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Autore: Ghen    11/05/2019    3 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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Scusate il ritardo! Ma ecco qui il capitolo in tutta la sua lunghezza. Buona lettura!






47. Ricomincio da qui



Kara si passò una mano sulla fronte. Poi contro la bocca. Sui capelli. Cercava costantemente di tenere calmo il respiro che seguiva l'agitazione dei battiti cardiaci. Erano giorni che il suo cuore non accennava a placarsi. Eppure poteva riprendere a dormire: Rhea era stata arrestata, non le serviva più la scorta del D.A.O. ed era perfino riuscita a dare un esame l'altro ieri. Non lo aveva passato, però era riuscita a presentarsi. Erano stati comprensivi: le avevano dato più tempo considerando che, tra Rhea che cercava di ucciderla e lo studio, aveva dato più peso alla prima. E Lena… Qualcosa aveva ripreso a funzionare tra loro e, al solo pensiero, le si coloravano le gote. Erano un po' più vicine adesso e se riusciva a concentrarsi, era ancora capace di sentire il sapore della sua lingua e le sue labbra contro la bocca. Voleva poter dire che ora erano serene e che presto sarebbero tornare a stare insieme ufficialmente perché tra loro, in realtà, non si era mai interrotto nulla per davvero ma, seppure Lena non se la fosse presa per ciò che le aveva detto nei bagni dopo la partita, sapeva di averla ferita e forse era anche quel pensiero a non farla dormire la notte. Ne avevano riparlato, erano consapevoli entrambe che ciò che le aveva detto era un'assurdità, e le aveva chiesto scusa naturalmente, ma Lena aveva annuito e se n'era andata, chiudendo la questione. Era come se gliel'avesse lasciata passare perché, in fondo, anche lei aveva qualcosa di cui farsi perdonare. Non sapeva davvero come comportarsi. Intanto, il suo cuore restava in perenne agitazione. E fra breve ci sarebbe stato il processo di Rhea e l'avrebbero chiamata a deporre; il pensiero non la rendeva di certo allegra. E infine lei. Siobhan. Sospirò, alzando il viso verso il lettino d'ospedale: Siobhan dormiva, la flebo attaccata a un braccio, gli occhi infossati e viola nelle borse, pallida. L'avevano dichiarata fuori pericolo, era stata operata, ma Kara si sentiva responsabile per ciò che le era successo: lei le aveva chiesto aiuto ma non era andata. C'era mancato davvero poco; se Barry non l'avesse trovata e chiamato ininterrottamente i soccorsi… Si sedette sulla sedia accanto al lettino e si mise comoda, chiudendo gli occhi.
«Sei ancora qui?». Kara li riaprì subito, vedendo Siobhan accigliarsi. «Senti un po', non è che ti sarai innamorata di me, spero». Piegò la faccia in disgusto, scoccandole un'occhiataccia.
«Ti piacerebbe», rimbeccò, estraendo un sorriso gentile.
«Non sono interessata. Soprattutto se non hai un dolce per me», la guardò con occhi grandi, squadrandola. «Non hai un dolce per me nascosto sotto quella camicetta giallo semaforo, vero?». Kara arrossì e Siobhan scrollò gli occhi. «Oh, dimenticavo che sei una bimba delle medie. Un dolce, Danvers, con la glassa al cioccolato ricoperta da caramello».
«Il dottore ha detto-».
«Chi se ne importa del dottore», provò a urlare, ma si resse un fianco dal dolore e, stringendo i denti, bloccò con il palmo di una mano lei che si avvicinava a soccorrerla. «Gli spazi personali, rispetta gli spazi personali. Sto bene. Sono solamente stufa di stare qui e non sono nemmeno a dieta, cielo, sto diventando un tutt'uno con queste pappette insapore. Dove vai?», sgranò gli occhi quando la scorse alzarsi dalla sedia e sollevare la borsa in spalla.
«A prendere del cibo».
«Oh, finalmente».
«Per me, non per te», uscì dalla cuccetta, sentendola bofonchiare. Cambiò piano, prendendo l'ascensore. Si guardò attorno, poi infilò le monetine nella macchinetta e aprì la busta della merendina, reggendosi lo stomaco. Si appoggiò contro il muro e prese fiato, pensando a quanto sentisse la mancanza delle pillole, ora che era scoperta. Le avevano come tenuto la mano quando capiva di essere arrivata al limite e coccolata, proteggendola dai sentimenti ingombranti, ma da quando era successo l'attentato, non le aveva più prese. Credeva che non ne avrebbe più avuto bisogno, felice di provare di nuovo i sentimenti per Lena. Era pur vero, però, che di tanto in tanto le mancavano quando scendeva la sera e il cervello la costringeva a pensare, o quando guardava Siobhan sul lettino e ricordava di averla lasciata al suo destino. Il giorno prima, Winn era andato a trovarla e per farsi forte davanti a Siobhan, aveva pianto solo una volta fuori dalla porta, su una spalla di Kara. Se non altro, non l'aveva presa seriamente quando gli chiese chi fosse. Era così in pena per lei che guardandolo, Kara non era riuscita a non pensare che aveva rischiato di morire mentre era al telefono con lei. Accidenti.
«Non creano dipendenza», le aveva detto Maxwell Lord una volta tornata da lui. «È lei che sente di averne bisogno: qualcosa la logora e le mie pillole la anestetizzano. Ne ha prese troppe con poca distanza l'una dall'altra, avrebbero potuto farle male, a cosa pensava? Forse dovrebbe provare ad affrontare i suoi problemi, invece di nasconderli sotto al tappeto». L'aveva guardata mentre scuoteva la testa, alzando gli occhi. «Penso sia duro sentirselo dire, ma… in questo modo, cara la mia piccola Danvers, sta solo ritardando qualcosa. Più tempo passa, più grande diventa il problema».
«Non sono fatti suoi», gli aveva risposto, aggrottando la fronte.
«No, certo. In fondo, posso studiare meglio le pillole grazie al suo contributo, non che voglia lamentarmi, si intende», gli aveva sorriso e Roulette, vicino, gli aveva passato una fiala per il prelievo. «Volevo solo essere gentile, o di aiuto, ma tant'è…», aveva scrollato le spalle e si era alzato dalla sedia, pronto per pungerle il braccio. L'aveva vista fare una smorfia, al momento di toccare l'ago.
«Mh, sì, a questo proposito… Ho deciso di smettere».
Lui si era accigliato, guardandola con attenzione. «Ha deciso di affrontare i suoi problemi, dunque».
«Non ho nessun problema da affrontare», aveva sbottato, tenendo d'occhio la boccetta col suo sangue che veniva etichettata. «Questa è l'ultima, Lord. Se la faccia bastare».
«Va bene», aveva sorriso, alzandosi in piedi. «Capisco. Sono un po' amareggiato, ma chi non lo sarebbe al posto mio, stava diventando quasi essenziale per lo sviluppo della kryptonite rossa», aveva riso. «Ah, una cosa. Considerando che ne ha assunto una dose massiccia, sarebbe il caso che-».
«Andrò in astinenza?».
Maxwell le aveva scoccato un'occhiata. «Nausea, fastidi generici. Può darsi che sentirà di essere più sensibile del solito. Potrebbe raggiungermi e farsi tenere sotto osservazione».
«No, grazie», aveva decretato e si era alzata in piedi, dandogli le spalle e infilando il giubbotto.
«Si riguardi, allora. Ah! Prima che se ne vada: come sta sua sorella? Intendo la Danvers», aveva sogghignato e Kara aggrottato la fronte, cercando di capire il perché del suo strano tono di voce.
«Neanche questi sono fatti suoi».
Ingurgitò l'ultimo boccone e risalì le scale, fermandosi a un altro piano. La merendina le andò quasi di traverso quando udì i pianti di una donna. Si accostò, affacciandosi alla porta aperta della cuccetta dove riposava Faora Hui, ancora in coma. La donna che piangeva le stava accanto, su una sedia, e un uomo cercava di rassicurarla massaggiandole le spalle: quando la intravide affacciata, andò alla porta e la chiuse.
Oh. Aveva quasi voglia di vomitare, adesso, e si mantenne lo stomaco, sentendo il suo cuore farsi agitato, il respiro accelerato. Corse via, tornando verso le scale. Quella poliziotta aveva cercato di ucciderla e forse non doveva provare pena per lei, ma sentire sua madre piangere era tremendo.
Camminando per il corridoio verso la camera di Siobhan, udì subito delle voci: «Qualcuno che finalmente riesce a capirmi».
Kara avanzò verso la porta e la vide stringere con mani piene un grosso panino e spalancare la bocca. Corse per strapparglielo appena in tempo. «Salame?», strabuzzò gli occhi, guardando Leslie Willis con rimprovero, accanto a Lena. «Volevi ucciderla?».
«Sei una guastafeste, Danvers», si lamentò Siobhan. «Portatevela appresso quando andate, vi prego. È qui tutti i giorni, non la sopporto più». Riprese il panino e la guardò con odio, scoprendo che le aveva tolto il companatico. «Te lo sei mangiata? Sei una schifosa egoista». Le riservò un'acida occhiata ma morse comunque il pane, piangendo nel coglierne il sapore.
Kara le fece la linguaccia e adocchiò solo di sfuggita, abbassando gli occhi, che Lena sorrise.
«Ha ragione, pulcino: sei una guastafeste», brontolò Leslie, «Non gliel'avrei fatto mangiare seriamente, quello era il mio dannato pranzo».
«Coba?», mormorò l'altra con la bocca piena.
