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Autore: Lady1990    05/05/2019    2 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Jennifer si risvegliò a causa di uno strattone violento, che la scaraventò sull’asfalto. All’impatto, la bocca si spalancò per incamerare ossigeno e un gemito sofferente le raschiò la gola. La vista era ancora sfocata. Presto, avvertì un liquido caldo colarle sulla nuca. Una voce nella sua mente le suggerì che era sangue, ma preferì non ascoltarla, altrimenti avrebbe rischiato di avere un attacco di panico e non era decisamente il momento adatto.

Tossì e rotolò su un fianco, cercando di capire dove fosse e cosa stesse succedendo. Ringhi animaleschi le perforarono le orecchie, sovrastando il sibilo che le aveva prese d’assalto. Puntò lo sguardo allucinato sulle due figure che stavano lottando a pochi passi da lei e per poco il suo cuore non si fermò.

“Roman…”

Ma quello non poteva essere il ragazzo che le piaceva. Era grottesco, peloso, con lunghe zanne affilate, artigli al posto delle unghie e uno spesso strato di pelliccia intorno al viso. I suoi occhi, poi, erano gialli, simili a quelli di un lupo.

La lotta si fece subito accesa. Roman era in svantaggio. La creatura, il mostro, qualsiasi cosa fosse, era più forte e più veloce, ogni colpo andava a segno. I vestiti del ragazzo erano a brandelli, dalle ferite sgorgava sangue. Il suo respiro si stava facendo sempre più affannato. In un paio di minuti sarebbe stato troppo stanco per combattere e il mostro li avrebbe presi entrambi.

Jennifer agì d’istinto. Si tolse i tacchi, si disfò della borsa e si lanciò contro la creatura, aggrappandosi come un koala alla sua schiena, le braccia attorno al suo collo e le gambe attorno al bacino. Il terrore minacciò di sopraffarla, ma tenne duro. Doveva aiutare Roman. Lui l’aveva salvata, stava lottando per lei, non poteva lasciare che quella cosa lo uccidesse senza fare niente. Represse a stento un conato quando il tanfo di sangue e putrefazione le aggredì le narici.

Una mano scheletrica le arpionò una caviglia. Un attimo più tardi, Jennifer si scoprì a ciondolare a testa all’ingiù, sospesa a mezz’aria. Il ringhio bellicoso di Roman le diede il coraggio di dimenarsi. Sferrò un calcio in faccia al mostro e pugni nel suo basso ventre. Tuttavia, pareva di colpire l’acciaio. Le sue nocche si sbucciarono, lividi e sangue le ricoprirono. Allora urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, sperando di richiamare l’attenzione di qualcuno.

Roman compì un balzo. Spalancò le fauci, mirando al polso del demone, quello attaccato alla mano che teneva prigioniera Jennifer. Però, quando fu a pochi centimetri dall’arto, il demone la lasciò. Le zanne affondarono nel polpaccio della ragazza, bucando pelle, muscoli e tendini. Si conficcarono talmente in profondità da sfiorare l’osso.

Precipitarono entrambi sul cemento in un groviglio di corpi, gemiti e grugniti.

I lampioni si riaccesero, illuminando il parcheggio vuoto.

Appurando che il demone se n’era davvero andato, Roman indietreggiò fulmineo da Jennifer, fissandola con orrore. Sentiva il sapore del suo sangue sulla lingua, l’odore della sua paura nel naso. Gli venne voglia di vomitare. Scosse con veemenza il capo e si sforzò di tornare in forma umana. Non aveva tempo per lo shock. Doveva occuparsi di Jennifer, chiamare i soccorsi, suo padre, Regan…

Jennifer emise un gemito strozzato, la mano avvolta attorno alla ferita del morso sul polpaccio. Roman si coprì la bocca per soffocare i singhiozzi, l’adrenalina che ancora pompava feroce nelle vene.

“Jennifer… mi dispiace. Dio, mi dispiace… non volevo…”

La ragazza scoppiò a piangere. Roman guaì, a corto di idee. Si tolse il cappotto e si avvicinò cauto per posarglielo sulle spalle, che erano scosse da violenti singulti.

“Chiamo mio padre. Vedrai, presto starai meglio. Resisti ancora un po’.”

Selezionò con dita febbrili il nome del padre sulla rubrica e si accostò il cellulare all’orecchio.

“Pronto?”

“Papà…” articolò con voce rotta.

“Roman. Che è successo? Dove sei?”

“Jennifer… il demone… ha cercato di prenderla, così io… io…”

“Dimmi dove sei. Arrivo subito.”

Roman gli diede l’indirizzo.

“Resta lì. Non muoverti.”

Quando Vincent riattaccò, Roman abbandonò il cellulare sull’asfalto e si accucciò accanto a Jennifer. Protese le mani per toccarla, ma lei si scansò bruscamente. Il senso di colpa lo soffocò.

“Non ti farò del male. Lo giuro. Mi dispiace tanto. Mi dispiace.” balbettò.

Singhiozzando, lei studiò il morso con occhi fuori dalle orbite: “Cosa…?”

“Ti spiegherò tutto dopo. Ora devi stare tranquilla, il pericolo è passato. Siamo vivi. Concentrati su questo. Starai bene, te lo prometto.”

Qualche minuto dopo, una BMW nera entrò nel parcheggio sgommando. I fari illuminarono la coppia accovacciata all’imboccatura del vicolo. I freni stridettero, le portiere dei sedili anteriori si aprirono. Tamara e Vincent li raggiunsero in un baleno. Non appena videro il morso sul polpaccio di Jennifer, assunsero un’espressione sgomenta.

Vincent si inginocchiò davanti al figlio, gli prese il visto tra le mani e lo costrinse a guardarlo.

“Cosa è successo?” domandò pacato, infondendo nella sua voce una scintilla dell’autorità di alfa.

“Il demone ha aggredito Jennifer. Io ho attaccato il demone. Lui la teneva per una caviglia, a testa in giù. Io… volevo morderlo sul polso, ma lui l’ha lasciata per primo. Così ho morso lei per sbaglio…”

“Dov’è ora questo… demone?”

“Se n’è andato.”

Tamara si accostò alla ragazza. Le rivolse un sorriso gentile e le accarezzò dolcemente i capelli spettinati. Notò che sul retro erano sporchi di sangue.

“Hai battuto la testa?”

“Sì…”

“Come ti senti?”

“Ho paura…” singhiozzò e tirò su col naso.

“Dimmi quante dita vedi.” disse, mostrandogliene due.

“Due.”

“Puoi dirmi il tuo nome completo e la tua data di nascita?”

“Jennifer Elizabeth Dawry. Sono nata il 30 novembre.”

“Bene. Non sembra che tu abbia una commozione cerebrale. Ora fammi vedere il morso, cara.”

“Mi fa male…”

“Lo so.”

La lupa esaminò la ferita, prima osservandola, poi annusandola da vicino. Stava già guarendo. Questo significava che Jennifer si sarebbe trasformata in un lupo mannaro, come Sean.

“Cosa ne sarà di me? E cos’era quel mostro?”

“Jennifer, voglio che mi ascolti attentamente.” proferì calma Tamara, trattenendo il suo sguardo spiritato fisso nel proprio, “Starai bene. Non sei in pericolo. Però, durante la prossima luna piena, ti trasformerai in un lupo mannaro.”

Se fosse stata lucida, se non avesse visto con i suoi stessi occhi l’aspetto animalesco di Roman, Jennifer sarebbe scoppiata a ridere.
“È questo che siete? Lupi mannari?” pigolò.

“No. Noi siamo licantropi.” si intromise Vincent, “Il morso di un licantropo trasforma l’essere umano in un lupo mannaro. Ma non hai nulla da temere, piccola. Verrai accolta nel branco e ti insegneremo a controllarlo.”

“Mi riempirò di peli ad ogni luna piena?!” 

“Non è così male.” la consolò Tamara con un sorriso incerto, continuando ad accarezzarle la schiena, “Adesso rilassati. Ti porteremo a casa nostra per parlarti più nel dettaglio dei cambiamenti a cui andrà incontro il tuo corpo. Dopodiché, se lo vorrai, ti riaccompagnerò a casa tua. Altrimenti, potrai dormire nella camera degli ospiti. Sarai al sicuro, te lo prometto. I lupi proteggono il loro branco a costo della vita. Tu sei una di noi, ora.”

Jennifer boccheggiò. Poi si girò a guardare Roman, che aveva le guance rigate di lacrime come lei.

“Mi dispiace. Credimi. Non avrei mai voluto farti questo. Non è così che dovrebbe andare.”

“Che intendi?”

“Il morso viene dato solo se c’è il consenso. Tu non ne hai avuta la possibilità. Io non te l’ho data. Ti ho strappato l’umanità senza chiederti il permesso.” singhiozzò, ricominciando a piangere, “Mi dispiace, Jennifer.”

“Mi hai salvata. Se non fosse stato per te… beh. Meglio un lupo mannaro che un cadavere, suppongo. Mi ci abituerò.” disse con un sorriso amaro.

Senza dubbio era lo shock a farla parlare così, come se diventare un lupo mannaro non fosse chissà cosa. Allargò le braccia e Roman ci si tuffò in mezzo di slancio, stringendola a sé come se temesse di vederla sparire.

