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Autore: Lost In Donbass    13/05/2019    1 recensioni
Questa è la storia di Oliver. Oliver, che è depresso, che si taglia, che non sa come fare a salvarsi da sè stesso, che piange ma che prova a non arrendersi.
E' la storia di Denis, troppo bello per il suo stesso bene, che ama con tutta la forza del suo passionale cuore ucraino.
E' la storia di due ragazzi che si incontrano nella triste Liverpool, due anime perse che hanno smesso di credere e di sperare. E' la storia del loro amore tormentato, forse patetico, forse ridicolo, forse volgare.
Ma è anche la storia di Jenna, di Kellin, di James e di tutti i loro strani amici.
E' la storia di come Denis tenterà di salvare Oliver da sè stesso e di come Oliver darà del filo da torcere a tutti.
E' la storia dell'estate prima del college.
E' la storia di un gruppo di ragazzi disperati che non credono nel lieto fine.
E' una storia banale, è una storia d'amore.
E' la storia di Denis e Oliver, che si amano come solo due adolescenti possono amarsi.
E' la storia di questo amore che sarà la loro fine.
Genere: Angst, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Scolastico, Universitario
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YOU KNOW THAT I'M IN LOVE WITH THE MESS
 
CAPITOLO PRIMO: THERE’S A VOICE IN MY HEAD SAYS I’M BETTER OFF DEAD

She said she wants to end it all
When she’s all alone in her room
She cries, the way she feels inside is too much for her
[Sleeping With Sirens – Better Off Dead]
 