Lena sorrise di nuovo e Kara si accorse, solo in quel momento, che lo faceva per Leslie. Sorrideva per lei. Oh, accidenti… «L-Lena, posso parlarti un momento?». Le annuì e uscirono fuori, socchiudendo la porta.
«Senti, umh… T-Ti hanno già, sì, chiamato per rilasciare la testimonianza?», gesticolò e strinse le labbra.
«Sono andata ieri», confessò, grattandosi in fronte. «Con mia madre».
«Oh», sbottò. Perché non glielo aveva detto? «Ah… bene. I-Io devo andare oggi, m-mi hanno chiamato oggi, sì», deglutì ancora, cercando di fermare il suo balbettare.
«Oh», ansimò Lena, annuendo. «Oggi… Bene». Perché non glielo aveva detto subito? «Comunque», mantenne il suo tono serio, «ho ascoltato una strana conversazione tra il Generale e mia madre, ieri».
Ricordava che erano in attesa in corridoio: Lillian a qualche metro da lei, perché Lena non voleva che pensasse che l'aveva perdonata o qualcosa di simile solo per aver rischiato di venire uccisa da Rhea; non cambiava quanto fatto in precedenza. Il Generale Zod le aveva raggiunte e si era affiancato alla donna.
«Che cosa devo dire?», gli aveva chiesto Lillian. La voce fine, quasi un sussurro. Non le vedevano, ma si trovavano all'interno della base del D.A.O. e le telecamere dovevano essere ovunque.
«Ciò che è successo. Devi solo ricordare che ti chiederanno di ripetere tutto in tribunale», aveva risposto lui con sicurezza. «È finita. È fuori».
«Fuori?».
«È fuori e molto presto lo capirà. Abbiamo chiuso con quella donna, non può toccarci». Le aveva dato una pacca confidenziale e abbassato la testa per un saluto, prima di voltarsi, guardare lei che era dietro sua madre, e andarsene.
«Cosa ne pensi di lui?», domandò Kara, reggendosi lo stomaco.
«Ci ha liberato di Rhea Gand, ma non mi fido».
«Io neppure», annuì. «Forse non è un pericolo in questo istante, ma non mi darò pace fino a quando l'organizzazione tutta non verrà smantellata».
Lena sapeva che diceva il vero e, seppure era felice che Zod avesse fermato Rhea, le dispiaceva di non poter essere stata lei a farlo, dimostrando a Kara che poteva mantenere fede alla sua parola. Forse poteva farlo neutralizzando Zod e distruggendo l'organizzazione, proseguendo ciò che aveva iniziato suo padre. Per Kara, per tutte le loro vittime, per il suo stesso padre. Anche se forse non lo conosceva così bene. La vide riaprire la porta per entrare che la fermò, stringendole un braccio con delicatezza: «Stai bene?».
«Cosa?».
«Lo stomaco».
Oh, si stava ancora massaggiando. «Ah, no», tolse la mano all'istante, ridendo, «È solo fame». Non sembrò averla convinta, ma non chiese oltre. Almeno sapeva che Barry non aveva fatto la spia: le aveva detto di averla vista prendere la pillola, prima di ripartire per Central City. E lei, con faccia tosta e balbettando più del dovuto, gli aveva spiegato come prendesse delle medicine per calmare i nervi.
«Non sembrano funzionare», gli aveva risposto lui, in un sorriso. Di sicuro non per come aveva trattato Mike lasciato il furgone con gli uomini di Lillian, pensò. Sapeva di essersi comportata male.
Sentirono Leslie e Siobhan parlare e Lena le trattenne il braccio, mantenendo gli occhi bassi. «E al pranzo di domani, ci sarai?».
«C-Certo», arrossì. «Ci hanno invitate per Pasqua, Eliza farà le uova ripiene e non posso proprio perdermele. Ma… saremo sole con loro», strinse i denti, facendo una smorfia.
«Alex?», esclamò con sorpresa, «So che Lex vuole stare a Metropolis, ma Alex…?».
«È stata invitata dai suoceri: li sta raggiungendo ora, Maggie è lì da ieri».

Alex colpì la radio della macchina due volte per farla partite, gonfiando le guance. Le si rizzavano i peli delle braccia: significava che stava arrivando. Deglutì, tenendo d'occhio la strada bagnata per la recente pioggia. A National City non aveva piovuto, pensò: era distante. Già, distante dalla sicurezza.
«Va bene, Alex. Ci sei già stata, ci hai parlato, va tutto bene. Andrà tutto bene», si disse per infondersi coraggio. Avrebbe dovuto passare una notte lì, la colazione la mattina dopo e il pranzo. Per fortuna, Maggie aveva pensato di proporle di andare a cena in un localino del posto quella sera, se non altro; oltre a restare lontano dai suoi genitori, potevano trascorrere del tempo solo per loro. Una cosa normale dopo tanto, senza preoccuparsi dell'organizzazione o di lavoro.
Il D.A.O. stava lavorando sodo dall'arresto di Rhea Gand: anche se i simpatici agenti degli Affari Interni non avevano speso una parola per scusarsi, finalmente avevano ottenuto la revoca sull'obbligo di fermarsi con l'indagine. L'organizzazione esisteva ufficialmente di nuovo e anche se collegavano a quella donna il comando dell'attentato, sapevano che qualcun altro si nascondeva nell'ombra in attesa di essere consegnato alla giustizia. Il D.A.O. di National City e l'inchiesta sull'organizzazione che durava da anni rimbalzarono su tutti i giornali quando si parlava della vedova del senatore Gand che, ora, oltre al resto, rischiava di essere imputata per il suo omicidio. Cat Grant accettò diversi articoli che ne parlavano da altrettanti diversi punti di vista, tra cui quello di Leslie Willis dal titolo Il marcio e l'odio. Alex aveva avuto occasione di leggerlo, non stupendosi delle parole di riscatto usate per attestare la sua vittoria nei confronti di colei che la voleva morta per censurarla. Sapeva che aveva parlato anche con sua sorella, ora che la sospensione era finita, ma non sapeva cos'avesse in mente per lei.
Rispose a una telefonata di Maggie che si assicurava che non si fosse persa e girò il volante per cambiare strada, iniziando a respirare a pieni bocconi. Ce la poteva fare.
«Questa è la nostra indagine e voi qui siete solo degli ospiti». Alex ricordava quando John lo aveva precisato, riferendosi al capitano Zod della polizia e a quello dell'FBI. «Gand resterà agli arresti qui al D.A.O. fino a quando non sarò io stesso a deciderlo».
«L'indagine sull'omicidio del senatore ha la priorità», gli aveva rimbeccato il terzo, tenendosi più indietro. «Perché non ne fa parola con la presidente? La chiami! La chiami adesso, su».
Si trovavano all'interno della grande sala intorno a un tavolo tondo, con gli agenti che lavoravano ai computer su grandi schermi. Nessuno di loro si era perso il guardarsi attorno di Adrian Zod, fatto accomodare nella tana del nemico. Apparentemente sulle sue, in realtà faceva molta attenzione a tutto ciò che vedeva o sentiva, elaborando; serio e riflessivo, l'uomo aveva preso parola dopo un altro urlo di John, che si era appoggiato contro il tavolo. «Possiamo estendere tutti i capi d'accusa in un unico processo e collaborare, senza contenderci quella donna come un trofeo di caccia. Ne parleremo col procuratore».
Alex aveva avuto i brividi, osservando John Jonzz prendere piano respiro mentre lo squadrava. «Già, perché non collaborare? Può cominciare col dirmi come facesse a sapere dell'attentato prima ancora che si svolgesse. Ah, i suoi uomini infiltrati fra quelli di quella donna, nelle fila degli aspiranti membri dell'organizzazione, che chiaramente lei conosceva. Come dimenticare! E non aveva pensato di fermare l'attentato sul nascere, invece di lasciare che si propagasse, se conosceva la mandante?».
«Abbiamo cercato di limitare i danni».
«Limitare i da-», si era bloccato, «Delle persone sono morte, altre sono state ferite e lei poteva evitarlo», lo aveva accusato, indicandolo.
«Non conoscevo ogni punto dell'attentato, avrei rischiato di peggiorare la situazione. Rhea Gand doveva essere colta sul fatto», aveva prontamente ribattuto.
Al suo fianco, Maggie aveva annuito e Alex aggrottato la fronte, osservandola con preoccupazione mentre i due avevano continuato a battibeccarsi.
«Tengo a ricordarle, signor Jonzz, che non ho tenuto per me l'informazione: l'FBI era a corrente della situazione e-».
L'altro lo aveva interrotto, infastidendolo: «È chiaro che l'FBI sia al corrente molto più che della situazione».
Alex vide l'uomo in giacca e cravatta sistemarsela e allontanarsi di qualche passo, girando lo sguardo. Aveva subito sogghignato: «Guardalo come fa orecchie da mercante».
«L'FBI è sotto il controllo dell'organizzazione», aveva bisbigliato Maggie. «Charlie mi ha detto qualcosa, al riguardo».
«Ha detto cosa?».
«Ma no, niente. Il Generale li tiene in pugno».
«Da quando lo chiami Generale?».
Maggie aveva scrollato le spalle, sorridendo. «Alex, fa parte del gioco: devo essere una di loro, se voglio che funzioni». L'aveva vista scuotere la testa, non certo convinta.
Alex scosse la testa anche nel presente, facendo rallentare la macchina. Aveva ripreso a piovere e si stava avvicinando alla casa. Una cena solo per loro era quello che le serviva per ritrovare la complicità con la sua ragazza. Forse si stava solo creando paranoie inutili e Maggie si avvicinava a loro davvero solo per lavoro, ma la paura che l'organizzazione gliela portasse via non le faceva abbassare la guardia, soprattutto dopo la discussione di quel giorno, quando John le aveva prese da parte per dirle di non indossare più dei microfoni e di fingere di rinunciare alla missione per conto del D.A.O..