“Cosa dirò ai miei genitori?” chiese, mentre passava pigramente le dita fra i capelli del ragazzo.

Vincent serrò le labbra, riflettendo sulla risposta.

“Ti sarei grato se tacessi. La sopravvivenza della nostra specie si basa sul segreto della sua esistenza. Se gli umani dovessero scoprirci, ti lascio immaginare le disastrose conseguenze. So che sono i tuoi genitori e tu ti fidi di loro, ma noi non li conosciamo. Un minimo errore di giudizio potrebbe gettarci nel caos, o in pasto ai cacciatori. Sì, c’è una fazione umana che adora infilzarci con proiettili d’argento e torturarci per sport. Comprendi il motivo della mia richiesta?”

“Va bene, manterrò il silenzio. Ma come farò per la luna piena? E se perdessi il controllo?”

“Trascorrerai le lune piene con noi, dove sarai al sicuro. Se seguirai i nostri insegnamenti, non dovrai temere di perdere il controllo. Sean, lo zio di Roman, è un lupo mannaro come te e vanta una grande esperienza. Ti affideremo a lui.”

“Okay.” mormorò, per poi puntare l’attenzione sul vestito strappato e pieno di sangue, “Accidenti! Amavo questo vestito.”

Tamara, Vincent e Roman sbuffarono una risata e, come per magia, l’atmosfera si rasserenò un poco.

 
*
 
Quando Jennifer venne fatta entrare nel salotto di casa Sinclair, Ruby e Sean si alzarono dal divano per accoglierla. Ruby, vedendola nervosa, pallida e tremante, nonché ricoperta di sangue, le elargì un sorriso e la invitò a sedersi, per poi recarsi in cucina a prendere un panno per pulire le ferite.

Tamara le chiese se desiderasse qualcosa da bere e, appena Jennifer propose un bicchiere d’acqua, sparì anche lei in cucina.

Vincent e Sean presero posto sul divano opposto a quello su cui era seduta Jennifer, le loro espressioni neutre, mentre Roman rimase in piedi, leggermente in disparte.

Trevor e Nina dormivano, ignari del dramma che si stava svolgendo al piano di sotto.

“Ecco qua, tesoro.” le disse Tamara, porgendole il bicchiere d’acqua.

“La ringrazio, signora Sinclair.”

“Chiamami Tamara.”

Ruby si inginocchiò ai piedi del divano e cominciò a lavare via il sangue. Tamara le adagiò una coperta sulle spalle tremanti e gliele accarezzò con dolcezza.

“Allora, Jennifer.” esordì Vincent, “Scommetto che hai delle domande.”

“Un po’, in effetti. Non so da dove cominciare. Sembra tutto così… folle.”

Vincent restò in silenzio per qualche secondo, a riflettere su come introdurre l’argomento. Poi, quando lo sguardo gli cadde sul figlio, gli venne un’idea.

“Roman, va’ in biblioteca a recuperare i due volumi sui lupi mannari che ha letto Sean quando si è unito a noi. Potrebbero tornare utili anche a Jennifer.”

Roman colse l’occasione per concedersi una meritata pausa. Era ancora scosso per lo scontro con il demone e, al contempo, dispiaciuto per Jennifer. La vita della ragazza sarebbe cambiata drasticamente e non poteva fare a meno di incolparsi. Se fosse stato meno avventato, se avesse pensato a una strategia prima di buttarsi nella mischia… no, si era svolto tutto troppo rapidamente per permettergli elaborare un qualsiasi piano. Aveva dovuto agire subito, non c’era stato tempo per tergiversare. Il problema era che a pagare il prezzo della sua inettitudine sarebbe stata Jennifer. Accoglierla nel branco era il minimo che potessero fare per lei. Il periodo di aggiustamento sarebbe stato lungo e difficile, ma non c’erano altre opzioni.

Entrò nella biblioteca e marciò deciso verso gli scaffali dietro la scrivania. Scandagliò i titoli dei volumi dall’alto verso il basso, stropicciandosi più volte le palpebre per spazzare via la stanchezza. Individuati i testi che cercava, li sfilò e si voltò.

Fece per superare la scrivania, quando qualcosa attirò il suo sguardo. Sopra il volantino di Teresa Meyers c’era una mano mozzata, fatta di pietra. Aggrottò le sopracciglia e si piegò per annusarla. Registrò l’odore del padre e quello di Sean, come se l’avessero toccata spesso, e qualcos’altro che non riusciva a definire.

Un bozzo sotto un plico di fogli catturò la sua attenzione. Li scostò e stavolta si imbatté in un piede di pietra. Il tallone copriva la faccia di Evelyn Richardson stampata sul volantino.

Posò i libri sulla poltrona e scostò con urgenza le scartoffie che tappezzavano la scrivania, finché non scoprì cosa c’era sotto: sei volantini e sei parti del corpo fatte di pietra. Impallidì.

“Papà, vieni qui.” sussurrò.

Non c’era bisogno di alzare la voce, dato che aveva lasciato la porta della biblioteca socchiusa. Aspettò qualche secondo, poi udì i passi di Vincent avvicinarsi veloci. Quando si affacciò, Roman non gli diede tempo di parlare. Gli indicò la scrivania e lasciò che afferrasse da solo la situazione.

Vincent sospirò e contrasse la mascella. Chiuse la porta dietro di sé e si accostò al figlio.

“Sono proprio quello che pensi.” disse, dritto al punto.

“Me lo avresti mostrato, prima o poi?” gli chiese Roman, privo di inflessione, lo sguardo carico di risentimento.

“No. Meno ne sai, meglio è.”

“Stasera abbiamo appurato che è una stronzata. Io e Jennifer abbiamo rischiato di morire.”

L’alfa si irrigidì per un momento, poi emise un altro sospiro e annuì: “D’accordo. Cosa vuoi sapere?”

Roman non si godette la vista della posa sconfitta del padre come avrebbe fatto in altre circostanze, né si concesse il tempo di provare stupore. Era esausto e c’erano questioni più importanti da discutere.

“Da dove vengono questi… pezzi?”

“Sean li ha trovati in un fossato, nel bosco.”

“Perché ne hai associato uno a ciascuna persona scomparsa?”

“Perché appartengono a loro. Sono parti dei loro corpi.”

“Come lo sai?”

“Ho spedito dei campioni al laboratorio gestito da Alfa Wu Xian, a New York. Ha trovato tracce di DNA. Corrispondono a quelli delle vittime.”

“Mi stai dicendo che… che il demone li trasforma in pietra e poi li getta in un fosso?”

“Non è un demone, Roman.” borbottò spazientito, “Si tratta di una Gorgone.”

“Gorgone? Tipo, come si chiama… ah, Medusa?”

“Sì.”

“Scherzi?”

“No.”

Roman aggrottò le sopracciglia: “Non può essere. Quello che abbiamo visto stasera non era certo una Gorgone. Era identico alla descrizione del demone che mi ha fornito Regan.”

“Beh… forse abbiamo due gatte da pelare, non una.” considerò Vincent.

“Lavorano insieme? Uno caccia e l’altro mangia?”

“Non lo so.” sospirò l’alfa, “Prova a descrivermi l’aspetto del demone che hai combattuto.”

Roman lo fece e Vincent si impensierì.

“Devo fare qualche ricerca più approfondita.”

“D’accordo, ma d’ora in avanti voglio essere tenuto aggiornato. Sai, non mi va di morire giovane.”

“Mi sembra giusto.”

“E lo diremo a Regan.” pronunciò secco.

“No.”

“Sì, invece. Dobbiamo. Ci ha aiutati molto e siamo in debito, non puoi negarlo.”

Vincent grugnì scontento: “Okay. Chiamalo e informalo degli ultimi sviluppi.”

Roman annuì e corse verso le scale. La madre, però, lo intercettò sul secondo gradino.

“Dove vai?”

“Devo chiamare Regan.”

“No, devi stare con Jennifer. Non dirò che è colpa tua se siamo in questa situazione, ma hai lo stesso delle responsabilità nei suoi confronti. Va’ in salotto, falle compagnia. Poi accompagnala nella camera degli ospiti e aspetta che si addormenti. Ho già cambiato il letto e appoggiato in bagno gli asciugamani puliti.”

Roman roteò gli occhi e si trascinò in salotto, preparandosi psicologicamente a un’altra nottata in bianco.

 
*
 
Giovedì mattina, la sveglia strappò Regan all’ennesimo incubo di urla e fiamme. Grugnendo, tastò sul comodino per spegnerla. Quando le sue sinapsi si attivarono, realizzò che il trillo non era quello della sveglia, ma la suoneria che aveva impostato per Roman. Afferrò il cellulare e accettò la chiamata senza guardare il display.

“Buongiorno, lupacchiotto.”

“Regan.”

Scattò a sedere, allarmato dal tono di voce dell’amico: “Cos’è successo?”

“Ieri notte, Jennifer è stata aggredita dal demone vicino al ristorante in cui abbiamo cenato. L’ho salvata per un soffio. Il demone è fuggito, ma per sbaglio l’ho morsa. Ora è un lupo mannaro.”

