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Autore: Lady1990    12/05/2019    2 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Regan si destò di soprassalto. Aveva il respiro affannato, sudore freddo gli imperlava la fronte e la gola era secca. Sul palato, stranamente, avvertiva il sapore del fumo.

Si guardò intorno, aspettandosi di vedere i contorni familiari della sua stanza. Quando si accorse di essere sdraiato su uno dei tre divani del salotto, si corrucciò. Come ci era finito lì? E che ore erano?

Sbirciò fuori dalle finestre. Il cielo era buio, ma l’orizzonte era schiarito da una sottile striscia di luce. Escluse che fosse sera a causa del silenzio che permeava l’intera casa. Quindi mattina presto. Per quanto aveva dormito? Cos’era successo? Stava facendo il test del fuoco in biblioteca e poi…

Ricordò la piana arida sormontata da un oceano di sangue. Ricordò l’ombra gigantesca e la scarica di energia che lo aveva pervaso appena le loro mani si era sfiorate. Ricordò il fuoco, che lo aveva avvolto come uno scudo incandescente.

Scattò a sedere e strinse con forza la felpa all’altezza del cuore, come se, in quel modo, potesse convincerlo a smettere di martellare freneticamente nella gabbia toracica.

Aveva sognato la sua prima e unica vittima, Zoe Rogers, un’infermiera. Erano anni che non pensava più a lei. L’aveva uccisa poco dopo che la sua natura vampira si era risvegliata. Assetato, smanioso di respirare aria fresca, si era liberato dalle corde ed era fuggito dalla soffitta di nascosto per andare a caccia. Aveva trovato Zoe nel vicolo dietro l’ospedale. L’aveva ingannata, dandole un nome e un’età falsi. Si era fatto portare a casa sua. L’aveva aggredita mentre dormiva. L’aveva prosciugata e uccisa.

Il ricordo, nel sogno, si era interrotto lì, ma Regan sapeva come continuava. Aveva chiamato Deirdre con il cellulare dell’infermiera e l’aveva aspettata per più di un’ora vicino al corpo. Al suo arrivo, si erano infilati i guanti senza dire una parola e avevano ficcato Zoe, le coperte del divano-letto, le federe dei cuscini e il suo cellulare nel sacco per cadaveri. Dopodiché, avevano ripulito per sicurezza le stanze in cui era passato Regan e spruzzato un deodorante per ambienti che Deirdre aveva scovato in cucina. Avevano trasportato il sacco verso la macchina che Deirdre aveva noleggiato apposta, parcheggiata sul retro dell’abitazione, e, dopo averlo caricato nel bagagliaio, erano tornati a casa per gettarlo nel forno crematorio.

Deirdre lo aveva aiutato a coprire l’omicidio e non ne avevano più parlato, non ce n’era stato bisogno. Perché, da quel momento, Regan non era più uscito dalla soffitta finché non aveva imparato a controllare la brama di sangue.  

A quel punto, rammentò le visioni che si erano susseguite al ricordo: l’incontro col suo alter-ego vampiro e l’uomo ombra ingioiellato, la melodia orientale e la canzone dei tre uomini attorno al falò. Essa si era impressa nella memoria come un marchio indelebile. Sapeva che era importante, ma ancora non riusciva a comprenderla. Non tanto per la lingua: quella, chissà perché, l’aveva capita. Non aveva idea di quale fosse, forse un dialetto mediorientale, ma il suo cervello aveva registrato le parole come se fossero state pronunciate nella sua lingua madre. Piuttosto, era il significato che gli sfuggiva. C’erano tanti nomi strani, uniti da un unico filo conduttore: Aharman. Chi o cosa era? Regan non si era mai imbattuto in quel nome, prima d’ora.

E la visione finale, con l’incendio e i corpi in fiamme e Fiona? Era un presentimento o una visione sul futuro? Era opera del demone? Pur a quella distanza, aveva ancora tanta influenza su di lui?

Trasse un lungo respiro e si impose la calma. Mentre si strofinava la faccia con le mani per scacciare via gli ultimi strascichi di sonno, tese le orecchie. Individuò un solo battito, da qualche parte nel cuore della villa, e scrollò una spalla disinteressato.

Si irrigidì quando si rese conto che nell’aria permaneva un chiaro odore di fumo. Si alzò e si recò in biblioteca. Quando vide i danni, si tappò la bocca con una mano e sgranò gli occhi. Il soffitto era nero, un’intera fila di scaffali e libri erano ridotti in cenere. Il tavolo era un ammasso di legno carbonizzato, la finestra era rotta.

Doveva assolutamente scusarsi con Fiona. Ma prima salì in camera per bere un po’ di sangue e attenuare così l’arsura che sentiva in gola. Colse l’occasione per cambiarsi e appallottolare i vestiti in un mucchietto maleodorante sul pavimento, in modo da ricordarsi di lavarli.

Afferrò il cellulare e scrisse a Deirdre e Derek che stava bene, nessuna novità. Raggiunse l’armadio, prese una siringa dal borsone e, svuotatala in due sorsi, la gettò di nuovo dentro insieme alle altre. Fece una sosta in bagno per darsi una sistemata, poi si appropinquò giù per le scale in cerca di Fiona.

La trovò nel suo studio, seduta sulla poltrona dietro la scrivania. La porta era aperta. Bussò per annunciarsi.

“Entra.” gli ordinò Fiona in tono neutro, senza distogliere lo sguardo da dei fogli che stava visionando.

Il sole era sorto. Timidi raggi invernali filtravano dalla finestra, indorando la stanza.

Regan la raggiunse esitante e si accomodò davanti a lei. Si schiarì la gola, impacciato.

“Vorrei scusarmi per…” fece un gesto vago con la mano in direzione della biblioteca, “Mi dispiace. Non l’ho fatto apposta. Anzi, non ricordo nemmeno di averlo fatto. State tutti bene?”

“Nessuno si è fatto male.”

“Okay.”

Restarono in silenzio per qualche minuto, finché Regan non prese di nuovo la parola. L’atmosfera tesa lo stava innervosendo.

“Che è successo?”

“Hai perso il controllo. La tua affinità con l’elemento del fuoco è notevole.”

“Scusa per i libri. E la mobilia.”

“Non fa niente, si possono sostituire. I libri rari non sono conservati in biblioteca, per motivi di sicurezza. E i mobili erano dell’Ikea.”

“Menomale. Vi è già capitato con altri novizi?”

“Sì, Regan. Non preoccuparti, è tutto a posto.”

“D’accordo.” esalò un sospiro di sollievo, “Sheila è tornata a casa?”

“Sì.”

“Okay.” prima che il silenzio tornasse a regnare sovrano, Regan proseguì, “Ora che si fa? Continuiamo i test?”

Fiona mise da parte i fogli, intrecciò le dita sotto il mento e si mise a fissarlo. La sua espressione era indecifrabile. Persino Regan aveva qualche difficoltà a cogliere un misero barlume di emozione nei suoi occhi scuri. L’ansia che provò mentre ricambiava lo sguardo di Fiona lo spronò a non abbassare la guardia. La strega non era benevola nei suoi confronti, l’istinto gli suggeriva di tenersi alla larga.

“Oggi sarò impegnata. Sei libero di consultare tutti i libri che vuoi e mangiare gli avanzi che troverai in frigo. Se desideri uscire, prima informarmi sulla tua destinazione e l’orario in cui intendi rincasare. È tutto.” snocciolò con voce priva di inflessione.

Regan la scrutò impassibile per un paio di secondi. Quindi annuì, si alzò e lasciò lo studio, più confuso che mai. Dopo una colazione veloce a base di latte e cereali, per il resto della mattinata si rintanò in biblioteca.

Evitando la stanza distrutta, raccolse una pila di libri dagli scaffali e si sedette a leggerli a un altro tavolo. Un libro era sulla telecinesi, altri due sulla divinazione, gli ultimi tre sul controllo degli elementi.

La telecinesi sembrava semplice nella teoria, ma la pratica era una questione completamente diversa. Non gli riuscì di sollevare nemmeno un granello di polvere. Così lasciò perdere e si mise a sfogliare i manuali sulla divinazione. Conosceva già quella tramite i tarocchi, le foglie di tè, i cristalli e le viscere degli animali, ma la lista continuava per pagine e pagine, illustrando una caterva di metodi, a seconda dei paesi e delle culture.

Presto si stufò anche di quell’argomento e aprì i libri sugli elementi. Passò subito al capitolo dell’acqua. Era tra gli elementi più ostici da manipolare, poiché l’energia che richiedeva era più del doppio rispetto al fuoco e all’aria.

Decise di tentare. Chiuse gli occhi, si concentrò e richiamò a sé il potere. Sussultò eccitato non appena lo percepì ribollire nel sangue. Realizzò che era come un muscolo: più provava, più gli veniva facile evocarlo. Lo sentì fluire e prendere a vorticare, sempre più veloce. All’improvviso, però, svanì, rimpiazzato da una stanchezza innaturale.

C’era qualcosa di sbagliato. L’aria era densa, quasi elettrificata, e una forza invisibile premeva sulla sua pelle, inchiodandolo sulla sedia. Scrollò il capo per scacciare i puntini neri che gli costellavano la vista e sbatté le palpebre. Rimase immobile per minuti interi, ignorando la ragione per cui si sentiva tanto spossato. Forse non si era ancora ripreso dal test del fuoco.

Mise da parte i libri. Si recò al mobiletto nella sala rotonda, lo aprì e afferrò un foglio bianco e una biro nera. Si era pentito di non essersi portato appresso il quaderno degli appunti. Trascrivere i propri pensieri sulla carta, invece che lasciarli a zonzo nel cervello, spesso lo aiutava a vedere le cose da prospettive diverse. Così, tornato al tavolo, buttò giù una lista.

1 – Incubi: frutto della mia fervida immaginazione, premonizioni o provocazioni del demone?
      1.1 – Sono frutto della mia immaginazione: prendi appuntamento da uno psichiatra.
    1.2 – Sono premonizioni: da prendere alla lettera o interpretare? L’abilità di prevedere il futuro deriva dalla natura che ho ereditato da Shannon o da quella vampira?
         Chi è mio padre? Cosa ho ereditato da lui?
     1.3 – Sono provocazioni del demone: cerca incantesimo per rafforzare barriere mentali. Alla peggio, fatti esorcizzare.
     1.4 – Ma come posso scoprire quale delle tre è quella giusta? A chi posso chiedere?
         No Fiona!
         Sheila? Forse.
2 – Canzone dei tre uomini: che lingua è? Perché la capisco? È da prendere alla lettera o devo interpretarla?
      Fai ricerche sui nomi, vedi se compaiono da qualche parte.
3 – Chi è l’uomo ombra ingioiellato? Amico/alleato o nemico? È il demone che mi sta ingannando? Devo fidarmi? Perché mi ha fatto ascoltare la canzone? Perché proprio adesso?
4 – Teoria dello Shedim: affidabile? Fai una capatina in sinagoga e chiedi, servono prove.
5 – Cerca testi di demonologia. Se serve, minaccia di morte una strega e fatti dire dove sono.
6 – Non dire a Derek che stai imparando la magia!!! Profilo basso.
7 – Non dire a Deirdre che hai firmato il contratto di apprendistato e sei parte della congrega. Non ancora. Vediamo come va.

Rilesse i vari punti un paio di volte, poi si focalizzò su quelli di cui poteva occuparsi al momento. Il quarto era l’unico che gli avrebbe portato risposte più immediate. E poi gli avrebbe dato la scusa perfetta per uscire e prendere un po’ d’aria. Cominciava a sentirsi soffocare, in quella villa.

“E sinagoga sia.” mormorò tra sé e sé.

Estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e guardò il sito della sinagoga locale per vedere orari e indirizzo. Ce n’erano tre o quattro, così scelse quella più vicina. Si affacciò nello studio di Fiona per dirle che andava alla sinagoga e che sarebbe tornato prima di cena, quindi uscì.