«Non giriamoci intorno, signor Jonzz», gli aveva risposto Zod, «So bene che una parte della sua indagine porta il mio nome sopra». Molti agenti avevano smesso di digitare ai computer per voltarsi e ascoltare. «Ha coinvolto una delle mie agenti, cercando di mettermela contro. Un po' subdolo, ma se non altro ho potuto usare la connessione tra voi per avvertire voi stessi dell'attentato. E ha funzionato», aveva rimarcato, innervosendo John.
«Allora perché non parlarne?», aveva alzato le braccia, per poi metterle a conserte. «Sappiamo che fa parte dell'organizzazione, signor Zod. Solo così poteva sapere dell'attentato e lo ha usato per liberarsi di un membro scomodo come Rhea Gand, con la stessa rete che sperava di usare contro di lei. Voleva ucciderla e l'ha ripagata incastrandola».
Avevano visto Dru Zod sorridere per la prima volta. «Ha una fantasia molto vivida, signor Jonzz. Se queste sono le sue convinzioni, lo provi. Fino a quando non avrà una prova che confermi la sua brillante teoria, temo dovrà lavorare con me e con l'FBI al caso della morte del senatore Gand».
John odiava la sua arroganza. Dopo aver detto a Maggie di smettere di portare i microfoni affinché lui si fidasse, si era allontanato rimarcando il fastidio: «Lo prenderemo quel figlio di una buona donna».
Alex parcheggiò l'auto e, coprendosi con le mani la testa per via della pioggia, corse fino alla porta, prendendo fiato prima di suonare il campanello.

L'agente del D.A.O. l'aveva fatta accomodare all'interno di una saletta, dopo un corridoio. C'erano due agenti di guardia, delle sedie e un tavolino basso, nessuna finestra. Si sedette a gambe accavallate e aprì la borsa con sé, ricontrollando per l'ennesima volta se avesse portato il bloc notes degli appunti. Sarebbe stato più facile presentarsi con la pillola rossa in circolo e senza il blocco che sentiva in petto, ma forse la forte sensibilità che sentiva era la chiave per scrivere quell'articolo che, non sapeva se le avrebbe o meno avviato la carriera ma, era probabilmente il punto di svolta della sua vita.
La porta si aprì, pensò fosse arrivato il suo momento e si alzò, ma qualcuno entrò e richiusero subito. Mike Gand si guardava attorno e sbuffò, mettendo le mani nelle tasche dei jeans. Le sorrise, quando la vide.
«E dove sei, adesso?». Non avevano avuto modo di parlarsi dopo l'attentato: come Selina Kyle, nemmeno lui era più tornato al campus e sapeva che per delle ore era stato trattenuto dal D.A.O., poi più nulla.
«A casa», aveva alzato le spalle, mettendo anche lui le gambe incrociate, distendendosi sulla sedia. «Hanno detto che potevo andare e allora… Sto cercando di capire cosa fare, quel posto», scosse la testa, prendendo fiato, «quel posto non fa per me, Kara. E credo che lascerò gli studi».
Lei si accigliò, sentendo un groppo all'altezza della bocca dello stomaco. «È-È per causa mia o-».
«No», si affrettò, «È che neanche quello fa per me! Devo… Devo capire il mio posto nel mondo».
Lei sorrise. Ora Mike era solo: senza di lei, sua madre in prigione, il padre morto, Joyce non sarebbe mai più tornata a lavorare lì, mentre Cat Grant si stava prendendo cura di lei, preparandola per testimoniare. Mike doveva ricominciare. Poi abbassò la testa e lo guardò con la coda dell'occhio. «M-Mi devo scusar-».
«No, non lo devi fare, Kara. Andiamo», rise. «In questi giorni, ho parlato con così tanti poliziotti, avvocati e psicologi che ho capito… Ero così cieco, non vedevo cosa stavi passando anche a causa di mia madre, quanto… quanto questa situazione fosse grande», la guardò negli occhi. «Volevo solo che stessimo insieme e credevo che fosse questo che significasse amare qualcuno, non ti stavo a sentire! Adesso che mia madre è stata arrestata, credo… credo di dover fare qualcosa per me, per la mia vita, ricominciare da qualche parte, da solo», vide Kara deglutire appena sussurrò quelle parole, sapendo che diceva il vero. «Farà male, ma non mi ami più, lo so, devo lasciarti andare. Sei andata avanti senza di me e io come uno sciocco a non capirlo», abbozzò un sorriso. «Non lo volevo vedere. Magari sono io che devo chiedere scusa a te».
«Lo apprezzo», gli regalò un altro sorriso e annuì, stringendogli un braccio. «Come mai qui, oggi?».
«Pensano possa fare il miracolo», strinse le labbra e sorrise. «Mia madre non parla se non tramite gli avvocati e per dire di essere finita in un malinteso».
«Che faccia tosta», brontolò, «Hanno le prove audio».
«Sì, beh, lei dice che quelle prove sono state prese senza autorizzazione e che non saranno ammesse in tribunale. Pensano abbia ragione, probabilmente, o non sarei qui».
«Vuoi strapparle una confessione?».
«Tenterò. Sarà la prima volta che la vedo da quando…».
Gli strinse le mani e si abbracciarono. «Andrò da lei, dopo. Se non dovessi riuscirci tu, con me lo farà».
Quell'ultimo abbraccio, poi lo chiamarono e Kara attese altri pochi minuti. Mentre lui veniva scortato davanti al tavolo che lo divideva da sua madre, lei entrava nella saletta per rilasciare la sua testimonianza sull'attentato, rivivendo il momento in cui lei e Barry Allen avevano trovato il corpo dell'agente assassinato. Ogni dettaglio di quelle ore era importante. Ogni battito del cuore, pensò Mike, deglutendo con terrore nel vedere lo sguardo sorpreso di Rhea; poi commossa si era alzata in piedi per raggiungerlo, fermata dalle manette che la tenevano legata al tavolo e da due agenti vicini. Era rimasto impalato, prima di decidere di sedersi e parlarle. Ogni goccia di sudore che aveva solcato il viso di Kara che correva per raggiungere Lena alla Luthor Corp, con la testa piena di scenari raccapriccianti che si sarebbero potuti avverare da un attimo all'altro. Ogni passo verso la meta sempre più lento, mentre l'effetto della pillola che avrebbe dovuto schermarla da quelle sensazioni scivolava via dal suo corpo. Ogni pensiero di rabbia, nel sentire Rhea dire che lo aveva fatto per lui, per un futuro migliore, ribattendo che lo aveva fatto per lei, per lei e per lei soltanto. Che lui era lì, con Kara. Così com'era presente quando lei aveva sparato a suo padre. Ogni brivido, come quello provato da quella donna nel capire che il figlio diceva il vero, anche se provava a negare e gridare che erano stati loro a farglielo dire. Ogni fitta, pensò Rhea, nel sentire che lui avrebbe testimoniato contro di lei; quella del sapere di essere traditi dal sangue del proprio sangue, e lo pensò anche Mike, perché suo padre non c'era e non sarebbe tornato. Come non sarebbero tornati i genitori di Kara, morti per la sua sete di potere.
Dopo aver testimoniato e giurato che lo avrebbe ripetuto in tribunale, Kara aspettò di poter essere lei a parlare con quella donna, bloc notes in mano. E, questa volta, non si sarebbe fermata. Era pronta ad affrontarla, si disse, reggendosi lo stomaco.
«Un articolo?», aveva chiesto a Cat Grant, nel suo ufficio alla CatCo.
«Un articolo, hai presente, Keira? Quelli per cui vorresti essere assunta?». L'aveva vista arrossire dall'imbarazzo e avvicinarsi di più verso la scrivania, così la signora Grant aveva continuato: «Ricordi quando ti dissi che un giorno ti avrei chiesto di dirmi cosa voleva da te il senatore? Te lo sto chiedendo ora e-ah-ah», l'aveva bloccata con il palmo di una mano bene in vista. «Lo scriverai in questo articolo. Parlerai del senatore, di sua moglie e del tuo rapporto con entrambi, di come abbiano deciso e posto fine alla vita della tua famiglia. Di come abbiano cercato di uccidere te, persona scomoda». L'aveva indicata e Kara era rimasta ferma. «La verità, Kara Danvers. La tua e quella che raccoglierai. Sei pronta! L'articolo uscirà il giorno del processo, te lo assicuro. A dispetto di qualunque verdetto, quella sarà la verità e lo verranno a sapere tutti. A National City. Ovunque».
La verità. Nient'altro che quella.
Entrò in quell'aula dopo aver mangiato qualcosa, sentendo la pressione del sangue salire e la brutta voglia farle girare lo stomaco, scorgendo Rhea che batteva le unghie sul tavolo, scocciata che suo figlio se ne fosse andato ma che le visite non erano finite. La vide cambiare espressione quando si accorse di lei; infastidita, adirata. La odiava più di ogni altra cosa al mondo. Le disse di non aveva nulla da dirle, ma lei sì e sarebbe stata costretta ad ascoltarla. «Mia madre si chiamava Alura Inze ed era una giudice, una di quelle brave. Sapeva fare il suo lavoro e non aveva paura di te. Ma tu sì. E tanta», la guardò negli occhi e Rhea non mosse un sopracciglio. «L'hai fatta uccidere perché non si sarebbe piegata a te, perché con la sua morte potevi dare un segnale ai membri dell'organizzazione, far vedere che potevi occuparti di loro, non è così?». Oh, non avrebbe risposto. «Il segnale doveva essere forte, per questo hai chiesto che fosse fatta esplodere la casa. Lei, mio padre, i miei zii. Quasi dodici ann-».