Regan sbatté le palpebre ed emise un verso interrogativo.

“Non farmelo ripetere, ho poco tempo.”

“Okay, con calma. Fammi pensare.”

“No, Regan, non ho tempo. Volevo dirti anche un’altra cosa: oltre al demone, dovremo occuparci di una Gorgone. Nel bosco, in un fosso, mio zio ha trovato i resti di pietra delle persone scomparse. Mi ha raccontato di aver trovato i primi resti mesi fa, ma mio padre me lo ha tenuto nascosto fino a ieri sera. Se non avessi scoperto per puro caso la mano mozzata sulla sua scrivania, avrebbe continuato a tacere.” ringhiò frustrato.

A Regan tornarono subito in mente alcuni versi della filastrocca del fantasma, quella che avrebbe dovuto avvisarlo dell’imminente pericolo in cui si trovava Timothy.

L’ombra il serpente curioso acchiappò
La sua superbia nel palmo schiacciò
La sua voce con gli artigli strappò.
Nella notte i suoi sibili nitidi
Sulla pelle fan nascere brividi.

La Gorgone, realizzò. Oh, merda… ha posseduto una Gorgone!

E cos’era che diceva la seconda parte della filastrocca?

Scappa, lesto, a più non posso
Non guardare dentro al fosso.
 
Perché non doveva guardare dentro al fosso, se là in fondo lo zio di Roman aveva trovato indizi fondamentali?

Inganni. Nient’altro che maledetti inganni. E Regan ci era cascato.

Se tutte le cose che erano uscite dalla bocca dei fantasmi, o quel che erano, erano inganni, allora la risposta era fare esattamente il contrario: stare fermo, guardare dentro al fosso… non trovare il cerchio nascosto? Era un dannato rompicapo. Un paradosso, come gli aveva detto Deirdre. Cosa doveva fare? Credere alle parole dei fantasmi o no?

“Roman, aspetta.”

“Scusa, non posso. Volevo solo aggiornarti sulla situazione. Hai già parlato con il rabbino?”

“Frena! Voglio i dettagli dello scontro che hai avuto con il demone.”

Roman gli riassunse la dinamica. Quando finì, calò il silenzio.

“Non ha senso.” disse Regan, riflettendo a voce alta, “Perché avrebbe dovuto fuggire? Era più forte di te. Avrebbe potuto ucciderti, o tramortirti, e prendere Jennifer. Che abbia paura dei licantropi? No, è assurdo. Tu eri in svantaggio, non ci sarebbe voluto niente a toglierti di mezzo. Ma perché lasciarvi andare? Lo avete visto, ora sapete che aspetto ha. Non teme che possiate dargli la caccia o dare l’allarme? E perché ha attaccato proprio Jennifer?”

“Perché ha attaccato tutte le sue altre vittime? Non lo sappiamo, Regan.” sospirò scocciato, “Sbrigati a tornare con delle risposte, non voglio che i nostri amici diventino i prossimi volti su quei dannati volantini!”

“Farò il possibile. Ti scrivo se trovo qualcosa.”

Regan abbandonò il cellulare sulle coperte e si passò stancamente le mani fra i capelli. Aveva il cervello pieno zeppo di domande. Era stato tentato di chiedere a Roman se per caso Jennifer avesse subito un lutto di recente e fosse stata a vedere la mostra alla Fondazione Sthenos, ma alla fine era rimasto zitto. Hillary aveva ripetuto che quella teoria era un vicolo cieco, perciò Regan non avrebbe sprecato tempo a rimuginarci su.

Tornando al demone, l’elemento che non quadrava con il modus operandi era che Jennifer e Roman erano sopravvissuti. Anche Regan era sopravvissuto. Ma, mentre Regan era sicuro di aver vinto il round grazie alla sua forza – o ai suoi poteri, o una combinazione delle due – costringendo il demone a battere in ritirata, Roman ne era uscito illeso solo perché il demone aveva dato forfait.

Come aveva potuto un essere tanto scaltro e potente commettere un errore così stupido come quello di lasciarli andare? Non aveva senso che iniziasse a compiere passi falsi proprio ora. Ciò indicava che voleva essere visto, e probabilmente Roman e Jennifer non erano nemmeno le sue vere prede, visto che li aveva risparmiati. Ma perché scegliere proprio loro?

Perché io li conosco.

Oh. Erano un messaggio. Per lui. Forse un modo per attirarlo di nuovo a casa e riprendere a giocare.

Perché ce l’hai con me, demone?

Un bussare alla porta lo distolse dalle sue elucubrazioni.

“Regan, sei sveglio? La colazione è pronta.” disse Sheila.

“Sì, scendo.”

Aspettò che se ne andasse, poi radunò i vestiti puliti e si recò in bagno a farsi una doccia. Una volta pronto, tornò in camera a prendere cellulare e portafoglio e raggiunse Sheila in cucina. Gli vennero serviti due toast caldi e una tazza di tè al limone.

“Ho qui una cosa per te.” gli disse la strega e gli porse una pila di taccuini, “Sono i diari di viaggio di Shannon. Dentro non c’è molto, sono perlopiù appunti, ma ho pensato che, magari, avresti voluto leggerli.”

Regan li accettò e se li strinse al petto: “Grazie. Lo farò.”

“Tienili pure. Io li conosco a memoria ormai.”

“Grazie.”

Dopo colazione, Sheila lo invitò a fare un giro della città. Fiona era impegnata, quindi il test era sospeso fino al pomeriggio. Invece che lasciarlo a morire di noia alla villa, Sheila lo convinse a mettere il naso fuori. Regan si fece pregare giusto un pochino, scoraggiato dalle nubi che si stavano ammassando sulla città, ma poi la curiosità ebbe la meglio.

Sheila gli mostrò la tavola calda in cui lei, Shannon, Andrew e Carl, il defunto marito di Sheila, erano soliti andare a mangiare quando i figli erano piccoli. Gli raccontò altri piccoli aneddoti di vita quotidiana e gli fece vedere il parco in cui Shannon aveva imparato ad andare in altalena, le scuole che aveva frequentato, il canile in cui aveva fatto volontariato durante il liceo. Poi, dal portafoglio, estrasse una foto di Shannon con la toga, che risaliva al giorno della cerimonia della consegna del diploma.

“Eravamo tutti così fieri di lei. La prima della classe, presidente del comitato studentesco e un’ottima giocatrice di pallavolo. Se solo fosse andata al college, l’avremmo vista studiare all’MIT.”

“In che ramo della magia era più versata?”

“Alchemica.” rispose con orgoglio, “Il suo talento per la matematica e la fisica l’ha sempre predisposta a quello specifico ramo. Era eccellente nei calcoli, non sbagliava mai.”

Pranzarono fuori con un hamburger, dopodiché Sheila lo scaricò di nuovo davanti alla villa e sgommò via dicendo che aveva delle commissioni da fare.

Regan si recò in biblioteca per sfogliare dei libri nell’attesa del terzo e quarto test. Anche se cercava di non darlo a vedere, era agitato. Stando al programma, avrebbe dovuto dimostrare la sua abilità nella manipolazione dell’aria e del fuoco e, onestamente, non aveva la minima di idea di come fare. Sperò che Fiona gli fornisse qualche indicazione, perché stavolta, al contrario della divinazione con le pietre, non avrebbe potuto improvvisare.

Mentre leggeva distrattamente i titoli dei libri, scovò su uno scaffale un tomo che trattava della creazione di amuleti e talismani e si mise subito a leggerlo. Magari avrebbe trovato qualcosa di utile per contrastare l’influenza del demone.

Apprese che la maggior parte di essi erano composti da erbe e pietre, tutto sommato abbastanza facili da costruire. L’unico ostacolo era l’energia che le erbe apposite sprigionavano: dato che erano designate per uso umano al fine di proteggere dal male, Regan veniva respinto come un polo negativo. Ciascuna combinazione suggerita dal libro avrebbe condizionato pure lui, indebolendolo fino a renderlo simile a un guscio vuoto.

Due ore dopo, Fiona lo trovò stravaccato su una sedia nell’ala sud della biblioteca, una smorfia costipata sul volto e le mani intrecciate in grembo.

“Che cosa stai combinando?”

“Studio gli amuleti contro il male.” mugugnò Regan, facendo un cenno col capo in direzione del libro.

“Sei metà vampiro, non puoi maneggiare gli amuleti. Coraggio, metti tutto a posto, così possiamo cominciare il test dell’aria.”

Il ragazzo obbedì. Si sentiva rallentato e un po’ intontito. Cosa non avrebbe dato per un litro di sangue caldo. Pregò che la debolezza non inficiasse il risultato del test.

Fiona lo guidò nella stanza che puntava a est e lo invitò a sedersi. Gli mise di fronte un foglio di carta, una sfera di plastica e una manciata di segatura.

“Concentrati e incanala l’energia nelle tue mani. Non appena la sentirai ammassarsi sui tuoi palmi, spingi con la mente e immagina che questi tre oggetti prendano il volo.” lo istruì.

“Ma come? Nessun abracadabra?”

“Questo è un test attitudinale. Imparerai gli incantesimi legati agli elementi se e quando inizierai l’apprendistato.”