Il cielo era plumbeo e faceva freddo. Camminò a passo spedito in direzione della sinagoga, la testa bassa e le mani infilate nelle tasche. Un paio di volte si fermò sul marciapiede a osservare i vigili del fuoco e la polizia unire le forze per riparare i danni provocati da un uragano. Regan non ricordava ci fosse stato un uragano il giorno prima. Che fosse accaduto mentre era in trance?

Superò un chiosco di giornali e lesse distrattamente la testata di quello locale. A quanto pareva, sì, una violenta tempesta si era abbattuta sulla città il pomeriggio precedente, causando danni a case, macchine e giardini. Per fortuna, non c’erano state vittime.

Giunse alla sinagoga intorno all’ora di pranzo. Era una villetta bianca, circondata da un giardino molto curato. Non sembrava una sinagoga, quanto una comunissima abitazione. Perplesso, Regan si avvicinò alla porta, trovandola socchiusa. Scivolò all’interno guardingo, osservando l’ambiente.

Quello che sembrava un rabbino stava pulendo il pavimento di una stanza vuota. Regan gli si avvicinò titubante e attese che l’uomo, a occhio e croce sulla cinquantina, posasse l’arnese. Era alto e magro, con due lunghi boccoli castani a incorniciargli il viso, un cespuglio di barba sul mento, guance incavate e occhi marroni. Vestiva con una semplice camicia bianca e pantaloni neri. Sul cranio indossava una kippah nera.

Memore della regola secondo cui i maschi dovevano indossarla in tutti i luoghi di culto, Regan si calcò il berretto di lana sulla testa e sperò che andasse bene lo stesso. L’ultima cosa che desiderava era risultare offensivo.

Non appena lo vide fermarsi e poggiare lo scopettone a ridosso del muro, Regan si schiarì la gola.

“Ehm, salve. Mi chiamo Regan. Avrei bisogno di consultare alcuni dei vostri testi, se possibile.”

L’uomo lo fissò sorpreso, squadrandolo dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Regan si prestò di buon grado all’esame e attese paziente il verdetto.

“Ciao, Regan. Sono Rabbi Joseph. Dimmi, sei praticante?”

“No. Ho solo bisogno di visionare dei titoli per una ricerca. Sono uno studente del liceo.”

“Quali sono questi titoli? Hai il permesso scritto di un insegnante?”

“Diciamo che è più un interesse personale. E ho qui una lista approssimativa di argomenti, non so i titoli.”

Il rabbino la lesse velocemente. Quando arrivò in fondo, la sua espressione era irriconoscibile. Infatti, se prima era apparso disponibile e pacato, ora emanava un’aura diffidente e severa che non si sposava con la sua giovane età.

“A cosa ti servono?”

“Come ho detto, è per interesse personale.”

L’uomo soppesò per qualche secondo la sua richiesta, poi gli fece cenno di seguirlo attraverso una porta. Regan gli si accodò subito, sperando di sbrigarsela entro sera.

Venne condotto nella biblioteca. Non era grande come quella della congrega, ma pareva abbastanza fornita. Grossi tomi occupavano gli scaffali, alcuni dei quali erano protetti da una grata e un lucchetto.

“Aspetta qui.” gli ordinò il rabbino, indicandogli una sedia.

Regan si sedette e appoggiò i gomiti sul tavolo. Udì il tintinnio di un mazzo di chiavi, un cigolio e dei fruscii. Poco dopo, i rumori si ripeterono in ordine inverso. Rabbi Joseph riapparve nella salettina di lettura con sei tomi tra le braccia. Li posò sul tavolo, li spinse verso di lui e si mise a scrutare Regan con scetticismo.

“Sai leggere l’ebraico?”

Regan fece per rispondere negativamente, ma all’ultimo ci ripensò. Aprì il primo tomo e lasciò scorrere gli occhi sui simboli stampati sulla pagina. Tentò di non tradire lo sconcerto quando il suo cervello tradusse senza fatica la scrittura ebraica, così come aveva tradotto i versi del Tanakh pronunciati dalle vittime del demone.

“Sì, nessun problema. Grazie.”

Siccome aveva lo sguardo puntato sul libro, non si accorse dei movimenti del rabbino. Quando sentì qualcosa venire premuto sulla propria guancia, sussultò e si scansò bruscamente.

“Cosa sta facendo?”

L’uomo si raddrizzò e giocherellò con la stella di David per qualche istante, per poi riporla in tasca.

“Volevo accertarmi che tu non fossi posseduto.”

“E lo sono?”

“Sembrerebbe di no. A cosa ti servono questi libri?”

“Gliel’ho già detto. Sono per interesse personale.”

“Un ragazzino come te, a meno che non nutra un fascino perverso per la demonologia, non si avvicina a questi testi.”

“La ringrazio per l’aiuto, ma da qui in avanti posso fare da solo.” lo congedò con un sorriso tirato.

Il rabbino non demorse. Si sedette accanto a lui e, sporgendosi verso i libri, ci adagiò sopra una mano.

“Se pensi di essere in pericolo, forse posso aiutarti. Credi che ci sia un demone intorno a te? Avverti la sua presenza?”

“Lei crede a queste cose?” domandò con sussiego.

“Sono un uomo di fede, certo che ci credo.”

Regan si mordicchiò un labbro, indeciso se parlare o far finta di essere un normale adolescente con la mania per l’occulto. L’espressione preoccupata dell’uomo lo convinse a propendere per la prima. Non aveva più molto tempo e aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile.

“Cosa sa degli Shedim?”

“Gli Shedim.” scandì incuriosito e, appoggiandosi sullo schienale della sedia, incrociò le mani sulle gambe accavallate, “Sono spiriti maligni. Ne esistono di tre tipi…”

“Sì, lo so. A me interessano i Chabalim. Cosa può dirmi di loro?”

Rabbi Joseph si adombrò e lo trafisse con un’occhiata penetrante. Regan ebbe l’impressione che gli stesse scavando nell’anima.

“Tormentano gli uomini. Talvolta li conducono alla pazzia, talvolta li possiedono per trascinarli all’inferno. Per combatterli occorre operare un esorcismo, che può essere condotto solo da sacerdoti esperti col permesso degli alti prelati, e solo dopo aver ottenuto prove inconfutabili.”

“Qui nessuno è posseduto, Rabbi Joseph. Non si tratta di possessione, ma di caccia.”

“Caccia?”

“Questo demone sta cacciando nella mia città. Rapisce le persone e le fa svanire nel nulla.”

“Non sei di qui?”

“Vengo dal Massachusetts.”

“Hai fatto tanta strada per leggere questi testi... che puoi trovare facilmente in qualsiasi sinagoga.”

“Sono venuto a trovare alcuni parenti e ho deciso di approfittarne per approfondire le ricerche.”

“Mh.” mugugnò, poco convinto, “Credi che il tuo demone sia un Chabalim, quindi?”

“Non lo so. Per questo sono qui. Conosco soltanto il suo aspetto e-”

“Hai visto un Chabalim? Lo hai guardato in faccia e sei sopravvissuto?” balbettò incredulo.

“Non ha una faccia.” replicò in tono piatto.

Regan lo vide assumere un’aria meditabonda. Si vedeva che era restio a credere alle sue parole.

Rabbi Joseph lo invitò a narrargli gli eventi. Quando Regan terminò di elencargli i fatti principali, compresa la sua capacità di percepirlo, l’uomo si era fatto pallido come uno spettro.

“E questa non è possessione? Eccome se lo è! Anche se di un tipo completamente diverso, molto raro e difficile da individuare.”

“Non sono io che ho preso quelle persone!”

“Il demone non agisce attraverso di te, ma sei comunque posseduto. Tra voi c’è un legame che deve essere assolutamente spezzato, prima che si solidifichi.”

“E come posso fare?”

“Occorre un esorcismo, ovviamente.” Rabbi Joseph afferrò un paio di libri dalla pila e li aprì, mostrandogli alcune immagini, “Un demone può accedere al piano materiale solo se viene attivato un portale e ha a disposizione un ospite da abitare. Innanzitutto, bisogna capire dove e cosa è il portale. Se è un oggetto, deve essere a portata di mano durante l’esorcismo. Poi si individua l’ospite e lo si esorcizza. Tieni presente che più il demone si nutre, più diventa forte. Nell’estrema evenienza in cui si sia nutrito troppo, l’ospite deve essere ucciso. In tal caso, dopo la sua morte, il demone ne cercherà un altro. Il rituale finale di purificazione gli impedirà di ripetere la possessione e lo scaccerà nella dimensione dalla quale è arrivato. Una volta fatto, il portale deve essere distrutto.”

Regan immagazzinò tutte quelle informazioni come un assetato alla fonte.

“E l’esorcismo non può condurlo chiunque, avvalendosi del testo apposito?”

“No, deve essere un sacerdote. È la fede nelle forze del Bene che scaccia il Male nelle profondità da cui è strisciato fuori. Non siamo che esseri umani, deboli e soggetti alle tentazioni, ma grazie alla fede ci trasformiamo in strumenti divini che Dio usa per sconfiggere il maligno.”

“Perciò mi servirà un prete.”

“O un rabbino, se il tuo demone è davvero un Chabalim. L’importante è che sia qualcuno dalla morale integerrima, puro nel corpo e nello spirito, così che il demone non abbia appigli a cui aggrapparsi per tentarlo e, così, rovinare il rito.”

“Lei sarebbe disposto a farlo?”

“Non posso. Non sono puro. Durante la mia giovinezza ho perso di vista la retta via e ho peccato. La fede ora mi guida, mi sono riappacificato con Dio, ma sulla mia anima ci sarà sempre una macchia indelebile.”

“A chi posso chiedere, allora?”

“Presenterò il tuo caso agli altri rabbini. Puoi tornare domani in mattinata?”

“Sì, certo. Aspetti, ho un’altra domanda.”

“Prego.”

“Per caso, il nome Aharman le fa venire in mente qualcosa?”

Rabbi Joseph rimase in silenzio a riflettere per un minuto, poi scosse debolmente il capo: “L’ho già letto da qualche parte, forse, ma non ricordo dove. Mi dispiace.”

“Ho capito. Grazie per l’aiuto.”

“Non ti ho ancora aiutato. Torna domani.”

Regan si alzò e se ne andò con un vago cenno di saluto, vibrando di eccitazione e impazienza. Era vicino a ottenere la risposta che cercava, assieme ad un aiuto concreto. Forse quel viaggio non si sarebbe dimostrato un vicolo cieco.

 
*

“Dov’è Regan?” chiese Sheila, irrompendo nello studio con passo deciso.

“È uscito per andare alla sinagoga.”

Fiona non distolse lo sguardo dallo schermo del computer, come se non ritenesse Sheila neanche degna di un’occhiata fugace.

“E tu lo hai lasciato uscire da solo?”

“Non farà nulla che possa mettere in pericolo la sua posizione. Non è stupido.”

Sheila si sedette su una delle poltroncine davanti alla scrivania e si lisciò la gonna sulle ginocchia.

“Novità dal Consiglio?”

Fiona finì di scrivere un’e-mail, poi scostò la poltrona in modo da fronteggiare meglio Sheila senza la barriera dello schermo, e intrecciò le dita delle mani sulla scrivania.

“Mi hanno dato il via libera per procedere. Martha si è offerta di tornare per aiutarci, io le ho detto che non ce ne sarà bisogno. Regan è potente, ma non invulnerabile. Per indebolire la sua parte vampira basterà somministrargli dell’aglio e per la parte umana gli scaglierò addosso una fattura.”

“E per la parte demoniaca?”

“Quella è l’unica incognita, ma non credo sarà un problema. Disegnerò un pentacolo di contenimento sotto il tappeto e un altro sul soffitto, per intrappolarlo. L’aglio lo indebolirà, la fattura lo immobilizzerà e lo renderà muto. A quel punto, gli taglierò la gola. Semplice, no?”

Sheila si morse il labbro inferiore e assunse un’aria corrucciata: “Quando hai in mente di mettere in pratica questo piano?”

“Non appena avrò finito di raccogliere gli ingredienti per la fattura. Un giorno, due al massimo.”