«Non so di cosa tu stia parlando», le ringhiò contro, ma Kara aveva appena iniziato.
«Basta mentire, sei qui! Credi che i tuoi avvocati riusciranno a farti rilasciare?», aggrottò la fronte, «I soldi non possono tutto, Rhea. Sei fregata! Non hai più i tuoi appoggi, perfino il sindaco non vuole più avere a che fare con te, dopo ciò che hai fatto. Sei con le spalle al muro. Mio cugino ed io siamo scampati a quella sorte per caso», ricominciò, mentre lei la fissava senza espressione. «La notizia di saperci vivi doveva averti fatto andare di traverso i pranzi di Natale degli ultimi anni, immagino», strinse le labbra, incurvando la testa all'indietro mentre riprendeva a camminare davanti al tavolo. Poteva continuare? Sentiva come delle unghie raschiarle lo stomaco e le girò la testa. Ma quella era la resa dei conti, non poteva scappare: «Soprattutto dal momento che quel gesto non ha subito l'effetto sperato, no?», gesticolò, squadrandola. «Perché non sei salita sul trono, ti hanno fregata. Peggio ancora dev'essere stata quando tuo figlio ha presentato la sua ragazza a te e tuo marito», si fermò, le mani sul tavolo. «Me. Ti ricordavo la sconfitta?».
Finalmente si mosse una ruga sul suo viso. Chiese agli agenti di riportarla nella sua cella, ma non sarebbe andata da nessuna parte: era sua.
«Mike mi amava».
«Attenta a quello che dici».
«Oppure?», strinse gli occhi, scrollando le spalle. Non le faceva paura. «Ti dava fastidio che mi amasse, non è vero? Ti ha sempre dato fastidio. Tuo figlio non poteva stare con me, una El; rappresentavo i tuoi sogni infranti. E hai provato a separarci, ma Mike ha preferito allontanare te, invece di me». Non le faceva paura lei, ma quello che rappresentava e quello che le mancava per colpa sua. «Sono riapparsa per rovinarti la vita, vero? Forse-Forse è questo che devi aver pensato! Hai ucciso i miei genitori, ma io ero lì, con tuo figlio, e tu-».
La donna scattò: all'improvviso si lanciò contro il tavolo con ira e gli agenti del D.A.O. si gettarono su di lei per fermarla, a fatica. «È tutta colpa tua», urlò, «Saresti dovuta morire quel giorno con quella sfrontata di tua madre; avrei dovuto farti dare la caccia come un animale! È solo per Lar che non ti ho fatto uccidere quando eri bambina, non avrei dovuto dargli retta! Sei uguale a lei, a tua madre; una rovina per Mike e per me! E giuro che se esco di qui, io lo giuro, ti ucciderò io stessa».
Kara si mantenne indietro, deglutendo. Sentì gli occhi azzurri inumidirsi e la fissò con attenzione, intanto che gli agenti la rimettevano giù con la forza, continuando a dimenarsi. «Sì, Rhea», scosse la testa, per poi alzarla con orgoglio. Non sapeva se sarebbe tornata utile come confessione, ma bastava a se stessa. Ce l'aveva fatta, era una vittoria. «Hai ragione quando dici che sono come mia madre», gonfiò il petto, stringendo un pugno, «Ma tu non uscirai mai più di qui. Ho aspettato anni per questo e ora… ora è finita». Le vennero in mente le parole usate da Zod parlando con Lillian, come le disse Lena. «È finita e te ne renderai conto anche tu». Uscì dalla sala ascoltando le sue grida, capendo che era bastato poco, in fondo, per farla crollare e, quando chiuse la porta, sorrise, scoccando una lacrima.
Per certi versi, era un paradosso: per scrivere la parola fine e ricominciare la sua vita, Kara doveva rivivere tutto quel che era stato. Com'era la sua infanzia prima che i Gand e l'organizzazione gliela portassero via? Era notte e Megan borbottava nel sonno come suo solito mentre lei, davanti alla scrivania e sollevata sulla sedia con gambe incrociate, stendeva la prima bozza dell'articolo. Come sarebbe stato adesso se non avesse conosciuto Mike? Quel figlio avuto da una gravidanza non cercata, portata avanti per volere di Lar, probabilmente l'unico che lei avesse mai amato; ricordò una foto in particolare nel loro salotto, dove lei stringeva il piccolo fra le braccia. Che premeditato scherzo del destino innamorarsi di lui per cercare un futuro e trovare il passato. Ora anche il loro capitolo era finalmente concluso, Kara lo sentiva. A differenza delle altre volte, Mike era pronto per trovare la sua strada e lei per capire come riappropriarsi della propria.
Anche Lena sentiva che con l'avvicinarsi del processo di Rhea si chiudeva una porta per lasciare spazio ad altro. Era il riscatto di Kara, ma anche il primo pezzo dell'organizzazione che veniva sradicato, un passo in più verso lo scoprire cosa ne era stato di suo padre. Fu in quel momento che pensò a Indigo: lei poteva davvero saperne più di lei e non faceva a meno di ricordare quando, la prima volta che l'aveva contattata, le aveva detto di sapere cosa gli era successo. Sarebbe stato il caso di chiederglielo? Poteva fidarsi, arrivate a quel punto?
Provò a chiudere gli occhi, ripensando alla testimonianza che aveva dovuto rilasciare al D.A.O.: di come aveva agito in fretta, aveva visto il suo assistente a terra e dopo aveva digitato la password per aprire un cassetto sulla scrivania, stringere la pistola fredda custodita al suo interno.
«Ha sparato?», le avevano chiesto. «Ha mai sparato, quel giorno, signorina Luthor?».
«No».
«E dove si trova la pistola di suo padre, in questo momento?».
Lei aveva scosso la testa lentamente, con bocca aperta. «Non… Non si è più trovata».
Riaprì gli occhi, deglutendo e rimettendosi a pancia in su, sul letto. Sentiva ancora il freddo metallo della pistola fra le dita. Suo padre avrebbe sparato, nella sua situazione? Era sicura che lo avrebbe fatto.
In casa Sawyer, nel paesino natale di Maggie, neanche lei e Alex chiudevano occhio. Avevano passato una bella sera a cena fuori e avevano provato a distrarsi ma, una volta sdraiate, le loro menti si accesero come un faro sulle questioni irrisolte. Sdraiate sul materasso di un divano letto, controllavano con apprensione che, nel lato opposto della stanza, Jamie dormisse sul lettino. Il suo leggero russare le rassicurava, dandole un senso di protezione. Alex lasciò un bacio sui capelli di Maggie e la strinse più forte a sé. La sentì ridacchiare, a un certo punto.
«Penso che ci abbiano sentite rientrare, prima».
«Sono quel tipo di persone che origliano?».
«Come non ne hai idea, Danvers. Controllano ogni nostra mossa».
Oh, rassicurante. Come se di pensieri non ne avessero altri.

Quando Kara arrivò in villa, fu Lillian ad aprirle. Lo sguardo tirato, doveva sicuramente trattenere il respiro. «Ciao, Kara. Benvenuta».
Mantenendo un improvviso broncio, le passò davanti degnandola di appena un'occhiata, incontrando lo sguardo di Lena davanti all'ingresso. Oh, era già lì. Indossava un abito stretto e i tacchi: perché nessuno le aveva detto che doveva presentarsi in modo formale? Guardando Lillian con la coda dell'occhio, notò che vestiva un tailleur. E perché farlo, poi? Non erano forse in famiglia? Si scambiarono un tepido sorriso e la ragazza sparì, così anche lei si dileguò in cucina. La salutò appena, accidenti. Per quanto ancora tra loro sarebbe stato un continuo alti e bassi?
Sapeva che Marielle non ci sarebbe stata, poteva girare indisturbata in cucina. Aprì il forno e chiuse gli occhi, spalancando le narici e beandosi del buon profumino delle cosce di pollo con contorno di patate e verdure. Ma dov'erano le uova ripiene?
I passi si interruppero davanti all'ingresso ed Eliza si portò le braccia a conserte. «Kara», strillò.
La ragazza si voltò di scatto dallo spavento, con mezzo uovo in bocca e l'altra metà in mano. «Oh, gacie», bofonchiò, masticando. Alla sua espressione confusa, ingoiò in fretta. «Sei vestita come una persona normale». Pantaloni e maglione, di colpo i suoi jeans e camicia non sembrarono più fuori luogo.
«Lasciane per pranzo», le aveva indicato la mano sinistra che, furtiva, stringeva un altro uovo davanti alla teglia. La vide sorriderle e finire la metà nella mano destra, avvicinandosi. «Come sta la tua amica?».
«Amica?».
«La signorina Smythe».
«Amica», rise, con il mezzo uovo in bocca. «Ha iniziato la fisioterapia, presto potrà camminare aiutata dalle stampelle. Si riprenderà alla svelta, vedrai, quella è tipo il diavolo in forma umana».
«È bello che tu le sia così vicino», sorrise con orgoglio e Kara non aggiunse nulla, perdendo per un attimo la sua espressione allegra: lei non sapeva quanto si sentisse in colpa, invece. «Sei una ragazza eccezionale, lo sai. Te lo dico sempre e-».
«Non perdonerò Lillian», la interruppe, facendole serrare le labbra con una smorfia.