Dubbioso, Regan chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro e si impose la calma. Doveva solo concentrarsi. L’aveva fatto un milione di volte, non era diverso dalla meditazione. Per prima cosa, si impegnò a regolarizzare il battito frenetico del suo cuore. Dopodiché, si focalizzò sull’energia che gli scorreva nelle vene. Quando, dopo svariati minuti, si accorse di non sentirla ancora, iniziò a preoccuparsi.

“Ehm… come faccio a trovare la concentrazione? Ci sono degli esercizi che potrebbero aiutarmi?”

“Ognuno ha il suo metodo, Regan. Rilassati e lascia che il potere fluisca in te.”

“È più facile a dirsi che a farsi.” borbottò.

Ripeté gli esercizi di respirazione finché non ritrovò la calma. Quindi protese le mani verso gli oggetti, immaginandoseli sospesi a mezz’aria, e spinse. Spinse. Spinse. Riaprì gli occhi e si afflosciò sulla sedia.

“Non funziona.” esalò imbronciato.

“Evidentemente, hai poca affinità con questo elemento. Proviamo con il fuoco.”

Fiona lo ricondusse nella stanza a sud e gli mise di fronte una candela, un fiammifero e una teglia ignifuga.

“Perché mi hai fatto cambiare stanza?”

“I quattro punti cardinali possono essere associati ai quattro elementi: est con l’aria, sud col fuoco, ovest con l’acqua e nord con la terra. Ti ho fatto sedere a est per facilitarti nel test dell’aria, ora ti ho portato a sud per aiutarti in quello del fuoco.”

“E cosa devo fare con questa teglia?”

“Accendere una candela o un fiammifero, oggetti di per sé infiammabili, non è difficile. Dar fuoco a qualcosa che, invece, dovrebbe essere refrattario a tale elemento è la vera prova. I primi due servono come riscaldamento, il terzo confermerà il tuo potere.”

“Okay. Cosa devo fare? Entrare in contatto con l’etere ed evocare lo spirito del fuoco?”

Fiona lo fissò con sussiego, chiaramente non apprezzando il suo sarcasmo.

“Devi concentrarti, come prima. Non appena avvertirai l’energia raccogliersi sulla punta delle tue dita, spingi con la mente.”

“Sei proprio sicura che si debba fare così?”

“Hai tempo fino al tramonto.”

“Mi è permesso uno spuntino?”

“No. Su, comincia.”

“Resti qui?”

“È meglio che ti sorvegli, per sicurezza. Ho disegnato dei sigilli nella stanza per scongiurare gli incendi, ma non si sa mai. Non è un trattamento speciale, lo facciamo con tutti i novizi. Il fuoco è il più pericoloso degli elementi.”

“Okay. Potresti guardare da un’altra parte, però? Mi innervosisco se mi sento osservato.”

La strega roteò gli occhi e gli diede le spalle. I pantaloni bianchi le fasciavano le gambe a pennello e la camicetta blu metteva in risalto il rosso dei suoi capelli, che ricadevano sciolti sulla schiena in morbide onde.

Regan serrò le palpebre e inspirò profondamente. Non appena il battito rallentò, finse che Fiona non fosse presente e, come per magia, la tensione abbandonò i suoi muscoli. Così andava già meglio. Galleggiò nel nulla per qualche minuto, indeciso su come procedere.

L’immagine di una soffitta lo distrasse. Prima di rendersene conto, venne risucchiato nei ricordi dell’infanzia. Navigò sia tra quelli belli che quelli brutti, affogò in essi finché le emozioni non lo travolsero, caricandolo con un ruggito assordante. Si tappò le orecchie con le mani e gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Il ruggito si quietò e il silenzio lo avvolse.

Quando riaprì gli occhi, si scoprì a fluttuare in uno spazio buio, parecchio simile a quello dei suoi incubi. La sua mente era sgombra. Sebbene i pensieri relativi al mondo esterno continuassero a tentarlo, sbattendo sulla bolla protettiva che lo circondava, mantenne i nervi saldi.  

Avanzò nelle tenebre in una direzione a caso, alla ricerca di non sapeva neanche lui cosa. Una scintilla? Una sfera di luce? Una bacchetta magica? Ad ogni passo il buio si infittiva sempre di più, arrivando a diventare soffocante come un miasma tossico.

Il bisogno di uscire da quella dimensione si fece impellente. Si girò e proiettò in avanti la coscienza, assieme alla più infinitesimale briciola di volontà. Doveva localizzare al più presto il punto d’accesso, per attraversarlo di corsa senza guardarsi indietro.

Il paesaggio mutò. Un secondo prima nuotava perso nell’oscurità, quello dopo era in piedi in mezzo a un deserto di roccia. Il cielo era un oceano liquido del colore del sangue, la terra una distesa piatta, arida, grigia e piena di crepe. Non tirava un alito di vento, tutto era immobile, morto.

Il suo respiro accelerò, la paura serpeggiò nelle sue viscere e gliele attorcigliò per mezzo di quello che sembrava filo spinato ricoperto di acido. Boccheggiò e compì un paio di passi indietro, barcollando come un ubriaco. Recuperato l’equilibrio, poggiò le mani sulle ginocchia. Ansimò per lo sforzo. Gli occhi sgranati erano fissi sul terreno, ma in realtà non lo vedeva. Il panico lo pervase.

Si impose di riflettere. Quel posto non era reale, quindi non doveva temere che gli accadesse qualcosa. Si trovava dentro la sua mente. Non che tale consapevolezza non lo sconcertasse – insomma, la sua mente doveva essere alquanto malata per creare un simile mondo – ma almeno sapeva che poteva abbandonarlo. Dopo quella che gli parve un’eternità, riuscì a calmarsi.

Decise di studiare meglio lo strano paesaggio. Non percepiva né caldo né freddo, forse a causa dell’assenza di temperatura. Era inquietante. Sollevò lo sguardo per scrutare il cielo. Piccole e liquide onde scarlatte si muovevano sinuose sopra la sua testa, in una danza ipnotica che, per qualche momento, gli fece dimenticare il motivo per cui era lì.

Conficcò le unghie nei palmi per scacciare il torpore e si concentrò sul fuoco. Doveva trovare la fonte dell’energia, incanalarla nelle dita e accendere uno di quegli oggetti, per cominciare. Poteva farcela.

Aprì le mani e fletté le dita. Immaginò una fiammella sospesa a pochi centimetri dalla pelle, ma non accadde niente. Sbuffò frustrato. Scrocchiò il collo e riprovò, invano. Era evidente che doveva cambiare metodo.

Regan colse un movimento nell’oceano rosso sopra di lui. Alzò il capo di scatto, sondandolo con occhi sgranati. Era certo di non esserselo sognato. Tuttavia, non notò nulla di strano. Aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. Poi scrollò una spalla e si rimise al lavoro.

Ritentò l’evocazione del fuoco improvvisando mosse ridicole. Schiacciato dall’umiliazione, ma anche grato di non avere testimoni, accantonò ogni speranza. O gli stava sfuggendo qualcosa, o non possedeva la magia elementale. Il fallimento pure del quarto test sarebbe stato un duro smacco da digerire, però non poteva pretendere da se stesso l’impossibile. Era chiaro che avesse dei limiti, non era mica un dio!

Un tuono rimbombò dappertutto, anche se nessun fulmine lo aveva annunciato. Il rumore inaspettato lo fece sobbalzare. Si accucciò e si coprì le orecchie con le mani, sperando di non venire colpito.

Quando il silenzio si protrasse abbastanza da convincere Regan che il pericolo era passato, si rialzò lentamente. Osservò il cielo a lungo, domandandosi perché fosse così e cosa si celasse al di là.

Come se avesse udito i suoi pensieri, un’ombra si avvicinò alla superficie, ingrandendosi a poco a poco, fino a diventare gigantesca. Aveva forma umana ed era di dimensioni spropositate. I suoi piedi poggiavano sul pelo dell’acqua rossa, dall’altro lato. Le ginocchia erano piegate e il busto era sporto in avanti, quasi che l’essere si fosse accovacciato per guardare qualcosa in basso. Per guardare lui. Dalla sua prospettiva, Regan avrebbe dovuto trovarsi capovolto a testa in giù.

Il gigante d’ombra aveva un fisico magro e tonico, anche se era difficile delinearlo a causa del tremolio delle onde, che distorcevano i contorni della sua figura. Regan notò che sulla testa spuntavano sette corni. Essi componevano una corona o una specie di copricapo, del tipo che di solito vedevi sul cranio dei capi tribù indiani. Era impossibile capire da dove partissero, ma Regan notò che erano posizionati a raggera e sembravano curvati all’indietro, simili ad aculei che molleggiavano al minimo movimento. Probabilmente, erano fatti di un materiale elastico o la combinazione di più pezzi di qualcosa, a giudicare dalla forma vagamente seghettata.

Regan deglutì e piegò la testa da un lato. L’ombra lo imitò nello stesso instante. Regan agitò una mano in segno di saluto. L’ombra, di nuovo, imitò il gesto, come davanti a uno specchio.

“Chi sei?!” urlò.