“E se non dovesse funzionare? Se, in qualche modo, la parte demoniaca fosse più forte di quel che pensiamo?”

“In quel caso ci sarà bisogno dell’aiuto della congrega. Io inviterò Regan nel mio studio e farò come ti ho detto. Tu e gli altri entrerete mentre lui è con me, distratto e debole, e rimarrete in attesa in salotto.”

“Non lo so, Fiona.” sospirò Sheila, scostandosi una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio, “Ho un brutto presentimento.”

“Non preoccuparti. Regan si fida di noi, sarà facile ingannarlo e farlo cadere in trappola.”

“Sento che lo stiamo sottovalutando.”

“Più che prendere tutte le possibili precauzioni, non possiamo fare altro.”

“E se scoprisse il piano in anticipo?”

“Non accadrà. Ho già dato predisposizioni affinché resti impegnato per la maggior parte del tempo. Non ne avrà per andare a ficcare il naso in giro.”

Sheila puntò lo sguardo fuori dalla finestra, richiamando alla memoria il giorno in cui Regan aveva bussato alla sua porta. Ricordò la felicità e la commozione che l’avevano pervasa quando si era presentato, la speranza che le aveva riempito il cuore al pensiero di avere avuto indietro un pezzo della sua Shannon. Perderlo così presto dopo averlo ritrovato le sembrava una terribile crudeltà.

“Sei proprio sicura che non esistano alternative? Insomma, Regan non ha mai fatto del male a nessuno… potremmo insegnargli a controllarsi.”

“Se fosse solo un ibrido di vampiro e strega, sicuro. Ma dimentichi il suo lato demoniaco. Non puoi insegnare a un demone a non essere, beh, un demone. E i demoni sono tutti malvagi, questo è un dato di fatto.”

“Lo stregone che è in lui, però, potrebbe essere in grado di tenere a bada il demone, così come sta già facendo con il vampiro. Se coltiviamo quella parte e lo costringiamo a trascurare le altre…”

“Per quanto tempo resisterebbe, mh? Un anno? Due? Dal momento che Regan porta in sé un demone, per quanto esso sia ancora dormiente, è troppo pericoloso fare come dici tu. Chissà quando si risveglierà, o quali cataclismi innescherà il risveglio. Non possiamo prevederlo, e ciò lo rende una minaccia.”

Sheila storse la bocca in una smorfia: “Parli come un cacciatore.”

“Sono la Prima.” replicò seccamente Fiona, irrigidendosi sulla poltrona, “Il mio compito è proteggere la congrega, costi quel che costi. Sommergere Regan di affetto e lusinghe non gli impedirà, un giorno, di sguinzagliare il suo potere contro di noi o degli innocenti. È nella sua natura, Sheila. Mi dispiace, credimi. Capisco che tu veda in lui tua figlia, che la loro somiglianza abbia ridestato in te l’istinto materno. Ma Regan non è Shannon e mai lo sarà. Accettalo subito, così sarà più facile-”

“Cosa? Ucciderlo?”

“Sì. Dobbiamo. Per il bene della congrega, persino del mondo intero.”

Sheila era incerta. Si guardò bene dal dare voce ai dubbi e alle paure che le assediavano il cervello, per timore di renderli reali. Il senso di colpa, tuttavia, le strappò il fiato.

 
*

Dopo la visita alla sinagoga, Regan si fermò ad un bar per prendere un tè. Era un locale piccolo e poco frequentato, dall’aspetto confortevole. Si sedette a un tavolo accanto alla finestra e si incantò a osservare le persone per la strada.

I suoi pensieri andavano a mille all’ora, divisi su più fronti contemporaneamente: il demone, i test di magia che gli mancavano, gli incubi, la trasformazione in lupo mannaro di Jennifer, la Gorgone, come liberarsi di Derek una volta risolto il problema demoniaco, come organizzarsi con la scuola quando avesse cominciato l’apprendistato, come dire a Deirdre che era parte della congrega e come gestire Roman e il suo branco dopo che il pericolo fosse passato.

Ogni questione lottava contro le altre per accaparrarsi la sua completa attenzione, alimentando lo stress e la sete di sangue. Gli restava una siringa, solo una misera dose prima di rivedere Deirdre domenica sera. La carenza di sangue acuiva la sensazione di debolezza, lo rallentava nella mente e nel corpo. Purtroppo, non poteva nutrirsi come faceva ad Ashwood Port, non con gli occhi della congrega puntati addosso.

Si sentiva costantemente osservato. Anche ora aveva l’impressione che degli occhi stessero scavando solchi profondi sulla sua schiena. Si girò di scatto. Nell’angolo del bar c’era un uomo anziano che leggeva il giornale e sorseggiava il caffè, ma non era lui a provocare in Regan quella fastidiosa sensazione.

Si afflosciò sulla panca imbottita e si portò il tè bollente alle labbra, ostentando una tranquillità che non provava. Nel frattempo, acuì l’udito per localizzare “il guardone”. Catalogò tutti i rumori, prima quelli all’interno del bar, poi quelli provenienti dalla strada: il cozzare di stoviglie e posate, il ronzio della macchina del caffè, lo sfrigolio della piastra nelle cucine, il rombo dei motori delle macchine, il chiacchiericcio dei passanti, lo scampanellio delle porte dei negozi. Pochi secondi più tardi, registrò un battito cardiaco familiare. Veniva dal marciapiede opposto al bar.

Poppy sobbalzò quando i loro occhi si incrociarono, mentre il ragazzo alla sua destra si irrigidì e impallidì. Regan sollevò la tazza verso la finestra ed elargì loro un piccolo cenno di saluto. Alcuni secondi dopo, i due entrarono nel bar e si sedettero al tavolo di Regan.

Lei continuava a ricordargli un folletto. Sulla testa aveva un berretto di lana rossa e intorno al collo indossava una sciarpa bianca, come il cappotto. I jeans erano di una tonalità molto chiara di azzurro e i piedi erano infilati in un paio di stivaletti neri.

Poppy emanava tensione da ogni poro. Regan avrebbe cercato di alleggerire l’atmosfera, se non avesse trovato spassoso osservarla muoversi impacciata e tentare di evitare il suo sguardo.

“Come mai mi stavate spiando?”

“Non ti stavamo spiando.” negò Poppy, ma le sue guance si imporporarono e il suo battito accelerò a causa della bugia.

Regan non glielo fece notare, preferendo sentire quale fosse la sua giustificazione. Era interessante ascoltare che tipo di scuse propinavano le persone per nascondere i misfatti: comunicavano sempre, e inavvertitamente, molti più dettagli sul loro carattere e il loro metodo di ragionamento, rispetto alla pura verità. La menzogna, per Regan, era la chiave per comprendere il mondo circostante e trarne anche un po’ di divertimento, perché ricca di sfaccettature e in evoluzione perenne. Se avesse dovuto conferirle un aggettivo, avrebbe scelto “dinamica”; la verità, invece, era un monolite che gravava sulle spalle dei viventi, schiacciandoli sotto al suo peso, resa sopportabile soltanto se la persona accettava di trasformarsi in una roccia altrettanto pesante.

“Stavamo facendo shopping e ti abbiamo visto dalla finestra. Quando ci hai notati, stavamo decidendo se venire a disturbarti o lasciarti in pace.”

Priva di inventiva, constatò Regan. Ancora giovane e ingenua, manipolabile.

“Mi fa piacere avere un po’ di compagnia.” le sorrise pacato, poi si rivolse al ragazzo, “Scusa, non credo che ci abbiano mai presentati. Sono Regan.”

“Cole.” rispose e strinse la mano che Regan gli aveva porto.

Un ciuffo di capelli biondi sbucava fuori dal berretto nero e i tiepidi raggi di sole che filtravano nel locale creavano strani giochi di luce nei suoi occhi, facendoli apparire a tratti verdi, a tratti azzurri.

“Non dovreste essere a scuola?”

“Le lezioni sono finite.” disse Poppy e il suo cuore accelerò di nuovo.

In quel momento, Regan capì che i due erano stati mandati da qualcuno a sorvegliarlo. Forse era stata Fiona.

“Okay. Beh, prendete qualcosa?”

Poppy ordinò una cioccolata calda con panna, Cole un caffè e un muffin.

“Che hai fatto di bello oggi?” gli chiese Poppy.

“Sono stato alla sinagoga a parlare con un rabbino per quella faccenda…” snocciolò, scoccando occhiate esitanti Cole per scoprire quanto sapeva.

“Tranquillo, gli ho parlato del demone di cui ti stai occupando.” lo rassicurò Poppy, “Lo sanno tutti.”

“Bene. Insomma, sono andato lì e ho incontrato un rabbino. Mi ha detto che avrebbe sottoposto il mio caso ai rabbini più anziani. Dovrei tornare domani per conoscere il verdetto.”

“Pensi che sia un Chabalim, giusto?” domandò Cole.

“È una teoria. Purtroppo, non ho prove per confermarla.”

“Hai altre teorie?”

“Non credo che questo sia il posto adatto per discuterne.”

I due ragazzi assentirono. Trascorsero la mezzora seguente a scambiarsi opinioni su musica, film e scuola. Più che altro, fu Regan a dominare la conversazione. Non era il genere di persona che amava perdersi in chiacchiere superficiali, ma, se non fosse stato per lui, avrebbero passato interminabili minuti immersi in un silenzio imbarazzante.

Terminate le bevande, Regan ritenne fosse giunta l’ora di congedarsi. Si alzò e fece per rivestirsi, quando Poppy lo fermò.

“Ti va di fare un giro della città?”

La sua voce grondava nervosismo. Regan non impiegò che un istante per capire che i due ragazzi non solo erano stati mandati a sorvegliarlo, ma dovevano anche tenerlo lontano dalla villa per un po’. Avrebbe voluto domandare il motivo di quella farsa e porvi fine, perché non aveva tempo per trastullarsi quando c’erano delle ricerche da fare, ma forse stare al gioco gli avrebbe fornito alcune risposte.

“L’ho già fatto con Sheila.”

“Ti ha mostrato anche il nostro altare?” si intromise Cole.

Quello catturò il suo interesse: “No. Di che si tratta?”

“Lo vedrai.”

Pagarono e lasciarono il bar. Dopodiché, Poppy e Cole gli fecero strada verso il bosco, facilmente raggiungibile in meno di mezzora se si seguiva il fiume. Una volta lì, procedettero con cautela per evitare di inciampare nelle radici degli alberi o in avvallamenti del terreno, ricoperto di foglie secche.

L’aria era fredda e umida. Il sole filtrava a malapena, nonostante i rami fossero spogli. Gli alberi sul confine erano giovani, ma più si addentravano nel bosco, più diventavano vecchi e alti, con il tronco robusto e rami tanto spigolosi quanto spessi.

Poppy e Cole avanzavano a passo sicuro, come se seguissero un sentiero invisibile. Regan non li perse mai di vista, anche se talvolta si lasciò distrarre dai leggeri tramestii provocati dagli animali o dai loro flebili richiami.

“Non rimanere indietro, Regan.” gli disse Cole, “Ci sono i cinghiali in quest’area.”

Il sole era basso all’orizzonte quando finalmente raggiunsero delle rovine. Nonostante la mancanza di simboli sacri, Regan realizzò che erano i resti di una piccola cattedrale gotica. Tre muri erano ancora in piedi, così come cinque colonne e l’altare. Il tetto e quella che doveva essere una torre, invece, avevano ceduto chissà quanti secoli prima. I blocchi di pietra si erano fusi con il terreno, trasformandosi in tumuli ricoperti di soffice muschio. Le poche finestre sopravvissute all’incedere del tempo, alla furia degli elementi e alla voracità della vegetazione, erano a sesto acuto, frammentate da colonnine abbellite con deliziosi fregi, prigioniere di fitti tralci di edera.

I raggi del sole disegnavano lame di luce sui contorni delle rovine, conferendo allo scenario un che di fatato, sospeso nel tempo. Il cinguettio degli uccellini e i rumori delle zampe degli animali nel sottobosco riempivano il silenzio saturo di magia.