«Oh, Kara. Sei tremenda». Le prese le mani e poi, vedendo che erano oleose, le passò un fazzolettino dal piano in cucina, riprendendo le mani pulite con le sue. «Non ti avrei chiesto di perdonarla, questa è una cosa che può venire solo da dentro di te. E hai ragione, lo sai che sarò sempre dalla tua parte», le carezzò una guancia, costringendola a guardarla negli occhi, che Kara aveva abbassato. «Vorrei solo che non ti chiudessi perché-».
«Perché è tua moglie e quindi parte della mia famiglia».
Eliza annuì. «Lillian ha fatto tante cose di cui si vergogna e si pente, sta cercando di ricominciare e-», strinse gli occhi, «Ti ricordi quando ruppi il vaso in argilla di Jeremiah?».
Kara gonfiò le guance. «Ho chiesto scusa mille volte nell'ultimo decennio».
Lei rise. «Non è passato un decennio! Non ti piaceva e lo avevi rotto di proposito, Kara, Jeremiah era molto deluso».
«Lo so, me ne sono- ah. Pentita», si morse un labbro, girando di nuovo lo sguardo.
«Non ti aveva rivolto la parola per tre giorni».
«Almeno un mese».
«Tre giorni, Kara. E gli avevi chiesto scusa perché-».
«Perché ci teneva e non volevo che guardandomi pensasse solo al vaso rotto! Ma, Eliza… Lillian non mi ha rotto un vaso».
«No, infatti. Stavi male per un vaso, pensa a quanto possa star male lei per questo», le strinse le mani con più forza, accarezzandole. «Ci ha nascosto la verità e sta pagando per questo. Non ti chiedo di perdonarla, ma di non pensare continuamente a ciò che ti ha fatto quando la guardi perché ci sta provando e le dispiace. Se non lo fai, è come se non avesse altro da dare come persona, o come membro di questa famiglia», le sorrise. «Senza mettere in conto la rabbia che provi e non meriti». Lena stava entrando e le vide, così si fermò, tornando due passi indietro attenta a non sbattere i tacchi. Voleva andarsene subito ma:
«Forse me la merito».
«Cosa? La rabbia? È per Lena, che lo dici?». Tese le orecchie, appiattendosi al muro. «Come va tra voi?».
«Bene. Sì. Insomma… credo».
«Credi?».
«Forse».
«Kara», udì la voce di Eliza e Lena sospirò, alzando gli occhi al soffitto. «Non avete fatto pace?».
«N-Non abbiamo da far pace», ridacchiò.
«Lei è sicura di sì».
«Te ne ha parlato?». La voce di Kara cambiò tono, diventando più bassa.
«Non proprio, si tiene per sé le cose ma… si intuisce. Ci sta male, Kara». Lena chiuse gli occhi e trattenne il fiato, a quelle parole. «Si sente in colpa, lo so. Sono abituata ad avere a che fare con Lillian e Lena, in confronto, è un libro aperto. Almeno su questo», prese una breve pausa, «E mi chiedo come abbia fatto a non capire molto prima di voi due perché, adesso che lo so, è così palese che…».
«Ho fatto una scemenza».
«Di cosa parli, tesoro?». Lena trattenne il respiro, chiudendo gli occhi.
«N-Non stavo bene e-e ho detto una cosa cattiva. A Lena. La rabbia che provo mi fa comportare da stupida e in quel momento non me ne sono resa conto e-e poi… poi però le ho chiesto scusa, ma non credo che basti».
Anche Eliza cambiò tono di voce. «Erano sincere? Le tue scuse erano sincere?».
«Certo che lo erano», rispose come se si sentì accusare.
«Forse sei tu che non ti perdoni e, per questo, ti sembra che scusarti non sia sufficiente».
Kara non disse nulla per qualche secondo e Lena sospirò, emettendo un verso soffocato in gola. «I-Io la amo, Eliza. L-Lo so che è strano, che non doveva succedere o-».
«Va bene, Kara. Va bene per me».
«Le cose tra noi sono strane, adesso, e vorrei solo… Vorrei solo non averla ferita perché se prima pensavo di avere una cosa da risolvere, con lei, o-ora ne ho due», prese una pausa. Lena intuì che la sua voce si affievoliva ancora, si strozzava: piangeva? «Non si meritava quello che ho detto. E Siobhan…», prese un'altra pausa. «Non sono la brava ragazza che pensi».
«Cosa c'entra lei?».
«Ero al telefono con lei, quando hanno assalito la CatCo. Dovevo raggiungerla, Eliza, ma non l'ho fatto e lei-».
«No», la voce della donna si era fatta categorica, sopra la sua. «Questo ti proibisco anche solo di pensarlo. Ciò che le è successo non è colpa tua».
Lena sospirò, sentendo quelli che dovevano essere singhiozzi. «Sai cosa? Vorrei ricominciare tutto daccapo, con lei».
«Siobhan?».
«Lena. Dimenticare ciò che ha fatto». Lena scosse la testa e si allontanò, piano. «E ciò che le ho detto io».
«Questo è impossibile, Kara. Ma se davvero la ami, saprai cosa fare. Adesso smetti di piangere, dai». Si sorrisero ed Eliza lasciò che rubasse un altro uovo ripieno. «E comunque non ti ho mai ringraziato: quel vaso era orrendo». Finalmente le vide fare un sorriso.
Lillian alzò un sopracciglio con curiosità, scorgendo sua figlia ciondolare verso il salone. «Sei rossa, Lena. Hai sbattuto la faccia da qualche parte o devo supporre ci sia di mezzo Kara?».
Lei serrò le labbra, osservandola sistemare la tavola con le ultime accortezze e piegando i tovaglioli di stoffa: non la vedeva fare una cosa del genere da… ah, mai. «Non parlarmi come se tutto fosse a posto».
«Dovrai perdonarmi, prima o poi. Sono tua madre, Lena. Che ti piaccia oppure no».
«Questo mi rende solo più difficile allontanarmi da te», rimbeccò glaciale.
Lena aveva guardato Lillian, Lillian lei e Kara, Kara aveva guardato Lena, Eliza le figlie e dopo Lillian. Il pranzo era stato lento all'inizio, e silenzioso, dove ognuna di loro ascoltava solo i propri pensieri e il masticare, e tutte il masticare di Kara, che sembrava una macinacaffè, ma soprattutto fu…
«Terribile», sussurrò lei al cellulare, guardandosi intorno: c'era molto chiasso, i bambini nel parco gridavano e correvano alla ricerca delle uova nascoste, era pieno di coppiette e famiglie felici, e lei si era dovuta coprire con un cespuglio per rispondere. «È stato terribile, Alex! Dove sei? Finiranno le uova».
«Siamo vicine, lo so, oggi il tempo non sembra trascorrere e c'è traffico», la sentì sospirare, «Jamie non vedeva l'ora di andare a caccia. Ora dorme».
Kara sventolò l'unico che aveva in mano, trovato lì dietro, pensando che ne avrebbe raccolte altre per lei.
«Comunque», disse Alex, «per quanto terribile, non deve esserlo stato quanto il nostro pranzo».
«Volete fare a gara, per caso?», gonfiò il petto. «Quando Lillian ha ben pensato di tirare fuori l'argomento me e Lena insieme, Eliza ha capito che siamo state intime e si è messa a dire che siamo fortunate a essere entrambe ragazze mentre mangiavamo le uova ripiene, perché-».
«Oh, ha fatto le uova ripiene», sentì Alex in un lamento.
«Che buone», sentì anche Maggie.
«Ragazze? N-Non è quello il punto», sbottò. «Ha parlato di come lei, alla nostra età, doveva pensare alle protezioni».
«Ow», risposero insieme.
«Potete capire l'imbarazzo generale», emise Kara, mettendo un braccio su un fianco. «Comincio a pensare che Lillian non sia l'unica ad alzare il gomito, di tanto in tanto. Però sì», sorrise, «le uova ripiene erano davvero buone».
«Beh, non è che a noi sia andata molto meglio», proseguì Alex, ricordando il pranzo:
La madre di Maggie aveva guardato Jamie, Jamie le polpette, Maggie aveva guardato entrambi i suoi genitori, suo padre Alex e Alex aveva fissato il piatto, seguendo pochi e precisi movimenti per non attirare l'attenzione. Purtroppo, non sarebbe stato sufficiente.
«Sei mai stata con degli uomini, Alex?», aveva chiesto l'uomo e lei era sbiancata, soffocando con un pezzo di carne in bocca.
«Lillian ci ha chiesto se abbiamo avuto degli appuntamenti per capire che volevamo stare insieme», tuonò in uno sbuffo Kara.
«Mio padre ha fatto il paragone tra gli uomini con cui è stata Alex e il mio ex serio», proseguì Maggie.
«Beh, Lillian ha chiesto se abbiamo fatto sesso in villa», continuò, gonfiando le guance. «Beh, n-non con queste parole, ma- Si è fatta capire chiaramente. Molto chiaramente. Eliza era più rossa di noi due e probabilmente anche dei drappi dei toreri alle corride».
«Suo padre ha chiesto se non avessi voluto dei figli», proseguì Alex, «Perché con loro non ne ho avuto».
«E nella nostra camera in casa Danvers. O Danvers-Luthor, insomma. Perché siamo giovani e bla bla».
«E ha continuato- cosa? Avete fatto sesso nella nostra camera?».
Maggie si mise a ridere: «Due ragazze attratte l'una dall'altra che dormono vicine nella stessa stanza: ehi, chi ci avrebbe mai pensato?».
«Certo che ci ho pensato, però-».
Kara arrossì, spalancando gli occhi. «N-Non erano domande da porre, in qualunque caso. E quella camera non è più tua da tempo, sorellona», sbuffò. «Dopo ci ha chiesto se siamo convinte di essere anime gemelle e se saremmo tornate a stare insieme».