Non gli giunse risposta. Non che si fosse illuso di riceverla.

“Tu sai come si manipola il fuoco?”

Si sentiva così stupido. Chiedere a un’ombra gigante, che la sua mente aveva creato in un mondo di fantasia, di aiutarlo a superare il test… bah. Si consolò pensando che tentar non nuoce. Magari l’ombra era la chiave. Regan non aveva la pretesa di conoscere il funzionamento del proprio subconscio, perciò tutto poteva essere.

L’ombra sollevò un dito completo di artiglio e lo abbassò verso la superficie dell’oceano. Essa si dilatò e un vortice discese verso Regan, accompagnando l’incedere del dito. Non seppe cosa lo spinse a protendere a sua volta una mano. Appena avvenne il contatto, un boato riecheggiò nella landa desolata.

Fiona osservava attenta Regan. Si era immobilizzato più di un’ora prima e, se non avesse già appurato che respirava ancora, avrebbe creduto che fosse morto.

Per un bel po’ non ci fu alcun cambiamento, proprio come si aspettava. Il sigillo di annientamento sul soffitto stava compiendo il suo lavoro egregiamente, come aveva fatto poco prima durante il test dell'aria. Poi, però, l’aria attorno a Regan cominciò a sfrigolare, come accade quando un oggetto diventa rovente. La temperatura aumentò. Presto Fiona iniziò a sudare, ma il ragazzo non pareva risentire degli effetti del caldo. I suoi riccioli ricadevano sulla fronte in una zazzera corvina indomabile. Il suo viso pallido, segnato da profonde occhiaie, era asciutto. Persino la sua espressione era pacifica, come se stesse facendo un bel sogno.

In quel momento, un terremoto scosse la terra. Fiona barcollò e si aggrappò a uno scaffale per non cadere. I libri, invece, precipitarono sul pavimento con tonfi sordi. Il lampadario nella sala circolare oscillò in maniera allarmante. Gli incantesimi che circondavano la villa si spezzarono con un boato assordante, scatenando le grida delle streghe radunate in salotto.

“Impossibile…” esalò sconvolta Fiona.

Sheila irruppe in biblioteca e perlustrò l’ambiente con sguardo febbrile: “Fiona, che sta succedendo?!”

“Non avvicinarti!”

Non appena Sheila posò gli occhi su Regan, si mise a boccheggiare scioccata.

Un vortice di fuoco lo avvolgeva da capo a piedi, incenerendo qualsiasi cosa si trovasse ad almeno due passi di distanza. Gli scaffali dietro di lui e il tavolo erano in fiamme. Le lingue infuocate avanzarono rapidamente verso le tende della finestra e sul soffitto, dove un sigillo che Sheila conosceva, ma che non aveva mai visto lì, si stava sgretolando.

“Cos’è quello? Che cosa significa?” indagò, scoccando a Fiona un’occhiata accusatoria.

“Te lo spiego dopo. Ora aiutami a estinguere l’incendio, prima che divampi su tutto il piano!”

Le due streghe cominciarono a recitare incantesimi all’unisono, evocando il potere dell’acqua. L’aria si riempì di umidità e, pochi secondi più tardi, piccole particelle d’acqua calarono sul fuoco per combattere la sua furia selvaggia. Le fiamme ruggirono con più violenza e rinnovarono i loro sforzi.

“Non funziona!” urlò Sheila.

“Chiama gli altri, ci serve più potere.”

“Regan, fermati!”

“Non ti sente, è in trance. Va’, sbrigati!”

Fiona attinse alle sue riserve di energia e scagliò una potente ondata di particelle d’acqua direttamente su Regan. Spesse volute di fumo si alzarono, ma il fuoco, in ritorsione, bruciò il resto dell’ossigeno. Fiona tossì e cadde in ginocchio.

Sheila tornò con altre dieci streghe al seguito. Non fecero domande, mettendosi subito all’opera. Unirono le loro voci in un canto e le parole dell’incantesimo rotolarono fuori dalle loro labbra veloci e chiare. Evocarono un tornado d’acqua e lo sguinzagliarono contro Regan, che venne colpito in pieno e scaraventato fuori dalla finestra. Il vetro si frantumò in una miriade di schegge.

Le fiamme nella biblioteca si estinsero in una manciata di attimi, ma fuori, in giardino, Regan continuava a produrle senza sosta. Lambirono le siepi e i cespugli, annerirono l’erba e il terreno, in un inferno incandescente che non sembrava propenso ad accettare la sconfitta.

Le streghe si misero in fila di fronte alla finestra, Fiona in cima. Posarono le mani sulle spalle della strega davanti e incanalarono il potere verso la Prima, per darle modo di compiere un incantesimo ancora più forte.

Il cielo si rannuvolò, fulmini e saette squarciarono le nubi e un vento freddo si alzò. Una pioggia fitta si abbatté sulla terra, torrenti e torrenti d’acqua gelida che evaporavano in spirali di fumo non appena venivano a contatto con Regan. Questi era immobile, al centro di un cerchio perfetto di erba morta, ancora immerso nella trance.

Fiona grugnì. Attinse più energia ed evocò una tempesta così violenta da sradicare gli alberi dal suolo e divellere i tetti delle case più vicine. La quantità d’acqua che ricoprì Regan, a quel punto, divenne troppa per il fuoco. Lo videro estinguersi pian piano e svanire, risucchiato nel corpo di Regan. Allora terminarono l’incantesimo e arretrarono, esauste, all’interno della biblioteca.

Sheila corse fuori, ignorando deliberatamente i richiami di Fiona. Incurante della pioggerellina che le inzuppò i vestiti, circumnavigò la casa e raggiunse il cortile sul retro, dove Regan giaceva inerte, in mezzo ai resti del caos che aveva provocato.

Si inginocchiò cauta accanto a lui e allungò una mano per toccarlo. La sua felpa era umida e fresca, intatta, come i pantaloni e le scarpe. Non v’era alcuna ustione a sfregiare la sua pelle candida. Strinse la presa attorno a una delle sue spalle e lo scosse gentilmente.

“Regan. Regan!”

Il ragazzo mugugnò e contrasse il viso in una smorfia.

“Regan! Apri gli occhi.”

Non ricevendo risposta, Sheila lo afferrò da sotto le ascelle e lo tirò su. Aveva una certa età, ma la magia aveva un effetto rinvigorente sul corpo. Non importava quanto in là con gli anni fosse una strega: finché la magia scorreva in lei, la forza fisica non l’avrebbe abbandonata. Così riuscì a sollevare Regan e a portarsi una delle sue braccia attorno al collo per sorreggerlo.

Lo trascinò verso l’entrata della villa e, con l’aiuto di altre due streghe, lo depose su uno dei divani del salotto. Fatto ciò, tutte e tre si riunirono al resto delle streghe in biblioteca.

“Cosa è successo durante il test?” esordì Savannah, la madre di Poppy.

“Ha perso il controllo.” rispose Fiona.

“Un simile potere non dovrebbe vagare libero sulla terra.” borbottò un’altra strega con aria cupa, “Ve l’avevo detto: questo essere è un abominio. Non gli dovrebbe essere permesso di vivere.”

“Fiona, possiamo parlare in privato?” le chiese Sheila, usando il tono più duro del suo repertorio, “E stavolta non accetterò un no come risposta.”

La Prima serrò le labbra e annuì e facendole cenno di seguirla nello studio.

“Lasciate Regan a riposare.” ordinò dalle scale, “Tornate alle vostre case.”

“E gli incantesimi di protezione attorno alla villa?” la interrogò Savannah.

“Li erigerò di nuovo più tardi, non preoccupatevi.”

Quando la porta dello studio si chiuse alle spalle di Sheila, Fiona rilasciò un sospiro esausto. Mentre si massaggiava il collo, si avvicinò al mobile degli alcolici per estrarre due bicchieri e una bottiglia di scotch.

Il suono delle sirene penetrò nella stanza, pur con le finestre chiuse.

Sheila accettò il bicchiere che Fiona le porse, si accomodò su una poltrona e attese che l’altra facesse altrettanto prima di partire all’attacco.

“Ebbene? Perché c’era un sigillo di annientamento sul soffitto? Non c’è mai stato.”

“Era necessario.”

“Ne ho abbastanza delle tue frasette enigmatiche e delle tue bugie!” sbottò, stritolando il bicchiere tra le mani, “Qual è il tuo piano? Che senso ha iniziarlo all’arte occulta, se poi fai di tutto per scoraggiarlo e ostacolare il suo apprendimento? E perché mi hai nascosto la vera causa della morte di Shannon?”

Fiona posò il proprio bicchiere sulla scrivania e si afflosciò sullo schienale della poltrona, voltata di tre quarti verso la finestra. Il suo sguardo era fisso sul panorama esterno. Vigili del fuoco stavano prestando soccorso dove la distruzione della tempesta aveva colpito di più; ambulanze e macchine della polizia sfrecciavano per le strade a sirene spianate; civili si aiutavano a vicenda a spostare rami e veicoli per liberare il passaggio.

“C’è una cosa che non sai, Sheila. Pianificavo di portarmi questo segreto nella tomba, ma le circostanze mi forzano adesso a rivelartelo.”