Stava bene.
Stava bene.
Stava … oh, ‘fanculo.
Non stava bene per niente.
Come al solito, c’era una voce nella sua testa che gli diceva che sarebbe stato meglio da morto.
Oliver diede una craniata contro al muro, cercando di non piangere. Ma come faceva a non piangere quando la sua vita era andata completamente a rotoli?
Seduto per terra, con la testa tra le mani tatuate, con addosso solo un vecchio paio di boxer molli, Oliver singhiozzava senza riuscire a calmarsi. Quanto era che era in quella condizione, ormai? Minuti, ore, giorni, secondi? Non lo sapeva, e forse non voleva nemmeno saperlo: era solo dannatamente stanco, stanco di una stanchezza metafisica da essere quasi paradossale. Qual’era stata l’ultima volta che aveva sorriso davvero? Forse quando aveva dieci anni e aveva ricevuto la sua prima chitarra. Ma adesso ne aveva diciotto ed erano otto fottuti anni che aveva smesso di ridere. Era normale? No, cazzo, non era normale. Era mai stato normale, lui, Oliver Griffiths, il ragazzo emo? No, cazzo, non lo era mai stato.
Prese un profondo respiro e si arrischiò a togliere le mani dal viso, guardandosi con orrore gli avambracci. Tagli, lunghi, sottili, rossi, tagli che gli percorrevano sistematicamente la pelle semi tatuata e che facevano così male a guardarli.
-Perché lo stai facendo, Oli?- si disse, arrischiando a sfiorarsi quelle ferite autoinflitte.
Provo un lampo subitaneo di dolore, e di nuovo gli venne da piangere. Erano passati due maledetti anni dalla prima volta in cui aveva timidamente posato la lametta contro il polso, ed erano due anni che andava avanti così. Un paio di forbici, una lametta, un coltellino, un temperino: tutte le armi che il ragazzo stava usando nella sua guerra contro sé stesso. Una guerra dolorsa e sfilacciante, che si trascinava avanti da anni e che lo stava lentamente portando all’autodistruzione.
Oliver riversava su sé stesso tutta la sua rabbia, il suo dolore, le sue paure, incapace di affrontare il mondo di petto, si richiudeva contro l’unica persona che poteva urtare senza che ci fossero conseguenze. E una volta erano tagli, una volta erano lacrime, un’altra era vomito, l’altra ancora un pensiero che non dovrebbe mai essere pensato. Una devastazione oscena si stava pian pianino facendo strada dentro quel ragazzo alto e troppo magro, allampanato, con quegli occhi più grigi del ferro e quel taglio emo passato di moda da secoli. Oliver sapeva perfettamente cosa volesse dire soffrire, credere di essere solo al mondo, sapeva il significato di depressione, ma quella vera, quella travolgente, quella che ti porta a sognare di essere morto quando esprimi un desiderio il giorno del tuo compleanno. Aveva la sofferenza dipinta sul viso affilato, dagli inconfondibili tratti britannici, aveva il dolore vero pronto a sgorgare dagli occhi di quel colore così melanconico.
Si accasciò contro il muro, lanciando la lametta lontano da sé e dai suoi polsi martoriati, prendendo un profondo respiro.
Devo farcela, si disse.
Ma quanto era che si ripeteva quel mantra senza mai riuscire ad uscirne fuori?
Si passò una mano tra i capelli, scostandosi il vistoso ciuffo dal viso. Aveva diciotto anni, cristo, aveva appena finito la scuola. Avrebbe dovuto pensare al college. Avrebbe dovuto essere in giro a fare graffiti illegali. A limonare con un ragazzo. A leggere libri in biblioteca. A passeggiare insieme a Jenna. A fare qualunque fottutissima cosa che non fosse starsene in camera a piangere e a tagliarsi.
Devo calmarmi.
Si alzò, tremante sulle gambe lunghe e scheletriche, e spense lo stereo che sparava a tutto volume una delle prime canzoni dei Bring Me The Horizon. Quelle che si metteva in cuffia a un volume così forte da danneggiarsi i timpani solo per il piacere di sfondarsi le orecchie con la musica che amava e che lo faceva sentire a casa. Perché sì, Oliver era quel tipo di ragazzo: musica metalcore che soffocava i suoi pensieri suicidi, magliette extralarge di band dimenticate per nascondere i tagli e la magrezza eccessiva, testi delle canzoni da usare quando non gli venivano le parole. Cioè sempre. Imbranato, squinternato, imbarazzante e imbarazzato, Oliver Griffiths sarebbe stato bello come solo certi ragazzi della mid class possono esserlo. Aveva dentro di sé il fascino dei perduti, l’espressione da cantante maledetto, il poeta dannato che si nascondeva dietro a un ciuffo e a un paio di Vans lise, l’eroe generazionale che non deve combattere contro Joker, ma contro la depressione, le tendenze suicide e l’anoressia. Perché anche i ragazzi possono essere anoressici, non solo le ragazze. Oliver era un eroe, dal basso dei suoi diciotto anni sprecati, era l’eroe goffo che avrebbe salvato delle vite anche se prima di tutto doveva imparare a salvare la sua. Sì, era un triste, strambo, allampanato eroe con poco più che un paio di cuffe e una macchina fotografica che non lo abbandonava mai.