«Sì», aveva annuito Kara a quella domanda, «Probabilmente, voglio dire». Si era voltata a Lena che aveva messo i gomiti sul tavolo solo per poggiare la testa e ascoltarla, sfoggiando un ambiguo sorriso. «N-Noi sì, emh», si era leccata le labbra e aggrottato la fronte, cercando di capire che cosa volesse dirle con quello sguardo. «Abbiamo avuto dei… delle difficoltà, un momento, ma-», aveva alzato la forchetta con un boccone pronto, continuando ad annuire, «passerà». L'aveva riguardata, ma Lena si era limitata a fissarla: perché non era intervenuta?
«Io devo fare la pipì», sentì Jamie a un certo punto, appena sveglia. Alex chiuse la chiamata per l'urgenza e Kara ansimò, prendendosi un momento per capire cosa fare con Lena e, ricordando il suo sguardo a tavola, cercare di decifrarlo. Le era sembrata molto chiara quando si erano ritrovate dopo l'attentato e si erano abbracciate e baciate, e sapeva che avevano delle cose da lasciarsi indietro, ma quello sguardo perché? Girò il cespuglio, scontrandosi contro qualcuno, perdendo l'uovo colorato con pallini sull'erba.
«Oh, ti chiedo scusa». Quella ragazza si abbassò per riprendere l'uovo e glielo porse, sorridendo.
Kara lo riprese con mano e fissò lei finché si allontanava. Aveva uno strano sorriso, pensò. Bionda, una lunga treccia. Le sembrava di averla già vista da qualche parte, ma dove?
«Chi era?».
Sussultò, trovando Lena improvvisamente vicina. «Mi hai fatto spaventare», sorrise, «Ci sono andata addosso», scrollò poi le spalle, osservandola. «Sono più adatti per la caccia alle uova», rise, «I jeans, intendo». Stava così bene con i capelli raccolti in una coda e gli occhiali da sole.
«Eliza mi ha detto dov'eri, credo abbia secondi fini», si voltò verso lei e Lillian, sedute su una panchina fuori dal parco.
«Dà anche a te questa impressione? Tua madre odia la possibilità di noi insieme ma lei… penso che ci shippi».
«Shippa la Karlena», le annuì, guardandola. «Ne sono sicura».
«Karlena. Mi piace», rise e le mostrò l'uovo. «Per te. Ne cercherò altri per Jamie».
Lena lo prese e sorrise, ma la sua espressione si indurì a breve. «Dobbiamo parlare, Kara». Erano così vicine che temette potesse percepire la sua tachicardia. «Che ne dici se andassimo da qualche parte?».
La guardò a bocca aperta, accigliandosi. «D-Devo cercare le uova», rise con imbarazzo, «Non possiamo parlarne qui? So di cosa vuoi parlare».
«Sì?», alzò un sopracciglio. Kara si tirò dietro il cespuglio e la seguì.
«Al pranzo, mh… Ho detto qualcosa che non dovevo? P-Perché tu non hai detto nulla e-», lasciò la frase a mezz'aria, notando il suo impaccio.
«No», ansimò, spostandosi di poco. «O meglio . Non so come dirtelo, ma… Non si può ricominciare come vorresti».
«Non ti seguo». Il suo cuore iniziò a battere frenetico e lo stomaco a rigirare su se stesso: l'astinenza si faceva sentire più forte quando di mezzo c'era lei, non se ne stupì, la metteva in subbuglio facilmente anche senza quella sensibilità amplificata, e adesso… Lena abbassò gli occhi e Kara si imbrunì di nuovo, trattenendo il fiato.
«Ti ho sentito quando ne parlavi con Eliza, scusami. Ti avevo promesso che saremmo sempre state sincere tra noi e non ho mantenuto quella parola, non puoi fingere che non l'abbia fatto, Kara», si morse il labbro inferiore, riguardandola. «Non voglio che lo dimentichi, ma che riuscissimo a superarlo», prese una pausa, cercando le parole, «Tu no? O tra noi, con tutta onestà, non penso funzionerebbe».
Lei strinse le labbra, spostandosi dallo starle tanto vicina. «Cosa vuoi dire? C-Che devo prendermela per forza con te? È questo che vuoi?». Lena la fissò, i suoi occhi mai così freddi. «Va bene, allora», corrugò le labbra, reggendosi lo stomaco. «Mi sono sentita tradita, mi ha dato fastidio perché me lo sarei aspettato da tutti ma non da te, Lena! Non da-», si fermò, reggendosi di nuovo mentre lei stringeva le labbra e alzava la testa. Era una fortuna che intorno ci fosse così tanta gente e una musica trasmessa dagli altoparlanti, dando loro una parvenza di privacy. «Volevi sentirti dire questo?».
Lena scosse la testa, voltandosi solo per un momento. «Andiamo a parlarne da un'altra parte, va bene?».
«No, non voglio andare da un'altra parte perché-», deglutì, «Perché non voglio litigare con te».
«Come non volevi dirmi quanto ti fossi sentita tradita?», non aspettò che le rispondesse. «Scappavi da questo, Kara», esclamò a voce alta. Kara non voleva litigare, ma Lena non pensava che ci sarebbe stato altro modo per affrontare ciò che avevano dentro, a quel punto. Era inevitabile e si sentiva come un vulcano pronto a esplodere. Forse, questa volta, avrebbe potuto lasciarsi andare invece di chiudere tutto in se stessa. «Non dirmi che non è così! Dovevi farlo uscire, prima o poi. Finalmente hai avuto la decenza di confessarlo. Sì, quindi, volevo sentirlo». Lasciò che l'uovo scivolasse sull'erba e strinse i pugni, gli occhi lucidi.
«Cavolo, ho sempre capito perché lo hai fatto e non volevo rigirartelo». Trattenne di nuovo il fiato e Lena adocchiò con curiosità come si reggesse lo stomaco. Di nuovo. «Ho odiato che lo sapessi, l'ho odiato, Lena! I-I miei genitori sono morti davvero tanto tempo fa e- p-per quanto la cosa possa ancora farmi male-».
«Certo che ti fa male! Non pretendo che ti passi solo perché scorre il tempo».
«Per quanto possa farmi ancora male, Lena… Non era quello il punto! Okay? Non era quello… Avrei voluto sapere subito che la ragazza di cui mi sono innamorata, che la sua famiglia, avesse a che fare con quello. Ho-Ho odiato che lo sapessi perché lo hai tenuto per te invece di affrontarlo insieme a me, ma non volevo dirtelo. N-Non volevo dirtelo perché non volevo che stessi male per colpa mia e-».
«Ma è successo, Kara», sbottò a un certo punto, stupendosi lei stessa, lasciando l'altra immobile. Il viso le diventò rosso e si trattenne indietro, mantenendo le lacrime.
«P-Pensavo che avrei potuto tenermi per me la delusione…», scosse la testa e si morse il labbro inferiore, «Pensavo che mi sarebbe passata… Non volevo ferirti».
«Sai cosa? Lascia stare, questo è stato un errore», si voltò per andarsene e Kara scosse la testa, spingendosi in avanti per raggiungerla: non ce ne fu bisogno, Lena tornò indietro e cambiò idea all'ultimo. Avrebbe voluto andarsene eccome ma, se lo avesse fatto, non ci sarebbero stati più ponti per comunicare con lei, lo sapeva. L'avrebbe persa, arrivate a quel punto, perché questa discussione poteva essere il loro inizio… o la fine di tutto. Valeva la pena rischiare? Cos'era tutto questo, se non qualcosa per ritrovarsi?
«Un errore?», la sentì ribattere, «U-Un errore cosa? Tirarmi fuori queste parole con le pinze o riavvicinarti a me, o-o stare con-».
«Non lo dire», la fermò, severa. «Questo non lo dire o te ne pentiresti. Tu credi davvero… insomma, di avermi protetta facendo come hai fatto? Non pensi che sapere di averti fatto del male, aspettando a quando me lo avresti rinfacciato, cercando un modo per farmi perdonare, mi abbia fatto sentire peggio?», piegò le labbra, portandosi una mano sul petto e vide Kara tornare indietro di un passo, massaggiarsi lo stomaco e, per un attimo, piegarsi in avanti. «Stavi male, Kara, ma stavo male anch'io… E-E tu non te ne sei nemmeno accorta». Non aspettò che le rispondesse e, dopo una breve pausa, continuò, facendo la voce grossa: «Ti ho mentito perché avevo paura», strinse i denti, «A volte le cose non vanno come sono state programmate, Kara», si leccò le labbra con un gesto involontario, chiudendo un pugno. «Credi di essere perfetta? O pensavi alla nostra relazione come a una favola, dove saremmo sempre state felici e sorridenti? Benvenuta nel mondo reale! Perché io sono reale, molto reale, e mi hai pugnalato più volte e sono stata zitta perché mi sentivo in colpa», le si ruppe la voce e tornò un altro passo indietro, prendendo fiato. «Nel mondo reale, le cose non vanno sempre come vorremmo», aggiunse a fatica.
Kara iniziò a piangere, piegando le labbra. Ricordò in quel momento, come se la sua testa non aspettasse altro, il giorno in cui si erano conosciute. «Sai, potevi farmi male», le aveva detto. «Sul treno, prima di scendere. Stavo per cadere».
Lena aveva riso, girandosi verso di lei. «Credimi, se avessi voluto farti male, te ne saresti accorta».