“Di cosa si tratta?”

Fiona incrociò i suoi occhi e si adombrò: “Il padre di Regan è Stefan Black.”

“Il negromante?!” esclamò inorridita, “Come lo sai?”

“Me lo disse Shannon. Aveva tagliato tutti i ponti con te, ma, di tanto in tanto, continuava ad aggiornare me sui suoi spostamenti e… beh, per fartela breve, lui la lasciò poco prima che lei scoprisse di essere incinta. Scomparve nel nulla, abbandonandola ad Ashwood Port. Quando Shannon si accorse di aspettare un bambino, mi chiamò per chiedermi aiuto. Era al primo mese, eppure i sintomi della gravidanza si erano già manifestati. Così, la raggiunsi.”

Sheila si coprì la bocca con una mano e gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Lei mi confermò che l’ultimo uomo con cui era stata era Stefan Black.”

“Menzogne!” sibilò indignata, “Lei non avrebbe mai… mia figlia non… con uno sporco negromante, per giunta! No, non la mia Shannon.”

“Sheila…” Fiona si umettò le labbra e la fissò intensamente, “Stefan non era un negromante.”

Sheila ricambiò il suo sguardo con uno colmo di smarrimento, combattuta tra il desiderio di sapere e quello di tapparsi le orecchie.

“In che senso…?”

“Quando la visitai, capii subito che il bambino non era umano. La creatura che Shannon portava in grembo… Regan è sempre stato un mostro. Cercai di convincerla ad abortire, ma lei non volle sentire ragioni. Pareva sotto un l’effetto di un incantesimo. Mi disse che il suo bambino era innocente, che non era colpa sua se aveva ereditato la natura del padre…”

“Che genere di natura? Fiona, cos’era Stefan?”

“Un demone.”

 
*
 
Era da poco passata la mezzanotte, ma le strade principali erano ancora abbastanza trafficate. Regan percorse di soppiatto i vicoli secondari, attento a restare nell’ombra e non emettere un fiato. I piedi nudi non facevano rumore sull’asfalto, i suoi movimenti erano aggraziati e silenziosi come quelli di un felino. Indossava solo un paio di pantaloni della tuta e una canottiera bianca, ma, nonostante fosse dicembre, non percepiva il freddo.

I suoi sensi erano sovraccarichi. La sete di sangue premeva e graffiava nel suo sterno, simile a una belva inferocita. Le sue narici, sature degli odori più disparati, fremevano a ogni passo, conducendolo sempre più vicino alla meta. I muscoli si muovevano col pilota automatico, i pensieri erano annebbiati e gli occhi erano vigili, animati da una scintilla ferale.

Non era più un ragazzino alla soglia della pubertà, ma un predatore a caccia.

Quando giunse in prossimità dell’ospedale, inalò l’aroma ferroso del sangue a pieni polmoni. La salivazione aumentò all’istante, i canini si allungarono e i muscoli guizzarono, pronti a scattare.

Evitò le entrate principali, optando per acquattarsi accanto a una delle porte riservate al personale. Il vicolo in cui si affacciava non era frequentato e nessun mezzo poteva passare. Era il posto perfetto per attendere l’arrivo di una preda.

E così, Regan aspettò. Presto perse la nozione del tempo, focalizzato soltanto sulla porta e le entrate del vicolo. La luce verde al neon sopra la porta era l’unica fonte di luce, poiché quelle dei lampioni delle strade intorno non riuscivano a penetrare l’oscurità fino a lì.

Ad un tratto, la porta si aprì e ne uscì una giovane donna. Indossava la divisa blu da infermiera, con lo stetoscopio appeso al collo e il tesserino di riconoscimento attaccato al petto. I capelli neri erano legati in una coda alta, il viso privo di trucco era pallido e le labbra stirate in una linea sottile. Borse violacee incorniciavano due grandi occhi scuri da cerbiatta.

Regan la vide estrarre da una tasca un pacchetto di sigarette. Le mani le tremavano e il suo respiro era irregolare, come se fosse sull’orlo del pianto. Tutto ciò che Regan sentiva era la melodia del suo sangue e il ritmo ipnotico del suo battito.

Deglutì la saliva in eccesso ed elaborò una strategia. Non poteva nutrirsi di lei in quel vicolo, chiunque avrebbe potuto scoprirli. Quindi avrebbe dovuto attirarla in un luogo isolato. Ma come? E dove? Un’idea gli balenò fulminea nella mente e ghignò famelico nel buio.

Non appena l’infermiera spense la sigaretta sotto la scarpa, Regan le comparve a fianco, cercando di farsi più piccolo possibile. Non gli occorse chissà quanto sforzo per apparire fragile e innocuo, data la sua magrezza e l’aria da cucciolo abbandonato. Inoltre, adesso sfoggiava pure del sangue sulla pelle, là dove ore prima la frusta di sua nonna si era abbattuta. I tagli si erano rimarginati, ma il segno era rimasto.

“Oh, cazzo!” sbottò l’infermiera, sussultando vistosamente, “Scusa, mi hai spaventata… oddio, cosa ti è successo?”

Regan fece tremolare il labbro inferiore. Continuò a guardare in basso per dare tempo alle lacrime di ammassarsi dietro le ciglia, in modo tale che la recita risultasse più convincente.

La donna si inginocchiò di fronte a lui e gli sorrise: “Tranquillo, sei al sicuro. Come ti chiami?”

“Ryan…”

“Okay, Ryan. Io sono Zoe. Che ne dici di venire dentro con me, così ti do un’occhiata?”

“No… non mi piacciono gli ospedali… ti prego, non voglio…” singhiozzò.

“D’accordo. Intanto, dimmi: c’è qualcuno che posso chiamare? I tuoi genitori?”

“Non ce li ho...”

“Oh. Allora chi si prende cura di te?”

Regan scosse il capo, si strinse nelle spalle e tirò su col naso.

L’infermiera sospirò e guardò l’orologio sul polso: “Sei fortunato, il mio turno è finito. Ti va bene se ti porto a casa mia per medicarti e poi ti accompagno alla centrale di polizia?”

“Po-polizia?!”

“Okay, okay, calmati. Per stanotte starai con me, va bene? Ma domattina andremo in centrale, altrimenti mi accuseranno di rapimento di minore. Lo capisci, vero?”

Regan annuì.

“Ottimo. Quanti anni hai, piccolo?”

“Undici.”

“Okay. Vieni, ti porto alla macchina. Aspetterai dentro mentre io vado a recuperare la mia borsa. Farò in fretta, promesso.”

Quando Zoe si sporse per prendergli una mano, Regan si scansò. Con quella mossa ottenne l’effetto desiderato, ossia farle credere che avesse paura. I lividi lasciati dalle corde sui polsi contribuirono a convincerla che qualcuno avesse abusato di lui e per questo non apprezzasse il contatto fisico, poiché lo associava al dolore. In realtà, voleva solo evitare che la sua temperatura corporea la insospettisse.

“Puoi fidarti, Ryan, non ti farò del male.” lo rassicurò, “Perdonami se ti ho spaventato.”

Gli sorrise e lo invitò a seguirla nel parcheggio. Regan lo fece senza esitare, mantenendo la testa bassa per nascondere il lieve ghigno che gli curvava le labbra.

Venti minuti dopo, Zoe spense il motore della macchina davanti a una graziosa casetta dai muri bianchi. Si ergeva su un solo piano e non aveva giardino. Le finestre erano buie, le tende tirate e all’interno Regan non udì altro che silenzio, segno che l’infermiera viveva sola. Perfetto.

“Vieni, entra.” lo incoraggiò con un altro sorriso.

A giudicare dal suo comportamento durante il tragitto, in cui lo aveva riempito di chiacchiere superficiali per metterlo a suo agio, era caduta in pieno nella trappola.

Regan fu lesto a obbedire, smanioso di rifugiarsi in casa per evitare di farsi scorgere dai vicini della donna. Le abitazioni adiacenti erano immerse nell’oscurità, ma la prudenza non era mai troppa.

Venne condotto in salotto e fatto sedere sul divano. Mentre Zoe andava a prendere il kit di primo soccorso in bagno, Regan ne approfittò per esaminare meglio il proprio corpo. Deformò le unghie in piccoli artigli e provvide a rinnovare i tagli dove il sangue gli macchiava la pelle. Non li fece troppo profondi, dato che Zoe li aveva osservati di sottecchi già parecchie volte da quando l’aveva avvicinata nel vicolo. Piccole stille di sangue sbocciarono dalle ferite e imbrattarono la pelle.

Zoe tornò e si sedette sul tavolino di fronte a lui. Poi aprì il kit e ispezionò i tagli con cipiglio critico, ma senza abbandonare il sorriso.

“Sono ferite superficiali, non rimarrà neanche la cicatrice. Adesso ti disinfetto, va bene?”

Indossò i guanti di lattice, prese cotone e alcool e si mise al lavoro. Una volta terminato il compito, applicò bende e cerotti sulle zone interessate. I suoi gesti erano esperti, misurati e attenti, come se lo avesse fatto un milione di volte.

“Ecco qua. Hai sete, fame?”

Regan si costrinse a tenere a bada l’istinto di strapparle la giugulare e negò: “Sono a posto, grazie. Sono solo stanco.”