“Wow…” esalò Regan, guardandosi intorno con genuina meraviglia.

“Secoli fa era un monastero gesuita, che poi venne convertito in chiesa.” spiegò Cole, “Ma quando è stata abbandonata, la nostra congrega l’ha reclamata.”

“Perché non lo avete ristrutturato?”

“Non trovi che sia più bello così?” replicò Cole, puntando lo sguardo sulle mura e i pinnacoli mozzati.

“Ammetto che ha un certo fascino.” concordò Regan, “Quindi questo è un altare delle streghe?” chiese poi, mentre indicava la grossa tavola di pietra in fondo ai resti della navata centrale.

“È il nostro altare. È stato benedetto dai primi Morgan che si insediarono ad Athens ed è rimasto alla congrega da allora. Veniamo qui durante le festività più importanti, per celebrare riti e unirci in comunione con la natura.” rispose Poppy.

Regan si accigliò: “In che senso?”

“Non balliamo nudi intorno a un fuoco, se è questo che stai pensando.” sbuffò divertito Cole, “Non sai proprio niente di stregoneria?”

“No. La donna che mi ha adottato, Deirdre, è nata in una congrega ma non ha ereditato il potere magico. Le hanno insegnato solo come maneggiare le erbe, i cristalli e i tarocchi, nulla di più. Perciò non ha mai potuto insegnare molto a me. Non che avesse senso farlo, dato che non pensavamo che possedessi il dono della magia.”

“Deirdre non sapeva che avevi sangue di strega nelle vene?” domandò Poppy.

Regan la osservò sedersi su un masso e fissarlo con curiosità. Cole restò in piedi, le mani affondate nelle tasche e il mento dentro il colletto del giubbotto.

“Lo sapeva.”

“Come? Vuoi dire che te lo ha nascosto per sedici anni?”

“A-ha. Non l’ho ancora perdonata per questo. Mi ha tenuto lontano non solo da un’importante parte di me, ma anche dalla famiglia di mia madre. La mia vera famiglia. Sheila è mia nonna, Andrew mio zio. Ho un legame di sangue con loro. Non aveva il diritto.”

“Vorresti rimanere con noi?” proferì pacata Poppy, finalmente priva della tensione che l’aveva accompagnata per tutto il pomeriggio.

Regan puntò gli occhi verso il cielo, che aveva assunto tinte color indaco e rosa. Inspirò a pieni polmoni l’odore di terra smossa, erba, muschio e pietra, crogiolandosi nella sensazione di serenità che lo avvolgeva. Le sue spalle si afflosciarono e i muscoli si rilassarono.

“Non sarebbe così male. Confesso che sono molto tentato. Se restassi, potrei imparare parecchie cose, sia su me stesso che sulla magia; potrei ricongiungermi veramente alla mia famiglia e ottenere quel che mi è stato negato dalla nascita; potrei finalmente deporre le armi o addirittura smettere di lottare contro il mondo, perché avrei a disposizione la forza e l’amore della mia congrega.” elencò con un sorriso, che divenne amaro quando incrociò lo sguardo di Poppy e Cole, “Per tutta la vita sono stato solo. Prima per mancanza di accettazione da parte del prossimo, poi per necessità, infine per scelta. Non conosco un’alternativa. Finora mi ero sempre rifiutato di desiderarla, in realtà. Convincersi di non volere qualcosa è meglio che volerla e fallire nell’ottenerla.”

Poppy e Cole si scambiarono un’occhiata fugace carica di sottintesi. A Regan non sfuggì, anche se finse di non accorgersene. Trattenne un ghigno sardonico e continuò a imbottire le loro orecchie di parole degne di una commedia drammatica. D’altronde, aveva bisogno di alleati.

“So di essere un mostro, un abominio. La mia esistenza sfida le leggi della natura, spingendo i più a pensare che, per mantenere un qualche equilibrio cosmico, io debba morire. E lo capisco, davvero. Credetemi: se potessi, mi libererei del vampiro che è in me in un batter d’occhio, così da poter abbracciare per intero la magia. Ma non posso. Sono nato così, e così mi tocca rimanere. Spero soltanto che un giorno capirete che non sono una minaccia per voi. Io proteggo con zanne e artigli le persone a cui tengo, come un pastore protegge il suo gregge, perché ne ho il potere e possiedo la volontà per farlo. Sono più forte di un umano, più spietato e con meno scrupoli morali. Non esiterei a uccidere per coloro che amo.” dichiarò, scrutando entrambi i ragazzi intensamente, “Nel momento in cui ho firmato il contratto di apprendistato col sangue, ho deciso di legarmi alla congrega Morgan. Ciò significa che, in quel preciso istante, siete tutti entrati a far parte della cerchia dei miei cari. Non c’è nulla che non farei per voi e con voi, perché adesso siete la mia famiglia. Deirdre mi ha insegnato che non esiste legame più forte, più fondamentale per un individuo, e io mi sono sempre trovato d’accordo. Non esiterei mai ad accordare i miei favori alla famiglia, qualunque sia la situazione.”

Poppy si alzò e si avvicinò a Regan. Si fermò di fronte a lui, sollevò le braccia e lo attirò a sé, nascondendo il viso rigato di lacrime nel suo collo.

“Scusa per come mi sono comportata con te, la prima sera.” bisbigliò con voce rotta.

“Non devi scusarti.” la rassicurò, cingendole i fianchi, “Avevi paura. È comprensibile. Anch’io avrei avuto paura, nei tuoi panni.”

Cole si accostò a loro con espressione combattuta: “Non avverti la voglia di nutrirti del nostro sangue?”

“La sete è una costante della mia vita, non potrò mai sbarazzarmene.” rispose, scostando Poppy da sé delicatamente, “Ma ho imparato a controllarla, con l’aiuto di Deirdre. Non vi farei mai del male, lo giuro. Siete la mia famiglia e io proteggo sempre ciò che considero mio. Anche da me stesso.”

Cole annuì soddisfatto e assestò un paio di pacche sulla spalla di Regan.

“So di non essere il benvenuto, non ancora.” proseguì.

Poppy scosse il capo: “No, Regan, certo che lo sei.”

“Bugia.” la rimproverò e le diede un buffetto affettuoso sulla guancia, “Ma mi sta bene, lo capisco. Prego solo che mi venga data una chance per provare la mia lealtà. La più difficile da convincere sarà Fiona. Si è sempre dimostrata disponibile da quando sono qui, ma percepisco la sua ostilità, la sua diffidenza.”

“Le parleremo noi.” promise Poppy.

“Lascia stare. Tra un paio di giorni devo comunque tornare ad Ashwood Port per risolvere il problema con il demone. Non c’è fretta. Magari il periodo di lontananza l’aiuterà a mettere le cose in prospettiva e, quando tornerò, sarà più propensa ad accettarmi. Preoccuparsene ora aggiungerebbe ulteriore stress a quello che già ho per tutte le altre questioni di cui devo occuparmi.” le disse e, vedendola incerta, continuò, “Davvero, Poppy. Ti ringrazio, ma sto bene.”

Detto ciò, li squadrò entrambi con un sorrisetto divertito e incrociò le braccia sul torace.

“Adesso posso chiedervi perché non volete che torni alla villa? Per quanto mi piaccia questo posto, vorrei approfondire le ricerche sul mio demone. Ogni minuto è prezioso.”

I due si irrigidirono, sentendosi colti in flagrante.

“Ehm, ecco… Fiona ci ha detto di avere una cosa importante da fare e aveva bisogno della casa libera.” balbettò Poppy, imbarazzata.

“Una cosa che riguarda me, suppongo.”

“Questo non lo sappiamo.” disse Cole.

“Se non riguardasse la mia bella personcina, me lo avreste detto al bar. Non avrei avuto problemi ad acconsentire a un giro turistico, se avessi saputo che Fiona voleva la casa tutta per sé per qualche altra ora per fare le sue cose. Invece avete usato delle scuse per tenermi lontano. Ergo, o sta parlando di me con qualcuno o mi sta preparando una festa a sorpresa. Dubito che sia la seconda. Sul serio non sapete niente?”

Poppy e Cole scossero la testa in sincrono.

“Gli ordini della Prima non si discutono.” recitò Cole, “È una cosa che ci insegnano sin da bambini.”

“Nemmeno se sono sbagliati? Nemmeno se vanno contro i vostri ideali?”

“La Prima sa cosa è meglio per la congrega.”

“Se ciò che è meglio per la congrega è dannoso per il singolo, lo accettate lo stesso?”

Cole serrò le labbra e distolse lo sguardo, a disagio: “Anche se non siamo d’accordo, non possiamo contestarla. Siamo solo novizi.”

“Capisco.” sospirò Regan, “Beh, per quanto ancora devo restare fuori?”

“Fiona ha detto fino all’ora di cena.”

“Okay. Mancano…” estrasse il cellulare dalla tasca e controllò l’orologio sullo schermo, “un paio d’ore circa. Che facciamo?”

“Potrei insegnarti un piccolo incantesimo!” propose Poppy con un sorriso eccitato.

Regan rizzò le antenne: “Che genere di incantesimo?”

Poppy frugò nella tasca interna del giubbotto ed estrasse un sacchettino di stoffa rosa: “Hai mai visto Harry Potter?”

“Ho letto i libri.”

“Hai presente quando Hermione tira fuori una borsetta tipo questa, incantata per contenere oggetti all’infinito? O quando Harry va con gli Weasley a vedere una partita di Quidditch e, entrando nella tenda, scopre che le dimensioni interne sono più grandi di quelle esterne? Oppure puoi pensarla come la borsa magica di Mary Poppins. Questa qui è una cosa simile. In realtà, non serve che sia per forza un sacchetto o una borsa. Puoi scegliere uno scrigno, una scatola, una stanza, eccetera.”

“Tipo la Stanza delle Necessità? Un attimo… intendi dire che quello che hai in mano è una specie di magazzino gigantesco?”

“Già.”

Regan boccheggiò, gli occhi accesi da una scintilla infantile: “Insegnami!”

“Okay.” Poppy ridacchiò, “Innanzitutto, scegli il contenitore. Hai nulla con te che potrebbe fare al caso nostro?”

Regan si tastò addosso, ma non trovò altro che portafoglio e cellulare. Poppy gli aprì il giubbotto.

“Mh, vediamo… ah! Potresti usare una tasca, per esempio. L’importante è che si possa chiudere con una cerniera o più di un bottone. Insomma, deve restare chiusa se non la usi.”

Regan si tolse il giubbotto e le indicò la tasca interna, completa di cerniera: “Questa può andar bene?”

“Perfetto. Poi devi visualizzare nella tua mente lo scopo che vuoi dare alla tasca: vuoi che diventi l’accesso a quella che io chiamo ‘dimensione magazzino’ e vuoi che lo spazio sia infinito. Se lo desideri, puoi creare delle sezioni: libri, vestiti, cartoleria, quello che ti pare. Così, quando vorrai qualcosa di specifico, ti basterà visualizzare la sezione che ti interessa prima di infilare la mano. Secondo me, è molto meglio che buttare tutto alla rinfusa. Se tu dovessi mettere nella tasca, che so, penne e libri e una delle penne si rompesse spargendo inchiostro ovunque, i libri si rovinerebbero. Oppure, nel caso di, boh, un mobile, è possibile che, sotto al suo peso, qualcosa di più fragile si rompa.”

“È uno spazio soggetto alle leggi di gravità, quindi. Le cose non fluttuano nel vuoto.”

“Dipende da te, in realtà. Se vuoi che fluttuino nel vuoto, possono farlo. Ma sarebbe il caos.”

“E ordine sia. Che altro devo fare?”

“Hai visualizzato lo scopo e le sezioni?”

“Sì.”

“Okay. Ora devi dire la formula.”

“È in latino?”

Cole sbuffò una risata.

“Se vuoi usare il latino per aggiungere una nota di solennità, puoi farlo, ma non è necessario.” rispose Poppy.