Se n'era accorta, adesso. Le fece male perché le sbatté in faccia la verità e la riconobbe come tale; riconobbe com'era stata lei a far male a Lena. Perché era vero che non si era accorta di lei, troppo occupata a cercare di trovare un modo per proteggere se stessa da ciò che stava succedendo. Ciò che le aveva fatto Mike, lo aveva riflesso su Lena senza accorgersene. E come poteva Lena perdonarla, adesso? Kara fece una smorfia con le labbra e si piegò ancora più in avanti, iniziando a respirare con affanno. Non riusciva a fermarlo e le unghie che raschiavano all'interno del suo stomaco la stavano lacerando. Ma non avrebbe voluto mostrarsi così, non avrebbe voluto e tentò di trattenere il fiato e rimettersi dritta con la schiena. Non voleva che Lena pensasse che stesse cercando di attirare l'attenzione su di lei, o una scusa per farsi compatire, eppure…
«Adesso capisco», sussurrò Lena con fiato corto e Kara la scrutò. «Il cambiamento in te. Ha senso. Hai preso quelle pillole, non è vero? Sei in astinenza? Come ho fatto a essere così cieca?!». La fissò come cercava di reagire, immobile. «Ne è valsa la pena, almeno…? Ti ha fatto stare meglio?».
Kara si mise dritta e trattenne il fiato più che poté. «No», rispose poi, piano. «No. Mi ha permesso di farti del male. Ma… non ho scuse», parlò a scatti e deglutì, «Sapevo cosa facevo… era un errore». Ogni volta che parlava, una fitta le comprimeva il ventre. «Sapevo cosa facevo…».
Una sirena si levò sul parco, così entrambe alzarono lo sguardo agli altoparlanti: la caccia alle uova doveva essersi conclusa, accidenti. Lena le sorrise con amarezza e tornò indietro, seguita con lo sguardo da una ragazza lontana:
«Avevo ragione su Kara Danvers», sibilò lei, abbassando il cellulare e staccando la sirena. Indigo le tenne d'occhio ancora, spalancando gli occhi, cercando di capire perché, invece di lasciarla sola, Lena stesse tornando indietro per porgerle una mano.
«Andiamo», disse quasi in un bisbiglio, calma. «Vieni con me. Vorrei farti degli esami e darti qualcosa».
Kara fissò la sua mano e, come se il tempo si fosse fermato, comprese quanto quel momento sarebbe stato cruciale. Poteva rifiutare il suo aiuto e andarsene da sola, oppure accettare e accettare anche tutto ciò che era successo. Preferiva la rabbia e la paura, o preferiva Lena? Alzò la mano e gliela strinse, facendosi aiutare a tirarsi in avanti.
Si dispiacque di non aver potuto cercare uova per Jamie e di non averle fatto compagnia quando sarebbe arrivata, ma sapeva che non ci sarebbe mai stata scelta migliore se non seguire Lena, in quel preciso momento. Alla Luthor Corp, la fece sdraiare su un lettino e la tenne d'occhio mentre andava avanti a indietro, prendendole del sangue e misurandole la pressione. Ogni volta che la toccava, era un fuoco sulla pelle. In silenzio, non c'era nessun altro se non loro e il loro batticuore. Lena aveva la straordinaria capacità di tenersi tutto dentro e metterlo da parte, pensò Kara. Che stupida era stata ad accusarla di non aver affrontato insieme il segreto sui Luthor e poi aver fatto lo stesso, non affrontando insieme la scoperta, andando a cercare un rimedio per il suo dolore e lasciandola indietro. Strinse le labbra e si toccò lo stomaco, quando un'altra fitta la colpì. Eppure, essere lì vicino a lei, la faceva sentire già molto meglio.
Sullo schermo del pc, Lex controllò i dati che Lena gli aveva passato, rassicurandola. «Ma se vi fa sentire più serene, prendo l'elicottero e sarò lì in giornata».
Lena scosse la testa. «No. Voglio stare sola con lei, se non ti spiace». Lo lasciò e raggiunse Kara, ancora sdraiata. «Qualche valore alto», le fece sapere, «Penso che la discussione ne sia stata motrice, ti passerà appena inizierai a rilassarti. Durerà probabilmente ancora qualche giorno, se-», si avvicinò e Kara la fissò, fissò come si sforzava per restare composta ma come si stesse rompendo pian piano, riflesso nei suoi occhi freddi. «Se non ne farai più uso».
«Ho smesso, te lo giuro».
Lena annuì. «Allora posso consigliarti qualcosa».
«Cosa?».
«Una camomilla», si costrinse un sorriso, almeno fino a quando non fu catturata dalla mano sporta di Kara, rimessa seduta. Gliela strinse e, lentamente, si sollevò sul lettino davanti a lei, lasciandosi accogliere dalle sue braccia, dal suo calore, dal suo profumo. Appoggiò la testa contro una spalla e strinse gli occhi, respirando più forte. Quanta sofferenza le aveva viste protagoniste fino a quel momento, fino al momento in cui il corpo di Kara si schiuse per lei, baciandola sui capelli. Senza rendersene conto, Lena si ritrovò a piangere mentre la cullava.
«Mi dispiace», le disse Kara sui capelli, «Ti chiedo scusa. Sono qui. Sarò sempre qui».

Avevano litigato, pianto e, incredibilmente, si erano perdonate. Avevano perdonato anche loro stesse. Kara pensò che Lena avesse ragione, quando capì che sfogarsi aveva fatto bene a entrambe, giurando a se stessa che mai, mai avrebbe messo di nuovo il suo corpo in balia di quella porcheria rossa. Qualunque cosa sarebbe successa.
Intanto la fine di aprile fu vicina e, con lui, l'inizio del processo contro Rhea Gand. Giorni e giorni in tribunale ad ascoltare gli uomini e le donne che, per lei, avevano paralizzato National City, alzando le armi, cercando di uccidere le persone scomode. Crollarono tutti sotto il peso delle proprie coscienze o delle possibili minacce del Generale Zod, come ipotizzarono Alex e Maggie, e confessarono. Rhea si trovò ancora più con le spalle al muro. Philip Mcbrown, che lavorava alla CatCo, ammise di aver parlato tanto a lungo con la vittima, Siobhan Smythe, per assicurarsi di fare la cosa giusta per la causa, perché sapeva cose che la signora Gand non voleva si sapessero. Poi furono ascoltati loro, uno per volta, con giorni di distanza. Siobhan che si presentò in tribunale con le stampelle, Leslie Willis, Cat Grant, Maxwell Lord, Lillian ed Eliza, Lena, Kara. Ascoltarono Estella, la domestica di casa Gand che rispondeva al nome di Joyce: tremò e non riuscì a guardare Rhea negli occhi quando parlò dell'omicidio di Lar Gand, ma tutti in aula trattennero il fiato, ancora increduli che avesse potuto uccidere lei suo marito.
Quando la corte chiamò Mike Gand a deporre, Rhea cercò di attirare la sua attenzione con ogni mezzo necessario, anche urlandogli il suo amore, ma lui descrisse cosa aveva sentito quel pomeriggio, facendo combaciare alla perfezione la sua testimonianza con quella della domestica. Portò il foglietto che suo padre aveva scritto di suo pugno prima di morire. Disse che ne era venuto in possesso rientrando a casa quando sua madre non c'era, ricercando lo sguardo di Kara. «Mio padre voleva prendersi carico di tutto. Non avrebbe messo di proposito mia madre nei guai», esclamò, guardando la donna solo brevi secondi. «Lui la amava».
La prova fu catalogata ed esaminata in giornata. Lo stesso Dru Zod si ritrovò a testimoniare, raccontando di come avesse cercato di incastrarlo in quell'organizzazione di cui sapeva poco e niente, portando a conferma delle sue parole non solo le prove audio che ascoltarono giudice e avvocati in privato, ma anche la pistola che aveva fatto mettere in casa sua da Mcbrown, un amico in comune di vecchia data. Tutto quello perché lo odiava, ritenendolo responsabile, nel suo delirio, di averle portato via la sorella.
Era finita per Rhea: capì che ciò che le aveva detto Zod quando era stata arrestata era vero solo in quell'aula, quando lui parlò di Petra e tutti lo stettero a sentire. Era tutto dalla sua parte.
Le telecamere erano state spente, in quel momento dopo l'arresto, in centrale. Lo sapevano entrambi. Zod l'aveva guardata così come avrebbe fatto con un insetto, qualcuno che era pronto a schiacciare. «È finita», le aveva mostrato il contratto a cui aveva firmato da ragazza al suo ingresso come membro dell'organizzazione. «Volevi essere a capo di tutto, ma vedi, Rhea, c'è un motivo se il presidente sono io e non tu». Glielo aveva strappato davanti agli occhi, che si erano ridotti in fessure. «Noi proteggiamo la classe beta, non potevo toccarti dal momento che avevi assassinato un altro membro appellandoti al pretesto che stesse agendo contro gli interessi dell'organizzazione, ma cospirando contro di me, mettendo membri dell'organizzazione contro altri membri, sei caduta nello stesso inganno. Hai infranto una regola. Sei fuori, Rhea. Non godi più di alcun beneficio».
L'aveva tagliata fuori, esclusa da ciò che era quasi tutto il suo mondo, e all'improvviso sentì freddo.
«Ordine, ordine», gridò il giudice, battendo il martelletto. Avevano un ultimo tester da interpellare. L'avvocato si alzò e rumoreggiò la gola, prima di scandire bene la voce e farsi sentire da tutta l'aula: «Chiamo a deporre per l'accusa Astra Inze».