“Allora ti preparo il letto. Ti sta bene dormire qui? Il divano si può aprire ed è spazioso.”

“Sì, grazie.”

“Perfetto. Torno subito con cuscino e lenzuola. Se hai bisogno del bagno, è l’ultima porta in fondo a quel corridoio.”

Regan accolse la proposta. Si chiuse in bagno e ascoltò i rumori provenienti dal salotto, così da uscire non appena Zoe avesse finito di preparare il letto. Rimase immobile come una statua, senza muovere un solo muscolo. Pareva un manichino privo di vita, pallido come uno spettro. Si sarebbe volentieri avvicinato al lavandino per lavarsi mani e viso, tanto per passare il tempo, ma non voleva rischiare di lasciare impronte digitali in giro.

Dieci minuti dopo era sdraiato sul divano-letto, sotto tre diverse coperte di lana.

“Comodo?” gli chiese Zoe.

“Sì, grazie.”

“Okay. Buonanotte, Ryan. Per qualsiasi cosa, la mia camera è la porta accanto al bagno, sulla destra.”

Regan annuì. La guardò spegnere la luce del salotto e ritirarsi nel corridoio, per poi sparire oltre la porta sulla destra. A quel punto, tendendo bene le orecchie, attese che Zoe si coricasse.

Passò circa un’ora prima che il respiro di Zoe si facesse regolare e profondo. Regan scostò le coperte, si alzò e si affacciò sul corridoio buio. Era molto tardi, il silenzio regnava sovrano. Le tende delle stanze che poteva scorgere dalla sua posizione erano tutte tirate, perciò non correva alcun pericolo di venire spiato da qualche vicino nottambulo.

La sete si era acuita così tanto che era praticamente impossibile tentare di controllarla. Se avesse prestato attenzione, si sarebbe accorto che il suo cuore batteva una volta ogni due minuti, che aveva smesso di respirare e che il suo corpo non emanava più calore. Era un cadavere animato da un istinto primitivo che doveva saziare e subito, altrimenti sarebbe impazzito.

Impugnò la maniglia attraverso la stoffa della canottiera e si intrufolò nella camera di Zoe, silenzioso come un’ombra. Fermandosi ai piedi del letto, si concesse qualche secondo per osservarla dormire. Aveva un’aria serena, rilassata, ignara del mostro che torreggiava su di lei e dell’orrenda fine che la aspettava. I capelli neri erano sciolti sul cuscino e la maglia del pigiama le fasciava spalle e braccia. Il resto del suo corpo era nascosto sotto il piumone, ma Regan poteva indovinare facilmente le sue forme snelle. Era una bella donna, gentile, con un grande cuore. Era un vero peccato che avesse incontrato proprio lei.

Si inumidì le labbra, poggiò i palmi ai lati della sua testa e si chinò verso il suo collo, annusando l’odore della sua pelle. Spalancò le fauci e, in un attimo, conficcò le zanne nella vena pulsante. Infastidito dagli improvvisi e bruschi tentativi di liberarsi di Zoe, le tappò la bocca con una mano e succhiò con più voracità, inghiottendo con mugugni deliziati il liquido caldo che gli inondava la gola a fiotti.

Durò pochi minuti. Regan, inebriato e delirante, non si rese conto del tempo che passava. Non appena udì il cuore di Zoe cessare di battere e il suo corpo smettere di lottare, capì di doversi staccare. Non sapeva perché il suo istinto gli avesse suggerito una linea d’azione simile, poiché nelle vene dell’infermiera c’era ancora sangue. Obbedì riluttante e si pulì le labbra sporche con la lingua. Quando appurò di non aver sprecato neanche una goccia, ghignò compiaciuto e si chinò di nuovo per lappare la ferita, che si rimarginò dopo poco.

Fu allora che l’adrenalina lo abbandonò. Si sentiva forte, invincibile, ma stava tornando anche la lucidità. Fissò sconvolto i sottili rivoli di sangue che sporcavano la federa del cuscino. Si coprì la bocca per reprimere un conato e arretrò barcollando, la vista appannata a causa delle lacrime, domandandosi in preda al panico cosa avrebbe dovuto fare. Chiamare la polizia era fuori questione, come anche l’ambulanza. Non poteva coinvolgere le autorità, questo era ovvio. Restava solo un’opzione.

Prima che potesse afferrare il cellulare di Zoe per chiamare Deirdre, il buio inghiottì la camera, e Regan con essa. Si ritrovò avvolto dall’oscurità, ignaro di che direzione prendere.

Un rumore ritmico, come di passi in avvicinamento, lo spinsero a voltarsi. Scorse una figura venirgli incontro. Sembrava un ragazzo. Era nudo e pallido. Vestiva con degli abiti rossi, lacerati e pieni di buchi. No, non erano abiti, ma sangue. Il suo intero corpo era ricoperto di sangue. Così magro, scheletrico, che le costole, le clavicole e le ossa iliache sporgevano come spigoli affilati.

Quando la distanza si accorciò, realizzò con sgomento che era lui, ma di un’età compresa tra i sedici e diciotto anni. I capelli erano corti come i suoi, con la frangia appena un po’ più lunga. Le iridi ricordavano i ghiacciai perenni, pervasi da un gelo artico e una scintilla ferale, circondati da occhiaie violacee. Dalle sue labbra spuntavano zanne aguzze, anch’esse sporche di sangue.

Confuso, abbassò lo sguardo per studiare le proprie mani. Notò che erano leggermente più scure del normale, come se la sua carnagione fosse passata da chiara a olivastra. Erano pure calde. Il suo corpo emanava un tepore umano che non gli era per nulla familiare. Ora che si osservava, vide di essere nudo come la sua controparte.

“Chi sei?” gli chiese.

“Vampiro.” rispose l’altro Regan.

La sua voce era roca, graffiante. Somigliava al suono che produceva una sega sulla pietra.

Regan lo squadrò sbigottito. Capì che quel mucchietto d’ossa rachitico e inquietante era la parte di sé che stava lasciando morire di fame, denutrita, torturata e sofferente sin dalla nascita. Rabbrividì e, per qualche ragione, gli venne da piangere, in pena per lui, per se stesso, per loro.

“Se tu sei il vampiro, io chi sono?”

“Stregone.”

In effetti, aveva senso. Possedeva due nature, quindi era ovvio che ci fossero due Regan.

Il buio venne rischiarato da una fiammella. Entrambi si girarono a fissarla con palese perplessità. Sotto i loro sguardi, la fiamma si ingrandì. O forse furono loro ad avvicinarsi ad essa. Lentamente, una figura apparve al suo interno. Braccia, gambe, busto, spalle e testa, la figura emerse dal fuoco con un tintinnio di campanelle.

Regan strizzò le palpebre e si sforzò di distinguere il suo aspetto nelle tenebre, ma la figura stessa pareva fatta di tenebra. La pelle, infatti, era nera come la pece, i contorni dei muscoli si fondevano col buio e i lineamenti del viso erano invisibili. L’unica cosa che arguì fu che era un uomo, snello e alto.

Lingue di fuoco danzavano sul suo corpo nudo in prossimità dei genitali e sulle cosce. Indossava gioielli d’oro a polsi, braccia e caviglie. Attorno al collo sfoggiava un girocollo dorato a più anelli, che lo fasciava dalla gola al torace. Sulla testa aveva una specie di copricapo a sette aculei, disposti a raggera, con rubini incastonati nell’oro. No, non proprio. L’oro era… erano ossa. Ossicini intrecciati, infusi nell’oro e abbelliti con rubini.

Avanzò fino a fermarsi davanti a Regan. I suoi movimenti erano aggraziati e flessuosi, pregni di un’eleganza che scaturiva da ogni singolo poro della sua figura. Aveva un che di regale.

“E tu chi sei?” chiese Regan, sempre più frastornato.

L’uomo ombra ingioiellato gesticolò, ma né Regan né il suo doppio vampiro capirono cosa stesse dicendo. Allora schioccò le dita e dal silenzio eruppe il rumore cadenzato di un tamburo.

A Regan ricordava qualcosa. Gli bastò ascoltare finché un flauto e uno strumento a corde non si unirono alle percussioni per realizzare che era la melodia orientale del suo incubo. Si guardò intorno, aspettandosi di vedere un grammofono. A parte lui, il Regan vampiro e l’uomo ombra ingioiellato avvolto dalle fiamme, però, non c’era nient’altro che fitta oscurità.

Lo scenario cambiò bruscamente. Non ci fu né uno spostamento d’aria né alcun segnale prima che il buio venisse rimpiazzato da un rosso deserto di rocce e sabbia, che si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione. Il cielo notturno comparve sopra le loro teste, punteggiato di stelle. Un fuoco si accese poco lontano e, attorno ad esso, si delinearono tre sagome umane.

C’erano tre uomini seduti in cerchio, intenti a scrutare le fiamme. I loro visi erano rugosi e incavati, il mento ricoperto di barba e il cranio avvolto in un turbante lercio. Anche i loro vestiti erano sporchi e a brandelli. I piedi erano scalzi, le mani piene di calli.