“Ma se la formula è nella nostra lingua, chiunque potrebbe usarla, no?”

“Chiunque dotato di magia. Se le persone normali la pronunciassero, non accadrebbe niente.”

“Oh, okay. Qual è la formula?”

Evoco il potere di conservare e proteggere. Dalla mia mente alla tasca, che spazio illimitato mi venga concesso.” recitò, “Ho usato la parola ‘tasca’ perché è il contenitore che tu hai scelto. Posaci sopra la mano, concentrati e di’ la formula.”

“Sembra facile.” borbottò Regan e, poggiando la mano sulla tasca, ripeté l’incantesimo.

Per lunghi momenti non accadde niente. Poi, all’improvviso, Regan avvertì un piacevole tepore irradiarsi nel palmo e udì un lieve pop. Ritirò la mano e osservò con cipiglio critico la tasca.

“Ha funzionato?”

“Scoprilo. Infila la mano nella tasca.” lo incoraggiò Poppy.

Regan obbedì. Aprì la cerniera e infilò due dita, tastando le pareti di stoffa. Inarcò un sopracciglio e guardò Poppy con una smorfia delusa, ma lei gli ordinò di continuare. Allora Regan seppellì tutta la mano dentro la tasca, poi il polso, l’avambraccio. Via via che proseguiva, i suoi occhi si sgranavano.

“Porca miseria! È una figata pazzesca! Potrei infilarmici con tutto il corpo?”

“Non te lo consiglio.”

“Perché?”

“Perché non riusciresti più a uscirne. Sei tu che evochi fuori dal magazzino gli oggetti, perché tu lo hai creato. Se ti ci infili dentro, non puoi evocarti fuori. Senza contare il fatto che, siccome la dimensione non è fatta per sostenere la vita, non avresti ossigeno. In pratica, moriresti.”

“Ah. Perciò è meglio evitare di ficcarci dentro esseri viventi. Ricevuto. È lo stesso una figata.”

Per fare una prova, decise di metterci dentro il portafoglio. L’oggetto scomparve nella tasca, senza lasciare traccia. Quando Regan la toccò dall’esterno, notò che sembrava vuota. Immerse di nuovo la mano nella tasca, pensò al portafoglio e, in un attimo, si ritrovò a stringerlo tra le dita. Lo estrasse con aria meravigliata e un sorriso trionfante.

“Grazie, Poppy. Questo incantesimo mi sarà utilissimo! Non dovrò più preoccuparmi di venire schiacciato dal peso dello zaino o di non avere più posto per i libri sugli scaffali.”

Regan era su di giri. Il suo cervello stava lavorando a pieno ritmo, immaginando i numerosi scenari in cui avrebbe potuto usare l’incantesimo della “dimensione magazzino”. Finalmente aveva il posto perfetto per nascondere gli appunti sul demone dalle manie ficcanaso di Derek, gli amuleti protettivi di Deirdre, i libri di magia di cui sarebbe entrato in possesso al più presto e una miriade di altre cose. 

“Inoltre, ricorda: puoi accedere a questa dimensione magazzino solo attraverso la tasca del tuo giubbotto. Se perdi il giubbotto, perdi la dimensione e tutto ciò che essa contiene.” aggiunse Poppy.

Regan strinse spasmodicamente al petto il giubbotto, giurando che non se ne sarebbe mai separato, nemmeno per andare a dormire. Poi gli balenò in testa un’altra domanda.

“Esiste un incantesimo per sigillare la dimensione, o eliminarla?”

“Ehm… non che io sappia.”

“Okay, ora credo che sia meglio tornare. È tardi.” disse Cole.

Regan indossò di nuovo il giubbotto e seguì lui e Poppy attraverso il sentiero invisibile tra gli alberi. Il sole era tramontato e i rami proiettavano ombre sinistre intorno a loro.

Affiancandosi a Poppy, tanto per riempire il silenzio le domandò come mai avesse iniziato l’apprendistato da ragazza, invece che da bambina.

“Quando si è bambini, è difficile controllare il potere.” spiegò Poppy, “Quando avevo sei anni, mi arrabbiai e diedi fuoco alla mia bambola preferita. Due giorni dopo, mentre giocavo al parco, evocai per sbaglio l’elemento dell’aria per scaraventare un bambino antipatico contro un albero. Si ruppe il braccio.”

“A maggior ragione, sarebbe più intelligente iniziare in tenera età.”

“Manca la maturità per gestire il potere, Regan. Da bambino sei facile preda delle emozioni. Basta un nulla per perdere il controllo e provocare incidenti.”

“E allora cosa fate? Vi chiudono in casa finché non raggiungete la pubertà?”

“Appena il potere si manifesta, la Prima compie un rito sul bambino per limitare l’uso della magia fino a renderla dormiente.”

“Ci viene disegnato un sigillo sul corpo.” intervenne Cole, “Il sigillo di contenimento. Ne esistono due: uno per gli esseri viventi e uno per gli oggetti. Sicuramente hai visto i sigilli disegnati sul soffitto della biblioteca, alla villa.”

“Sì, li ho visti. Fiona ha detto che sono lì per evitare incidenti.”

“Esatto.”

“Ma sono riuscito lo stesso a causare danni, durante il test del fuoco.”

“Ne abbiamo sentito parlare. È raro che accada, ma non impossibile. Vuol dire che hai una grande affinità con l’elemento del fuoco. Posso chiederti di che segno sei?”

“Leone.”

“Un segno di fuoco.”

“È già successo che un novizio perdesse il controllo?” chiese Regan.

“Certo. Le nostre cronache riportano vari incidenti simili a quello che hai provocato tu. Streghe che perdono il controllo di un elemento o che sbagliano gli ingredienti per una pozione, o addirittura le parole di un incantesimo. Nessuno è perfetto.” Poppy gli scoccò un sorrisetto e abbassò la voce, “Sai, anche Fiona ha provocato qualche danno nella sua giovinezza.”

“Tipo?”

“Mia madre mi ha raccontato che quando Fiona aveva quindici anni, ha evocato per gioco uno spirito maligno attraverso una tavoletta Ouija. Sembra la tipica trama di un film horror, eh?”

“Cos’è successo?” domandò curioso.

“Le streghe anziane e la precedente Prima sono intervenute dopo che la sorella di Fiona, Siobhan, è stata posseduta dallo spirito. Lo hanno intrappolato e costretto alla resa. Allora lo spirito ha cercato di uccidere Siobhan in ritorsione, ma le streghe lo hanno fermato e bandito prima che potesse farlo. Siobhan, però, non è uscita indenne dall’esperienza.”

“È impazzita?”

“Diciamo di sì. Soltanto il suo grande potere, che rivaleggiava con quello di Fiona, le ha permesso di accedere al test per diventare la futura Prima, anche se non lo ha superato.”

“È morta, giusto?”

“Sì. Fiona porta ancora il lutto, nonostante siano passati anni. Nel giorno della morte della sorella, va sempre alle rovine per meditare e purificarsi. È convinta che sia colpa sua se Siobhan è morta durante la prova. La possessione aveva distrutto una parte della sua mente, rendendola vulnerabile a certi attacchi.”  

Regan mugugnò, soprappensiero. Per il resto del tragitto nel bosco rimase in silenzio. Quando imboccarono di nuovo la strada per il centro, decise di provare a estorcere qualche informazione sulla villa, in particolare sul luogo in cui erano nascosti i libri più preziosi della congrega.

“Perché ti interessa?” gli chiese Poppy.

“Vorrei consultare dei libri di demonologia. Nella biblioteca non ho trovato niente. Mi servirebbero dei testi più specifici, così da capire che cosa dovrò affrontare al mio ritorno. Non voglio morire, sai com’è.”

“Dovrai domandare il permesso a Fiona, dato che è lei il tuo supervisore fintanto che resterai qui.”

“Non sembra molto propensa ad aiutarmi…” bofonchiò imbronciato, “Ha detto che lo avrebbe fatto, ma finora non mi ha fornito nessun libro o consiglio in merito al demone. Per questo sono andato alla sinagoga. Mi rimangono due giorni e sto cominciando a sentire una certa ansia alla prospettiva di tornare a casa a mani vuote. O con informazioni vaghe e teorie non confermate.”

“Hai chiesto a Sheila?” lo interrogò Cole.

“No, ma lo farò. Il posto in cui sono conservati i libri che mi interessano si trova nella villa?”

“No. È una dimensione magazzino. Il punto di accesso si trova nella villa. Nei sotterranei, per la precisione. Personalmente, non l’ho mai visto. Ai novizi è proibito scendere laggiù.” disse Poppy.

“Come è fatta? La biblioteca segreta, intendo.”

La ragazza fece spallucce: “Non lo so. Mia madre dice che è un piccolo labirinto, protetto da potenti incantesimi. Se stai pensando di intrufolarti lì dentro, toglitelo dalla testa. Ti scoprirebbero subito o ti perderesti.”

“Quel posto è immenso e ben protetto.” spiegò Cole.

“Se è una dimensione magazzino come dite, allora non serve entrarci. Basta evocare il libro giusto da fuori.”

Regan realizzò che i due ragazzi si erano fermati quando finì di attraversare il passaggio pedonale. Si girò e li vide immobili sul marciapiede opposto, le espressioni scioccate di chi ha appena ricevuto un’epifania. Si riscossero dopo qualche secondo e lo raggiunsero correndo.

“Regan, sei un genio!” esclamò Cole, “Sai da quanto è che sogno di scoprire cosa c’è là dentro?”

“Frena l’entusiasmo.” lo blandì Poppy, “Se hanno usato quell’incantesimo, solo chi lo ha lanciato può evocare gli oggetti dalla dimensione magazzino.”

“Quella specie di libreria è lì da secoli, eppure Fiona e le altre streghe anziane ci sono entrate spesso, anche se non sono state loro a crearla.” le fece notare Cole.

“Si può passare il testimone?” si intromise Regan, “Insomma, si può consegnare le chiavi a qualcuno per far sì che possa accedere alla dimensione magazzino, nel caso in cui il suo creatore sia impossibilitato a farlo di persona?”

Poppy e Cole rifletterono in silenzio. Poi Poppy, aggrottando le sopracciglia, scoccò a Regan un’occhiata incerta.

“Credo di sì. Non conosco l’incantesimo del passaggio del testimone, però.”

“Sarà simile a quello per creare la dimensione magazzino. Stessa tipologia, almeno.”

“Stai pensando di provare?” bisbigliò Cole, guardandosi intorno con aria febbrile, “Se ti beccano, ti puniranno.”

“Ho un demone da cacciare e innocenti da salvare. Venire punito per questo è l’ultimo dei miei problemi.”

“Le tue intenzioni sono nobili, Regan, ma…”

“Ti beccheranno di sicuro.” Poppy scosse il capo con veemenza, come se l’idea fosse una fastidiosa mosca da scacciare, “Se mancherà un solo libro all’appello, se ne accorgeranno. Basta che vadano a controllare una volta e sei fritto. E non sappiamo quali incantesimi di protezione ci sono. Potrebbero aver piazzato un allarme, che scatta non appena un estraneo tenta di evocare qualcosa. O, addirittura, uno che avverte direttamente Fiona se un novizio sfiora per sbaglio la porta dei sotterranei. Ci sono troppe incognite, Regan. E non puoi rischiare di inimicarti Fiona proprio adesso.”

“Conoscete un incantesimo che mi permetta di copiare dei libri in poco tempo? Tipo su un quaderno.” domandò Regan, ignorando le proteste di Poppy.

“C’è un incantesimo che ti consente di rendere le pagine di un libro o un quaderno infinite. È molto simile a quello per creare la dimensione magazzino.” rispose Cole.

“Qual è?”

Cole glielo recitò e Regan lo memorizzò subito.

“Okay. Ma per copiare esiste niente?”

“Forse…”

“No, Cole. Non si può.” lo rimproverò Poppy.

“Beh, meglio che rubare i libri originali, non trovi?” sbuffò il biondo, “E non vuole consultare quei libri per nuocere a qualcuno, anzi, è esattamente il contrario. Ne ha bisogno, Poppy. Se le cose dovessero andargli male, sei sicura che ne usciresti con la coscienza pulita?”

