando colore e mi ritrovo a osservarle mentre camminiamo.

“Sai perché mi sono unito alla squadra?” Chiede a bassa voce. Riesco a malapena a sentire quello che sta dicendo.

“L’hai fatto per Reiner, giusto?” Chiedo.

Bertholdt annuisce.

“È stato il mio unico vero amico. Non sono bravo con le personee le nostre madri si conoscono da anni. Ci siamo conosciuti così. Fa abbastanza schifo, però.”

“Perché?” Chiedo curiosamente. Bertholdt solleva le spalle.

“Non l’ho conosciuto da solo. Era come se dovessimo essere amici perché lo erano anche le nostre madri.”

“Non penso sia così,” dico. Bertholdt scuote la testa.

“A volte sembra di sì. Sono sicuro che l’hai notato anche tu, Eren. Reiner non mi parla poi così tanto. Se non fosse stato per la squadra di football, credo che si sarebbe dimenticato della mia esistenza.”

Percepii il cuore dolere alle sue parole. Mi sentivo male per Bertholdt. Fa schifo pensare che a Reiner sarebbe importato di lui solamente se fosse stato in piedi davanti a lui tutto il tempo.

“È una testa di cazzo.”

“Non ti piace.”

“Non molto, no,” ammetto. “È un falso di merda, sai? Sembra che provi disperatamente a comportarsi in una certa maniera per potersi sentire accettato. Cazzate come questa mi irritano. Non sopporto quando le persone non riescono a comportarsi come sono davvero.”

Bertholdt riflette per qualche minuto.

“Immagino,” risponde finalmente. “Ma hai visto solo una parte di lui, Eren. Lui non è così. A volte riesce anche a essere gentile.”

“Già, quando ha voglia di scopare,” sbuffo. “So che l’hai visto giocare le sue carte su qualche povera e innocente ragazza.”

Bertholdt sussulta e resto zitto per un secondo. E per questo secondo, penso che Bertholdt sia arrabbiato perché sto praticamente tirando merda addosso a Reiner, ma poi realizzo che non è così.

“Voi due siete andati a letto insieme o è successo altro?” Mentre pronunciavo la domanda, volevo subito rimangiarmela.

Bertholdt annuisce una volta.

“Lui era ubriaco,” dice. “Lo eravamo entrambi. Eravamo a una festa a casa sua. Avevamo vinto una partita contro Trost e tutti erano entusiasti. E… beh, non lo so. È piuttosto difficile ricordare com’è cominciato. Il giorno dopo mi sono svegliato nudo e con un gran mal di testa; ho capito piuttosto in fretta cos’era successo.

“Hai una cotta per lui,” sussurro. “Vero?”

“Più o meno. Una volta era peggiore. Eravamo al secondo anno. Da allora è andato tutto meglio, penso.”

“Lui si ricorda?”

“Non lo so. Non gliel’ho mai chiesto.” Bertholdt deglutisce a fatica. “Già non ci parliamo molto. Avevo paura che se avessi detto qualcosa si sarebbe arrabbiato. Non volevo perderlo.”

Di solito sono bravo a riempire il silenzio, ma onestamente questa volta non so cosa dire.

“Una volta ero amico di Historia,” mi ritrovo a dire. “Eravamo davvero affiatati. Ci siamo conosciuti alle scuole medie e dal quel momento siamo stati inseparabili.”

“Cos’è successo?” Chiede Bertholdt.

“Avevo cominciato a bere e andare a letto con sconosciuti,” dico. “A Historia tutto questo non piaceva. Voleva che smettessi perché aveva paura che avrei fatto qualcosa di cui mi sarei pentito, specialmente perché… beh, diciamo che le cose non mi stavano andando così bene, in quel periodo. Ha continuato a provare ad aiutarmi e io ho continuato a respingerla. Immagino si sia stancata. A volte la vedo per i corridoi e mi ricordo come eravamo appena qualche anno fa. Ma ormai è troppo tardi.”

Non so perché gli sto raccontando tutto questo. Forse voglio che lui capisca che non è da solo e che lui ha qualcuno accanto.

“Hai provato a parlare con lei?” Scuoto la testa.

“Nah. Ho semplicemente pensato di lasciar perdere. Non voglio ferirla più di quanto ho già fatto.”

“Penso che le farebbe piacere se ci provassi,” sussurra. “A volte devi prendere tu l’iniziativa.”

Mi obbligo a non sbuffare alle sue parole.

“Cominci a sembrare me.”

Lui solleva le spalle.

“Mi hai aiutato davvero l’altra sera,” dice. “È stato davvero difficile, sai? Pensavo di amarlo. Sembra io sia pazzo perché avevamo solo quindici anni quando è successo e ho passato due anni a ripetermelo. Nessuno sa cosa sia l’amore a quell’età. Sei solo uno stupido moccioso.”

“Forse,” mormoro. “Penso che tu ti possa innamorare quando vuoi, però. Sono sentimenti tuoi, no? Se scegli di etichettare i sentimenti come amore, allora buon per te; se invece non lo fai, va bene lo stesso.”

“Non l’ho mai pensata in questo modo,” ammette. “A quell’età tutti cercano sempre di sminuire quello che provi. Penso di aver fatto la stessa cosa con me stesso. Quando ho visto tutte quelle persone ho capito che nessuno era venuto lì per me, ma erano presenti solo per Reiner, mi ha fatto stare male. Penso sia stato allora che ho smesso di ripetermi che lo amavo. Voglio dire, mi importa ancora di lui. Saremo sempre amici. Ma ho smesso di vederlo in modo romantico. Non penso sarei riuscito ad andarmene senza il tuo aiuto. Quindi grazie. Davvero.”

Sono un po’ sorpreso. Lo fisso per qualche istante prima di sorridere.

“Ovviamente. Ti aiuterò ogni volta che ne avrai bisogno. Sul serio.”

Bertholdt sembra sorpreso prima di sorridere.

“E io farò lo stesso con te.”
   
 
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