In sottofondo, il tombak, il ney e il qanun, suonati da mani invisibili, continuavano a diffondere la melodia.

Uno dei tre uomini sollevò la testa e alzò gli occhi verso il firmamento. La sua espressione era triste, affranta. Le fiamme illuminarono meglio i solchi sulle sue guance, rivelando due strisce di sangue che partivano dagli zigomi e terminavano nella barba, nell’imitazione di due scie di lacrime. Regan si accorse che pure le rocce attorno a loro erano imbrattate di sangue.

L’uomo iniziò a cantare, accompagnando la musica con una voce profonda, simile a un lamento, in una lingua che Regan non conosceva, ma che, in qualche modo, comprendeva.

 
Ascolta il canto, il canto di Aharman
Che dall’abisso sorse in forma di rettile
Che non parla, non pensa, non vede
Che tutto sente e tocca e possiede.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman.
Che dall’abisso sorse in forma di rettile
Che ombre di sé dal buio creò
Che sulla terra, tra le genti, sguinzagliò.
 
Quando si chetò, il ritmo delle percussioni accelerò. La pausa durò forse un minuto, poi il secondo uomo intonò un altro paio di strofe con voce tagliente. I suoi occhi neri, incassati in un ovale affilato, erano fissi sulla danza delle fiamme. I tratti del viso erano severi, decisi, riflesso di una forza interiore che il primo uomo aveva perduto. Sulle guance esibiva due linee orizzontali insanguinate.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che creò Akôman, affamato di discordia
Andar, assetato di eresia
Sâvar, messaggero di anarchia
Nâîkîyas, portatore di agonia.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che liberò Zâîrîk, colui che veleni impasta, e Taprêv, colui che li somministra
Tarômat, colui che corrompe, e Mîtôkht, colui che mente
Arask, colui che insidia, e Vîzarêsh, colui che divora
Uda, colui che sporca, e Akâtâsh, colui che consuma.
 
La sua voce sfumò e il tombak riprese il sopravvento. Il ney e il qanun gli arrancarono dietro, diffondendo nell’aria note marcate, più sinistre.
 
Il terzo uomo non sollevò lo sguardo dal proprio grembo. Regan scorse un ghigno sulle labbra dipinte di sangue. La sua voce era più allegra e alta di quella dei suoi due compagni.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che plasmò Zarmân il decrepito e Kîshmak il tiranno
Varenô il lussurioso e Bûshâsp il goloso
Sêg il distruttore e Nîyâz il persecutore
Âz l’avaro e Pûs l’avido.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che incitò Nas a inquinare e Frîftâr a ingannare
Spazg a sbeffeggiare e Arâst a camuffare
Aîghâsh a punire e Bût a profanare
Astô-vîdâd a falciare e Apâôsh a inondare.
 
Gli strumenti si accavallarono gli uni sugli altri per scandire un ritmo frenetico, martellante, come un maratoneta che, in vista del traguardo, dà fondo a tutte le energie per compiere un ultimo scatto.
 
Le voci dei tre uomini si fusero insieme, creando un’armonia soave e, al contempo, inquietante.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che chiamò i Deava e insieme li cucì
che risputò Aeshm e il mondo perì.
 
E il mondo perì
E il mondo perì

E il mondo perì… perì… perì…
 
Regan si premette le mani sulle orecchie e gridò, ma nemmeno le sue urla riuscirono a sovrastare l’eco che gli perforò il cervello.
 
*
 
Sheila smise di respirare per svariati secondi. Quando il bisogno di ossigeno si fece pressante, inspirò e liberò un singhiozzo. Piegata in due sulla poltrona, le unghie conficcate nei braccioli, lottò contro la terribile verità di Fiona facendo leva sull’istinto materno. La sua dolce Shannon non si sarebbe mai unita carnalmente a un demone. Era sempre stata intelligente, sveglia, di sicuro non si sarebbe lasciata ingannare da un figlio del male.

“L’ha manipolata… quel mostro le avrà fatto il lavaggio del cervello!”

“Non è da escludere.” disse Fiona, “Comunque, alla fine decise di tenere il bambino. Sconfitta, tornai qui e attesi sue notizie. Quando esse non giunsero, andai di nuovo a cercarla. Litigammo. Era spaventata, ma determinata più che mai a non abortire. La avvertii che il bambino avrebbe richiamato il male, mettendola in pericolo. Non volle ascoltarmi. Le dissi che, se per caso avesse cambiato idea, le sarebbe bastato chiamarmi. Non lo fece mai. Qualche mese dopo, Shannon morì di parto.”

“Non di parto, ma uccisa da due vampiri!”

“Richiamati dall’abominio che dimorava nel suo ventre!” sibilò Fiona a denti stretti, gli occhi accesi di gelida collera.

Sheila ammutolì, pallida come un fantasma.

“Rifletti. Shannon viveva in un condominio pieno di persone, eppure i vampiri hanno dato la caccia solo a lei. Hanno ignorato tutti gli altri inquilini, puntando a Shannon senza alcuna esitazione. Volevano distruggerla, quasi che anche loro, pur divorati dalla follia omicida, avessero percepito qualcosa di sbagliato nel bambino.”

“Come sai queste cose?” le chiese in un sussurro.

“Ho visto il corpo, prima che lo cremassero. L’hanno dilaniata. Non avevo mai assistito a una simile crudeltà. Quelli non erano vampiri, ma bestie. Bestie prive di intelletto, guidate dalla sete di sangue e da un bisogno primitivo di morte. È per questo che ti ho mentito, Sheila. Non volevo darti altro dolore… non volevo…”

Sheila si asciugò sbrigativa le lacrime che le rigavano le guance. Inspirò e deglutì il groppo che le si era formato in gola, sforzandosi di trovare le parole.

“Sapevi che Regan era sopravvissuto?”

“No, ma circa tre anni fa, appena ho sentito il male risvegliarsi, ho cominciato a sospettare. Il mio presentimento si è rivelato fondato, a quanto sembra.”

“Perché lo hai accolto, allora? Cosa speri di ottenere?”

Fiona inghiottì l’ultimo sorso di scotch e si abbandonò a un sospiro esausto.

“Ero sincera quando gli ho proposto l’apprendistato. Volevo metterlo alla prova e vedere con i miei occhi di cosa fosse capace. Avrebbe potuto diventare un valido alleato per la congrega. Ma pare che questo non accadrà mai. Quello non è un ragazzo: è un abominio, il peggiore di tutti.”

“Cos’hai in mente?”

 
*
 
Il silenzio lo avvolse di nuovo, dandogli sollievo. Regan abbassò con cautela le mani e si guardò intorno.

Regan vampiro comparve subito alla sua destra e gli strinse una mano.

L’uomo ombra ingioiellato arrivò da sinistra e intrecciò le dita alle sue.

Sebbene l’identità dell’uomo ombra gli fosse ancora ignota, Regan sapeva che era il pezzo mancante che aveva sempre cercato e mai trovato. Avvertiva anche una specie di chiara consapevolezza, come se avesse acquisito conoscenze che finora lo avevano eluso.

Le fiamme divamparono tutto intorno, una pozza di sangue si allargò sotto i suoi piedi e fumo nero evaporò dalla sua pelle in sottili volute. Regan vampiro e l’uomo ombra scomparvero, il primo sciogliendosi nel sangue e il secondo risucchiato dal vortice di fuoco. Poi, assieme al fumo nero, entrambi si lasciarono riassorbire dentro Regan.

Purtroppo, non poté godersi la sensazione di completezza a lungo.

Un muro di fiamme si levò dal nulla, formando una spessa cupola incandescente intorno a lui. Erano ovunque: sui vestiti, sui muri, sui mobili, sulle persone incatenate al muro da funi invisibili. Le loro grida sovrastavano il crepitio, i loro corpi pieni di piaghe si dimenavano in modo ipnotico.

Come quando si osserva col fiato sospeso un funambolo camminare sulla corda e ci si chiede se perderà l’equilibrio o arriverà incolume dall’altra parte, Regan si domandò: quelle persone si sarebbero accasciate inerti, a un certo punto, o avrebbero continuato a danzare con il fuoco per sempre?

Stranamente, non provava alcuna emozione di fronte a quel macabro spettacolo. Era indifferente alle urla o ai corpi arsi vivi in una lenta agonia. Né rimpianto, né disgusto, né orrore, né rabbia. Vuoto.

All’improvviso, un volto emerse dalle fiamme. Fiona lo fissò con un odio talmente intenso che Regan lo percepì colargli nel sangue alla stregua di acido. Gli occhi della strega erano due biglie nere e profonde, incastonate in una maschera di ustioni, carne viva e ossa.

L’istante successivo, l’incendio divorò tutto quanto.

 
*
 
“Dovrò parlare con il Consiglio per discutere dei dettagli, ma la decisione è presa, Sheila. Non esistono alternative. Ti prego di capire.”

“Che cosa vuoi fargli?”

Fiona trafisse Sheila con un’occhiata raggelante. Nella penombra della stanza, il pallore del suo incarnato, il rosso dei capelli e il nero delle iridi si accentuarono, facendola assomigliare a una creatura ultraterrena, una dea implacabile e austera.

“Regan deve morire.”









 
  
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