Poppy si morse il labbro inferiore, incrociò le braccia sul petto e puntò gli occhi sulla vetrina del negozio alle spalle di Regan.

“Non conosco un incantesimo per copiare, purtroppo, né mi viene in mente dove potrei cercarlo. Ma ne so un altro che potrebbe fare al caso tuo.” disse allora Cole, rivolgendosi a Regan, “Ti suggerisco soltanto di usarlo con estrema prudenza.”

“Perché?”

L’atmosfera tesa e solenne che all’improvviso era calata su di loro provocò a Regan un certo disagio.

“Si tratta di un incantesimo che ti permette di assorbire le parole di un libro. Qualche volta l’ho usato per prepararmi ai test scolastici. Lo so che è come barare, ma non sono certo l’unico che usa sotterfugi quando ci sono test o esami in vista.” rivelò Cole e gli cinse le spalle con un braccio per spronarlo a camminare, per poi inclinare la testa verso la sua in modo da poter sussurrare nel suo orecchio.

Regan si impose di resistere all’impulso di scrollarsi di dosso il suo braccio e azzannarlo alla gola.

“E come mai mi vuoi mettere in guardia? Mi pare che sia perfetto.”

“Pensa alla tua mente come un contenitore, tipo quelli di plastica che si usano per conservare il cibo. La capacità di quei contenitori è limitata, più di un tot non ci puoi infilare. Mi segui?”

“Sì.”

“Vale lo stesso per il tuo cervello. Per far posto a nuove informazioni, spesso quelle vecchie e inutili vengono rimosse.”

“Vuol dire che se assorbo troppi libri, perderei dei ricordi?”

“Esatto. E li perderesti all’istante, senza nemmeno rendertene conto. Inoltre, non puoi sapere quali ricordi spariranno, è un processo casuale. È un po’ il prezzo da pagare per ottenere la conoscenza attraverso simili scorciatoie.”

“E una volta assorbiti, non posso riversarli su un quaderno, in modo da liberare spazio? Come quando sul computer hai la scheda di memoria piena. Prendi i file e li sposti da un’altra parte.”

“Beh, nessuno ti vieta di trascrivere quei file su dei quaderni in un secondo momento.”

“Intendevo tramite un incantesimo. Non ho abbastanza tempo per fare l’amanuense.”

“No, mi dispiace. Ma anche se li trascrivi, i ricordi persi rimarranno persi.”

Mentre annuiva, Regan iniziò subito a elaborare varie strategie. I rischi erano alti, ma aveva già deciso di tentare. Nulla lo avrebbe distolto dai suoi propositi.

“Regan, ti consiglio vivamente di non fare ciò che stai pensando.” intervenne Poppy, affiancandosi a lui dal lato opposto a Cole.

“È pericoloso, lo so, ma-”

“Fiona potrebbe rescindere il tuo contratto di apprendistato ed esiliarti, come è successo a Shannon.” lo ammonì.

Regan contrasse la mascella e indurì lo sguardo.

“Questo è un colpo basso, Poppy.” commentò Cole.

“No, ha ragione. Non posso alienarmi la benevolenza della Prima. Sto camminando sul filo del rasoio da quando sono arrivato.” disse Regan e le sorrise con aria sconfitta, “D’accordo, chiederò a Sheila di evocare dei libri per me. Non ci sarebbe nulla di male, giusto?”

Poppy rilassò le spalle e sospirò: “Mi sembra la mossa più ragionevole.”

Giunti in prossimità del cancello, Regan salutò gli altri due e diede loro le spalle. Appena mise piede sul vialetto d’ingresso, notò che la villa sembrava deserta. Una volta entrato, prese atto della semi oscurità che regnava nelle stanze e si impensierì. Acuì l’udito. Con un misto di sollievo e preoccupazione, colse i battiti di Sheila e Fiona nello studio. Decise di non disturbarle e si recò in camera per spogliarsi.

Mentre indossava una tuta comoda, rifletté sul da farsi. Non voleva agire alle spalle della congrega, perché se lo avessero scoperto avrebbe perso la loro fiducia. Ma se continuavano a ignorarlo, non gli restava che risolvere il problema del demone da solo. Avrebbe chiesto a Sheila un consiglio durante la cena, tanto per tener fede alla promessa fatta a Poppy. Se in cambio non avesse ricevuto niente, allora sarebbe sgattaiolato nel seminterrato quella stessa notte.

Era venuto ad Athens per un motivo preciso, d’altronde. Apprendere la manipolazione delle erbe, dei cristalli e del fuoco si era rivelata un’esperienza mistica e senza dubbio utile, però non era mai stato ciò che voleva. Sentiva di stare perdendo tempo prezioso. Paradossalmente, era stata più d’aiuto una misera ora in compagnia di un rabbino che quattro giorni trascorsi a vivere sotto lo stesso tetto di una potente congrega di streghe.

Roman non gli aveva riferito di altri attacchi da parte del demone. Derek diceva che i cacciatori erano a un punto morto. Eppure, qualcosa gli diceva che non era ancora finita. Non che Regan contasse di fare la differenza, ma almeno lui poteva percepire il demone.

Forse il legame psichico era la chiave. Non doveva reciderlo, poteva sfruttarlo a suo vantaggio, alimentarlo per trovare il demone e usarlo contro di lui, ripagandolo con la stessa moneta. Quel legame andava in entrambe le direzioni: se il demone lo usava per mandargli incubi e scombussolare i suoi sensi, magari Regan avrebbe potuto fare lo stesso. L’unico problema era che non possedeva l’esperienza o la scaltrezza di un demone antico di chissà quanti anni.

Tirò fuori il borsone dall’armadio e frugò all’interno in cerca di una siringa di sangue. La sua mano si strinse sull’ultima della scorta. La fissò combattuto, con l’acquolina in bocca. Gli rimanevano ancora due giorni, sabato e domenica. Non poteva sprecarla.

Si umettò le labbra, ipnotizzato da quel denso colore rosso. Inspirò, riempiendosi i polmoni dell’effluvio ferroso che gli faceva sempre gorgogliare lo stomaco e prudere le gengive. Rimpianse di aver rifiutato la proposta di Deirdre di dargliene dell’altro. Serrò le palpebre, deglutì e sollevò la siringa per portarsela alle labbra.

Solo un sorso, si disse. Uno piccolo, un misero assaggio.

Premette lo stantuffo e accolse avidamente sulla lingua quel poco che si era concesso. Dovette farsi violenza per non bere tutto il sangue, fino all’ultima goccia. Ingoiò e gettò di nuovo la siringa mezza piena nel borsone, per poi richiudere in fretta la cerniera per evitare di cadere in tentazione.

Alle sette, Sheila venne a chiamarlo per cena. Erano solo loro due, perché Fiona era impegnata. Si sedettero al tavolo di cucina e mangiarono in silenzio le lasagne. Non erano buone come quelle di Deirdre, ma Regan le mangiò lo stesso con gusto.

Mentre masticava, osservò di sottecchi Sheila per capire la ragione del suo mutismo. La strega teneva lo sguardo fisso sul piatto, le spalle tese e l’espressione vagamente contrita. Onestamente, Regan non sapeva se rompere il ghiaccio o lasciarla in pace.

“Sheila.” la chiamò esitante.

“Mh?”

“Vorrei chiederti una cosa.”

“Dimmi.”

Sheila non alzò mai gli occhi dalle lasagne mentre gli rispondeva a monosillabi. La sua voce aveva un’inflessione dura, aggravata.

“Okay. Ehm… ecco, pensi che potresti procurarmi dei libri di demonologia? Fiona ha detto che li avete. Li consulterei e basta, se vuoi anche davanti a te.”

“Perché?”

Regan inarcò un sopracciglio: “Come perché?”

“Con quei libri non si scherza, Regan.”

“Lo so. Ma ti ricordo che c’è un demone che sta terrorizzando la mia città. Sono venuto ad Athens proprio per cercare una soluzione. O lo hai dimenticato? Non sono qui per giocare alla congrega felice.”

Sheila ingoiò il boccone di lasagna che stava masticando e bevve un sorso d’acqua. Quando posò il bicchiere sul tavolo, sospirò e finalmente incrociò lo sguardo di Regan. Il suo era velato da un’emozione che il ragazzo interpretò come rammarico. Confuso, la scrutò attentamente e ciò che vide non gli piacque affatto.

“Sheila, che succede?” domandò pacato, i sensi all’erta e i muscoli tesi, pronti all’azione.

“Niente.” rispose Sheila e scosse il capo, poi parve ripensarci, “È che…” si bloccò, sospirò e sventolò una mano, “Lascia stare. Che libri ti interessano? Hai dei titoli?”

“Sheila.”

“Non è nulla.” gli rivolse un sorriso falso e lo incoraggiò a elencargli i titoli.

“In realtà, non sono ferrato in materia.” disse Regan, “Tu hai qualche lettura da consigliarmi?”

“Dipende dal tipo di demone. Hai capito qual è?”

“No. Oggi sono stato alla sinagoga, perché speravo che la pista del Chabalim mi avrebbe condotto da qualche parte. Tornerò là domani per avere delle risposte chiare, ma non ci conto molto.”

“In tal caso, nemmeno io posso aiutarti. Esistono tanti libri di demonologia quante sono le culture del mondo, Regan. Devi restringere il campo.”

“So che è legato all’oriente. Asia, credo.”

“Restringi ancora.”

“Eh… boh.”

“Uhm.”

Sheila si alzò per riporre i piatti nell’acquaio e cominciò a lavarli.

“Davvero non c’è niente che tu possa farmi leggere? Non hai alcun suggerimento?” insisté Regan.

“Mi dispiace.” mormorò sottovoce.

Regan ebbe la netta impressione che non si stesse scusando solo per il mancato aiuto nella sua ricerca. Gli stava nascondendo qualcosa, ormai era chiaro.

“Volete che me ne vada, vero?”

Sheila perse la presa su una forchetta, che precipitò nell’acquaio con un tintinnio assordante. Si voltò verso di lui con la bocca socchiusa, in procinto di negare. All’ultimo momento, però, sigillò le labbra e le strinse con forza, come se volesse impedire alle parole che si agitavano nella sua gola di uscire.

Regan la fissò incredulo: “Mi avete praticamente ricattato per firmare il contratto di apprendistato, e ora non mi volete più? Che ho fatto di male?”

Sheila rimase in silenzio.

“Perché non parli? Perché fatichi pure a guardarmi? Fino a ieri mi pareva che avessimo instaurato un buon rapporto. Cos’è cambiato nell’arco di ventiquattro ore?” indagò con una veemenza a stento controllata, “È per l’incendio che ho causato durante il test del fuoco? Se è così, ho già detto che mi dispiace.”

“Regan, io…” balbettò turbata, “Non posso spiegarti, ma-”

“Non mi merito nemmeno una spiegazione, dunque. Mi cacciate su due piedi perché vi va. Della serie ‘Addio, Regan, grazie per essere passato e non farti più vedere’.” sputò con palese sdegno, per poi rannuvolarsi, “Non mi dirai che è per la mia natura. Una cosa su cui non ho mai avuto scelta, peraltro.”

“È per il tuo bene, Regan.”

“Risparmiami le stronzate, Sheila.” la sedò brusco, “Non sono un ragazzino idiota. Nella vita ho ingoiato parecchi bocconi amari e so riconoscere una menzogna quando mi sta di fronte. Quando usa come veicolo la mia vera nonna per ferirmi dove fa più male. Dimmi cosa sta succedendo. Ora, se possibile, di grazia e per favore.” sibilò tra i denti.

Regan vide Sheila impallidire. La vide appoggiare le mani tremanti sul bordo dell’acquaio e stringere finché le nocche non divennero bianche. La vide incassare la testa fra le spalle, chiudere gli occhi e contrarre i muscoli del viso. Infine, la udì singhiozzare, inspirare sonoramente ed esalare un sospiro carico di profonda sofferenza.