Kara spalancò gli occhi e lei e Lena, e dopo con Alex, si scambiarono un'occhiata, scuotendo la testa. Cosa stava succedendo? Videro le porte dell'aula aprirsi e Astra venire scortata da due guardie di Fort Rozz. La liberarono dalle manette e lei giurò di dire la verità, sedendo. Notò Kara, ma lo sguardo planò subito su Rhea e così, lasciando lei e molto altri di stucco, rivelò come, quasi dodici anni fa, avesse agito in difesa della nipote e della sorella, di come avesse scoperto, una volta infiltrata nell'organizzazione, del potere di Rhea Gand e come avesse cercato di annientarla dall'interno, sapendo di poterlo confessare solo ora che lei era a processo. A piede libero, avrebbe potuto prendersela con la sua famiglia rimasta in vita.
«Non è vero», borbottò Kara, scuotendo la testa. «L-Lei ha giurato, ma sta dicendo il falso».
Alex annuì. «Ha trovato un modo per salvarsi».
Lena la appoggiò, fissando la donna. «Azzarderei a scommettere che lei e Zod si siano messi d'accordo. Con questa testimonianza, è molto probabile che si aprirà un nuovo processo per tua zia, Kara», la guardò, «Potrebbe essere scagionata».
Aveva pensato a tutto, ripeté nella testa Rhea. Era la svolta che aspettava, ma Zod l'aveva usata per distruggerla. Che cosa avrebbe pensato sua sorella Petra di questa fine? Se la meritava davvero? Voleva solo essere quella importante, per una volta. Voleva vincere. E l'avevano vinta.
Quando fu trasferita a Fort Rozz dopo il processo che l'aveva condannata a passare tutta la sua vita in carcere, Rhea capì molto presto che quella per lei non era una fine, ma un nuovo, terribile, inizio. Stava uscendo dalla sua cella per andare al ritrovo comune, quando il passaggio le fu sbarrato da alcune prigioniere. «Non sapete chi sono, è evidente. Fatemi passare», strinse i denti con ira. Ma quando vide due guardie della prigione mettersi ai lati e Astra arrivare, tutto cambiò:
«Lo sanno benissimo, Rhea», enunciò fiera. «Non sei nessuno», proseguì con voce sicura, «e io una beta. Sorpresa?». Scambiò uno sguardo con le altre detenute e lei tornò indietro di un passo. «Se non vuoi fare la stessa fine di Michaels, il tuo tirapiedi che ha pensato di minacciare il Generale, farai ciò che ti diremo di fare e starai al tuo posto. Accetta il mio consiglio, lo dico per te», le scoccò un'occhiata.


***


Caduta dallo spazio: così intitolò Kara l'articolo in cui parlò della sua infanzia cancellata, della sua famiglia uccisa e di chi gliela aveva portata via, uscito il giorno del verdetto sul CatCo Magazine. Scalò in breve diverse classifiche sugli articoli più letti del periodo e, per festeggiare la sua vita che prendeva un nuovo inizio, Eliza e Lillian la invitarono a cena fuori con tutta la famiglia. Quella sera si divertì molto e si sforzò per non guardare Lillian come solo quella che aveva fatto parte dell'organizzazione e glielo aveva tenuto nascosto. Doveva andare avanti. Scambiò un sorriso anche con Lena e, sotto al tavolo, si tennero per mano. Ci sarebbe sempre stata lei nella sua vita. Era la sua calda certezza in un futuro dubbio.
Anche suo cugino lesse l'articolo e con Lois le fece i complimenti, invitandola di nuovo a stare da lui per un po', per cambiare aria. Glielo aveva già chiesto dopo l'attentato terroristico di Rhea ma, non potendo muoversi per via del processo, aveva dovuto declinare. Ora, forse, avrebbe potuto raggiungerlo a Metropolis se Siobhan non avesse avuto bisogno di lei. Eliza e Lillian fecero i bagagli per il viaggio di nozze verso Aruba che avevano dovuto rimandare e, lasciandola di sasso, li fece anche Mike: andò a trovarla al campus per salutarla e dirle di aver deciso di partire per arruolarsi nel corpo dei Marines.
«Oh, wow, è…», non sapeva cosa dire.
«Lo so: affrettato», alzò le spalle, «Ma ne ho bisogno. Lo sai». Si sorrisero e abbracciarono.
Nel frattempo, dopo aver meditato di agire a processo contro Rhea Gand concluso e trascorso quei giorni a tenere d’occhio le serate al The Green Caravel, Selina Kyle pensò di radunare Ivy e Harley in piazza per metterle al corrente su cos'avesse trovato a National City introdotta alla Lord Technologies.
«Le sta testando», disse seria. «Il locale è solo una facciata, usa i clienti per i suoi test. Pensa di venderle».
«E chi gliela comprerebbe quella robaccia? Non sballa neppure», commentò Harley, alzando le spalle.
«Ha già un compratore», fece sapere Selina. «Vi basti sapere che dobbiamo smontare questo progetto sul nascere perché è estremamente pericoloso».
«Va bene», sorrise Ivy, «Ci sto. Supergirl sarà dei nostri?».
Selina prese fiato, accigliandosi. «Supergirl è compromessa», esclamò con sicurezza, «Ho trovato i suoi test, laggiù. Sarà lei il nostro primo obiettivo».
































***

Capitolo lunghiiiiiissimo! Me ne rendo conto, ma dovevo chiudere delle cose e aprire la strada a ciò che verrà adesso. Spero di non aver annoiato!
Tante, tante cose! Potremmo parlare di John che se la prende con Zod e che non vede l'ora di arrestarlo, o di Siobhan che è ancora viva!! Nessuno ha creduto che sarebbe morta, mi sa, ma io ci ho provato… ehi, la amo troppo per non “semplicemente” ferirla e regalarle una lezione di vita (oltre che a essere figo per la trama! Pensiamo alla Trama™).
Potremmo parlare di come Kara si sentisse in colpa per Siobhan, della sua astinenza dalle pillole rosse, di come abbia affrontato Rhea, chiudendo quella parte della sua vita insieme a quella vittoria e al suo articolo uscito il giorno del processo. Ecco, sì, potremmo parlare del processo, di come Rhea non ne sia uscita esattamente vittoriosa, di come Zod l'abbia esclusa dall'organizzazione quando era stata appena arrestata, o potremmo parlare della fine di Michaels, il commercialista trovato morto in cella ad Halloween. A quanto pare era un fidato di Rhea che aveva provato a minacciare il Generale, qualcosa che non avrebbe dovuto fare.
Potremmo parlare della pistola di Lionel usata da Lena per allontanare i terroristi da James che adesso pare sia scomparsa (mh), del pranzo e delle domande scomode di Lillian, della tenera discussione tra Kara ed Eliza che, in fondo, ha ottenuto un po' di quei risultati sperati quando la prima ha deciso di provare a vedere Lillian in modo diverso, di darle una possibilità. Cosa che non sembra voler fare Lena.
Potremmo parlare di come Lillian ed Eliza non siano state le uniche a fare le valigie: Mike ha chiuso con Kara (finalmente, eh?) ed è pronto per intraprendere un percorso suo nella vita e cosa fare se non entrare nel corpo dei Marines?! Lasciamoglielo fare, togliamocelo di torno XD
Potremmo parlare di Selina Kyle e di cosa ha scoperto alla Lord Tech, del primo obiettivo suo e di Harley e Ivy (che cosa combineranno?), oppure di Indigo che segue Lena e Kara come una brava stalker, mettendosi in mezzo come riesce.
Ma infine, lo so di cosa potremmo parlare e di cosa si preferirà parlare: della discussione tra Kara e Lena! Ebbene sì, ci siamo arrivati! Queste due hanno litigato! Kara si è sfogata, Lena ha fatto altrettanto perché sapeva che era l'unico modo per ritrovare ciò che avevano perso. E che dire, sembra che abbia funzionato! Lena ha dato una scossa alla situazione e Kara ha preferito lei all'orgoglio o alla paura, anche quando ha capito delle pillole. Per non parlare dell'abbraccio e del pianto di Lena, o delle loro mani unite durante la cena. Una grossa svolta! Sarà la volta buona?

Questo capitolo è stato modificato così tante volte durante la stesura che a un certo punto non capivo più che sapore avesse XD La litigata tra Kara e Lena, nella mia idea iniziale, doveva avverire tra qualche capitolo, in balia di una situazione un po' diversa, ma è stato anticipato grazie a una discussione in chat che mi ha aperto gli occhi su come Lena stesse soffrendo e niente, dovevo anticipare e farla sfogare. Era il minimo e ho scoperto che ci stava, ci stava decisamente bene! Ora che hanno litigato, ora che si sono tolte questi sassolini dalle scarpe, possono finalmente ricostruire un rapporto più solido di prima :) Un'altra modifica importante riguarda(va) il pranzo, anzi due pranzi (da una parte Lillian, Eliza, Lena e Kara, dall'altra i genitori di Maggie, Maggie, Alex e Jamie), che ho modificato ancora fino a racchiudere tutto in quella telefonata tra Kara, Alex e Maggie. L'idea del pranzo mi piaceva molto, ma accidenti se non riuscivo a scriverla! Rischiava di sembrare un minestrone di cose già lette e non mi convinceva. Per far ridere, mi era stato suggerito in un'altra chat di usare l'espediente di Kara e il suo rapporto col cibo e diciamo che, male o bene, l'ho inserita comunque. Anche perché Kara/cibo è l'unica ship seria nel fanon e nel canon XD
Mi sono avanzati dei "ritagli" da queste modifiche, ma nulla che valga la pena farvi leggere come extra.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, passo e chiudo. Ci rileggiamo martedì 21 con il capitolo 48 che si intitola
Lo strano caso del rapimento alla stazione! Vi immaginate qualcosa? :P



   
 
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