Si guardò in giro per la stanza e prese una felpa, quella degli Asking Alexandria autografata per la quale aveva dovuto lottare contro tre giganti metallari, infilandosela e tirando il più possibile le maniche. Non aveva voglia che i suoi amici vedessero i tagli freschi, non voleva che ripartisse la predica, non voleva semplicemente deluderli di nuovo dopo che aveva promesso che non l’avrebbe mai più fatto. Ma ne aveva fatte miliardi di promesse così, senza mai mantenerne una. Avrebbe tanto voluto poter smettere, ma non riusciva a farlo.
Raccolse da terra la lametta e la chiuse in un cassetto. Per un secondo, come ogni dannata volta, si illuse che non l’avrebbe mai più tirata fuori, ma il secondo dopo si disse che presto sarebbe ritornato ad impugnarla, tra le lacrime e l’odio. Cercava di ripromettersi che sarebbe guarito dall’autolesionismo, ma ci ricadeva sempre, come una droga. Oliver era ossessionato e perseguitato dal dolore, se ne era assuefatto così tanto da non sapere più come fare senza. Una parte malata di lui aveva bisogno di vedere i tagli sulle braccia, di sentire il dolore della stoffa che li sfregava, di impugnare quelle lame e premersele contro la pelle.
Sbattè con forza il cassetto e si infilò le vecchie Vans, mettendosi le cuffie sulle orecchie e facendo ripartire quella canzone dei Bring Me The Horizon che gli piaceva tanto e che in qualche modo gli stampava quel sorriso storto sul viso.
Corse fuori, evitando con grazia il richiamo di sua madre, le mani affondate nelle tasche e gli occhi rivolti al cielo nuvoloso di Liverpool.
Avrebbe corso, quel giorno, corso così tanto da sentirsi male. Avrebbe corso per non sentire il dolore sulle braccia, per convincersi di stare bene, per combattere la sua dannata depressione, per sentire il vento sul viso e dirsi “cazzo, Oli, non mollare, ci sono ancora così tante cose che devi fare nella vita”.
In fondo, aveva solo diciotto anni.
Doveva ancora dare alla sua squinternata band la chance di sfondare, doveva usare la sua nuova macchina fotografica, doveva ubriacarsi e farsi di ketamina per la prima volta, doveva vedere ancora il sorriso di Jenna, doveva trovare l’amore.
Già, trovare l’amore, che lui non aveva mai creduto esistesse.
Non poteva nemmeno pensare che qualcuno avesse veramente voluto mettersi con lui, Oliver, depresso, anoressico e autolesionista, quello emo che fotografa i corvi e si bombarda di musica metalcore, quello sfigato con troppi tatuaggi e il ciuffo moscio.
Anche se, dentro di lui, ci sperava disperatamente. Ci sperava, nel trovare il ragazzo che lo abbracciasse, che gli dicesse “va tutto bene”, che gli baciasse gli avambracci e che lo facesse ridere di cuore. Ci sperava con occhi bassi e un sorriso appena accennato dipinto sul viso magro. Ci sperava e ci sognava sopra la notte, perché aveva ancora il cuore romantico. Sperava ancora, sotto tutti gli strati di dolore e di devastazione interiore. C’era ancora qualcosa che lo faceva stare attaccato alla vita, la speranza di cambiare, di salvarsi, di cominciare a vivere l’adolescenza che gli era stata negata.
Cominciò a correre, la musica a tutto volume, a correre verso il parco sulla collina da dove si dominava tutta Liverpool, e sentì qualche lacrima cominciare a rigargli le guance. Avrebbe pianto ancora, perché era così che andava avanti. Avrebbe urlato tutto il suo dolore al cielo obnubilato di quella città che odiava con tutte le sue forze. Sarebbe caduto in ginocchio e avrebbe maledetto quegli dei ai quali non credeva più da anni, perché era così che funzionava la vita di Oliver.
Pianti, corse, fotografie. Pianti, tagli, battute caustiche all’indirizzo della vita. Pianti, vomito, insulti a un mondo che non lo comprendeva.
Pianti, soprattutto, per una vita che vivere si era fatta insopportabile.


***
Grazie di essere arrivati fin qui. Volevo dirvi qualche cosina: uno, questa storia l'avevo pubblicata ieri ma non mi piaceva quindi l'ho riaggiustata ed eccovela qua.
Due, si parla e si parlerà di argomenti molto delicati ed è qui che vi dico: non giudicate. So benissimo di cosa sto parlando, quindi se dovete recensire (beh spero lo farete ahah) non venitemi a dire "cosa scrivi non sai cosa stai dicendo", perché no, gente, so perfettamente di cosa scrivo. Quindi, recensioni negative certo visto che scrivo da cani ahah ma non giudicate l'argomento o come lo tratto - se non vi piace, potete cambiare storia. Basta che non mi diciate che non so cosa sto dicendo perchè vi giuro su dio che lo so.
Detto questo, spero che la storia vi sia piaciuta :DD recensite e baci baci :D
Il titolo è preso dalla mia canzone preferita dei Bring Me The Horizon, "Doomed".

Charlie xx

 
  
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