“Non sei al sicuro con noi. Ti prego, vattene. Raccogli le tue cose, corri alla stazione e salta sul primo pullman.”

“Sono in pericolo? Qualche strega sta pensando di attaccarmi?” chiese Regan mentre si alzava.

La sedia provocò uno stridio quando strusciò sul pavimento, ma nessuno dei due vi badò.

“Non stai simpatico a Fiona.” sbuffò Sheila, “Ti teme, per quello che potresti fare. Che sei capace di fare.”

“E cosa sarei capace di fare, Sheila?”

Lei scrollò di nuovo il capo. Quando tornò a parlare, nella sua voce c’era più urgenza.

“Regan, ascoltami. Devi andartene.”

Il ragazzo assottigliò le palpebre e la trafisse con un’occhiata gelida.

“No.” proferì, chiaro e conciso.

Sheila si girò di scatto, una protesta pronta sulla punta della lingua, ma Regan non le permise di esprimerla. Era stanco di enigmi e giochetti, adesso avrebbe fatto sul serio.

“Non finché non avrò ottenuto le risposte che cerco. Indicami dove posso trovarle, poi me ne andrò.”

“Non le avrai. Non da me.”

“Perché? Vuoi che altri innocenti muoiano? Vuoi lasciare a piede libero un demone senza fare niente?”

“Non si tratta del tuo demone, Regan, ma di te!” sbottò spazientita.

“Di me? In che senso?”

Sheila grugnì e si passò le mani sulla faccia: “Ti prego. Ti scongiuro. Vattene. Scappa.”

“Da chi?”

“Da tutti noi…”

 
*
 
Jennifer urtò con la schiena il tronco di un albero e cadde carponi con un gemito. Le costole rotte guarirono in pochi istanti e il dolore svanì altrettanto velocemente. Si fermò a riprendere fiato.

Il suo respiro si condensò in piccole nuvolette di vapore davanti al viso, ma lei non sentiva freddo. La sua temperatura corporea, adesso, era più alta e il clima esterno non la scalfiva più. Vincent le aveva detto che d’ora in avanti non si sarebbe più ammalata, le sue difese immunitarie l’avrebbero protetta e guarita da qualsiasi cosa. Eccetto il cancro.

“Basta così, per oggi.” le disse Sean.

“No, ce la faccio.” ansimò, rimettendosi faticosamente in piedi.

I piedi nudi affondarono nel suolo gelido, ricoperto da un sottile strato di neve. Con gesti esperti si legò di nuovo i capelli spettinati in una coda e si scrocchiò il collo.

Si allenavano da ormai sei ore. Il sole stava per tramontare, ma era impossibile scorgerne la sagoma attraverso il denso banco di nubi che oscurava il cielo.

“Sei un lupo mannaro da appena qualche giorno, Jennifer. Strafare ti porterà al fallimento. Prenditela con calma, non c’è fretta.”

“Ma la luna piena è vicina.” protestò e, al solo pensiero, rabbrividì, sentendo l’ansia montare.

“Verrai incatenata nel bunker e io resterò con te per tutto il tempo. Non hai nulla da temere.”

Jennifer non nascose la propria ansia. Tutta quella faccenda era a dir poco assurda. Faticava a venire a patti con la nuova realtà, a volte le sembrava di stare sognando. Inoltre, mantenere il segreto con la sua famiglia e con Charlotte era più difficile di quanto avesse immaginato. Non le era mai venuto naturale mentire. Se solo ci provava, cominciava a balbettare e ridacchiare nervosamente, smascherandosi subito.

L’unica nota positiva che la spronava a non abbandonarsi a una crisi isterica era la presenza di Roman. Adesso che facevano parte dello stesso branco – quella parola le provocava ancora una buffa sensazione alla bocca dello stomaco – passavano più tempo insieme. Jennifer aveva avuto modo di osservare il ragazzo sotto una luce diversa, notando per la prima volta piccoli dettagli che prima le erano sfuggiti.

A cominciare dal suo odore. Roman aveva un odore buonissimo, che la attraeva come un’ape sul miele. Anche se ogni volta che la guardava il senso di colpa aggiungeva una nota amara alla sua essenza di base, Jennifer non poteva esimersi dal riempirsene i polmoni.

Il rapporto che Roman aveva con i familiari non era semplice. C’era tensione tra lui e Vincent, mentre con la madre era più aperto. Con Ruby e Sean non parlava molto e giocava con i cugini assai di rado. Era un branco molto diviso, nonostante cercassero di salvare le apparenze, soprattutto quando c’era lei. Questo la intristiva, non le piaceva vedere soffrire Roman, così coglieva ogni occasione per tirarlo su di morale.

Roman non si era ancora rilassato in sua compagnia, però. Manteneva le distanze, i suoi sorrisi erano forzati e le rivolgeva a malapena la parola, accrescendo la frustrazione di Jennifer. Non aiutava il fatto che Roman trovasse sempre il modo di infilare Regan nelle loro conversazioni, non importava di cosa stessero parlando.

Ecco, una cosa curiosa era che, da quando era stata morsa, la sua opinione su Regan era cambiata. Ricordava di averlo sempre considerato un tipo strambo, inquietante, da cui il suo istinto le suggeriva di tenersi alla larga. Poi, un giorno, quasi come per magia, aveva iniziato a rispettarlo e trovarlo simpatico, persino tenero. Se qualcuno osava offenderlo in sua presenza, lo difendeva come se fosse stato il suo migliore amico. Ora, invece, era tornata al punto di partenza. Anzi, peggio. Pensare a Regan non solo la metteva a disagio, ma le suscitava pure un irrazionale ribrezzo. Jennifer non dubitava che, appena lo avesse rivisto, avrebbe tentato di azzannarlo.

“Jennifer, andiamo.” la esortò Sean, indicandole con un cenno del capo il sentiero.

Lei gli si accodò svelta. Mentre osservava la sua schiena, ipnotizzata dai movimenti fluidi dei muscoli, ponderò l’idea di parlare di Regan con Sean, chiedergli se fosse normale desiderare di uccidere qualcuno che avrebbe dovuto essere tuo amico. Alla fine, desistette. Magari era solo un problema di autocontrollo. Se avesse imparato a tenere a bada gli istinti animaleschi, forse la voglia di squarciare la gola di Regan a morsi sarebbe sparita.

D’altronde, Regan non era parte del branco. In quanto lupo mannaro appena trasformato, Jennifer aveva già manifestato un certo astio nei confronti degli esterni, anche con i suoi genitori. Una volta abituatasi alla sua nuova natura, sarebbe riuscita a convivere con gli altri pacificamente.

Forte dei pensieri positivi, accelerò il passo e si affiancò a Sean, che le rivolse un sorriso paterno.

Tornata a casa Sinclair, fece la doccia nel bagno degli ospiti e si rivestì con indumenti puliti nella camera che le era stata assegnata.

I Sinclair l’avevano accolta a braccia aperte, come se fosse già di famiglia. Era libera di mangiare quello che voleva e di leggere tutti i libri della biblioteca. Se aveva domande, non doveva far altro che chiedere.

Non si era mai sentita tanto benvenuta e benvoluta. La bestia in lei si quietava quando era in compagnia del branco e l’aura dell’alfa le dava una sicurezza che non aveva mai provato prima d’ora. Vincent era dalla sua parte, l’amava incondizionatamente, e approvava il suo interesse per Roman. Jennifer trovava un po’ imbarazzante sentirsi spingere tra le braccia del ragazzo con tanto genuino entusiasmo, ma era anche lusingata.

Trevor e Nina erano adorabili. La chiamavano già “sorellona” mentre giocavano. Ruby era fantastica, Sean premuroso, Vincent affidabile e disponibile e Tamara era come una seconda madre. Jennifer si sentiva davvero fortunata.

Dopo aver raccolto le proprie cose, salutò il branco e salì in macchina con Tamara per farsi riaccompagnare a casa. Durante il tragitto, la lupa la rassicurò di nuovo sulla luna piena, dicendole che sapevano ciò che facevano e non le sarebbe accaduto nulla di male. Jennifer la ringraziò, un po’ più tranquilla, ma ancora lontana dalla vera pace interiore.

Salutò Tamara quando lei la scaricò di fronte al vialetto. Poi si girò ed entrò in casa con le chiavi. Non c’era nessuno. I genitori le avevano scritto per messaggio che sarebbero usciti per cena. Le avevano lasciato i soldi per ordinare una pizza, nel caso non le fosse andato di finire gli avanzi nel frigo.

Le dispiacque non vederli. Di recente, si incrociavano sempre più di rado. Jennifer sapeva che non la stavano evitando, ma entrare nove volte su dieci in una casa vuota e buia cominciava a deprimerla.

Prima di salire in camera, mise i vestiti sporchi in lavatrice e la accese. Quindi si afflosciò sul letto, la faccia premuta contro il cuscino, e inalò l’odore che impregnava la federa. Adesso poteva sentire tutto, dall’ammorbidente all’odore di sua madre e il proprio. In principio, l’abilità di poter fiutare ogni singola fragranza l’aveva destabilizzata. Per non parlare dei suoni. Sentirsi bombardare notte e giorno da una marea di rumori molesti aveva messo a dura prova il suo autocontrollo. Sean aveva trovato la soluzione.

Con un piccolo sorriso afferrò dal comodino le cuffie imbottite che il lupo mannaro le aveva regalato e le indossò. Sospirò di sollievo non appena il tanto agognato silenzio la avvolse.

Sonnecchiò per un’ora circa, finché il trillo del cellulare non la disturbò. Guardò il nome di Charlotte brillare sullo schermo e avvertì lo stomaco contrarsi. Si era tenuta distante dall’amica negli ultimi giorni per paura di farle del male. Vederla incupirsi ogni volta che la liquidava con un pretesto qualsiasi era stato come ricevere una pugnalata nel petto, ma non aveva avuto scelta.

Esitò, poi afferrò il cellulare e accettò la chiamata.

“Ciao.”

“Sono qui fuori. Apri, lo so che sei in casa.”

Jennifer si raddrizzò di scatto, rigida e tesa. I suoi occhi saettarono per la stanza con crescente panico.

“Ehm, non mi sento tanto bene. Forse è meglio che-”

“Apri questa dannata porta! Sono stanca delle tue scuse!”

“Char-”

“Ho detto apri!”

Jennifer udì un singhiozzo mischiarsi alle sue parole. Il senso di colpa ebbe la meglio. Corse di sotto e, prima ancora che la porta finisse di aprirsi, si ritrovò la migliore amica aggrappata alle sue spalle tipo koala. Il suo profumo speziato le invase le narici. La bestia lottò per divincolarsi, ma Jennifer soppresse l’impulso di ringhiarle in faccia e ricambiò l’abbraccio.

“Che cosa ti succede, Jen?” le chiese Charlotte con voce rotta, “Ti prego, parlami. Ho fatto qualcosa di male?”

Jennifer deglutì e scosse il capo: “No, tu non c’entri nulla.”

“Allora cosa c’è? Perché mi ignori?”

“Non è come pensi. È solo che…” si bloccò, memore della promessa che aveva fatto al branco.

“Cosa?”

“Non posso. Mi dispiace, Charlotte, non posso.”

“Sì che puoi. Siamo migliori amiche dall’asilo, ci siamo sempre dette tutto.” replicò Charlotte, scrutandola con un’intensità tale che Jennifer si sentì rimescolare, “Qualunque cosa sia, non ti giudicherò, lo sai.”

Jennifer si scostò e arretrò di un passo.

“Ha che fare con Roman, per caso? È successo qualcosa quella sera, dopo la cena di compleanno, vero?” insisté la mora.

Quando Jennifer non negò, Charlotte le sorrise raggiante, per poi tornare subito seria.

“Okay, presumo che non sia stato qualcosa di bello. Ti ha trattata male? Ti ha messo le mani addosso? Dimmelo e gli faccio un occhio nero.”

“No! No, tranquilla. Roman è stato… lui mi ha salvata. Come un vero eroe.”

“Salvata? Cristo, Jen, che diavolo è successo?”

“Sono stata… aggredita. Nel parcheggio. Ma lui è arrivato e ha messo in fuga… l’altro.”

“Oh. E hai denunciato l’aggressione alla polizia? Hanno preso quel pervertito?”

“No, non… non l’ho visto in faccia. Ero troppo spaventata.”

“Okay. È per questo che sei nervosa? Oddio, anch’io lo sarei se il mio aggressore fosse ancora a piede libero. Questa città sta andando in malora, giuro.”

Charlotte osservò l’amica, il modo in cui si impegnava a non ricambiare il suo sguardo, in cui si molleggiava sulle gambe e si torturava le unghie, la sua espressione chiusa e vagamente ansiosa. Capì che le stava nascondendo qualcosa. Jennifer non era mai stata brava a mentire.

“Che altro c’è? Puoi dirmelo.” la incoraggiò, invitandola a seguirla in salotto per sedersi sul divano.

Ormai frequentava casa Dawry da troppi anni per ricordare di non esserne la padrona. Quando la vide esitare, la sospinse con una mano sulla schiena. Jennifer si lasciò trascinare sul divano con riluttanza e si accomodò dal lato opposto. Notandolo, Charlotte si accigliò.

“Jen, sono stufa dei tuoi silenzi. Parla.” ordinò e, non ricevendo risposta, decise di cambiare tattica, “Sono molto preoccupata per te. Dico sul serio. Ti comporti in maniera così strana… ho creduto alla balla dell’influenza quando al rientro a scuola ti ho vista fuggire in bagno a più riprese, ma ora è chiaro che c’è di più. Per caso ti droghi?”

“Co- no! Niente droga!” protestò con veemenza la bionda.

“Bene. Allora dimmi di che si tratta. Merda, non sarai mica malata di cancro?!”

Jennifer sbuffò divertita e scosse la testa.

“Non ho voglia di trascorrere il resto della serata a farti l’interrogatorio, quindi rispondi. Cosa c’è che non va?”

A quel punto, Jennifer perse la pazienza. Considerava Charlotte una sorella, le voleva un bene dell’anima, ma la sua nuova natura la pensava diversamente. Charlotte era l’intrusa che aveva osato invadere la sua seconda tana andando contro il suo volere. Desiderava che se ne andasse, che la lasciasse in pace, che smettesse di toccarla e rivolgersi a lei con tanta familiarità, come se fosse branco. Charlotte non era branco.

Un ringhio rotolò fuori dalle sue labbra. Le pupille si dilatarono, inghiottendo l’azzurro delle iridi. Le dita si contrassero sulle ginocchia, smaniose di avvinghiarsi attorno alla gola di Charlotte. Le zanne e gli artigli, per fortuna, rimasero nascosti. Sean le aveva spiegato che si sarebbe trasformata esclusivamente durante la luna piena, mentre per il resto del tempo avrebbe avuto solo la forza e i sensi del lupo dalla sua parte.

“Jen…?”

“Vattene.” grugnì.

“No. Qualunque cosa sia, l’affronteremo insieme, come abbiamo sempre fatto.” si oppose, testarda come un mulo.

Un ringhio più forte rimbombò nella stanza. Charlotte trasalì, balzò in piedi e indietreggiò, più sconvolta di quanto riuscisse a esprimere. Non aveva mai visto Jennifer in quello stato, né l’aveva mai sentita emettere simili versi.

“Voglio che tu te ne vada.” proferì Jennifer a fatica, sforzandosi di tradurre i pensieri in parole in modo che avessero un senso.

“Di… di cosa stai parlando?”

“Charlotte. Vattene.”

“No!” esclamò, ignorando le lacrime che scesero a solcarle le guance.

In un attimo, Jennifer si avventò su di lei. L’impatto della schiena contro il pavimento tolse a Charlotte il respiro, mentre la fitta lancinante alla nuca le offuscò la vista per svariati secondi. Gemette e si agitò, il dolore più forte persino della paura o dell’adrenalina.

La presa ferrea sulle sue spalle svanì un secondo più tardi, permettendole di raggomitolarsi in posizione fetale e recuperare il fiato. Quando ci riuscì, rotolò di nuovo sulla schiena e puntò gli occhi sul soffitto. Appena mise a fuoco, li sgranò, percependo il sangue defluirle dal volto così velocemente da lasciarle la testa leggera, dandole l’impressione di stare galleggiando nel vuoto.

Jennifer era sul soffitto.

C’erano talmente tante cose sbagliate in quella frase che non sapeva nemmeno da dove cominciare per elencarle tutte. Restava il fatto che Jennifer era sul soffitto. Accucciata su di esso, per giunta. E la fissava dall’alto, la testa rovesciata e gli occhi iniettati di sangue.

Finalmente, la voce le tornò e la rilasciò in un’unica volta. L’urlo riecheggiò per tutta la casa, acuto, assordante. Jennifer guaì e scattò, gattonando sui muri con un’agilità mai vista. Ricordava un ragno. Scomparve nel ripostiglio e sbatté la porta dietro di sé.

Charlotte rimase pietrificata sul pavimento per almeno due minuti. Il dolore alla nuca e alla schiena si era trasformato in un sordo pulsare, ma se solo provava a muoversi tornava alla carica dandole il capogiro. Aspettò ancora un po’. Quando i suoi arti ripresero a collaborare, si mise seduta.

Nella casa regnava il silenzio. Charlotte scoccò un’occhiata fuori dalla finestra, stupita che il suo grido non avesse richiamato i vicini.

Lentamente, si appoggiò al divano e si tirò su, le orecchie tese e gli occhi fissi sulla porta chiusa del ripostiglio. Deglutì, inspirò a fondo e si impose di smettere di tremare.

Barcollò in avanti, il corpo manovrato da un automatismo che affondava le radici nei ricordi dell’infanzia: la sua migliore amica stava male, doveva raggiungerla e aiutarla. Fece una smorfia all’ennesima fitta alla schiena.

Dopo due passi si fermò, realizzando l’anormalità di ciò che aveva visto. Il pensiero di chiamare un esorcista le attraversò il cervello, ma lo scartò subito. Sì, la scena a cui aveva assistito rivaleggiava con il più spaventoso dei film horror. Non tanto per il gesto di Jennifer in sé e per sé, perché di mostri che si contorcevano in pose strane o facevano acrobazie strambe ne aveva visti a bizzeffe sullo schermo, quanto perché una cosa del genere era avvenuta nella realtà, non era frutto di effetti speciali. Ma da lì a credere che Jennifer fosse posseduta… insomma, i demoni non esistevano mica, giusto? Magari se lo era immaginato.

No, non era pazza. Era accaduto davvero. Jennifer era saltata sul soffitto e poi aveva gattonato verso il ripostiglio, sfidando tutte le leggi di gravità. Riprese in considerazione l’esorcista.

Un singhiozzo attirò la sua attenzione. Era flebile, soffocato, ma nel silenzio tombale risuonò nitidamente. Il suo cuore saltò un battito. Si premette una mano sulla bocca per impedirsi di gridare ancora.

Uscì dal salotto a passi felpati, adagiando piano le scarpe sul parquet. Ebbe l’accortezza di evitare le travi scricchiolanti, nonostante il terrore e il dolore. Quando giunse innanzi al ripostiglio, si arrestò un’altra volta e acuì l’udito.

Jennifer stava piangendo. Quello mise a tacere del tutto la paura e cancellò la teoria della possessione.

“Jen…?”

I singhiozzi cessarono di colpo.

“Jen, hey. Sto… sto bene. Puoi venire fuori, se vuoi.”

In risposta le arrivò un guaito disperato.

“Mi hai fatto paura, prima, ma adesso sto bene. Esci. È tutto a posto.”

“Mi dis-dispiace…”

“Tranquilla, lo so. Dai, vieni fuori.”

“No…”

“Posso venire dentro io?”

“No.”

“Jen, va tutto bene. Sono qui.” le disse e si sedette con la schiena alla porta, “Resto qui con te finché non ti senti pronta, okay?”

“V-Va’ vi-via.”

“Non lo farò. Sorelle per sempre, ricordi? Ce lo siamo giurate all’asilo.”

“Non v-voglio f-farti del m-male!”

“Lo so. Non me ne farai. Mi fido di te.”

“Non c-capisci…”

“Non capisco, no.” sospirò Charlotte, “Perché non mi spieghi? Magari posso aiutarti.”

“Non puoi.”

“Cosa ti è successo?”

“I-Io… Roman ha…”

“Roman? Che cosa ti ha fatto?”

“Mi ha salvata, ma… mi ha morsa.”

“Morsa? In che senso? Ti ha attaccato la rabbia? Le pulci? No, aspetta, le pulci non ti fanno saltare sul soffitto.”

“Sono un lupo mannaro.”

Charlotte ammutolì. Le sue sinapsi ci misero parecchio a processore l’informazione, tanto che dopo qualche minuto Jennifer la chiamò esitante.

“Sono qui. Sto bene.” la rassicurò l’amica in tono assente, “Lupo mannaro. Certo. Perché no? Non è affatto pazzesco o totalmente assurdo. Suona verosimile.”

“È la verità… anche se non avrei dovuto dirtelo. Ho promesso di mantenere il segreto. Se scoprono che ho parlato…”

“Chi dovrebbe scoprirlo?”

“I Sinclair. Sono un branco. Un branco di licantropi. Se un licantropo morde un umano, questo si trasforma in lupo mannaro. Lo zio di Roman, Sean, è come me.”

“Oookay.”

“Charlotte, sono seria!”

“Credevo fossi un lupo mannaro.”

Jennifer sbuffò una risata. Charlotte sentì del movimento nel ripostiglio e poi un peso appoggiarsi dall’altro lato della porta.

“Scusa se ti ho spaventata. Ho perso il controllo. Tutto questo è nuovo per me, devo ancora abituarmi.”

“A-ha.”

“Va bene se non mi credi. L’unica cosa che ti chiedo è di non dirlo ad anima viva. Puoi promettermelo?”

“Io… Jen, ti rendi conto che ciò che dici sembra…”

“Sembrano le farneticazioni di una pazza? Sì, lo so. Ma te lo sto chiedendo in nome della nostra amicizia.”

“Okay. Starò zitta.”

“E non avvicinarti a me per un po’. Verrò io a cercarti quando sarò meno… selvaggia.”

“Okay.”

“Non chiamarmi e non chiedermi di rivelarti altre informazioni.”

“Ora stai esagerando.”

“Fallo per me, Charlotte. Ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che sei al sicuro, lontana da me.”

Charlotte si arrese: “D’accordo. Ma non sparire, okay? Solo… ogni tanto, fammi sapere che sei viva e stai bene. Io ti aspetterò.”

“Grazie. Lo apprezzo molto, davvero.”

“Ho solo una domanda.”

“Dimmi.”

“Cosa farai durante la luna piena?”

“I Sinclair mi incateneranno nel loro bunker.”

“Cosa?!”

“Non c’è altra scelta. Non voglio diventare una bestia assetata di sangue e morte. Nessuno lo vorrebbe, ma è la mia realtà, ormai. Tutto quello che posso fare è cercare di evitare con ogni mezzo possibile di far del male a degli innocenti. Spero soltanto che le catene tengano.”

Charlotte si accasciò contro la porta ed esalò un sospiro incredulo. Poi chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal silenzio, esausta sin nel midollo.

La mia migliore amica è un lupo mannaro, pensò. Ah! Divertente. Dovrò fare al più presto una maratona di film a tema per imparare qualcosa.

Le due ragazze si concentrarono sul ritmo dei rispettivi respiri, sincronizzandoli senza accorgersene, consapevoli che ci sarebbero sempre state l’una per l’altra. Il vero confronto sarebbe giunto più in là, una volta che le acque si fossero calmate. Per adesso, potevano accontentarsi del legame indissolubile che le univa, attingendo da esso la forza per rimanere ancorate al presente. Almeno finché il mondo là fuori non fosse tornato a bussare alla porta.









 
  
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